Charles Bettelheim, il teorico della transizione al socialismo: il dibattito sulla transizione tra Sweezy e Bettelheim

Il testo che segue sono degli appunti del libro Il socialismo irrealizato che ricostruisce il dibattito epistolare sulla transizione al socialismo tra Paul M. Sweezy e Charles Bettelheim negli anni compresi tra il 1968-1970 e tra il 1985-1986. Lo scambio inizia con il saggio di Sweezy Cecoslovacchia, capitalismo e socialismo in cui l’economista statunitense analizza le motivazioni dietro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia che pose fine, nel 1968, alla Primavera di Praga. La motivazione degli invasori fu l’esistenza di una controrivoluzione in atto che minacciava la transizione al socialismo ma in realtà, dice l’autore, le riforme promosse dal gruppo dirigente facente capo a Dubcek avevano stabilizzato e rafforzato un sistema già esistente. Ciò che temevano i sovietici era un congresso del partito comunista cecoslovacco che avrebbe consolidato il potere di questi burocrati e avallato le loro riforme. Tuttavia la tendenza a dirigersi verso il capitalismo era qualcosa di già ben presente nel paese tramite l’autonomia delle imprese, il coordinamento mediante il mercato e il forte affidamento agli incentivi materiali. Questi tre elementi dice Sweezy fanno si che il sistema economico funzioni sempre di più come il capitalismo, nonostante le polemiche, soprattutto da parte dei trotskisti, secondo cui non si possa parlare in questi termini perché la proprietà privata non era pienamente legalizzata. Questo argomento dimostra la confusione tra categorie giuridiche e reali rapporti di produzione. Se un’azienda statale funziona avendo come obiettivo la massimizzazione dei profitti tramite la produzione di merci per il mercato e nel fare ciò è diretta da un gruppo ristretto di persone, allora si può parlare di presenza, nell’essenziale, dei rapporti di produzione e di classe del capitalismo. Successivamente si potranno sviluppare delle forme giuridiche adeguate ma le basi sono state già gettate tramite un sistema che miscela il cosiddetto socialismo di mercato e la pianificazione amministrativa centralizzata dell’URSS nata all’epoca di Stalin ed esportata in tutta l’Europa Orientale nell’orbita sovietica dopo la guerra. Sweezy sostiene come non sia importante indagare l’esatta miscelazione tra questi elementi bensì la direzione di marcia di tutto il sistema nel suo complesso. Facendo ciò si scopre che gli elementi di mercato in quel periodo stavano crescendo e le riforme promosse dall’economista di Dubcek, Ota Sik, avevano come obiettivo rimuovere gli ostacoli che impedivano all’economia cecoslovacca di intraprendere la strada del mercato. Il modello di riferimento era l’economia socialista che più di ogni altra aveva intrapreso il cammino del socialismo di mercato, ovvero la Jugoslavia, un luogo dove negli anni ‘60 i capitali occidentali potevano trovare terreno fertile per i propri affari. Questa era la strada che voleva intraprende la Cecoslovacchia poco prima dell’invasione. Non a caso si parlava di accordi con imprese occidentali per costruire fabbriche nel paese oppure negoziazioni di un prestito da 500 milioni di dollari per importare dall’Occidente tecnologie e attrezzature. Sweezy ipotizza che questi rapporti con i paesi capitalistici siano figli dell’affidarsi con maggiore forza al mercato. In ogni caso, i riformatori della Cecoslovacchia o i marxisti jugoslavi credevano che agendo in questo modo stessero aiutando la costruzione di un socialismo democratico ma il marxismo ci insegna a giudicare gli uomini dai fatti e non dalle intenzioni. Chiunque agisca per rafforzare il mercato invece di lottare contro di esso sta favorendo il capitalismo e non il socialismo. Tuttavia ad orientarsi verso il capitalismo non era solo la Cecoslovacchia ma l’intero blocco dell’Europa Orientale, URSS inclusa. Alle difficoltà del vecchio modello del centralismo burocratico che ha prodotto apatia delle masse, una produttività insufficiente, stagnazione economica si poteva rispondere in due modi. Il primo modo è la Rivoluzione Culturale, come ci insegnano i compagni cinesi, ovvero un tentativo di risvegliare le masse, elevare la loro coscienza politica e rivitalizzare l’ideale del socialismo responsabilizzando i produttori a tutti i livelli decisionali. La seconda opzione è affidarsi alle regole del mercato, dell’incentivo e del profitto per consentire alle burocrazie di conservare il proprio potere e i propri privilegi. Allo stesso tempo questa scelta porta ad una crescita dell’importanza del mercato in tutta l’Europa Orientale, aumentando l’attrazione verso le economie di mercato e l’Occidente. Una volta che il profitto, l’efficienza, a livello della singola fabbrica, sono innalzati a valori guida, i dirigenti dell’impresa tenteranno di intensificare i rapporti con chi è più esperto e avanzato in queste pratiche. Il rischio era avviare delle spinte centrifughe che avrebbero portato al crollo del blocco sovietico che era costruito a partire dalle esigenze economiche e politiche dell’URSS.

La risposta di Bettelheim sottolinea alcuni elementi positivi del testo di Sweezy, come il legame tra le riforme della Primavera di Praga e il consolidamento di un sistema che marcia verso la transizione al capitalismo. Approva il richiamo a non confondere le categorie giuridiche con i rapporti di produzione, sottolineando, inoltre, come la proprietà capitalistica non è confinata alla sola proprietà privata, come dimostra l’uso della proprietà pubblica nei paesi capitalistici. Si dimostra d’accordo anche con la parte conclusiva dell’analisi delle motivazioni dietro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, ovvero una debolezza sovietica rispetto al controllo del suo blocco favorita dalle dinamiche di mercato che si stavano dispiegando in questi paesi. Tuttavia non è d’accordo su due punti molto importanti. Il primo è la natura del socialismo e il secondo il problema dell’origine del processo di restaurazione del capitalismo. Il ragionamento dell’economista francese inizia dal secondo punto.

Sweezy associa queste dinamiche al ruolo attribuito al mercato, agli incentivi materiali e alle forme organizzative. Per Bettelheim sono fatti secondari perché il cuore della questione non è economico ma politico. Il proletariato ha perduto il potere politico a vantaggio di una nuova borghesia, rendendo la direzione revisionista del PCUS espressione e strumento di questa nuova classe dominante. Le riforme che imperversavano allora nei paesi del blocco sovietico, la politica internazionale dell’URSS e la stessa invasione della Cecoslovacchia sono facilmente spiegabili con questa prospettiva. Mettere davanti ai rapporti di classe i rapporti mercantili è un errore di principio da cui ne conseguono molti altri. Per comprendere un modo di produzione bisogna scavare sotto la superficie per svelare i rapporti e i processi sottostanti. Definire una formazione sociale a partire dall’esistenza del mercato significa fermarsi alla superficie, a ciò che appare immediatamente senza indagare i rapporti profondi che si collocano al livello della produzione, ovvero dei rapporti sociali fondamentali. Il sistema di questi rapporti produce determinati effetti sugli agenti della produzione, come per esempio dividere in classi gli agenti facendoli relazionare sulla base di rapporti oggettivi determinati che possono essere di dominio, di sfruttamento…

La prassi degli agenti non può essere spiegata senza partire dal ruolo che occupano nel sistema dei rapporti sociali. Sweezy commette un errore di principio quando si ferma ai fenomeni di superficie, come l’esistenza del mercato, della moneta o dei prezzi, presenti in URSS anche prima del XX congresso e che sono presenti in tutti i paesi socialisti, oppure alla prassi dei dirigenti rispetto al mercato.

Bettelheim si sofferma su alcune delle formulazioni proposte da Sweezy come l’espressione socialismo di mercato. Essa non ha senso perché pone l’accento unilateralmente sulla presenza di forme mercantili nel socialismo. Il suo carattere ideologico è legato a politiche favorevoli ad un ampio utilizzo dei rapporti mercantili in un processo di sviluppo possibile solo sotto la direzione di una borghesia e che ha come scopo la restaurazione del capitalismo.

Sweezy non critica l’esistenza di un certo grado di sviluppo dei rapporti mercantili nel socialismo ma la loro esistenza e in questo modo viene isolata la loro presenza nella transizione socialista e viene fatta astrazione delle condizioni sociali e politiche che ne permettono lo sviluppo ovvero specifici rapporti di classe. L’argomentazione dell’economista statunitense si fonderebbe su una notevole confusione. Dire che il socialismo di mercato è un’espressione contraddittoria non è un argomento visto che la realtà nel suo insieme è contraddittoria. Bisogna vedere se le contraddizioni sono analizzate ideologicamente o scientificamente. Quella tra piano e mercato, dice Bettelheim, è una contraddizione della prassi e in questo modo dimostra che non è né una contraddizione verbale né una contraddizione ideologica ma esprime, in termini ideologici, una contraddizioni reale ed effettiva. La contraddizione piano contro mercato è essenziale nel socialismo, in quanto forma di transizione, ma si tratta di un effetto di superficie di una contraddizione più profonda che troviamo al livello dei rapporti di produzione e delle forze produttive. In alcuni casi questa contraddizione superficiale può diventare la principale ma non è possibile affrontarla senza tenere in considerazione i rapporti di produzione e le forze produttive. Da ciò deriva che nel processo di transizione dal capitalismo al comunismo permane la contraddizione tra mercato e piano. A contraddistinguere il socialismo dal capitalismo non è la presenza dei rapporti mercantili, della moneta o dei prezzi ma è l’esistenza della dittatura del proletariato e del suo dominio di classe. Attraverso questa dittatura, esercitata in ogni campo, da quello economico a quello politico passando per il piano ideologico, è possibile eliminare i rapporti mercantili con misure concrete adatta alla congiuntura concreta. Questa strategia si oppone ad ogni misura utopistica e volontaristica che pretende un’abolizione dei rapporti mercantili immediata e può prevedere, purché siano intese come tali, anche delle ritirate tattiche allo scopo di preservare il nocciolo fondamentale del socialismo, ovvero il potere del proletariato.

Sweezy risponde a queste critiche sostenendo che si sia trattato di un fraintendimento. Non ha mai sostenuto che nel socialismo non ci possano essere rapporti mercantili che per un certo periodo sono inevitabili nella transizione ma rappresentano un pericolo costante se non sono adeguatamente controllati perché possono provocare degenerazione e regressione. Seguendo una riflessione di Paul Baran e partendo da Critica al Programma di Gotha, Marx descriveva una società socialista dove permaneva il principio dello scambio di equivalenti per guidare un’efficiente ripartizione e utilizzazione delle risorse materiali e umane. Il passaggio al comunismo doveva portare una incessante lotta per affermare il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. La società comunista, ovviamente, non doveva fare a meno di un calcolo economico razionale ma la natura di questa razionalità cambia profondamente come manifestazione di una trasformazione radicale dei bisogni e dei rapporti tra gli uomini nella società. E, non a caso, l’autore si è sforzato di sottolineare come il punto della questione non fosse l’esistenza dei rapporti mercantili ma la direzione in cui sta marciando l’economia cecoslovacca, ovvero verso la restaurazione del capitalismo. Da ciò ne consegue che la contraddizione tra mercato e piano non è una contraddizione assoluta, cioè con le due forze che non possono coesistere, ma è una contraddizione tra due forze in opposizione l’una all’altra che lottano incessantemente per il predominio. Il problema, quindi, non è l’uso del mercato ma il suo utilizzo come regolatore indipendente, una questione legata al potere dello Stato e alla politica economica. Di conseguenza respinge le critiche di Bettelheim sulla sua concentrazione ai soli fenomeni di superficie. Sweezy nella sua risposta rivede criticamente la teoria dell’esistenza di una nuova borghesia al potere nei paesi del blocco sovietico. Ritiene che il rapporto tra la sua affermazione e quella dell’ampliamento dell’uso del mercato non è una relazione di causa ed effetto ma dialettica. Prima avviene il consolidamento di uno strato burocratico dominante accompagnato e seguito da una spoliticizzazione delle masse mentre la pianificazione economica diventa sempre più autoritaria, rigida e votata al fallimento e alle difficoltà economiche. Per risolvere questi problemi si ricorrono a tecniche capitaliste dando maggiore potere ai dirigenti delle imprese economiche che faranno sempre più affidamento alle pressioni impersonali del mercato rendendo la proprietà giuridica dei mezzi di produzione sempre più una vuota e con un potere sulla loro disposizione nelle mani di una élite dirigente da cui nascerà un nuovo tipo di borghesia, ovviamente favorevole all’espansione dei rapporti mercantili. Questa nuova classe, dice Sweezy, entrerà in conflitto con la vecchia burocrazia generando uno scontro tra forze della conservazione e forze della liberalizzazione. I primi, tuttavia, sono sprovvisti di piani per affrontare i problemi economici delle società di transizione e possono accontentarsi di semplici battaglie di retroguardia contro la nuova borghesia favorevole al mercato e al profitto.

Nella sua risposta Charles Bettelheim conferma la sua posizione secondo cui la contraddizione tra piano e mercato è un fenomeno di superficie che può essere indagato solo analizzando le contraddizioni profonde che attengono ai rapporti di produzione e di classe di cui la prima contraddizione è solo una rappresentazione. Piano e mercato sono due termini che rimandano a forme di rappresentazione che si esprimono in termini ideologici e non a rapporti reali. Per questo motivo piano e mercato, dice l’economista francese, rimandano a due sfere di rappresentazione, due scene. Su queste scene trovano spazio, a livello descrittivo, degli attori che vi prendono parte come soggetti possessori di autonomia in un quadro e con una forma dei rapporti che sembrano collegarli insieme celando però i rapporti sociali fondamentali di cui sono portatori, i quali si riproducono altrove, cioè nell’istanza economica, nell’istanza politica e nell’istanza ideologica. Privilegiare il piano e il mercato, facendo passare la loro contraddizione come una contraddizione fondamentale, significa non sforzarsi di fare un’analisi concreta dei rapporti sociali reali che viene sostituita da una descrizione sotto forma ideologica degli atti di coloro i quali occupano le due scene e le forme sotto cui i rapporti sociali reali si manifestano.

Il dibattito prosegue con saggio di Sweezy Dittatura del proletariato, classi sociali e ideologia proletaria in cui l’economista statunitense accetta le critiche di Bettelheim sulla questione piano-mercato e si domanda: cosa garantisce nel processo di transizione al socialismo la giusta direzione di marcia? La risposta che fornisce l’economista francese è il potere del proletariato e questo potere politico prende le forme di specifiche politiche proletarie che garantiscono il domino sulla società di questa politica. Per Sweezy questo è uno schema poco utile perché offre pochi criteri per giudicare l’esistenza del proletariato al potere. Manca un metodo indipendente per stabilire l’identità della classe al potere e le modalità e le fasi di sviluppo della borghesia di Stato.

Charles Bettelheim risponde a Sweezy a partire da un comune retroterra marxista nella concezione della storia, dell’economia e della politica a cui sono giunti, in particolare sul rapporto tra transizione al socialismo e avanzata del socialismo. A partire da ciò l’economista statunitense ha sollevato alcune questioni chiave dice Bettelheim. La prima è il rapporto stretto tra la natura di classe del potere e la dipendenza esclusiva dalla politica perseguita dal governo e dal partito. La seconda è, come abbiamo già detto, l’assenza di un metodo indipendente per stabilire l’identità della classe al potere. La terza questione riguarda le modalità di crescita e sviluppo della nuova borghesia di stato nelle società di transizione e l’ultima riguarda le condizioni che permettono al proletariato o a questa nuova classe di vincere. Per Sweezy queste difficoltà derivano dalla definizione di cosa sia il proletariato nei paesi del Terzo Mondo dove le rivoluzioni socialiste hanno vinto che non è quello dei paesi industrializzati a cui avevano pensato Marx ed Engels. Ad eccezione dell’URSS, dove comunque il proletariato non riuscì a condurre le sue politiche e portare a termine i suoi compiti a causa della sua dispersione causata dall’invasione straniera del paese e dalla guerra civile, negli altri paesi socialisti non era presente un numero significato di proletari come intesi dai padri del socialismo scientifico. Bettelheim sceglie di rispondere a queste obiezioni per punti.

La natura di classe di un potere scaturito dalla rivoluzione è valutabile attraverso gli interessi di classe di cui si fa portatore. Ciò rinvia ai suoi rapporti con le masse e alle forme di esistenza del potere del proletariato. Si deve valutare se e come questo potere riesce a favorire la trasformazione dei rapporti sociali per consentire al proletariato di controllare le proprie condizioni di esistenza oppure se, al contrario, sta facendo gli interessi di una minoranza di non-produttori che si riempiono la bocca con la lotta per la causa del socialismo. Per quanto riguarda i rapporti concreti con le masse, si tratta del rapporto tra gli organi del potere con le masse dei lavoratori e coinvolge il potere proletario in un’analisi delle sue pratiche reali, ovvero se il partito dirigente sta effettivamente seguendo una linea proletaria.

L’economista francese a questo punto si mette ad approfondire alcune questione in merito al potere proletario. Esso deve consentire, tramite la dittatura del proletariato, di realizzare alcuni requisiti politici per permettere ai produttori di controllare collettivamente e su scala sociale i mezzi di produzione e le loro condizioni di esistenza. Questo obiettivo non si raggiunge tramite la statalizzazione dei mezzi di produzione o il piano economico ma unicamente tramite la lotta di classe che assicura la detenzione del potere da parte dei produttori. Il ragionamento ci conduce al rapporto con lo Stato che deve essere spezzato e sostituito con un apparato radicalmente diverso, altrimenti verranno riprodotti gli stessi rapporti sociali che devono essere superati. La differenza tra uno Stato proletario e uno Stato borghese è la subordinazione del primo al proletariato e l’assenza di una separazione da quest’ultimo che rende possibile la sua organizzazione come classe dominante e la scomparsa dello Stato nel senso proprio del termine. La possibilità di controllare direttamente le condizioni di esistenza è incompatibile con l’esistenza del vecchio apparato dello Stato in cui si trova il nucleo essenziale delle decisioni politiche, dei mezzi esecutivi e di forze repressive autonome utilizzabili contro i lavoratori. Quindi l’esistenza di uno Stato posto sopra le masse e che si relaziona con loro in maniera autoritaria è un segno del carattere non proletario del potere. Questo rapporto autoritario e di subordinazione può essere rafforzato da una relazione simile che si instaura tra masse lavoratrici e partito. In questo modo si generano rapporti di oppressione entro i quali possono nascere rapporti di sfruttamento, trovando la loro base oggettiva nell’imposizione di un pluslavoro da parte dei non-produttori ai produttori diretti e l’uso di questo pluslavoro non è controllato dai lavoratori. La situazione è peggiorata dalla combinazione tra forza lavoro e mezzi di produzione che avviene per mezzo del rapporto salariale. Significa che i rapporti di produzione sono capitalistici e i posti di direzione nell’apparato di Stato centrale sono il cuore dove si riproduce un capitalista collettivo, la borghesia di Stato. Bettelheim sottolinea come tutte le organizzazioni che consentono al proletariato di diventare classe dirigente, a causa dei rapporti ideologici dominanti basati sulla divisione sociale del lavoro impossibile da trasformare immediatamente, tendono a spingere sull’autonomizzazione degli organi del potere, cioè una nuova separazione delle masse e dell’apparato dello Stato se non si agisce tramite una lotta sistematica contro questa tendenza.

Per quanto riguarda il partito, esso deve rimanere un partito proletario per sostenere la transizione al socialismo, cioè non deve cambiare il suo carattere di classe. Questo carattere non è un prodotto delle affermazione e dei proclami del partito ma nasce dall’analisi concreta delle sue pratiche politiche ed ideologiche che consente di stabilire se si tratta o meno di pratiche proletarie. Inoltre, più i rapporti tra partito e masse si basano su una relazione autoritaria e più il partito si allontanerà dal contenuto rivoluzionario del marxismo e, in mancanza di una corretta pratica politica, sarà impossibile avere delle concezioni teoriche giuste. Il partito proletario non deve pretendere di comandare le masse ma deve essere lo strumento delle loro iniziative e può assumere questa funzione unicamente se si sottopone regolarmente alla critica delle masse a cui non cerca di imporre mai cosa devono fare perché parte sempre da cosa la masse sono pronte a compiere per agevolare lo sviluppo dei rapporti di produzione socialisti, riconoscendo, grazie alla teoria, ciò che va in questa direzione. Il partito deve aiutare le masse a realizzare da sé tutto ciò che è conforme ai propri interessi fondamentali senza agire al posto delle masse che trasformeranno se stesse mentre trasformano il mondo oggettivo e non possono che fare ciò attraverso la propria esperienza fatta di successi e sconfitte. Solo in questo modo è possibile per le masse conquistare la loro libertà di classe.

Per Bettelheim è impossibile giudicare la questione della natura proletaria del potere politico con un metodo indipendente. Solo grazie al marxismo rivoluzionario è possibile concludere una simile operazione. Il marxismo come teoria del proletariato è l’espressione teorica dell’esistenza del proletariato nel modo di produzione capitalistico. Esso si sviluppa prendendo il punto di vista proletario che è l’unico capace di farci comprendere il significato delle lotte proletarie. Oltre a queste lotte, il marxismo prende le mosse dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico e dalla posizione specifica del proletariato in questo modo di produzione che lo obbliga a sviluppare un’ideologia rivoluzionaria per liberarsi dai rapporti di sfruttamento in cui si trova rispetto al possesso dei mezzi di produzione. Una volta che esiste il marxismo come teoria rivoluzionaria e un partito che realizza questa teoria, la sua portata, per rispondere a Sweezy, non è limitato al proletario perché la rivoluzione proletaria non è destinata a portare al potere una nuova classe dominante ma ha come obiettivo eliminare ogni forma di sfruttamento ed oppressione. Questo significa che se questa rivoluzione è possibile perché esiste su scala mondiale il modo di produzione capitalistico e il proletariato, non si tratta di una questione che può affrontare il solo proletariato ma riguarda tutti gli oppressi in lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione. Di conseguenza una rivoluzione proletaria può trionfare anche dove il proletariato è numericamente debole senza intaccare la sua natura proletaria. Bettelheim sostiene che più importante del numero totale di proletari in un paese è l’ideologia proletaria e il partito portatore di tale ideologia. Quindi il ruolo dominante del proletariato è ideologico e politico e ciò gli consente di svolgere un ruolo dirigente anche quando non è numericamente rilevante. Dopodiché l’autore pone il problema del divenire classe dominante del proletariato nella transizione al socialismo tramite un processo di appropriazione della sua particolare ideologia che richiede l’intervento di uno specifico apparato ideologico, ovvero il partito proletario frutto egli stesso di un processo di lotte sociali e per la trasformazione della società e del mondo. In questa fase il proletariato rigetta l’ideologia che gli è estranea e finisce per dominare le forze materiali e sociali modificando la natura delle forze produttive grazie alla sua ideologia. Il risultato finale è una classe dominante che domina se stessa e nessun’altra classe ma ciò non può verificarsi senza l’azione di un partito con un ruolo dirigente acquisito grazie all’incorporazione delle conoscenze prodotte dal proletariato attraverso le sue battaglie rivoluzionarie. Questo partito deve garantire due cose: il rovesciamento della borghesia e la conservazione del potere da parte del proletariato. Ovviamente non esiste alcuna garanzia che il partito rimanga sulla via del socialismo e che non perda la capacità di non separarsi dalla masse. Questa qualità deve essere costantemente rinnovata attraverso un’analisi concreta della situazione concreta utile per vaccinarsi dalla tentazione di procedere per formule fatte e con la messa al servizio del partito nei confronti delle masse lavoratrici. Senza questi elementi non è possibile procedere lungo il socialismo e nessuno può garantire che la borghesia non si impadronisca del partito volgendo la dittatura del proletariato in dittatura della borghesia guidata da una borghesia di Stato. A questi elementi dobbiamo aggiungere la sopravvivenza di vecchi rapporti ideologici, politici e sociali che rendono inevitabile la prosecuzione della lotta di classe sotto la dittatura del proletariato.

La seconda parte del libro ripercorre il dibattito tra gli anni 1985 e 1986, in un’epoca storica segnata dalla disfatta della Rivoluzione Culturale.

La discussione inizia con il saggio di Sweezy Dopo il capitalismo, che cosa? a cui la risposta dei classici è il socialismo in cui, attraverso la fase della dittatura del proletariato e la trasformazione del proletariato in classe egemone, verrà costruita una società dove tutte le classi saranno soppresse, una società senza classi. Questa previsione di Marx ed Engels non si è realizzata in nessuna delle rivoluzioni socialiste avvenute nel XX secolo, ad iniziare dall’URSS. In tutte le società di transizione il potere è stato preso da un partito organizzato composto dalle forze dissidenti della società, non necessariamente di estrazione proletaria che ha realizzato l’accentramento di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, il quale, tuttavia, non rappresentava il proletariato organizzato come classe dominante, come affermavano Marx ed Engels nel Manifesto. Queste società, pertanto, non possono essere definite socialiste. Allora come possiamo definire i risultati di queste esperienze? Sweezy, seguendo la letteratura in materia, proporne tre tipi di risposta. La prima trae origine dalla corrente del trotskismo che ritengono essenziale nella fase di transizione al socialismo l’espropriazione della borghesia e la centralizzazione nelle mani dello Stato dei mezzi di produzione. Il regime che compie queste operazioni, anche se non è un’emanazione della classe operaia, si trova ad agire nel suo interesse anche se abusa della sua posizione e commette molti errori. La sua sopravvivenza, inoltre, dipende dalla difesa di questo sistema che verrà spinto verso il socialismo dalla crescita del proletariato che finirà per prendere il potere e spingere verso la meta finale questo sistema. Solo una controrivoluzione che restaura la proprietà privata può porre fine ad un simile regime. La posizione, dice Sweezy, poteva essere sostenibile nei primi anni della rivoluzione russa ma dopo 50 anni dal suo trionfo è decisamente obsoleta. La seconda risposta sostiene che la società di transizione emersa da questa tipologia di rivoluzione è essenzialmente capitalistica. Il proletariato non è al potere e il regime emerso non ne difende neanche gli interessi in una maniera significativa. Inoltre non esiste alcuna logica nella proprietà statale dei mezzi di produzione che porta a fare gli interessi del proletariato. Il cuore del modo di produzione capitalistico, ovvero il rapporto capitale-lavoro salariato rimane intatto e questo produce un antagonismo tra capitalisti privati, sostenuti dallo Stato, e lavoratori per il controllo dei mezzi di produzione. Il discorso non cambia se i capitalisti sono espropriati dallo Stato che finisce per svolgere direttamente la loro funzione. Si genera un capitalismo di Stato che è una forma particolare del capitalismo. La terza risposta concorda in molti aspetti con la seconda, sostenendo che nessuna rivoluzione del XX secolo ha nella sostanza cambiato il rapporto capitale-lavoro e una parte consistente del surplus sociale continua ad essere prodotto da lavoratori salariati senza proprietà che incidono poco e niente sulla sua distribuzione e composizione. La differenza tra le due concezione sta nelle centralità del rapporto capitale-lavoro. Per la terza posizione, esso non è sufficiente per definire il modo di produzione capitalistico a cui bisogna aggiungere che il capitale non esiste come unica entità che si pone davanti alla classe operaia senza proprietà ma come molti capitali indipendenti l’uno dall’altro e che agiscono in maniera autonoma. Questo elemento è dietro tutte le leggi del capitalismo e spiegano la concorrenza che rende possibile la produzione, riproduzione e distribuzione di tutto ciò di cui ha bisogno la società senza che un’autorità centrale si assuma il compito di far funzionare l’economia in modo tale da raggiungere questo obiettivo. Per definire le società di transizione Sweezy parte da queste due caratteristiche del capitalismo, l’esistenza del rapporto capitale-lavoro e la concorrenza. Queste società hanno abolito il secondo termine ma permane il primo. Allora possiamo definirle capitaliste?

Alcuni autori, come Bettelheim in Le lotte di classe in URSS propendono per una risposta affermativa e si sforzano di spiegare le somiglianze tra la società sovietica e quella capitalista, dimostrando come la prima sia egualmente dominante dalle leggi della concorrenza ma non spiega, dice Sweezy, come questa sia mutata nella realtà sovietica. Al cuore dell’analisi di Bettelheim troviamo quattro riflessioni chiave. La prima è l’esistenza di un rapporto conflittuale tra i vari frammenti del capitale sociale prodotto dal rapporto salariale e dalla separazione dei produttori diretti dai mezzi di produzione che genera, a sua volta, la separazione dei differenti processi di produzione in cui troviamo la riproduzione del capitale sociale che assume la forma dei molti capitali in conflitto tra loro. La seconda riflessione è conseguente alla prima e sostiene che la lotta tra i differenti frammenti del capitale sociale è una lotta per l’appropriazione e l’accumulazione della frazione più ampia possibile di plusvalore. Concretamente ciò si manifesta nella rivendicazione di crediti di investimento e di allocazione dei mezzi di produzione da parte delle varie imprese e dei vari kombinat che minano il piano e aumentano gli obiettivi da raggiungere. La terza questione sostiene che la lotta tra i diversi frammenti del capitale sociale è ciò che Marx definiva il rapporto che il capitale intrattiene con se stesso nella forma di capitale altro. L’ultimo punto sostiene che “in termini astratti la concorrenza non è che un rapporto di interiorità del capitale che assume la sembianza di un rapporto di esteriorità. Sono le forme di questo rapporto di esteriorità che vengono trasformate dall’azione modificatrice esercitata sui rapporti concreti esistenti tra i diversi frammenti del capitale. Tali modificazione fanno sorgere differenti figure […] ‘libera concorrenza’, monopolio, intervento statale, pianificazione economica ecc. Il sorgere di queste immagini genera una serie di illusioni che acquistano quindi il carattere di ‘evidenza’”1.

Sul primo punto Sweezy risponde che la frammentazione del capitalismo dipende dal rapporto salariale o dalla separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. Inoltre sostiene che i reali processi di produzione attraverso cui si riproduce il capitale sociale sono separati in tutti i modi di produzione, tranne in quelli più primitivi e non dipende dal rapporto salariale. Non c’è sovrapposizione tra unità di produzione e unità di capitale. Il secondo punto vede Sweezy contestare a Bettelheim il parallelo tra la lotta per l’appropriazione e l’accumulazione dei capitali con ciò che accade con le imprese sovietiche nell’ambito dell’economia di piano per l’assegnazione dei crediti e dei mezzi di produzione. L’economista statunitense contesta che le imprese sovietiche non sono capitali indipendenti che lottano per la sopravvivenza. Esse sono subordinate ad una struttura politica e burocratica. Sul presupposto dell’inesistenza della concorrenza nel sistema sovietico, in cui il rapporto tra dirigente sovietico e imprese assomiglia a quello tra dirigenti di unità subordinate e società per azioni nel capitalismo, si basa la contestazione della terza e della quarta ipotesi dell’economista francese che rappresentano una forma più sofisticata della stessa teoria sulla concorrenza. Bettelheim impiega tutti i tomi di Le lotte di classe in URSS per spiegare come emerge nella formazione economico-sociale sovietica la borghesia di partito che strappa il potere al proletariato ma quando analizza le dinamiche con cui si esercita il suo potere sulla società finisce per cadere nell’errore di pensare che, oltre ogni apparenza, il sistema sovietico funziona come quello capitalista.

Con il saggio La specificità del capitalismo in Urss Charles Bettelheim risponde a Sweezy con cui concorda su molti punti. In primo luogo, concordano nell’impossibilità di definire tutti gli stati sorti dalle rivoluzioni del XX secolo come socialisti, nel senso dato da Marx. Il secondo punto è l’inesistenza di un proletariato giunto al potere a seguito di queste rivoluzioni. Al contrario, troviamo al suo posto partiti organizzati in maniera rigida e con elementi provenienti da diversi strati della popolazione. Il terzo e ultimo punto è la presenza del lavoro salariato, che non è stato abolito, in queste società. Riconoscere questa riflessione come vera, significa accettare la riproduzione del capitalismo in queste società perché, seguendo Marx, l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici presuppone l’abolizione del lavoro salariato, cioè il superamento della separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione che in queste realtà, invece, rappresentano valore in processo. A questo punto sorgono le divergenze di cui abbiamo già parlato. Per quanto riguarda la necessità dell’esistenza di capitali separati e che agiscono indipendentemente l’uno dall’altro per caratterizzare il capitalismo, Bettelheim non contesta questa affermazione a livello generale ma il capitalismo non esiste che sotto forme specifiche, una delle quali è il capitalismo di partito sovietico con la sua particolare tipologia di frammentazione del capitale sociale. In questi sistemi il capitale sociale si presenta apparentemente unito tramite la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione ma nella realtà è diviso in tante unità economiche con una loro relativa indipendenza che cresce sotto la proprietà statale dei mezzi di produzione e nonostante i dirigenti delle imprese sovietiche sono nominati da una struttura politico-burocratica che fa riferimento all’apparato del partito.

“Si ha un frazionamento del capitale sociale in una molteplicità di unità economiche che godono di una relativa indipendenza, il che ha come conseguenza che i loro prodotti diventano merci, pertanto i rapporti tra di essere rivestono (malgrado gli ‘ordini amministrativi’ che ricevono) la forma di rapporti monetari e mercantili e il sovraprodotto assume la forma del profitto. Questi rapporti sociali rendono le unità economiche alla stregua di entità distinte che formano un capitale sociale frammentato”2.

Questa frammentazione del capitale sociale non è ricercata dalla classe dominante ma le viene imposta a causa della complessità assunta dal processo di riproduzione del capitale nell’economia contemporanea. Il piano economico, in questo scenario, diventa un quadro dentro il quale le unità economiche procedono a diversi aggiustamenti che consentono ai prodotti di inserirsi in flussi capaci di scorrere più velocemente ed efficientemente. Sono decisioni prese tutte dai responsabili economici che gestiscono i frammenti del capitale sociale. In URSS, aggiunge Bettelheim, le diverse imprese entrano in un conflitto costante per ottenere i mezzi necessari per la prosecuzione ed espansione dei processi di produzione svolti al loro interno. Queste lotte tra i vari frammenti del capitale sociale diventano più feroci in relazione alle ambizioni del piano economico e alla sovraccumulazione che genera situazioni di penuria e si manifestano durante l’elaborazione del piano quando, ad esempio, le diverse unità economiche si scontrano per ottenere un maggiore fondo di accumulazione per non trovarsi in difficoltà durante la sua applicazione. Le dinamiche di cui parla l’economista francese si ripresentano anche tra i vari ministeri, dove il peso sociale e politico di ognuno viene determinato dalla quantità di fondi che il ministro riesce a gestire. Il piano solitamente fissa obiettivi più ambiziosi delle reali possibilità dell’economia e questo porta le imprese ad ottenere più crediti e autorizzazioni per l’acquisto di mezzi di produzione possibile con lo scopo di alleggerire le conseguenze delle penurie che si verranno a creare a causa degli errori del piano. Le cause di questi errori sono da ricercare, oltre che nella complessità del sistema economico, nelle sue opacità generate dalla burocratizzazione del sistema e dalla dissimulazione della reale situazione economica prodotta da imprese e ministeri. L’obiettivo di queste azioni è presentare alle autorità una situazione più favorevole della realtà per consentire alle imprese di conservare fondi e scorte più ampie di quelle autorizzate dalle istanze economiche centrali. La dissimulazione serve anche per effettuare operazioni sul mercato nero illegale e spesso sono necessarie per garantire il buon funzionamento delle imprese e colmare le penurie creare dal piano e connesse alla sovraccumulazione. Questa analisi consente di vedere come la pianificazione produca lotte per i mezzi di produzione e accumulazione facendo generare a imprese e ministeri sovraccumulazione che è un prodotto di questa specifica struttura del capitalismo e dei comportamenti degli agenti coinvolti. La tendenza alla sovraccumulazione è figlia dell’autonomia raggiunta dal livello economico e ha come conseguenza anche l’esistenza di cicli e crisi economiche nel sistema sovietico. Bettelheim sviluppa queste tesi nel terzo tomo, quello della forte disillusione sul socialismo dopo la sconfitta della Rivoluzione Culturale, di Le lotte di classe in URSS. In questo tomo, diviso in due parti, per spiegare questo fenomeno ha fatto riferimento alle crisi economiche del 1932 e del 1937 che definisce crisi di sovraccumulazione determinate, essendo il fattore principale di queste crisi all’epoca, dal piano economico. Dopo l’industrializzazione accelerata i cicli si sono regolarmente riprodotti nei paesi che hanno imitato il sistema sovietico. Le analisi hanno mostrato come questi cicli siano caratterizzati da una fase di accelerazione della crescita e degli investimenti, un boom a cui segue una fase di pausa o rallentamento e una recessione a cui segue una nuova fase di accelerazione della crescita. Il ciclo è composto da un periodo in cui aumenta il saggio di accumulazione che in seguito cala per poi riprendersi. Questi studi dimostrano che la tendenza alla sovraccumulazione è ampiamente dipendente dalle decisioni autonome dei dirigenti d’impresa che per realizzare il piano e accrescere la propria importanza sviluppano investimenti e impieghi della forza lavoro oltre i limiti necessari per mantenere gli equilibri economici globali e le risorse disponibili. In questo sistema l’assenza di disoccupazione si spiega non con l’esistenza di un pieno impiego ma con la necessità di avere una forza lavoro immagazzinata nelle imprese e non utilizzata in vista dei momenti in cui è necessaria una rapida crescita della produzione. Si tratta di una disoccupazione occulta che contribuisce alla bassa produttività del lavoro in questi sistemi. Questo comportamento è reso possibile dai bassi salari e dalla possibilità di scaricare sui prezzi le spese che non hanno contribuito alla produzione. La tendenza alla sovraccumulazione finisce, nei sistemi sovietici, per assumere proporzioni pericolose nel momento in cui genera gravi penurie e ritardi nelle costruzioni che spingono le banche e le autorità finanziarie a frenare gli investimenti, rallentando la crescita e facendo sparire la gravi penurie. Dal momento in cui i problemi più gravi sono attenutati, i controlli si allentando e la fase ascendente del ciclo può riprendere.

  1. Paul M. Sweezy, Charles Bettelheim, Il socialismo irrealizato, Editori Riuniti, Roma 1992, p.92 ↩︎
  2. Ivi, p.104 ↩︎

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