I vantaggi sistemici di Donald Trump. parte prima

— Andrea C. ed Emanuele

Come può la base del partito Repubblicano essere così relativamente sicura, se è ritenuto praticamente impossibile una sua vittoria nelle elezioni e pure si è in una fase cruciale del voto negli Stati Uniti, con milioni di schede già compilate e a distanza di pochi giorni dal 3 novembre?

Questa è stata la domanda che ci ha mosso ad indagare il più approfonditamente possibile la situazione negli Stati Uniti: perché non si strappa i capelli se Trump ha il 12% di possibilità di vittoria e i repubblicani sono sotto di oltre il 10%  nella media dei sondaggi nazionali? Le cose non tornavano. Non dovevano tornare, forse, a un’analisi semplicemente statistica della situazione. Anche perché, a scartabellare la stampa americana, indagini, e le singole denunce pervenibili attraverso Twitter e altri strumenti, la realtà si faceva meno rosea per i democratici, che hanno da qualche tempo il vizio di affidarsi più ai numeri che ai reali rapporti sociali. E affiora una qualche possibilità più seria per il partito repubblicano di mantenere la presidenza, attraverso mirate tattiche sul campo e campagne d’informazione che, al contrario delle aspettative, non va a caccia del fantomatico moderato, ma cerca – disperatamente forse – tutta una serie di cavilli al limite del legale per «mantenere l’America grande».

Lo scritto che qui pubblichiamo è davvero lungo, e ha avuto una gestazione di ormai un mese rispetto alla prima bozza. Pertanto, qui segue la prima parte, una generale introduzione del sistema politico e delle condizioni della società americana, le quali si articolano su tre direzioni focali: la situazione internazionale; la pandemia e le politiche sociali; la rivolta di BLM e il suo uso politico.

Nella seconda parte, tratteremo invece nello specifico la “forza” di Trump che gli rende realisticamente possibile, al di là dalle statistiche, la vittoria alle elezioni, o il mantenimento della carica di presidente. Dunque, la fedeltà dei repubblicani e le fantasticherie di complotto QAnon; FoxNews e il settore mediatico; la debolezza dei Democratici; la tattica elettorale repubblicana; infine la Corte Suprema, il cui conservatorismo è stato definitivamente sigillato con la ratifica al Senato della nomina di Amy Coney Barrett.

 

1. Il Collegio Elettorale, o il sistema elettorale dei due partiti unici 

Si è aperto l’ultimo periodo prima della grande data che segna quest’anno negli Stati Uniti: il 3 novembre, ultimo giorno delle elezioni presidenziali e del Congresso. I due contendenti allo scettro americano, Joe Biden e Donald Trump, entrambi ben oltre la settantina, sono le due risposte differenti dell’establishment statunitense alle profonde lacerazioni sociali che sono esplose quest’anno, durante la pandemia e la rivolta. Entrambi non possono più fregiarsi della freschezza della novità; Biden perché è stato senatore dal 1973 al 2009 e vicepresidente per otto anni, Trump perché i suoi quattro anni di presidenza stanno appunto volgendo al termine, e si è creato una reputazione più o meno chiara attorno alla sua carica di presidente.

Tutti i modelli statistici danno il candidato democratico Biden vincitore o in serio vantaggio: per la media dei sondaggi elaborata dal sito Fivethirtyeight, Trump avrebbe una probabilità di rielezione attorno al 12%; l’unico a non proiettare un vincitore, tra i modelli principali, è quello di RealClearPolitics, che procede cauto: esso assegna 232 grandi elettori a Biden, 125 a Trump e 181 in bilico (toss-up). Per la maggioranza ne sono necessari almeno 270.

La peculiarità del sistema elettorale americano, infatti, è data dal fatto che le elezioni presidenziali sono basate sul sistema del Collegio Elettorale, un corpo elettorale composto da 538 grandi elettori che ha lo scopo di eleggere il presidente degli Stati Uniti.
Per questo motivo non vince chi prende semplicemente più voti, ma chi riesce ad avere la maggioranza (≤ 270) dei 538 grandi elettori. I membri del collegio elettorale sono assegnati in numero più o meno proporzionale alla popolazione di ogni stato (ma con un minimo di tre, che rende alcuni stati rurali sotto-popolati nettamente sovra-rappresentati). Tuttavia, in questo sistema ogni stato è tale ad un collegio uninominale a maggioranza relativa; ovvero, chi ha la maggioranza, anche di qualche migliaio di voti, prende tutti i grandi elettori. Le uniche eccezioni sono il Maine ed il Nebraska, che invece assegnano diversamente i grandi elettori (4 in Maine e 5 in Nebraska): due per chi vince nello stato; mentre i rimanenti due/tre sono assegnati ognuno in un distretto uninominale interno allo stato. Perciò anche se il sistema si mantiene uguale, il fatto di eleggere una persona per distretto rende possibile l’elezione di repubblicani in uno stato a maggioranza democratica come il Maine, e di democratici nel repubblicano Nebraska, senza che «il vincitore pigli tutto».

Da questo rapido excursus, risulta evidente come sia possibile, per quanto difficile, vincere le elezioni senza avere la maggioranza dei voti, e pertanto questo invalida tutti i sondaggi di voto condotti su base nazionale. Trump ha vinto le ultime elezioni pur avendo ricevuto meno voti, grazie al sistema del voto differito nel meccanismo dei grandi elettori: se fosse stata un’elezione normale, dove si conta solo il voto popolare, i repubblicani sarebbero nella disperazione da mesi dal momento che, secondo la media dei sondaggi, sarebbero sotto ai democratici di circa 8,4%, assegnando a Biden il 51,6%, e a Trump il 43,2%. Tuttavia, già Trump nel 2016 vinse pur avendo ricevuto quasi 2,87 milioni di voti in meno rispetto alla sfidante Hillary Clinton: il maggiore svantaggio da parte di un presidente vittorioso nella storia degli Stati Uniti. Ciò sta bene a indicare come il sistema dei collegi elettorali, se poteva avere un senso tra il XVIII e XIX secolo per motivi infrastrutturali di difficoltà nel conteggio e nella trasmissione dei voti, oggi non è più sostenibile; è un meccanismo elettivo altamente indiretto che di fatto rende la volontà popolare deviabile con tattiche propagandistiche da parte dei due partiti egemoni – soprattutto il partito Repubblicano, dato che è quest’ultimo ad essere riuscito a monopolizzare le aree rurali del paese.
Nessuno dei due partiti ha la reale volontà di riformare il sistema elettorale in un senso realmente rappresentativo, per il quale, inoltre, sarebbe necessario un emendamento costituzionale, a cui è necessaria la maggioranza (⅔ a favore) in entrambe le Camere del Congresso e la maggioranza dei tre quarti dell’insieme delle legislature degli stati. Un’eventualità di fatto impossibile, dal momento che le camere sono pressoché divise a metà, mentre gli stati sono a maggioranza repubblicana, e proprio i Repubblicani non approverebbero mai una riforma che andrebbe ad eliminare uno dei vantaggi sistemici che sono riusciti ad ottenere negli scorsi decenni, e che rappresenta una delle chiavi che i Repubblicani usano per avere accesso alla presidenza.

Ipotesi per la vittoria di Trump alle elezioni del 2020 (puramente a scopo dimostrativo del sistema del collegio elettorale)

Un ulteriore appunto sulla forma del Collegio Elettorale è sulla storia che ha attraversato questa istituzione. Infatti, è una delle forme storicamente più detestate dall’opinione pubblica americana, che ha visto migliaia di tentativi di modificarlo, con due momenti apicali nella prima metà del XIX secolo e dopo la II guerra mondiale. I vari tentativi tuttavia sono naufragati proprio per la difficoltà estrema nel ratificare cambiamenti costituzionali. Solo negli ultimi quattro anni il sostegno verso il Collegio Elettorale si è polarizzato attorno ai due partiti – conseguentemente alla vittoria repubblicana per collegio e non per voto popolare. In effetti, ogni legislatura statale ha la facoltà di decidere come attribuire i grandi elettori che voteranno effettivamente il presidente il 13 dicembre, e può riservarsi di modificarlo in ogni momento – ecco perché il Maine e il Nebraska hanno soluzioni diverse da «il vincitore piglia tutto». Infatti, nel 2000 nella celebre battaglia legale tra Bush e Gore per la nomina alla presidenza, la Corte Suprema aveva decretato che, siccome il riconteggio dei voti in Florida non sarebbe stato possibile entro il giorno del voto dei grandi elettori, sarebbe stata la legislatura della Florida a nominarli; era a maggioranza repubblicana e fece vincere il candidato repubblicano Bush. Questo è un precedente legale di cui l’attuale Corte Suprema, a schiacciante maggioranza conservatrice, si potrebbe avvalere, dal momento che tre dei nove giudici attuali lavorarono da parte repubblicana proprio nella sentenza Bush vs Gore.

Nel 2000 le elezioni tra Bush e il candidato democratico Gore videro uno stallo siccome nel conteggio dei voti in Florida, il distacco dei voti era di soli 1784 a favore di Bush, tali per cui, secondo le leggi dello stato, sarebbe stato necessario un riconteggio automatico, che a sua volta ha portato il vantaggio di Bush a 327 voti su quasi sei milioni. Per sormontare l’empasse, in cui non si sapeva come assegnare i grandi elettori della Florida, che erano decisivi per entrambi per raggiungere la maggioranza dei 270, la corte suprema locale aveva dichiarato che sarebbe stato necessario un ulteriore riconteggio dei voti, ma manuale, mentre Gore denunciava la confusione del formato della scheda elettorale di Palm Beach, che gli ha effettivamente tolto voti. Nel mezzo del terzo conteggio elettorale, però, il comitato repubblicano depose un appello alla Corte Suprema, che, a maggioranza conservatrice, votava 5-4 per la sospensione del conteggio e l’assegnazione dei grandi elettori tramite voto nella camera statale, a maggioranza repubblicana e in cui il governatore della Florida era proprio il fratello di Bush.

Come abbiamo potuto vedere, il meccanismo della sovrarappresentanza dei piccoli stati, sia a livello di Senato che a livello di Collegio Elettorale, rappresenta dunque il primo grande vantaggio sistematico e antidemocratico che i Repubblicani usano per vincere la presidenza. Osserviamo ora i grandi avvenimenti che hanno scosso la politica americana, in un’ottica di consenso elettorale e di interessi strategici economici.

2. Breve, e si spera rapido, sguardo sulla fiammeggiante situazione dell’ultimo anno

I. La situazione internazionale al tramonto del secolo americano

2020, un anno che non iniziava già tranquillo con l’assassinio, a gennaio, del generale iraniano Qasem Soleimani e tensioni globali schizzate. Approfittiamone per dare uno sguardo alla politica estera recente. Il Medio Oriente rimane lo scenario strategico per l’egemonia americana, sia direttamente che indirettamente attraverso la NATO e la Turchia. In primo luogo, la normalizzazione dei rapporti fra l’Israele conservatore e stato ebraico di Netanyahu e le petromonarchie arabe, per appianare una delle storiche contraddizioni in seno al campo americano. Tutto avviene in ottica anti-siriana, anti-russa e soprattutto anti-iraniana, che da un lato rimangono l’ultima soluzione ai palestinesi oltre all’apartheid e al genocidio silenzioso, dall’altro sono un partner potenziale e reale per i rifornimenti di idrocarburi all’Europa.

L’Europa, il grande schiavo soggiogato dalle catene dei rifornimenti energetici, è il campo cruciale per il quale il Medioriente è effettivamente così importante, e che gli Stati Uniti hanno la precisa intenzione di mantenere come dominio economico vista la debolezza intrinseca dell’UE. Anche la guerra recentissima tra Armenia e Azerbaigian rientra nello schema delle forniture di gas e petrolio dirette da Baku, per la Turchia, verso i Balcani e l’Italia, e in questo la Turchia si giostra usando la NATO come ombrello. Rimane il fatto che l’Europa non è un attore totalmente passivo sulla scena internazionale: i vari paesi del vecchio continente stanno, ognuno a modo proprio, cercando di distaccarsi dalla dipendenza dalle fonti di energia estere (ad esempio la Francia e l’Ucraina col nucleare; la Germania usufruendo di gas sia russo che mediorientale, e promuovendo l’eolico a livello nazionale).

L’altra questione fondamentale per l’opinione pubblica americana è ovviamente la prima potenza industriale del mondo, la Cina. Trump ha sempre calcato la mano sulla grande sfida di scontro fra il vecchio impero americano e il nuovo polo cinese: nonostante gli interessi americani, e anche di buona parte dell’elettorato repubblicano, siano legati a doppio filo con la Cina, l’attuale presidente ha sempre più esacerbato, per fini evidenti di propaganda elettorale, i rapporti con Beijing. Il massimo sono le accuse verso le istituzioni internazionali di essere al soldo cinese, rafforzate da tutto il coretto dei media americani e britannici per aver deluso, una volta tanto, gli interessi statunitensi dentro al Palazzo di Vetro dell’ONU.

II. La Pandemia, o sul fallimento del sistema americano

I rapporti con la Cina sono spinosi anche per ciò che riguarda il covid-19 (ribattezzato Kung Flu, China Virus e simili amenità fino alla settimana in cui the Donald è stato ricoverato), che negli Stati Uniti è divenuto una vera e propria questione politica. Tendenzialmente, i democratici sono a favore delle misure contro la diffusione del contagio, i repubblicani sostengono invece la preferenza alla “libertà” – quella di morire soli e neanche su un letto d’ospedale, viste le tariffe. Invece per Trump le cure sono state complete, dedite, gratuite, il trasporto è avvenuto in elicottero e il ricovero in una suite a sei stanze, con salottino per gli ospiti, ufficio-sala conferenze, sala da pranzo e un letto king-size (cca 15 cm maggiore in altezza e larghezza di un letto a due piazze) – a parte le dimensioni del letto, i bukhara, i mobili e i colori dei lussuosi interni, una stanza che non può non evocare quella di Berlusconi all’ospedale San Raffaele di Milano, a cui però non è stata data gratuitamente.

 Per Trump, è stata una fin troppo vera e stridente dimostrazione di disinteressata sanità pubblica, quando negli Stati Uniti gli ospedali tornano a riempirsi totalmente – in Florida, Texas e Louisiana è raggiunta pressoché la massima capienza in posti letto. Mentre il presidente e parte dell’élite sottovalutava volutamente la pandemia, e l’altra parte invece criticava le rigide norme adottate in Europa (Biden dichiarò che gli Stati Uniti non avrebbero bisogno di un sistema sanitario nazionale visto che in Italia ci sarebbero stati troppi morti), milioni di statunitensi si sono ammalati, colpendo maggiormente gli afro- e ispano-americani.

Decine di migliaia di statunitensi sono morti attendendo di ricevere il trattamento sanitario, o addirittura gli esiti del tampone; probabilmente migliaia di altri sono morti perché non potevano permettersi le cure, né un posto in ospedale. Le immagini dei camion frigo come camere mortuarie e delle fosse comuni di massa sull’isola-discarica di Hart Island, nella New York maggior centro finanziario del mondo, hanno fatto il giro del mondo. Ma non hanno sollevato in patria la doverosa autocritica verso un sistema sanitario impotente, e volto esclusivamente all’accumulazione di denaro alle assicurazioni e al complesso industrial-sanitario. Il tema è popolare e scottante in campagna elettorale, eppure è stato sviluppato integralmente soltanto dal senatore Sanders e dalla senatrice Warren, candidati alle primarie democratiche affossati dalla macchina del Partito come enti ostili ed «estremi». 

La sanità non solo non copre milioni di persone, costringe le persone all’apertura di debiti che ripagheranno con una vita intera, ma pure costa mediamente di più rispetto agli altri paesi, dove medicinali salvavita da pochi euro, e spesso garantiti dal servizio sanitario nazionale, vengono a costare centinaia di dollari. Secondo un sondaggio condotto dall’istituto HarrisX per la testata congressuale The Hill, il 69% degli elettori sarebbe favorevole al medicare for all, di cui l’88% dei democratici, il 68% degli indipendenti, e persino il 46% dei repubblicani. Tuttavia, nemmeno quando la stragrande maggioranza delle persone è a favore dell’introduzione di un piano sanitario nazionale, questo non viene adottato nemmeno nei programmi dei candidati democratici Biden e Harris. 

Il partito Democratico aveva il vero terrore che la pandemia favorisse Sanders e la sua proposta centrale, il medicare for all, ma è riuscito a pilotare le elezioni interne per non scontentare gli oligarchi di riferimento. Nonostante ciò, gli investitori (altrimenti definito come il metafisico “mercato”) hanno iniziato solo da ottobre a considerare positiva la possibile vittoria di Biden  alle elezioni, proprio per paura che, sebbene il DemoParty abbia ridotto la fazione socialista a una plaudente minoranza, sarebbe stato comunque costretto dalla base – che lo appoggia solo in quanto non crede ci siano alternative – e dalla rivolta a fare delle concessioni in ambito sanitario, scolastico, infrastrutturale, ambientale.

Invece, nulla di tutto questo, e il mercato s’è tranquillizzato. 

224.178 morti e 8.611.256 di casi confermati al 28 ottobre sono il monito lugubre di un sistema sanitario che non funziona per proteggere e curare le persone, ma per accumulare profitti, e quindi escludere in massima parte dalle cure coloro che non se le possono permettere: la classe media e quello che si sarebbe chiamato proletariato. Questi nomi, queste duecentoventiquattromilacentosettantotto persone sono le vittime di un sistema strutturato perché chi non possa pagare muoia, in cui è il denaro e la posizione sociale che ne deriva a costituire la dignità della persona. Senza lavoro, senza soldi, senza casa si incappa in una serie di leggi e misure create apposta per rendere la vita un inferno più di quanto già non sia. I piani assicurativi e gli affitti sono legati all’occupazione: quando si perde il lavoro, come è avvenuto per moltissimi americani, si è automaticamente esclusi dalla sanità, dalla casa, addirittura dall’istruzione; in una parola, dal circuito sociale. Anche se questi fatti e questi numeri sono ripresi spesso per squallidi scopi elettorali contro Trump, implicitamente a favore di Biden che comunque non ha nessuna intenzione di proporre un sistema sanitario nazionale gratuito, è assurdo che una gestione così criminale e cinica di una pandemia in quello che si fregia essere il paese più ricco del mondo, il «leader del mondo libero» passi inosservata e taciuta.

L’inazione e il distacco dell’oligarchia dalla realtà in cui vive il popolo americano è tipico: solo quando la pandemia ha coinvolto personalità di spicco del paese, si è provveduto a misure sanitarie comunque blande, in quanto rivolte a chi le cure se le può permettere. La stessa cosa è avvenuta con la crisi del 2007-08, in cui i responsabili ricevettero miliardi in salvataggi pubblici – come nella crisi economica attuale – per continuare ad agire nella medesima maniera. L’avida e fagocitatrice accumulazione sfrenata da parte di una striminzita minoranza di ultraricchi sta facendo piombare nella miseria l’americano medio, con problemi che sembrano assurdi per chi vive persino in altri paesi capitalistici come l’Europa: sanità irraggiungibile, istruzione costosissima, salari compressi. La tendenza, però, travolge tutto il fu mondo occidentale.

Col covid-19 però non ci sono stati solo migliaia di morti e milioni di malati, ma milioni di disoccupati. I democratici, in questo panorama di una società al collasso e milioni di persone senza orizzonti, non han saputo far tesoro politico della situazione: i lavoratori disoccupati, 14,7% della forza lavoro ad aprile, considerati dai luminari dell’economia come temporaneamente tali e sicuramente reintegrati nel tessuto produttivo, sempre più sono permanentemente senza lavoro : di 13 milioni di disoccupati a settembre, 4 sono disoccupati da più di sei mesi (ossia almeno da aprile), e la tendenza è in crescita. Per di più, vista l’alta disoccupazione, i salari si stanno abbassando ulteriormente, rendendo ancora più difficile la vita di chi svolge un impiego.

Anche in tema di salute psichica durante la pandemia si registra un record figlio di tendenze ormai decennali. A conferma di ciò, i Centers for Disease Control and Prevention hanno condotto un complesso e approfondito studio statistico sulla salute mentale degli americani , pubblicato il 14 agosto, fra cui si chiedeva se si fosse considerato seriamente il suicidio negli ultimi trenta giorni. I dati sono spiazzanti: tra i 18 e i 24 anni, il 25,5% ha confermato di averlo considerato; tra i 25 e i 44 anni, il 16%; tra gli ispanoamericani il 18,6% e gli afroamericani il 15%. Sul totale della popolazione, il 10% ha considerato seriamente di por fine alla propria vita durante giugno. A ciò si accompagna a un aumento drastico dei disturbi depressivi e d’ansia, che coinvolgono complessivamente il 30,9% della popolazione, con dei picchi tra i giovani adulti: oltre sei ragazzi su dieci e quattro persone fino ai 44 anni su dieci soffrono di queste condizioni.

I dati sui bianchi non laureati poi sono ulteriormente drammatici: uno su tre ha pensato seriamente di farla finita, a giugno 2020, nel paese più ricco del mondo. Tuttavia, questa non è un’esplosione di casi dovuti semplicemente alle condizioni della pandemia, bensì è una situazione ormai sistemica da decenni che la pandemia ha esacerbato, a causa dei necessari comportamenti antisociali per salvaguardare la propria salute. Al riguardo, gli economisti della Princeton University Anne Case e Angus Deaton hanno pubblicato una serie di studi che ritraggono le condizioni psicofisiche sempre peggiori cui versa il popolo americano, in particolare proprio i bianchi non laureati, e sono stati sinteticamente descritti sul New Yorker

Gli americani stanno morendo di disperazione; Case e Deaton hanno scoperto, confrontando i dati del tasso di suicidi con altri indicatori socioeconomici ed etnici, che è direttamente connesso con l’alta inoccupazione che attanaglia gli SSUU dagli anni Novanta: circa un quarto della potenziale forza lavoro non lavora, il che significa non ha accesso alle cure sanitarie e allo scarso welfare americano, come s’è ribadito più volte, ma di questo quarto, solo un quinto cerca attivamente un lavoro, ed è quindi conteggiato come disoccupazione. In ciò, la sovrapposizione dell’andamento del tasso di suicidi – la seconda causa di morte fra i giovani, la sedicesima a livello nazionale, e che, con patologie legate all’alcolismo, con le overdosi e connessi si è portata via centinaia di migliaia di persone negli ultimi decenni – coincide con la sua perenne ascesa, alla perenne ascesa dell’inoccupazione, così come c’è stato un calo nella speranza di vita tra il 1992 e il 1995, così dal 2014 in poi, proprio per l’elevato tasso di mortalità fra i bianchi non laureati, mentre tutte le altre categorie lo vedevano migliorare.

Case e Deaton attribuiscono i motivi di questa strage silenziosa e prolungata alla disperazione intrinseca nell’essere tagliati fuori dal circuito sociale, dai sensi di colpa a causa di un sistema culturale che biasima e colpevolizza l’individuo e dal costante peggioramento dei salari per i bianchi del ceto medio dal 1979. La relativa abbondanza di oppiacei, che alimenta la domanda di farmaci e droghe sintetiche, evidenzia ancora una volta l’insensatezza e la disumanità di un sistema sanitario che predilige il profitto alla vita umana, pertanto patologizza i disturbi mentali e dall’altro impiega farmaci che portano alla dipendenza. In aggiunta, la facile disposizione dell’alcol e delle armi da fuoco (con cui metà dei suicidi avvengono) è indice di tutto un sistema che si alimenta e lucra sulla disperazione. Questo punto è strategicamente importante perché, dal momento che i bianchi non laureati costituiscono la maggioranza relativa della popolazione statunitense, il loro senso di rivalsa e rabbia verso i neri e gli ispanici che invece, pur rimanendo a salari e condizioni di vita inferiori, hanno visto migliorare le loro condizioni, rinfocola la narrazione della destra repubblicana. In una nazione ricca prospera di facciata, la grandezza dell’America è sulla morte della speranza.

Illustrazione da Eiko Ojala per il New Yorker

Oltre a ciò, sia durante la prima ondata della pandemia che oggi, in ascesa della seconda, è esplosa la crisi degli alloggi, con vari scioperi degli affitti ogni primo del mese dal 1° maggio, e i padroni contrattaccano sbarrando le porte o chiamando direttamente la polizia o vie legali. La questione degli alloggi è particolarmente cruciale per il fatto che per i lavoratori delle grandi città e della Silicon Valley, la progressiva gentrificazione dei quartieri periferici provoca l’innalzamento degli affitti e la cacciata di intere comunità dalla loro zona, allontanandole ancora di più dal luogo di lavoro. Con la pandemia, la perdita di quel lavoro ha provocato per molti l’impossibilità di pagare l’affitto, e quindi di finire per strada o di ritornare nelle aree rurali di provenienza, sbarrando definitivamente la via di un impiego retribuito ai livelli urbani. 23 milioni di persone si vedono già con le valigie con una vita dentro e nessuna destinazione davanti, dopo la fine della moratoria sugli sfratti in molti stati. 

III. BLM: azione e reazione alla rivolta

È per questo crudele e spietato sistema di validazione della persona attraverso il denaro, un sistema fortemente classista, che le lotte per la giustizia etnica sono state così forti e hanno minacciato la stessa tenuta della farsa democratica che regge gli Stati Uniti. Black lives matter è deflagrato durante l’infida strage passiva per assenza di cure, e attiva per la violenza poliziesca su migliaia di americani proprio perché milioni di persone hanno realizzato di non avere più alcun futuro dentro un sistema autocelebrativo dei ricchi – e sta ricominciando ad affollare le piazze americane in questi giorni sia in occasione del voto, sia per i nuovi assassinii da parte della polizia. Nel sistema però, le risposte sono state molteplici: all’inizio il movimento BLM non aveva pressoché antagonisti eccetto la polizia e i corpi militari federali obbedienti a Trump. 

Ma con la reazione sempre più aggressiva del governo alla rivolta che montava e addirittura cercava di instaurare delle nuove forme di governo (come le zone autonome o i comitati di vicinato per una approfondita e solidale comunità nelle periferie cittadine), si sono attivati i gruppi paramilitari dell’estrema destra. I liberali in questo non sono innocenti: hanno implicitamente appoggiato ogni controreazione, da una parte rigettando ogni proposta anche solo di riforma dell’istituzione della polizia, dall’altra abbracciando la narrativa di destra secondo cui le proteste sarebbero composte da violenti che danneggiano la sacralità e inviolabilità non della vita umana, ma della proprietà privata. Proprietà, appendice periferica della persona che diventa centrale in un sistema morale dove il denaro è tutto, diventa la giustificazione per i gruppi paramilitari che vedono in Donald Trump al potere la garanzia del mantenimento da un lato della supremazia bianca, dall’altro il modello di comportamento sguaiato e senza regole che ritengono sia consono del loro paese. 

I democratici sono risultati politicamente incapaci di fornire un autentico fronte d’opposizione alla gestione dello stato: sia per la pandemia e relative soluzioni (medicare for all), sia per le rivolte sociali ed etniche contro l’oppressione poliziesca e la radice sottocutanea del razzismo negli Stati Uniti, addirittura in queste sposando la tesi repubblicana per cui le proteste del BLM sarebbero state in gran parte egemonizzate da “violenti”, e quindi facendo decadere le giuste e sacrosante rivendicazioni di smilitarizzazione della polizia. Negli SSUU, infatti, la polizia cittadina o della contea ha effettivamente il potere delle nostre forze di polizia nazionali; in aggiunta, sia prima che durante quest’anno si è vista garantita da ingentissimi fondi sia da parte delle contee, sia da organizzazioni private (spesso industrie del complesso militare-industriale): la militarizzazione infatti è una grande occasione per vendere merci, assieme alla liberalizzazione del mercato delle armi ai singoli, e assieme alle politiche espansionistiche dell’area d’influenza americana, con guerre decennali e senza soluzione. Le armi dunque, quando diventano una merce qualsiasi senza la minima regolamentazione e convalidate esclusivamente dal mercato, assumono un ruolo deleterio in seno alla società interna e promuovono azioni contro la pace mondiale.

Come sottolinea Current Affairs, il codice etico del tycoon è un preciso prodotto della tradizionale politica americana: il disprezzo per la vita e l’incolumità altrui in guerre continue e campi di concentramento per gli immigrati, la reclusione di massa, il razzismo opportunistico, la stessa pena di morte ri-estesa a livello federale sono delle caratteristiche coerenti a tutti i presidenti americani di questo secolo, e che costituiscono la base di un modello di pensiero. Infatti, la visione del mondo di Trump è estremamente chiara: gli interessi dei capitalisti sono giusti a priori in quanto «vincenti», senza alcun freno per l’idea che gli uomini abbiano un valore di rispetto e dignità. Perciò, il solipsismo darwinista sociale finora evidenziato porta alla considerazione per cui tutti coloro che non sono come Trump, ovvero capitalisti all’apice della piramide sociale, siano automaticamente «perdenti» e quindi indegni di alcuna considerazione. Ciò esime Trump stesso dalla colpa che ha se le sue misure provocano la morte di migliaia di persone e indicibili sofferenze ad altrettante, dal momento che la forza è intrinsecamente virtuosa, e la debolezza nient’altro che patetica. Non c’è da meravigliarsi – come invece fanno moltitudini di liberali – se il presidente americano non abbia nessuna remora davanti ai veterani uccisi, definiti appunto dei «perdenti», o al cambiamento climatico che distrugge paesi interi, o alla protezione della flora e fauna selvatiche.

Lo sgomento, l’impotenza e la paura davanti a un trattamento così crudo e spoglio della vita umana hanno avuto diverse reazioni – proprio vero che «dove è giunta al potere, la borghesia […] ha lacerato spietatamente tutti i variopinti legami feudali che stringevano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. […] Ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli libertà faticosamente conquistate oppure accordate, ha posto come unica libertà quella di un commercio privo di scrupoli. In una parola, in luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha introdotto lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido». Le persone si congregano o per aiutarsi a vicenda per quanto possibile, oppure per ritrovare nella ritualità di gruppo la riconferma del proprio ruolo sociale come milionario in temporanea – ma lunga una vita – difficoltà.

Nonostante Biden voglia solo cancellare la riforma fiscale di Trump (il che significherebbe un timido aumento del 2,6% per lo scaglione più alto dell’imposta sul reddito e l’abbassamento dell’esenzione immobiliare federale da proprietà di 11,58 milioni di dollari a circa 5), mentre Trump proponga l’ennesimo taglio delle tasse ai ricchi  ed esose sovvenzioni fiscali a pioggia per le aziende, un sondaggio di Reuters/Ipsos ha rivelato come il 64% degli americani approvi il fatto che «i ricchissimi dovrebbero versare una quota maggiore della loro ricchezza totale annuale al fine di sostenere dei programmi di interesse pubblico», trovando il 77% dei democratici e pure il 53% dei repubblicani a favore. Tuttavia, in quest’ultimo caso, la coesione per gli interessi reali e attuali di classe non avviene, perché molti soggetti si percepiscono come milionario in pectore, e quindi già parte della classe dominante. 

Con questa contorta e schizofrenica identificazione si giustifica tutto il sostegno popolare verso i tagli delle tasse ai ricchi, che riducono lo scarso stato sociale americano, e che si ripercuotono direttamente sulla classe subalterna. Una metafora piuttosto efficace di questo è stata la “Trump Boat Parade” organizzata il 5 settembre sul lago Travis, vicino Austin, Texas. Decine di barche, di disparate dimensioni, da yacht di 20 metri a barchette di due e mezzo, tutte addobbate con bandiere e striscioni per la rielezione di Trump, si sono mosse simultaneamente sul lago artificiale, creando un moto ondoso anomalo che ha affondato una dozzina tra i battelli minori, nel pieno disinteresse degli yacht. Nessun ferito, fortunatamente, ma la scena è divenuta una metafora esemplare del sostegno dei poveri a Trump: nonostante la manifestazione sia organizzata insieme,  ricchi non hanno la minor intenzione nell’aiutare i poveri, che affondano con le loro bandiere «keep America great».

Il consenso così incondizionato, fanatico ed estremo verso il leader emerge, tornando al discorso iniziale, nella repressione violenta e nell’orrore verso i danni alla proprietà: milizie paramilitari come i Proud Boys e altre si sono autolegittimate per scendere in strada armate e sparare ai manifestanti con la scusa della protezione della proprietà privata – ovviamente non la loro, non avendone o quasi. Inoltre, secondo un delatore del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS), i suprematisti bianchi e QAnon sono un pericolo di gran lunga maggiore alla sicurezza interna, e che ha avuto pressioni dall’alto per “correggere” il rapporto affinché presentasse gli antifa – che non sono un’organizzazione – come la vera rete occulta che minaccia l’America; un’immagine decisamente più in linea con la focosa e fiammante narrazione del presidente in carica. 

Ciononostante, il comportamento squadrista dei suprematisti bianchi è poi andato oltre, con sparatorie, raid, spedizioni contro i manifestanti per il Black lives matter, nella quasi totale impunità e nella santificazione da parte dei media dell’estrema destra, che sono i più visti, letti, ascoltati negli Stati Uniti. Anche la vicenda sanguinosa di Kyle Rittenhouse è stata plasmata per assecondare la narrazione repubblicana. Il diciassettenne dall’Illinois è andato appositamente a Kenosha, Wisconsin, centro delle manifestazioni del BLM dopo che ad un uomo afroamericano sono stati sparati sette colpi nella schiena dalla polizia, fortunatamente non uccidendolo sul colpo, ma lasciandolo tra la vita e la morte. Qui, Rittenhouse ha ucciso con un fucile automatico due manifestanti e ferito un terzo, ma la sua è stata propagandata positivamente da ufficiali del DHS come la reazione di un ragazzo per bene, che si è dovuto autodifendere dai manifestanti – giustamente ci si difende con un’arma da guerra –, che il suo viaggio interstatale era dovuto al trasporto morale per “legge e ordine” – uno degli slogan preferiti da Trump –, e subito sono fioccate le controinformazioni che ritraevano l’assassino in azioni benevoli, come pulire gli edifici dai graffiti della rivolta.

 

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