Scritto sull’Emendazione del Moro di Treviri
Articolo apparso su LON – L’Ordinovista il 19/10/2020
In questo testo dal carattere riorientativo voglio sfatare qualche mito tipico delle letture tradizionali di Marx. Nel farlo, mi sono pesantemente servito, forse peccando in termini di originalità (ma fa niente: c’è tempo per l’originalità), di una reinterpretazione per ora purtroppo non ancora dominante del pensiero di Marx: la Neue Marx Lektüre. Lo scritto qui presentato è debitore soprattutto dell’opera di Roberto Fineschi. La lettura di Fineschi per me è stata come la lettura di Kant per Fichte: come per questi Kant rappresentava la risposta alla conciliazione fra il sentimento della libertà e la ragione della necessità, per me l’opera di Fineschi ha significato la risposta alla necessità di rilanciare il pensiero marxiano e marxista, dopo la fine del Socialismo Reale e la dissoluzione dei vecchi marxismi davanti a cui mi aveva posto Costanzo Preve.
Per un riorientamento attraverso la filologia critica
A circa 30 anni dall’ignobile fine del Socialismo Reale, il movimento comunista è più che mai in crisi, sia teorica che politica. Una crisi che purtroppo ha coinvolto il nostro barbuto fondatore della ditta, Karl Marx, relegandolo a cane morto. Per rispondere a questa crisi e proporre una ripartenza si sono imboccate diverse strade.
La prima consiste nel tracciare una pacifica linea di continuità fra Marx e il Socialismo Reale, difendendo il secondo in quanto legittimo erede del primo: questa è la soluzione “politica-ortodossa”, i cui eminenti rappresentanti in Italia sono il PC di Rizzo e i piccoli scissionisti del FGC, liberi dal PC ma uguali al PC, tutti loro riconoscibili dall’assenza di una qualsivoglia innovazione teorica che farebbe a cazzotti con la cieca fedeltà alla linea.
C’è poi la seconda soluzione, quella “politica-eterodossa” (trotskijsti, bordighisti, maoisti) che consiste nel contestare la continuità fra Marx e il Socialismo Reale e nell’affermare come quanto accaduto a quest’ultimo confermi le proprie tesi sia sul primo che sul secondo. Se sulla separazione Marx-Socialismo Reale a mio modo di vedere hanno ragione, sbagliano completamente nel pensare che la loro concezione di Marx sia confermata, siccome in sostanza condividono i termini del dibattito su quest’ultimo con gli stalinisti, ma ci si scontrano per quanto riguarda le questioni più direttamente politiche. Anche queste formazioni (penso al PCL, a LC o al PMLI) non brillano per innovazione teorica ma ardono (purtroppo solo metaforicamente) per settarismo.
Altra soluzione è quella che definirei “intellettuale-critica”, tipica delle scuole di pensiero del marxismo critico (althusseriani, lukácsiani, gramsciani, operaisti ecc.). Qui non solo abbiamo la giusta separazione fra Marx e il Socialismo Reale, ma anche una miriade di approcci originali nella lettura di Marx e un alto tasso di innovazione teorica (ciò è probabilmente dovuto alla libertà da partiti politici organizzati intorno a un rigido controllo ideologico). Il problema è che questi marxismi, pur riconoscendo alcune aporie interne alla ricezione tradizionale di Marx, più che tentare di superarle ne prendono un lato e lo portano alle estreme conseguenze: abbiamo così il Marx filosofo contro il Marx scienziato, il Marx alienazionista contro il Marx strutturalista, il Marx storicista contro il Marx logicista, il Marx hegeliano contro il Marx galileiano ecc. e ognuno di questi ha la propria base testuale. La mano dell’interpretazione marxista si è fatta più pesante soprattutto sulla cosiddetta teoria del valore-lavoro, dove fin da subito è stata evidente la contraddizione fra il primo ed il terzo libro del Capitale (la famosa questione della trasformazione del valore in prezzi), da cui in più casi si è usciti sostanzialmente ripudiando la teoria marxiana del valore.
Se le soluzioni fossero solo queste, ci resterebbero fra le mani un Marx aporetico, un dibattito fra pensatori marxisti impantanato sulle classiche questione trite e ritrite e un confronto politico fra soggetti comunisti settari. Servirebbe un evento capace di creare le condizioni di possibilità per spezzare quest’eterno ritorno dell’identico. Ebbene, quest’evento c’è stato e si chiama MEGA2. La nuova edizione degli scritti di Marx ed Engels, attraverso cui ci sono pervenuti diversi importanti manoscritti fino a prima sconosciuti, non solo ci permette una nuova interpretazione del pensiero di Marx, ma addirittura lo fa alla luce di una nuova base testuale. La quarta soluzione, quella “filologico-critica” dentro cui (nel mio piccolo) mi colloco, tiene conto di questo evento, in combinazione con gli importanti risultati conseguiti dal filone di ricerca della Neue Marx-Lektüre. Cos’è la NML? Detto in modo molto generale, è il tentativo, iniziato intorno alla metà degli anni Sessanta da parte di alcuni allievi di Horkheimer e Adorno (Backhaus, Reichelt, Schmidt) di riesaminare l’opera marxiana fuori dalle letture marxiste, che in quel periodo erano prevalentemente l’ortodossia sovietica marxista-leninista e il marxismo occidentale centrato sull’opera giovanile di Marx. È un’interpretazione che si è occupata prevalentemente di rideterminare i termini del dibattito del rapporto Marx-Hegel, della questione della teoria del valore-lavoro e del significato complessivo del progetto marxiano di critica dell’economia politica. Vedremo in cosa consistono i risultati ottenuti da questo approccio trattando le questioni specifiche.
Un recupero di Marx nella sua autonomia dal marxismo, quindi. A mia memoria, nella storia del movimento dei lavoratori ciò è accaduto altre due volte e tutte e due in Italia, la prima con LON storico, la seconda con l’operaismo, ed ogni volta ha portato ad elaborazioni estremamente sofisticate ed originali. Colta l’analogia, vanno però messe in chiaro anche le differenze. Nel caso di LON, la ricezione di Marx è stata comunque mediata da Labriola, da Sorel e dall’idealismo italiano di Croce e Gentile, e il bersaglio polemico era lo specifico marxismo del PSI e della II Internazionale; nel caso operaista invece, sfruttando la pubblicazione dei Grundrisse, si è avuta una ricezione direttamente storico-sociale (empirica) di Marx, specificamente contro il marxismo del PCI e della III Internazionale. In entrambi i casi la ripresa diretta di Marx aveva a che fare con un compito immediatamente politico: gli ordinovisti dovevano “fare come in Russia” contro il freno del PSI, gli operaisti dovevano interpretare e organizzare politicamente il nuovo soggetto nato dalle trasformazioni dell’Italia nel secondo dopoguerra contro la cecità e il freno del PCI.
Anche se è nata specificamente contro la socialdemocrazia e il marxismo ortodosso sovietico, la soluzione filologica-critica tenta di recuperare Marx nella sua autonomia alla luce della MEGA2 e della NML ricostruendo il suo sistema, ponendosi criticamente nei confronti di ogni marxismo senza la necessità di porsi contro un “soggettone” politico particolare (data anche la povertà del nostro panorama politico). Ciò non vuol dire che il marxismo tout court vada buttato a mare: ricostruito il sistema marxiano in questo modo, se ne possono evidenziare le reali capacità e i reali limiti, ed è possibile utilizzarlo come pietra miliare confrontandolo con le stratificazioni marxiste successive per vedere quali di queste hanno meglio “resistito” o se addirittura hanno fatto passi avanti. In scritti successivi di due serie diverse mi occuperò sia della ricostruzione dell’intero sistema marxiano di critica dell’economia politica sia del confronto coi vecchi marxismi. In questo scritto di valore riorientativo ciò che mi preme mostrare è invece come, seguendo la prospettiva filologica-critica, si possa uscire dalle pastoie del dibattito tradizionale.
La Base Testuale: Opere Giovanili e Critica dell’Economia Politica
Direi di partire proprio dalla base testuale. Grazie alla MEGA2 noi oggi sappiamo che un testo di fondamentale importanza per il marxismo occidentale, ossia i Manoscritti Economico-Filosofici del 1844, semplicemente non esiste. Con ciò intendo dire che non si tratta di un’opera vera e propria e non erano nemmeno stati scritti come “progetto” di opera. Questi erano semplicemente dei quaderni fatti da estratti di libri di economia politica che Marx ogni tanto commentava. Inoltre, le sue conoscenze in tema di economia a quel tempo erano ancora in stato embrionale, ma perché stava appunto solamente imparando dai classici. L’importanza di questo testo, almeno per quanto riguarda la ricostruzione del pensiero dell’autore in rapporto alla gerarchia delle fonti, va quindi quantomeno ridimensionata: i Manoscritti non sono altro che un primo approccio alle problematiche di economia politica.
Altra opera che non esiste è l’Ideologia Tedesca. Sebbene la questione sia di poco diversa dai Manoscritti (qui c’era quantomeno l’idea di pubblicare gli elaborati), anche qui non si può parlare di “opera” nel senso di un libro concepito in maniera organica. Sempre grazie alla MEGA2 sappiamo che i testi pubblicati a questo nome sono in realtà una serie di articoli scritti da Marx ed Engels (e non solo: alcuni testi di Hess, un hegeliano di sinistra, sono finiti nel libro!) per un progetto di rivista simile a quello degli Annali Franco-Tedeschi, progetto che però non è mai andato in porto. Mi sia concesso di fare due esempi sui rischi in cui si incappa nell’utilizzare questo testo nelle edizioni correnti come testo decisivo del pensiero di Marx. Primo: sappiamo inoltre che il primo capitolo su Feuerbach è un’invenzione editoriale dei curatori della prima MEGA mischiando appunto questi articoli. Secondo: la famosa citazione (molto amata dalla Xenoleft) per cui “nella società comunista […] la società regola la produzione in generale e, in tal modo, mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” è in realtà lo sbeffeggiamento di alcune idee di Charles Fourier riprese dai giovani hegeliani, che però nella pubblicazione furono integrati al testo come se fossero la descrizione della società comunista ideale per gli autori. Stando così le cose, anche in questo caso andrebbero ridimensionate le interpretazioni marxiste che fanno leva su questo testo.
Nonostante questi due scritti abbiano giocato un ruolo fondamentale nell’interpretazione del pensiero di Marx, l’opera fondamentale dell’ubriacone di Treviri rimane sicuramente Il Capitale. Ora, questo vuol dire che le opere precedenti all’inizio del suo progetto di critica dell’economia politica vadano buttate a mare? Assolutamente no. Il loro ridimensionamento ci permette di prenderle per quelle che sono: esperimenti ed intuizioni. Per cui, la loro utilità sta nel vedere come il pensiero di Marx sia evoluto nel tempo fino ad approdare al progetto del 1857. Se ne dà quindi una lettura “continuista a ritroso”, senza rotture epistemologiche (di cui parleremo più avanti).
Ora, se dell’Ideologia Tedesca e dei Manoscritti possiamo fondamentalmente dire che non esistono, sul suo progetto di critica dell’economia politica si deve fare un discorso diverso: questo è rimasto allo stato di un torso. Bisogna levarsi dalla testa che esista un’opera compiuta di tre libri chiamata Il Capitale. La stesura della sua teoria del capitale come intero sulla base di un piano inizia nel 1857 (i Grundrisse) attraverso la fissazione di alcune coordinate generali che verranno mantenute fino alla sua morte, ma in questo ampio lasso di tempo vedrà la luce solo il primo libro del Capitale. Lo stesso I libro che verrà modificato più e più volte senza darci un’edizione definitiva (la prima edizione tedesca è diversa dalla seconda edizione tedesca in termini di linguaggio hegeliano, che a sua volta è diversa dall’edizione francese in termini di presenza/assenza di importanti concetti quali valorizzazione, concentrazione, centralizzazione, e così via).
Per quanto riguarda il II e il III libro del Capitale, la situazione è ancora peggiore. Se da una parte già era noto che fosse stato Engels ad aver completato l’opera, dall’altra non era conosciuta la portata del suo intervento. Oggi, sempre grazie alla MEGA2, sappiamo che l’intervento del buon Friedrich è stato inevitabilmente alterante (questo detto senza alcuna polemica nei suoi confronti). Di questi due libri Marx aveva delineato una struttura generale, ma nulla di più “organico”. Per quanto riguarda il II libro, abbiamo diversi manoscritti a cui Marx lavorò dal 1867 al 1870, poi dal 1877 al 1881. Per il III invece abbiamo un manoscritto del 1864-65 e alcune riesposizioni parziali che arrivano al 1878, Fa abbastanza sorridere pensare che una parte enorme del manoscritto del III libro Marx l’avesse intitolata “die Konfusion”, un’esposizione incasinata contenente una miriade di citazioni da cui Engels riuscirà eroicamente a tirar fuori 11 capitoli.
Se questa incompiutezza pone problemi in termini di ricostruzione della teoria marxiana, in un certo senso apre anche alla possibilità del superamento di alcune aporie presenti nel dibattito tradizionale. Uno dei problemi tipici del marxismo era infatti la questione del problema della trasformazione del valore in prezzi: nel dibattito tradizionale, si dice che nel I libro le merci si scambiano ai “valori-lavoro”, nel III invece si scambiano ai prezzi di produzione. A questo livello non abbiamo ancora una soluzione, ma già qui possiamo dire che non è molto corretto parlare di un’aporia nella teoria marxiana: se del I libro abbiamo diverse edizioni, del III abbiamo dei semplici scritti preparatori (peraltro alcuni addirittura precedenti alla pubblicazione del I libro), per cui la teoria più che essere aporetica ancora non è stata sviluppata appieno.
Contro il Maestro?
A mio avviso, un motivo, se non proprio il motivo dell’incomprensione del progetto scientifico di Marx, risiede nell’erronea interpretazione del rapporto Hegel-Marx, erronea interpretazione che discende soprattutto dal non aver messo in discussione il modo in cui Marx stesso interpreta il suo rapporto col Maestro, ossia: è sempre terrorizzato di essere scambiato per un hegeliano, nonostante accolga diverse prospettive hegeliane.
Illustrando quello che chiama il mio vero metodo in modo così calzante e, per quanto riguarda la mia personale applicazione di esso, così benevolo, che cos’altro ha illustrato l’Autore se non il metodo dialettico? Certo, il modo di esporre deve distinguersi formalmente dal modo di indagare. L’indagine deve appropriarsi nei particolari la materia, analizzarne le diverse forme di sviluppo e scoprirne i legami interni. Solo dopo che questo lavoro sia stato condotto a termine, si può esporre in modo adeguato il movimento reale. Se questo tentativo riesce, e se la vita della materia vi si rispecchia idealmente, può sembrare di trovarsi di fronte a una costruzione a priori. Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico non è soltanto diverso da quello hegeliano, ma ne è l’antitesi diretta. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo del Reale, che costituisce soltanto la sua apparenza fenomenica o esterna. Per me, viceversa, l’Ideale non è che il Materiale, convertito e tradotto nella testa dell’uomo. La mia critica del lato mistificatore della dialettica hegeliana risale a quasi trent’anni fa, quando essa era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre io elaboravo il primo Libro del Capitale, i tediosi, arroganti e mediocri epigoni che ora dettano legge nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come il bravo Moses Mendelssohn, ai tempi di Lessing, aveva trattato Spinoza, cioè da «cane morto». Perciò mi professai apertamente discepolo di quel grande pensatore, e qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, civettai perfino col modo di esprimersi a lui peculiare. La mistificazione di cui soffre la dialettica nelle mani di Hegel, non toglie affatto che egli per primo ne abbia esposto in modo comprensivo e cosciente le forme di movimento generali. In lui, la dialettica si regge sulla propria testa. Bisogna capovolgerla per scoprire il nocciolo razionale entro la scorza mistica.
Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca perché sembrava trasfigurare la realtà esistente. Nella sua forma razionale, per la borghesia e i suoi corifei dottrinari essa è scandalo ed abominio perché, nella comprensione positiva della realtà così com’è, include nello stesso tempo la comprensione della sua negazione, del suo necessario tramonto; perché vede ogni forma divenuta nel divenire del moto, quindi anche nel suo aspetto transitorio; perché non si lascia impressionare da nulla, ed è per essenza critica e rivoluzionaria.Marx K., Postfazione alla II edizione del Capitale, UTET, Torino, 2017
Nonostante questa presa di distanza, io credo che Marx sia un perfetto hegeliano, che lo ha capito nella pratica scientifica ma non nella critica teorica. Capirete cosa intendo leggendo.
Da questo rapporto discendono diverse questioni come quella relativa al concetto di alienazione, lo (sterile) dibattito idealismo-materialismo, il ruolo del metodo dialettico e la relazione fra logico e storico. Tratteremo ora tutti questi punti, ma preliminarmente va detto che su Hegel Marx compie, in termini cronologici, due letture: la prima, giovanile, è direttamente influenzata dalla cricca della sinistra hegeliana; la seconda risale al 1857, anno di formulazione del suo progetto complessivo di critica dell’economia politica. Fra queste due letture c’è la svolta che avviene attraverso l’intuizione delle categorie di modo di produzione, forze produttive e rapporti di produzione che avviene nell’Ideologia Tedesca (almeno su questo Althusser ha, in parte, ragione). Schematicamente:
I. Per come è esposto nei Manoscritti (quindi sotto l’influenza di Feuerbach e Bauer), Hegel: 1. sarebbe il filosofo dell’autocoscienza/a-priorismo, che trasforma il processo reale in processo dell’autocoscienza, nel pensiero (autocoscienza, pensiero, Idea, e soggetto sono appiattiti da Marx allo stesso significato); 2. sviluppa il processo attraverso la dialettica di alienazione e ritorno a sé dell’autocoscienza; 3. pensa che oggettualità e alienazione sono la stessa cosa, per cui l’oggettualità reale nella sua autonomia è ridotta a puro pensiero; 4. capovolge il vero rapporto soggetto-predicato, ossia fra pensiero e sensibile/materia, per cui non è il pensiero ad essere possibile solo come derivato del sensibile (o della materia), ma è la materia ad essere una particolarizzazione del pensiero. Marx quindi si propone: 1. di porre in luogo dell’autocoscienza l’uomo nella sua realtà fisica e sociale irriducibile al puro pensiero; 2. di porre il lavoro come attività pratico-sensibile dell’uomo come operante della dialettica, che ha il compito di eliminare realmente l’alienazione; 3. di riconoscere che a porre l’oggettualità è l’uomo attraverso il lavoro, forza naturale che produce cose anch’esse irriducibili al pensiero; 4. di ribaltare il rapporto soggetto-predicato in Hegel mettendo come soggetto la specie umana nella sua integrità irriducibile di autocoscienza e sensibilità. Abbiamo quindi un orizzonte essenzialistico in cui l’essenza dell’uomo, fissa e astorica, è il lavoro.
II. Nell’Ideologia Tedesca Marx riformula le proprie concezioni contro la sinistra hegeliana senza però tornare su Hegel: 1. al posto dell’uomo abbiamo la dialettica di forze produttive e rapporti di produzione, ed è lo strutturarsi di condizioni e individui in rapporti di produzione che definisce di volta in volta che cosa significa “umano” (da essenza fissa e astorica a rapporti sociali storici); 2. scompare progressivamente la categoria di alienazione e quindi del lavoro che la elimina; 3. il lavoro diventa momento della dialettica fra forze produttive e rapporti di produzione, quindi il porre l’oggettualità non è più considerato in astratto, ma all’interno di questa dialettica, in circostanze storico-sociali determinate; 4. passa in secondo piano la critica del capovolgimento, perché il vero soggetto non è più un’astratta e generica essenza umana. L’orizzonte qui diventa quello della “logica peculiare dell’oggetto peculiare”, la ricostruzione della dialettica concreta del reale.
III. Con la seconda lettura Marx mantiene i primi tre punti della sua interpretazione di Hegel, ma cambia il quarto: Hegel non sbaglia a sviluppare il concreto dall’astratto, anzi dice che questo è il modo corretto di procedere, il vero procedimento scientifico, ma sbaglia a ridurre tutto il metodo a questo (senza considerare la salita dal concreto all’astratto per fissare le categorie), e di conseguenza sbaglia nel credere che il pensiero crei la realtà invece di riprodurla idealmente.
Vediamo ora le diverse questioni:
a) Idealismo-Materialismo
La questione idealismo-materialismo nel Marx della maturità si riduce tutta al quarto punto: Hegel sarebbe idealista perché crede che il pensiero crea la realtà a partire da una logica generale valida di per sé, Marx è materialista perché crede che il pensiero ricrei solo idealmente una realtà già esistente di per sé attraverso la sua logica peculiare. Qui un passaggio molto esplicativo di quanto detto:
Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista dell’economia politica, cominciamo con la sua popolazione, con la divisione di questa in classi, la città, la campagna, il mare, le diverse branche della produzione, esportazione e importazione, produzione e consumo annuale, prezzi delle merci, ecc. Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto, quindi per esempio nell’economia con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio ad esempio le classi da cui essa è composta. A loro volta, queste classi sono una parola priva di senso se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per es., lavoro salariato, capitale, ecc. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi, ecc. Il capitale, per es., senza lavoro salariato, senza valore, denaro, prezzo, ecc., è nulla. Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, ad un esame più preciso, perverrei sempre più, analiticamente, a concetti più semplici; dal concreto rappresentato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe, poi, di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. La prima via è quella che ha preso l’economia politica storicamente al suo nascere. Gli economisti del XVII secolo, per esempio, cominciano sempre dall’insieme vivente, dalla popolazione, la nazione, lo Stato, più Stati, ecc.; ma finiscono sempre col trovare per via d’analisi, alcune relazioni generali astratte determinanti, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore ecc. Non appena questi singoli momenti furono più o meno fissati e astratti, cominciarono i sistemi economici che salgono dal semplice – come lavoro, divisione del lavoro, bisogno, valore di scambio – allo Stato, allo scambio tra le nazioni e al mercato mondiale. Questo ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi, del molteplice. Per questo, esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, la rappresentazione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. E’ per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. La più semplice categoria economica, come per esempio il valore di scambio, presuppone la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti determinati, ed anche un certo genere di famiglia, o di comunità o di Stato, ecc. Esso non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta, di un insieme vivente e concreto già dato. Come categoria, al contrario, il valore di scambio mena un’esistenza antidiluviana. Per la coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta che per essa il pensiero pensante è l’uomo reale e il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà – il movimento delle categorie appare quindi come l’effettivo atto di produzione (il quale purtroppo riceve soltanto un impulso dal di fuori) il cui risultato è il mondo; e ciò è esatto in quanto – ma qui abbiamo di nuovo una tautologia – la totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione, bensì dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione. L’insieme, il tutto, come esso appare nel cervello quale un tutto del pensiero, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile, maniera che è diversa dalla maniera artistica, religiosa e pratico-spirituale di appropriarsi il mondo. Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente; fino a che, almeno, il cervello si comporta solo speculativamente, solo teoreticamente. Anche nel metodo teorico, perciò, il soggetto, la società, deve essere presente alla mente come presupposto.
K. Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, “Introduzione”, grassetto mio
Già a questa altezza, vorrei porre la seguente domanda: l’interpretazione che Marx dà di Hegel è corretta? Manco per niente. Hegel non arriva mai a dire, da nessuna parte, che il processo di comprensione coincide con la creazione oggettuale delle cose. La cosa abbastanza comica e tragica inoltre è che, nel passaggio riportato e sottolineato in grassetto, Marx attacca Hegel ricalcando alla lettera un passaggio di Hegel presente nella sua Enciclopedia (paragrafo 22 e 23):
Mediante la riflessione avviene la trasformazione di qualcosa, cioè si trasforma la modalità in cui il contenuto è inizialmente nella sensazione, nell’intuizione e nella rappresentazione. È solo mediante una trasformazione, quindi, che la vera natura dell’oggetto giunge alla coscienza.
La riflessione, in quanto pensiero in cui viene alla luce la vera natura dell’oggetto, è una mia attività. Questa natura, pertanto, è a un tempo il prodotto del mio spirito, e precisamente: del mio spirito in quanto soggetto pensante, di Me sulla base della mia Universalità semplice, in quanto sono un Io assolutamente essente presso di sé. In altri termini: la vera natura dell’oggetto è il prodotto della mia Libertà.
G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, Bompiani, Milano, 2015
Ovviamente il contenuto esperito in quelle forme e trasformato dalla riflessione deve preesistere alla trasformazione concettuale, quindi la dematerializzazione marxiana di Hegel non ha il minimo senso.
b) Alienazione
Cercare continuità fra Hegel e Marx basandosi sull’alienazione è un errore, siccome per il primo non è una categoria fondamentale (appare quasi solo nella Fenomenologia dello Spirito e praticamente solo nei due ultimi capitoli), mentre per il secondo è una categoria fondamentale solo in gioventù. In pratica, si riproporrebbe il tema in base a come il giovane Marx dei Manoscritti ha (erroneamente) letto Hegel. Questo non vuol dire che la categoria di alienazione sparisca. Da una parte viene rideterminata, in seguito alle intuizioni avute nell’Ideologia Tedesca, all’interno del progetto di critica dell’economia politica in chiave anti-essenzialistica nella trattazione del feticismo della merce e nella sussunzione del lavoro sotto al capitale, dall’altra sembra essere mantenuta nella sua forma deteriore giovanile tipica della sinistra hegeliana.
Nel feticismo della merce l’alienazione si presenta come reificazione dei rapporti personali, per cui le leggi della circolazione semplice, prodotto storicamente determinato della prassi umana, appaiono invece come leggi naturali a cui gli esseri umani obbediscono come qualcosa di dato. Questa prefigura all’alienazione che avviene con la sussunzione del lavoro sotto al capitale.
Nella sussunzione del lavoro sotto al capitale, ossia nell’adeguamento del processo di produzione alla forma tipicamente capitalistica che va dalla cooperazione semplice alla grande industria passando per la manifattura, il tema dell’alienazione si presenta nell’estraneazione delle condizioni di lavoro rispetto al lavoratore e si associa al capovolgimento di soggetto e oggetto. Il Capitale si trova di fronte, come momento zero (storico e logico) il lavoro individuale del contadino e dell’artigiano, e sussumendolo lo inverte. Man mano che si passa per le forme della sussunzione fino allo sviluppo della grande industria attraverso il sistema di macchine, il lavoro vivo perde il comando del processo lavorativo e ne diviene un’appendice, sono gli stessi mezzi di produzione che lo impiegano. Si noti il lemma “processo lavorativo”: questo è il ricambio materiale dell’uomo in quanto tale nella natura, di cui il lavoro (ossia l’attività del lavoratore in questo processo) è solo un elemento. È quindi una concezione del lavorare che supera l’ingenuità dei Manoscritti: al posto del semplice oggettualizzarsi della specie umana nel lavoro è sostituita la relazione fra attività lavorativa, mezzo di lavoro, oggetto di lavoro e posizione di scopo, relazione che in quanto tale (presa nel suo senso extrastorico) è astratta e non esiste mai, ma si dà solo nelle forme sociali di produzione specifiche. Perciò, è nei rapporti di produzione specificamente capitalistici che abbiamo alienazione nella maniera descritta, e il superamento di questa non può essere pensato come recupero di un’essenza umana traviata.
Inoltre, e qui è il punto, il problema dell’alienazione non sta nell’inversione di soggetto e oggetto, che anzi è un’acquisizione fondamentale del modo di produzione capitalistico: è infatti attraverso quel processo, che culmina nel macchinismo, che il lavoro individuale diventa sempre più sociale, e si realizza la socialità del lavoro (che Marx chiama “lavoratore complessivo”). Il problema dell’alienazione sta invece nella posizione di scopo tipica del modo di produzione capitalistico, che è la valorizzazione del capitale, la produzione di plusvalore. È a causa di questa posizione di scopo che l’umanità è alienata, perché il modo di produzione capitalistico allo stesso tempo pone le condizioni per il libero sviluppo delle potenzialità umane (l’incondizionata produttività del lavoro, la creazione reale dell’umanità, lo svincolamento della produzione allo scopo della soddisfazione del bisogno) ma le nega legandole al processo di valorizzazione.
Come detto però, a Marx capita di recuperare la concezione giovanile dell’alienazione. Questo accade perché egli vuole dar conto dei problemi teorici emersi nella sinistra hegeliana. Pensiamo ad esempio al passaggio di Per la Critica dell’Economia Politica in cui Marx parla della possibile rottura con la società borghese verso una nuova epoca e chiama la storia precedente a questa nuova epoca “preistoria” (per cui per contrasto la nuova epoca potrebbe essere interpretata come la riconciliazione dell’umanità con la propria essenza). Qui il punto è che Marx non può, per i limiti intrinseci al proprio metodo, cogliere le forme organizzative tipiche della prossima fase storica (non può nemmeno sapere se è o meno “comunista”), può al massimo cogliere le tendenze fondamentali del modo di produzione capitalistico (cioè l’incondizionata produttività del lavoro, la creazione reale dell’umanità, lo svincolamento della produzione allo scopo della soddisfazione del bisogno). Altre volte invece Marx pare insistere sul concetto di alienazione come lo stato per cui determinate condizioni di lavoro (l’eterodirezione e la divisione del lavoro) dominano il produttore e gli rendono estranei i suoi prodotti, ma così si avrebbe un’involuzione verso una concezione di alienazione valida per ogni modo di produzione (questa estraneità-dominio esiste anche nel modo di produzione feudale e in quello schiavistico, solo che in questi casi il dominio è personale mentre nel modo di produzione capitalistico è impersonale) che prelude a una ripresa essenzialistica del discorso.
Anche se il concetto di alienazione è in Marx aporetico, secondo Fineschi l’interpretazione anti-essenzialistica presentata (e che è stata da lui ricavata) è coerente con la sua teoria complessiva e può essere usata per criticare i rimasugli interni di quella essenzialistica. Io però vedo un’ulteriore difficoltà: cosa mi impedisce di pensare che la posizione di scopo degli altri modi di produzione non fosse essa stessa alienante rispetti alle potenzialità dei soggetti che li componevano? Del resto, anche la posizione di scopo del modo di produzione feudale e di quello schiavistico impedisce (per ciascuno in maniera specifica) l’incondizionata produttività del lavoro e la formazione reale dell’umanità, e nemmeno slega la produzione dal bisogno. Si potrebbe dire che queste tendenze fondamentali sono visibili solo ora nel modo di produzione capitalistico e che quindi non ha molto senso dire che il soggetto prodotto nei precedenti modi di produzione veniva alienato da condizioni che ancora dovevano essere poste. Ma allora, sempre se la posta in palio è il concetto di alienazione come concetto specificamente capitalistico, senza uno studio dei modi di produzione precedenti a questo, come faccio io a dire che nei modi di produzione precedenti non esistano potenzialità umane che questi al contempo pongono e negano rispetto al modo di produzione capitalistico stesso? L’alienazione sarebbe così un concetto generale e astratto, ma non rispetto a un’essenza fissa e astorica: anch’essa dipenderebbe dalla dialettica fra forze produttive e rapporti di produzione. Col rischio che questa possa ripresentarsi anche in un modo di produzione successivo a quello capitalistico. {Aggiunta del 28/10/2020: in questa live al minuto 1:44:40 sono riuscito a porre la domanda a Fineschi, mi ha risposto al minuto 2:03:15.
c) Metodo dialettico
La questione metodologica è il punto su cui Marx e Hegel sono più vicini. Nel 1857 a Marx capita, mentre redige i Grundrisse, di rileggere La Scienza della Logica hegeliana, e decide di accoglierne il metodo. Ciò è testimoniato da una lettera a Engels del 16 Gennaio 1858:
Per quanto concerne il metodo dell’elaborazione mi ha reso un grosso servizio aver riletto by mere accident […] la Logica di Hegel. Quando ci sarà tempo per questo tipo di lavori, in due o tre pagine mi farebbe voglia di rendere accessibile al buon senso comune ciò che è razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma, al contempo, mistificato.
Cit. in Fineschi R., Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, p. 34, Carocci, Roma, 2006
In base a quanto detto precedentemente, sappiamo che questa mistificazione hegeliana è in realtà una mistificazione marxiana di Hegel. Il metodo usato da Marx consiste in ciò che egli da giovane ha riassunto nella formula “concepire la logica specifica dell’oggetto specifico”, formula che indica un modo di procedere in netta contrapposizione con quello di Lassalle, di cui si fa beffe in un’altra lettera ad Engels, questa volta del 2 Febbraio 1858:
[V]edo che il tipo ha l’intenzione di esporre l’economia politica alla Hegel in un suo grande opus Imparerà a sue spese che ben altra cosa è arrivare a portare per mezzo della critica una scienza al punto di poterla esporre dialetticamente, ed altro applicare un sistema di logica astratta bell’e pronto a presentimenti appunto di un tale sistema.
Cit. in Fineschi R., Ripartire da Marx, p. 19, La Città del Sole, Napoli, 2001
Leggiamo un po’ che cosa ha da dire il Maestro in merito:
Nella Scienza [Wissenschaft], il Concetto si sviluppa a partire da se stesso ed è soltanto una progressione e produzione immanente delle proprie determinazioni. Il processo del Concetto, dunque, non avviene affatto secondo quanto vuole l’asserzione per cui, dati diversi rapporti, l’universale verrebbe applicato a tale materia accolta da chissà dove. Ora, il metodo secondo cui si attua tale sviluppo è anch’esso presupposto a partire dalla Logica. Il principio motore del Concetto – in quanto principio che non soltanto dissolve, ma anche produce le particolarizzazioni dell’universale – io lo chiamo dialettica. Non si tratta dunque di una dialettica che dissolve, confonde, porta di qua e di là un oggetto – o proposizione, ecc. – dato al sentimento, alla coscienza immediata in generale, e che ha a che fare soltanto con la deduzione del contrario di questo oggetto. […] La superiore dialettica del concetto, dunque, consiste nel produrre e comprendere la determinazione non meramente come limitazione e come contrario, bensì di modo che a partire da essa sorga il contenuto e il risultato positivo: solo così la determinazione è sviluppo [Entwicklung] e progresso immanente. Questa dialettica, allora, non è l’attività esterna di un pensiero soggettivo, ma costituisce l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare organicamente i propri rami e frutti. Qui il pensiero soggettivo, senza da parte sua aggiungervi alcun ingrediente, non fa altro che guardare a questo sviluppo dell’Idea come all’attività propria della Razionalità dell’Idea stessa.
Hegel G. W. F., Lineamenti di Filosofia del Diritto, paragrafo 31, Bompiani, Milano, 2010
Hegel e Marx sono quindi sorprendentemente vicini.
Questo metodo consta di due momenti, ossia il “modo di ricerca”, che consiste nella “salita dal concreto all’astratto”, e il “modo di esposizione”, cioè la “ridiscesa dall’astratto al concreto”.
Il modo di ricerca non è qualcosa che pertiene ad un singolo pensatore, ma è piuttosto un processo che richiede il raggiungimento delle categorie essenziali di una disciplina (ecco perché salita dal concreto all’astratto) da parte degli studiosi di quella disciplina, un processo che perciò richiede potenzialmente molto tempo. Raggiunte queste categorie essenziali, si possono ricostruire in maniera coerente le teorie dei precedenti studiosi per mostrarne la limitatezza di fronte ai presupposti filosofici generali raggiunti nell’avanzamento del sapere e applicare delle correzioni. Per capire questo procedimento, basti pensare a cosa Marx fa quando parla di Smith o Ricardo: egli ne individua le incoerenze nel ragionamento, mostra le conclusioni contraddittorie con le premesse, o meglio mostra come le loro conclusioni non siano l’adeguato svolgimento delle loro premesse (p. es. la questione lavoro/forza-lavoro). Attraverso questo procedimento, nel caso dell’economia politica, si può distinguere il contenuto materiale, ossia quelle categorie invarianti di ogni modo di produzione astrattamente universali (in quanto ci sono sempre ma non esistono mai fenomenicamente), dalla forma sociale specifica, ossia il modo in cui queste categorie si combinano fra loro.
Fatto ciò, si può individuare la “cellula economica”, ossia quella categoria (punto di contatto fra modo di ricerca e modo di esposizione) da cui partire per l’esposizione dell’intero sistema. È quindi un modo per risolvere la classica questione, tipica dall’idealismo tedesco, del problema del cominciamento (pensiamo alla tathandlung nella Wissenschaftslehre del primo Fichte oltre che all’essere nella Wissenschaft der Logik di Hegel), seppur posta in maniera differente: l’oggetto è diverso e si trova su un livello di astrazione “più basso” rispetto a quello di Fichte e Hegel, in quanto pertiene all’economia politica e non alla filosofia o alla logica.
Compiuto il modo di ricerca, si può procedere in modo adeguato verso il modo di esposizione (darstellung). Il modo d’esposizione ha una doppia funzione: la messa in moto delle nozioni implicite che sono in unità contraddittoria all’interno della cellula, ossia lo sviluppo immanente delle categorie che via via costruisce l’intera teoria, l’auslegung der sache selbst (ecco perché ridiscesa dall’astratto al concreto), e la verifica di questa possibilità a partire dalla cellula scelta. La cellula economica individuata da Marx, punto di contatto fra modo di ricerca (suo risultato) e modo di esposizione (suo inizio), è la merce, unità contraddittoria di valore d’uso e valore.
d) Storico – Logico
Se quanto detto è vero, va tenuta in mente un’altra importante distinzione: quella fra lo sviluppo storico-logico [Entwicklung] del modo di produzione capitalistico e il suo sviluppo storico-cronologico. Una cosa è il moto dei concetti che mostrano il funzionamento del modo di produzione capitalistico, un’altra è la sua genesi empirica e il suo procedere temporale. La teoria di Marx è una teoria dello sviluppo storico-logico, come dimostrato da questa citazione:
Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinate. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese e che è esattamente l’inversa di quella che si manifesta come loro relazione naturale o corrisponde alla successione dello sviluppo storico. Non si tratta della posizione che i rapporti economici assumono storicamente nel succedersi delle diverse forme di società ed ancor meno della loro successione “nell’idea” (Proudhon), che non è che una rappresentazione nebulosa del movimento storico, ma della loro articolazione organica all’interno della moderna società borghese.
K. Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, “Introduzione”
Di nuovo, ritorna qui un tema che Hegel aveva già trattato nei Lineamenti di Filosofia del Diritto:
In senso più speculativo, la modalità di esistenza di un concetto e la sua determinatezza sono un’unica e medesima cosa. Va tuttavia osservato che, nello sviluppo scientifico dell’Idea, i momenti il cui risultato è una forma ulteriormente determinata precedono, in quanto determinazioni concettuali, questo stesso risultato; nello sviluppo temporale, invece, in quanto sono figurazioni [Gestaltungen], essi non lo precedono.
Hegel G. W. F., Lineamenti di Filosofia del Diritto, paragrafo 32, Bompiani, Milano, 2010
È perciò in merito al contenuto della teoria che Marx ed Hegel differiscono. Del resto abbiamo parlato di “logica peculiare dell’oggetto peculiare”, per cui i paragoni fra il concetto di Idea, Spirito ecc. e quello di Capitale che sono stati avanzati nel tempo non possono che essere al massimo delle analogie, non un ricalcare pedissequamente. Detto questo, Marx costruisce un modello logico, ad un alto livello di astrazione, del funzionamento del modo di produzione capitalistico. Non si tratta perciò né di una descrizione immediatamente empirica del modo di produzione capitalistico, né di una teoria specificamente di scienza economica, né tantomeno di un finalismo storico, ma appunto di un modello costruito per individuare le leggi di movimento della formazione economico-sociale capitalistica come intero, definendo al contempo che cosa significano società, uomo, storia, natura ecc. È in base alla questione dell’oggetto che si possono tracciare altre importanti differenze fra i due. La prima è la questione della processualità storica: Hegel non ha una teoria della lotta di classe, o almeno non la ha nella forma più raffinata e precisa di Marx, e il Soggetto principale della storia è lo Stato. La seconda è la questione della prassi: Hegel non ha una teoria dell’alienazione alla Marx (nella forma discussa in precedenza, che fa scontrare i limiti del modo di produzione capitalistico con le potenzialità che egli stesso pone), per cui si “ferma” alla riconciliazione, mentre Marx è per una prassi rivoluzionaria. Se la nottola di minerva hegeliana spicca il volo sul far della sera, quella marxiana pretende di muoversi un po’ prima del tramonto.
Althusser: Rottura Epistemologica?
Il riavvicinamento alla filosofia hegeliana fa a pugni con l’interpretazione althusseriana di Marx, molto popolare in ambito marxista. Nella sua influente opera Per Marx, Althusser legge Marx a partire dal concetto (preso da Bachelard) di “rottura epistemologica”, per cui attraverso la scoperta del “continente storia” avvenuta nell’Ideologia Tedesca si passerebbe da un giovane Marx hegeliano, essenzialista e alienazionista a un Marx scienziato non più impigliato in questioni filosofiche da giovane hegeliano, materialista storico e materialista dialettico. A parte il fatto che termini quali “materialismo storico” e “materialismo dialettico” non fanno parte del lessico propriamente marxiano, la lettura che Althusser dà di Marx non sta in piedi. Anche senza riprendere ciò che ho detto in c), già solo sfogliando i Grundrisse (di cui Althusser sembra dimenticarsi) e il I libro del Capitale non si possono non cogliere le analogie con Hegel. Come mostrato poi, l’alienazione non scompare, ma perde di centralità e viene ricontestualizzata. Inoltre, paradossalmente, l’Althusser criticissimo della sinistra hegeliana e del giovane Marx finisce per accettare da quella lettura la cosa più importante da rifiutare: la falsa interpretazione di Hegel. Come visto, Marx elabora la sua teoria scientifica proprio perché si avvicina a Hegel, non perché se ne allontana.
L’aver accettato la lettura mistificata di Hegel porta Althusser a una radicale incomprensione del progetto scientifico marxiano. Prova ne sia il fatto che egli suggerisce di partire dal quarto capitolo mettendo tra parentesi i capitoli precedenti:
Le maggiori difficoltà, sia teoriche che di altro genere, che ostacolano una facile lettura del libro I del Capitale, sono sfortunatamente (o fortunatamente) concentrate nell’apertura stessa del libro I, e precisamente nella sua prima sezione, che tratta di “Merce e denaro”.
Do dunque il seguente consiglio: mettere provvisoriamente fra parentesi tutta la sezione I, e cominciare la lettura dalla sezione II: “La trasformazione del denaro in capitale”. Si può, a mio giudizio, cominciare (e soltanto cominciare) a comprendere la sezione I, solo dopo aver letto e riletto tutto il libro I a partire dalla sezione II. Questo è più di un consiglio: è una raccomandazione che mi permetto di presentare, con tutto il rispetto che devo ai miei lettori, come una raccomandazione imperativa. Ognuno ne può fare l’esperienza pratica.
Se si comincia a leggere il libro I dal suo inizio, cioè dalla sezione I, o non si capisce, e si abbandona; o si crede di capire, ciò che è ancora più grave, perché vi sono forti probabilità d’aver capito tutt’altra cosa di quanto c’è da capire. A partire dalla sezione II (trasformazione del denaro in capitale), le cose sono luminose. Si penetra allora direttamente nel cuore stesso del libro I. Questo cuore è la teoria del plusvalore, che i proletari comprendono senza difficoltà alcuna, perché, molto semplicemente, si tratta della teoria scientifica di ciò di cui hanno quotidiana esperienza: lo sfruttamento di classe.
Questo modo di procedere è completamente sbagliato dal punto di vista scientifico, perché l’ordine dell’esposizione marxiana non è casuale: questo parte dal problema tipicamente idealista del cominciamento (c’è in Fichte come in Hegel, in forme diverse) per sviluppare dalla cellula economica fondamentale individuata (la merce) l’intero sistema a partire dalla sua intrinseca contraddizione dialettica (valore d’uso e valore). Suggerire di partire da altro che non sia questa cellula vuol dire semplicemente non avere idea di cosa Marx stia facendo. Mi si potrebbe dire che il modo di introdurre scelto da Althusser non mira a tutti, ma alla classe lavoratrice, in quanto la sezione da cui invita a partire è quella più direttamente politicizzabile, e che lui invece ha compreso Marx. A ciò risponderei dicendo che 1. se Althusser avesse realmente capito cosa sta facendo Marx, avrebbe potuto direttamente spiegarlo invece di invitare a tornare su quel passo in un secondo (improbabile) momento e 2. il Capitale di Marx non è un’opera direttamente politica, ma un modello logico ad alto livello di astrazione del funzionamento del modo di produzione capitalistico, per cui portarlo su un piano direttamente politico è una forzatura che rischia di aumentare le incomprensioni di cui Althusser sembra tanto preoccupato.
Avremo modo di affrontare il pensiero di Althusser in generale in altra sede. Qui mi è bastato mostrare che la sua interpretazione di Marx è da bocciare.
Engels: Produzione Mercantile Semplice?
Storicamente, un tipo di lettura della teoria marxiana che si è affermata nel tempo ed ha avuto grande presa è quella suggerita da Engels, esposta nella recensione a Per la Critica dell’Economia Politica:
La critica dell’economia, anche dopo che era stato acquisito il metodo, poteva ancora essere intrapresa in due modi: storicamente o logicamente. Poichè nella storia, come nel suo riflesso letterario, l’evoluzione va pure, in sostanza, dai rapporti più semplici ai rapporti più complicati, lo sviluppo storico-letterario dell’economia politica offriva un filo conduttore naturale a cui la critica poteva aggrapparsi, e in sostanza le categorie economiche sarebbero apparse anche in questo caso nello stesso ordine che nello sviluppo logico. Questa forma offre il vantaggio apparente di una maggior chiarezza, poichè viene seguita la evoluzione reale, ma in realtà essa si ridurrebbe tutt’al più a una esposizione più popolare. La storia procede spesso a salti e a zigzag, e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto, il che avrebbe obbligato non solo a inserire molto materiale di poca importanza, ma anche a interrompere spesso il corso delle idee. Inoltre non si può scrivere la storia dell’economia senza quella della società borghese, e il lavoro non sarebbe mai arrivato alla fine perchè mancano tutti i lavori preparatori. Il modo logico di trattare la questione era dunque il solo adatto. Questo non è però altro che il modo storico, unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali e perturbatori. Nel modo come incomincia la storia, così deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente conseguente, del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso stesso della storia fornisce, poiché ogni momento può essere considerato nel punto del suo sviluppo in cui ha raggiunto la sua piena maturità, la sua classicità.
Sulla base di questa metodologia, per cui la teoria non sarebbe altro che il rispecchiamento dello sviluppo storico esposto in maniera astratta (depurato cioè da contingenze), Engels ha dato l’input per un’interpretazione completamente errata del progetto scientifico marxiano, schiacciando di fatto l’esposizione storico-logica su quella storico-cronologica. La prima parte della teoria del capitale non sarebbe altro che una produzione mercantile semplice, un modo di produzione antecedente al modo di produzione capitalistico. L’approdo al capitalismo con la compravendita della forza-lavoro e lo sviluppo attraverso le differenti fasi del modo di produzione capitalistico (cooperazione semplice, manifattura, grande industria ecc.) non sarebbe poi che uno sviluppo appunto storico-cronologico del modo di produzione.
Questo modo di leggere la teoria del Capitale non ha il minimo senso, per due motivi: 1. l’incipit del Capitale recita:
La ricchezza della società, nella quale domina il modo di produzione capitalistico, si manifesta fenomenicamente come un’immane raccolta di merci; la merce singola, come la sua forma elementare. L’analisi della merce è quindi il punto di partenza della nostra indagine.
Marx parla di modo di produzione capitalistico, non di produzione mercantile semplice; 2. la produzione mercantile semplice come modo di produzione è una balla, dato che sarebbe esposto solo quello che in questa ipotesi sarebbe il momento della circolazione, mentre mancano gli altri momenti (in particolare la produzione). Il fatto è che Engels confonde la circolazione semplice (momento sì comune ad altri modi di produzione ma mai così generalizzato come nel modo di produzione capitalistico) con la produzione mercantile semplice come modo di produzione. Ciò ha prodotto anche l’interpretazione di cooperazione semplice, manifattura e grande industria come semplici fasi storico-cronologiche. Qui è solo un caso che le cose siano andate cronologicamente alla maniera in cui Marx le sviluppa nell’esposizione (che, ricordiamo, è uno sviluppo logico): quelle fasi sono forme che il processo lavorativo deve subire perché si muova conformemente al concetto di capitale, non semplici figure storiche di un modo di lavorare passato (forme di cooperazione semplice e di manifattura esistono ancora oggi).
Engels: Teoria del Valore-Lavoro?
Ma se l’interpretazione engelsiana non ha senso, allora perché egli l’ha proposta? I motivi a mio avviso sono due: egli non ha compreso la dialettica hegeliana (fra i due, è sempre stato quello che ha avuto un approccio più “storico” nello studio di determinate questioni); egli doveva risolvere una contraddizione evidente fra il primo libro del Capitale e la sua edizione del terzo libro, che come sappiamo era basata su manoscritti largamente incompleti e confusionari. La contraddizione riguarda la cosiddetta teoria del valore-lavoro: nel primo libro lo scambio avverrebbero secondo i valori lavoro mentre nel terzo (che, ricordiamocelo, è stato “scritto” da Engels) avvengono con i prezzi di produzione, per cui ci sarebbe un problema di trasformazione del valore in prezzi e la teoria sarebbe aporetica, quindi la pistola da cui dovrebbe partire “il più potente proiettile scagliato contro la borghesia” sarebbe in realtà una pistola ad acqua. La sua soluzione è questa:
In una parola, la legge del valore di Marx ha validità universale, nella misura in cui hanno validità universale delle leggi economiche, per tutto il periodo della produzione semplice di merci, dunque fino al momento in cui questa subisce una metamorfosi in seguito all’avvento della forma di produzione capitalistica. Fino a questo punto i prezzi gravitano verso i valori determinati secondo la legge di Marx e oscillano intorno ad essi, in modo che, quanto più la produzione mercantile semplice giunge a completo sviluppo, tanto più i prezzi medi di periodi relativamente lunghi non interrotti da violente perturbazioni esterne coincidono, con margini di deviazione trascurabili, con i valori. Dunque, la legge del valore di Marx ha validità economica generale per un periodo di tempo che dura dagli albori dello scambio che trasforma i prodotti in merci fino al secolo xv avanzato della nostra èra.
Engels F., Prefazione al III libro del Capitale, UTET, 2017
Engels risolve di nuovo la questione attraverso un argomento storico cronologico: nella produzione mercantile semplice gli scambi avvengono secondo il valore-lavoro, nel capitalismo bello e formato avvengono secondo i prezzi di produzione. Soluzione inadeguata, dato che invaliderebbe totalmente un bel pezzo di teoria.
Ora, noi sappiamo che la produzione mercantile semplice di fatto non esiste in Marx. Altra cosa che non esiste in Marx è proprio la teoria del valore-lavoro, perlomeno per come è stata interpretata nel dibattito tradizionale, per cui il valore di una merce si misurerebbe attraverso il tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. In questo senso, Marx sarebbe solo un perfezionatore di Ricardo, in quanto introduce la distinzione fra forza-lavoro e lavoro eliminando la tautologia di questo. Implicazioni di questa teoria sarebbero: 1. che il tempo di lavoro socialmente necessario abbia una determinazione pre-mercato; 2 che sia il puro dispendio fisiologico di energia, il lavoro in generale e non il lavoro in forma specifica, a conferire valore.
Il fatto è che Marx rigetta questa teoria molte volte, qui in particolare critica la teoria di John Gray, proprio un socialista ricardiano dell’epoca:
La dottrina del tempo di lavoro quale unità di misura diretta del denaro è stata svolta sistematicamente per la prima volta da John Gray. Questi fa accertare da una banca centrale nazionale […] il tempo di lavoro consumato nella produzione delle diverse merci. In cambio della merce il produttore riceve un certificato ufficiale del valore, cioè una quietanza per la quantità di tempo di lavoro che è contenuto nella sua merce […] Ma le merci si possono riferire l’una all’altra solo in quanto sono quello che sono. Le merci sono in modo immediato prodotti di singoli lavori privati indipendenti, i quali mediante la propria alienazione nel processo dello scambio privato devono confermarsi come lavoro sociale generale, ovvero il lavoro sulla base della produzione di merci diventa lavoro sociale soltanto attraverso la generale alienazione lavori individuali. Ma se il Gray
presuppone il tempo di lavoro contenuto nelle merci come tempo di lavoro immediatamente sociale, egli lo presuppone come tempo di lavoro comune ossia come tempo di lavoro di individui direttamente associati. Così infatti una merce specifica come loro o l’argento, non potrebbe contrapporsi alle altre merci come incarnazione del lavoro generale, il valore di scambio non diventerebbe prezzo, ma non diventerebbe neanche valore di scambio il valore d’uso, il prodotto non diventerebbe merce, e in tal modo sarebbe eliminata la base stessa della produzione borghese.Marx K., Per la Critica dell’Economia Politica, 1859, cit. in Fineschi R., Ripartire da Marx, pp. 81-82, La Città del Sole, Napoli, 2001
Lo stesso Engels, scrivendo contro il professor Duhring, critica questa teoria:
È semplicemente falso che la misura in cui ciascuno incorpora in una qualche cosa la sua forza (per attenerci a questo stile pomposo) sia la causa immediatamente decisiva del valore e della sua grandezza. Se il nostro qualcuno crea qualcosa che per altri non ha valore d’uso, tutta quanta la sua forza non crea un atomo di valore.
[…]
In Marx si tratta in primo luogo solo della determinazione del valore di merci e quindi di oggetti che, in seno ad una società costituita da produttori privati, vengono prodotti e mutuamente scambiati da questi produttori privati per conto privato. Qui dunque non si tratta affatto del “valore in assoluto”, sempre che questo possa mai esistere, ma di quel valore che vige in una forma determinata di società. Questo valore, in questa determinata accezione storica, si rivela prodotto e misurato dal lavoro umano incorporato dalle singole merci.
Engels F., Anti-Duhring, cit. in Fineschi R., Ripartire da Marx, La Città del Sole, Napoli, 2001
Fineschi poi ci fa notare come lo stesso lemma “teoria del valore-lavoro” in Marx non sia presente in un solo testo, ma sia stato coniato da Bohm-Bawerk, uno dei padri dell’economia marginalista, proprio per criticare Marx e ridurre la sua teoria a quella di Smith e Ricardo. Diciamo quindi che riferirci alla teoria di Marx usando le parole (errate) di un suo nemico non è proprio il massimo, da un punto di vista sia filologico che di onestà intellettuale.
La teoria del valore di Marx è molto più complessa ed è legata alla sua teoria di merce e denaro. Come detto prima, la merce è cellula economica del modo di produzione capitalistico, unità contraddittoria di valore d’uso, contenuto materiale, e valore, forma sociale specifica (a causa del valore, il concetto di merce non può essere schiacciato su quello di “prodotto”, concetto valido in in generale per ogni modo di produzione). Cosa si intende qui per forma sociale? Che la merce è prodotta per lo scambio, per cui presuppone una divisione del lavoro fra produttori autonomi indipendenti non autosufficienti (se un produttore producesse per proprio conto tutto ciò di cui ha bisogno e lo consumasse non avrebbe quindi prodotto una merce e tantomeno valore). Ma ciò non basta: una merce prodotta per lo scambio è merce solo potenzialmente, che si realizza come merce solo dopo lo scambio (per cui una merce portata al mercato ma non scambiata non è merce e non ha valore). Il prodotto del lavoro dei produttori è quindi immediatamente privato e solo nello scambio diviene prodotto sociale. Da questo se ne deduce che il valore non è una cosa, ma un rapporto sociale.
Al doppio carattere della merce corrisponde il doppio carattere del lavoro produttore di merci (che non coincide col lavoro in generale, presente in ogni modo di produzione). Da una parte abbiamo il lavoro concreto, che produce la merce in quanto valore d’uso; dall’altro abbiamo il lavoro astrattamente umano, che produce la stessa merce come valore. Il lavoro astrattamente umano, questo puro dispendio di energia, diviene categoria economica solo nel modo di produzione capitalistico, in quanto esprime il carattere sociale di un sistema produttivo in cui i produttori sono immediatamente privati e quindi necessitano della mediazione dello scambio per la realizzazione della socialità dei loro prodotti (se il lavoro fosse immediatamente sociale invece non ci sarebbe né valore né lavoro astrattamente umano come categoria economica).
Il valore viene ricavato da Marx astraendo dalle qualità delle merci in quanto valori d’uso, per capire cosa rende le merci commensurabili. Per cui, la merce presa singolarmente non possiede neppure un atomo di valore, che appare solo nel rapporto con altre merci. Nello sviluppo della teoria, egli distingue sostanza di valore, grandezza di valore e forma di valore. La sostanza di valore non è altro che il lavoro astrattamente umano, ricavato dall’astrazione che ho menzionato. La grandezza di valore non può che essere quindi il tempo dell’erogazione di questo lavoro astrattamente umano che è socialmente necessario a produrre una determinata merce (non si conta quindi la pigrizia del singolo lavoratore). La determinazione di questa grandezza non può però corrispondere alla sola produttività media: poiché, come abbiamo detto, la socialità della merce si manifesta nello scambio, la determinazione quantitativa della grandezza può avvenire appunto solo dopo lo scambio. Così il lavoro erogato privatamente viene confermato come socialmente necessario solo dopo la realizzazione della merce, e il lavoro socialmente necessario si pone come risultato (questo non vuol dire che il mercato crea valore: il valore viene comunque creato nella produzione, mentre il mercato determina quanto di questo valore creato si realizza come socialmente necessario). La forma di valore è invece lo svolgimento e la posizione adeguata dell’espressione di valore che avviene nella comparazione di merci. Ciò significa che il valore di per sé non si manifesta mai fenomenicamente. Vedremo in maniera più specifica nella ricostruzione del sistema marxiano i passaggi di questo concetto. Qui basta dire che essa conduce al denaro.
È ora necessario fare un’ultima distinzione, quella fra misura, misuratore e misurazione. Se il tempo di lavoro socialmente necessario è la misura della grandezza di valore, esso non può esserne il misuratore (siccome non ci è dato saperne la quantità effettivamente socialmente necessaria ex ante). Siccome la misurazione avviene ex post nello scambio, il misuratore non può che essere il denaro, perché è così che effettivamente si stabilisce quanto del lavoro erogato privatamente è socialmente necessario. La misura è quindi la dimensione obiettiva della grandezza, la misurazione l’azione attraverso la quale questa grandezza obiettiva si fissa e viene socialmente percepita a livello fenomenico e il misuratore come quell’elemento che nella misurazione permette di conoscere la grandezza obiettiva alla superficie della società.
Detto ciò, com’è possibile che si sia confusa la teoria marxiana per una teoria del valore-lavoro alla Ricardo? Il punto sta: 1. nel non aver colto la distinzione all’inizio fra merce e prodotto, lavoro astrattamente umano e lavoro in generale (quindi interpretando Marx come fautore del feticismo della merce!); 2. nel non aver distinto sostanza di valore e forma di valore, misura e misuratore; 3. nel non aver notato una particolare clausola di astrazione che Marx pone varie volte nel primo libro del Capitale. Ad esempio, capitolo III paragrafo 2:
La divisione del lavoro trasforma il prodotto del lavoro in merce, e quindi rende necessaria la sua trasformazione in denaro. Nello stesso tempo, essa rende casuale che questa transustanziazione abbia luogo. Qui, tuttavia, bisogna considerare il fenomeno nella sua purezza, e dunque presupporne lo svolgersi normale. Del resto, se esso avviene comunque, e quindi la merce non è inesitabile, la sua metamorfosi si verifica sempre, per quanto in tale cambiamento di forma si possa registrare una perdita o un’aggiunta anormali di sostanza, di grandezza di valore.
O la nota al paragrafo 2 del IV capitolo:
Dalla discussione svolta fin qui, il lettore capisce che ciò significa soltanto: La formazione di capitale dev’essere possibile anche se il prezzo delle merci è eguale al valore delle merci: non può esser spiegata con la deviazione dei prezzi dai valori. valori. Se i prezzi divergono effettivamente dai valori, bisogna prima ridurli a questi, cioè prescindere da tale circostanza come dovuta al caso, per avere davanti a sé il fenomeno della genesi di capitale sulla base dello scambio di merci allo stato puro e non lasciarsi confondere nella sua osservazione da circostanze secondarie che lo perturbano, e che sono estranee al suo vero e proprio decorso. È noto, del resto, che questa riduzione non è affatto una pura e semplice procedura scientifica. Le oscillazioni costanti dei prezzi di mercato, il loro salire e scendere, si compensano, si elidono a vicenda, e così si riducono al prezzo medio come loro regola interna. Questo costituisce, per esempio, la stella polare del mercante o dell’industriale in ogni intrapresa che abbracci un periodo di tempo considerevole. Essi dunque sanno che, considerato nell’insieme un periodo di una certa lunghezza, le merci non sono in realtà vendute né sopra né sotto il loro prezzo medio, ma appunto al loro prezzo medio. Se quindi il pensiero disinteressato fosse mai il loro interesse, dovrebbero porsi il problema della formazione del capitale così: Come può nascere capitale, se i prezzi si regolano mediante il prezzo medio, cioè, in ultima istanza, mediante il valore della merce? Dico «in ultima istanza», perché i prezzi medi non coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci, come credono Smith, Ricardo ecc.
E l’inizio della sezione VII:
La condizione prima dell’accumulazione è che il capitalista sia riuscito a vendere le sue merci e a riconvertire in capitale la maggior parte del denaro così realizzato. In quanto segue si presuppone che il capitale percorra in modo normale il suo processo di circolazione, la cui ulteriore analisi rientra nel Libro II.
[…]
Qui, dunque, presupponiamo che il capitalista produttore della merce la venda al suo valore, e non ci soffermiamo oltre né sul ritorno del capitalista al mercato, né sulle nuove forme di cui il capitale si riveste nella sfera della circolazione, né sulle condizioni concrete della riproduzione ivi implicate.
Cosa ci sta dicendo qui Marx? Che sta presupponendo che la domanda e l’offerta, produzione e consumo, si eguaglino, e che quindi tutto ciò che è prodotto viene consumato. Cosa che aveva in mente di presupporre per tutto il libro I e II del Capitale e rimuovere solo a un certo punto, cioè quando si trova a studiare la riproduzione sociale complessiva e la dinamica dei capitali. Questo presupposto fa sì che i prezzi siano regolati dai valori e che la mediazione del mercato “sparisca”.
Se quanto detto è vero, la questione della trasformazione del valore in prezzi è già esposta nel primo libro del Capitale, perché il prezzo è categoria che si sviluppa di pari passo con la merce e coincide con la forma di denaro:
L’espressione relativa semplice del valore di una merce, per esempio della tela, nella merce che funziona già come merce denaro, per esempio dell’oro, è la forma prezzo. La «forma prezzo» della tela è quindi:
20 braccia di tela = 2 once d’oro,
ovvero, se 2£ sono il nome monetario di 2 once d’oro:
20 braccia di tela = 2 lire sterline.[…]
L’espressione di valore di una merce in oro: χ merce A = y merce denaro, è la sua forma monetaria, il suo prezzo.
Marx K., Il Capitale, UTET, Torino, 2017 Capitolo I paragrafo 3C.3 & Capitolo III paragrafo 1
Resta da vedere (e lo vedremo nella ricostruzione del sistema) come la teoria sta in piedi una volta che la clausola di astrazione è tolta.
Bibliografia
- Bellofiore R. e Riva T. –La Neue Marx Lektüre (INGLESE)
- Fineschi R., Ripartire da Marx, La Città del Sole, Napoli, 2001
- Fineschi R., Marx e Hegel, Carocci, Roma, 2006
- Fineschi R., Un Nuovo Marx, Carocci, Roma, 2008
- Fineschi R. –Ripartire da Marx (Ciclo di Video per Noi Restiamo)
- Marx K., Il Capitale, UTET, Torino, 2017
- Musto M., Karl Marx. Biografia Intellettuale e Politica 1857-1883, Einaudi, Torino, 2018
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