I vantaggi sistemici di Donald Trump. Parte finale

— Andrea C. ed Emanuele

Continua I vantaggi sistemici di Donald Trump, per la prima parte, disponibile qui.

3. La forza di Trump: la fedeltà della propaganda repubblicana

Il 27 settembre, il New York Times ha pubblicato, dopo anni di speculazioni, la dichiarazione dei redditi di Trump.
Ciò che che questi inediti documenti hanno rivelato è sconcertante: il miliardario ha pagato 750$ in tasse sul reddito nel 2016, e altri 750$ nel 2017. In 10 degli ultimi 15 anni, non ha pagato un solo dollaro. Trump avrebbe 3,5 miliardi di dollari in asset, ma sarebbe indebitato di oltre 1 miliardo di dollari, e molti di questi debiti scadranno già nei prossimi 2 anni. Inoltre, la maggior parte delle principali imprese di Trump perdono milioni, se non decine di milioni, di dollari ogni anno.

Il profilo che ne viene fuori, al contrario della figura di sé stesso che Trump ha ritagliato nel corso degli anni e che costituisce il fondamento del carisma di cui si fregia per la base, è quello di un businessman fallito, che rischia di perdere centinaia di milioni nei prossimi anni, insieme a varie proprietà. Questo giustificherebbe in gran parte la riforma fiscale da lui voluta nel 2017, volta a favorire solamente i più ricchi (a discapito di tutti gli altri, nel breve o nel medio termine). Trump non ha usato la presidenza per fare soldi solo perché è un uomo avido e moralmente corrotto come ogni buon capitalista. Lo ha fatto anche per evitare un imminente disastro finanziario. Deve assolutamente farlo se vuole evitare di rimanere profondamente impoverito nel giro di pochi anni. 

Non solo. Come riportato da The Intercept , Trump dopo la presidenza rischia di essere incriminato per tutta una serie di crimini legati alle sue attività commerciali.
Queste includono frode fiscale, frode assicurative, frode bancaria, corruzione e ostruzione alla giustizia. Attualmente Trump è protetto dal ruolo di presidente che ricopre, e l’unico processo di carattere legale che si potrebbe compiere nei suoi confronti è il processo di impeachment; tale processo è avvenuto già lo scorso anno e lo ha visto ovviamente venire salvato dai repubblicani in senato, qualcosa che non cambierebbe se dovesse avvenire di nuovo. Un’altra soluzione è quella di auto-concedersi la grazia presidenziale, un atto che non è mai stato svolto e sulla cui legalità si è ancora incerti, ma che comunque si applicherebbe solamente per i crimini federali. Per questi motivi, Trump è in una posizione in cui ha moltissimo da perdere, se dovesse venire sconfitto in queste elezioni, e questo lo rende pericoloso e pronto ad usare ogni mezzo legale e non per assicurarsi il potere. 

Ovviamente, benché le informazioni rivelate dal NYT hanno avuto rilevanza planetaria per giorni, tutto questo non ha smosso la base di Trump di un centimetro. Anzi, se possibile, l’ha ancora più fidelizzata, siccome la propaganda culturale e mediatica dei conservatori americani è una macchina, per quanto fallibile, efficacemente funzionante nella costruzione e nel mantenimento del consenso, almeno a breve termine. La forza di questa macchina propagandistica è innegabile. Se Biden è visto come un candidato con un deficit di entusiasmo, quello che Trump ha sviluppato con la propria base repubblicana è un vero e proprio culto della personalità, con sondaggi che rivelano un supporto equivalente a più dell’80% della base repubblicana. Questo gli ha permesso di vincere le primarie interne del partito senza nessuna opposizione efficace. 

Questo supporto così travolgente non si è fatto da solo. Esso è il prodotto di una costante ed efficace propaganda repubblicana promossa da una rete di media di destra sviluppatasi negli Stati Uniti nel corso di decenni. Questa rete è il vero mainstream media statunitense, come è visibile dai record storici ottenuti da Fox News (che merita un capitolo a parte, ed è quindi nel capitolo successivo) in termini di visualizzazioni. L’attenzione mediatica dei media mainstream di destra è volta a rafforzare e mitizzare la personalità del presidente, riaggiustando teorie del complotto e varie mistificazioni della verità. 

La propaganda repubblicana ha elaborato una narrazione da terrore rosso contro il passivo establishment democratico e il candidato presidente Biden, approfittando della crescita graduale della sinistra del partito – che però è ridotta al ruolo di eterna minoranza interna del partito. Per i repubblicani, dunque, Biden è una sorta di marionetta di Sanders, il senatore socialdemocratico del Vermont che lo ha sfidato alle primarie, in un’evidente evocazione di Grande Manovratore occulto, che non può non ricordare la propaganda antisemita, dal momento che Sanders è di ascendenza ebraica. 

Sempre secondo la propaganda repubblicana, le fazioni più violentemente conservatrici d’oggi e fasciste del passato sono considerate gli unici eredi della “vera anima” della nazione e relativa tradizione culturale, in quanto non corrotta dalla “morbidezza” e presunta irresolutezza delle altre parti politiche. Ad esempio, i fascisti italiani sono gli unici che possano dirsi italiani in quanto fanno riferimento, nella loro grandiosa retorica passatista, all’autentica eredità della Roma imperiale; i nazisti sono gli unici che possano dirsi tedeschi, dal momento che traggono spunto dalla virtù archetipa e gerarchica del clan germanico dell’antichità o del Reich più o meno recente; i veri americani sono i suprematisti bianchi, cristiani e anglo-germanici, in quanto eredi dei fondatori mitici della nazione. Da ciò il concetto della “maggioranza silenziosa” coniato da Nixon (altro esempio illustre della morale di Trump), per cui “i veri americani”, tutti, sono col presidente e sono il “vero popolo”. 

Il ragionamento sotteso è pressappoco sulla stessa linea di quello di Sallustio nel suo Sulla congiura di Catilina, che però è intenzionale: per indicare i congiurati, tutti giovani della miglior aristocrazia romana, che attentano alle istituzioni della Repubblica, l’autore latino utilizza la parola hostes, ovvero i nemici stranieri, senza alcun legame con la patria, invece di inimicus, che invece è l’avversario interno ma che comunque rimane un cives-cittadino con cui è possibile relazionarsi. Ecco, l’America spaccata, si saprà dopo il 3 novembre quanto a metà, sono due patrie per una nazione, e i filo-democratici, centrodestra liberale che per costrizione storica contiene in sé un’eterna minoranza di sinistra, sono ritratti come intrinsecamente corrotti, quindi deboli, ma allo stesso tempo potenti come nemico, che possono minacciare l’America.

Questo processo di radicalizzazione ha raggiunto il suo apice con la nascita del culto denominato QAnon.
QAnon è un culto fascista biblico-esoterico apocalittico  che sostiene che Q, un membro anonimo segreto dell’amministrazione Trump, stia rilasciando una serie di dettagli top secret (denominati QDrops) per i suoi “Patrioti” (così si definiscono i credenti di questo culto) che rivelerebbero che i nemici culturali e politici di Trump (ovvero rispettivamente le elite di Hollywood ed il cosiddetto deep state, l’immaginario stato segreto che lavora dietro le tende per governare gli Stati Uniti) facciano parte di un gruppo segreto i cui membri sono pedofili che venerano Satana e praticano il traffico di bambini al fine di abusare di loro, stuprarli e ucciderli al fine di bere il loro sangue contenente adrenocromo (un prodotto dell’adrenalina), che agisce come una droga, durante i loro riti satanici.

QAnon non è una teoria coerente, ma un insieme di teorie complottiste che si sono fuse in un culto unico, che le abbraccia tutte. Alle teorie complottiste dell’estrema destra statunitense del deep state e del pizzagate, si sono unite quelle dei no-vax e degli anti-5G, insieme ad elementi di teorie antisemite alla base dei gruppi neonazisti (tra tutte, i Protocolli dei Savi di Sion insieme all’idea del “Giorno della Resa dei Conti” dei Diari di Turner, un libro popolare nei circoli online neonazisti), insieme a quelle apocalittiche degli evangelici che vedono l’Apocalisse come imminente. A tutto questo, va unito un odio profondo per le elite finto-progressiste. Il prodotto è un culto totalmente incomprensibile a chiunque non ne abbia mai sentito parlare, fortemente sconnesso e privo di alcuna coerenza interna, il cui collante è un senso di appartenenza ad una comunità di eroi-patrioti e la totale, assoluta fedeltà nei confronti di Trump.

La portata internazionale del culto è emersa con le proteste a Berlino contro le mascherine e le misure di prevenzione: moltissimi erano i riferimenti non solo a quello percepito come “passato illustre” nazionale, ma anche agli Stati Uniti e alla Russia di Vladimir V. Putin. Una vera contraddizione in termini storici, bandiere del Reich, a stelle e strisce e il tricolore panslavo a sventolare insieme, tutti però fusi dalla Q fiammante, simbolo del composito universo di complotti, e nuovo terreno fertile per l’estremismo di destra.

I proseliti in Europa e nel mondo extra-statunitense, dunque, si sono visti ingrossare di numero in coincidenza con i periodi peggiori della pandemia, e un servizio della CNN tentava di individuare, attraverso sistemi di ricerca interni di Facebook, la diffusione e popolarità del messaggio e della costellazione di gruppi QAnon, che non sono coesi e coerenti, bensì si coalizzano e “territorializzano” sempre però a livello informatico.
Qualsiasi tentativo da parte di Facebook e Twitter di fermare hashtag, account e gruppi legati a QAnon non hanno fatto altro che rafforzare  il culto e radicalizzare i suoi seguaci. L’FBI li ha già classificati come una minaccia e atti di violenza sono già stati portati avanti dai sostenitori di QAnon.

Questo culto è stato velocemente adottato dalle frange più radicali dei Repubblicani:
una dirigente d’azienda e supporter di QAnon, Marjorie Taylor Greene, è diventata la nominata repubblicana per il 14esimo distretto congressuale dello stato della Georgia, e ha già ricevuto donazioni dalla House Freedom Fund e da altri donatori del GOP. Non avendo alcuno sfidante democratico, Greene diventerà parte della Camera dei Rappresentanti il prossimo anno, il 3 gennaio. Ha ricevuto congratulazioni e complimenti da alcuni dei più importanti rappresentanti del partito Repubblicano, incluso Trump stesso.
Sempre lo stesso Freedom Fund ha supportato e donato ad altri candidati vicini al culto QAnon, come Lauren Boebert e Burgess Owens.  

4. Fox News e aspiranti eredi; un assaggio di informazione divenuta propaganda

La rete d’informazione più celebre del circuito della destra americana è indubitabilmente Fox News. Ovviamente, di quest’emittente televisiva la cosa che attira di più le critiche e i giornalisti sono le inappropriate e ferine grida dei presentatori e degli ospiti, dei giornalisti che ci lavorano e di tutta quella narrativa che ne promana. Ma della famiglia proprietaria, particolarmente influente siccome vive di Fox News, le menzioni sono rarissime. Fox News era l’emittente della 21st Century Fox che faceva a capo dell’impero mediatico di Rupert Murdoch, ma, indebolita dallo scandalo gravissimo di spyware nei telefoni delle celebrità per reperire fonti di informazione esclusive, in cui rischiava di finire sotto l’attenzione dell’antitrust britannico e australiano, la multinazionale di Murdoch ha stipulato lo smembramento della 21st Century Fox consegnando alla Disney gli studios e il 71% della proprietà, e fondando con le emittenti televisive che ne componevano il 39%, in cui Fox News è la punta di diamante, la Fox Corporation. Al di là della questione proprietaria, è interessante vedere come Murdoch, trentaquattresimo miliardario più ricco d’America e trentacinquesima persona più potente al mondo, abbia appoggiato diverse fazioni politiche nella sua lunga carriera come barone mediatico. 

Infatti, fin dalla natia Australia in cui possedeva gradualmente le maggiori testate del paese, ha appoggiato dapprima i nazionalisti fungendone da cassa di risonanza, poi i laburisti una volta ottenuto il potere, e infine i liberali. Il supporto politico che però gli ha permesso di costruire questo potente impero mediatico è stato verso Margaret Thatcher, siccome, in cambio del sostegno durante gli undici anni alla guida del paese, non ha avvertito, anche se avrebbe dovuto, l’antitrust dell’acquisizione di diversi quotidiani britannici da parte del miliardario australiano. Dopo di lei, Murdoch ha supportato Blair, incoraggiando la centrificazione del Labour, per poi tornare ai Conservatori sostenendo invece Cameron, al quale ha regalato un jet privato e con cui sono trascorse molte riunioni di fatto segrete.

Ma la vera commistione e influenza con la politica è avvenuta invece nella “land of the free”, di cui Murdoch ha acquisito la cittadinanza negli anni Ottanta per poter effettivamente comprare e disporre dei media americani. Qui, a partire da Los Angeles, ha costituito un vero e proprio impero delle comunicazioni, la News Corporation, parallelo alla holding Sky, sempre di sua proprietà, in cui ha assorbito varie testate americane (New York Post, The Boston Herald, Wall Street Journal con l’acquisto del Dow Jones & Co.), parte del South China Morning Post, e ovviamente 20th Century Fox. Fin dagli anni Ottanta, dunque, il sostegno politico delle reti di proprietà di Murdoch sono state sostanzialmente filorepubblicane, iniziando col padre del neoliberismo politico: Ronald Reagan, favorendogli la vittoria nello stato di New York, che perciò rinunciò alla proposta di divieto di possedere sia media cartacei che televisivi; poi, supporto mai esplicito o coinvolto, ma Fox diventa dal 2002 il canale di notizie televisive più visto negli Stati Uniti , sorpassando la CNN.

Murdoch e Trump, per quanto privatamente abbiano una bassa opinione dell’altro, sono di origini molto simili, entrambi eredi di una proprietà relativamente piccola che è divenuta – con maggior successo dell’australiano, in realtà – una holding affaristica di primo piano. E mediaticamente sono l’uno il successo dell’altro: Trump ha bisogno dei media conservatori per il sostegno politico, ma Murdoch ha bisogno di Trump per mantenere un volume di visualizzazioni e pubblico che vale miliardi di dollari.

Tuttavia Murdoch, al contrario di Trump, pur promuovendo per ragioni economiche un messaggio sempre più conservatore nei propri media e facendo della paura un modello commerciale poiché voleva infrangere l’oligopolio liberale delle tre maggiori reti televisive, American Broadcasting Company; Columbia Broadcasting System; National Broadcasting Company, ha supportato Obama per le proprie posizioni sull’immigrazione, su Israele e sul ruolo geopolitico degli Stati Uniti. Ciò non ha tolto che, col consolidarsi delle apparizioni di Trump su Fox fin dal 2011 come ospite, abbia sostanzialmente creato l’audience perfetta per un personaggio come Trump, senza alcuna ideologia se non quella dei propri interessi personali. E quando the Donald è divenuto presidente, tra Fox News e la Casa Bianca c’è stata una fortissima commistione di personale, nulla di più vicino a un canale di propaganda a ciclo continuo. 

L’ex co-presidente di Fox News, Bill Shine, nel 2018 è diventato direttore delle comunicazioni e vicedirettore dello staff alla Casa Bianca. L’ex collaboratore di Fox News Bill Carson ha assunto la carica di Segretario dello Sviluppo Abitativo e Urbano; l’ex commentatore di Fox John Bolton è stato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, con un altro commentatore di Fox, Kathleen T. McFarland, come vice, che però si è dimesso dopo quattro mesi; mentre nel 2019, Trump ha nominato l’ex presentatrice di Fox News Heather Nauert come Ambasciatrice alle Nazioni Unite, ma anche lei si è dimessa. Allo stesso tempo, Hope Sicks, predecessore di Shine come direttore alle comunicazioni, è passato al ruolo di alto funzionario per le relazioni pubbliche alla Fox Corporation, e molti altri che han lasciato la Casa Bianca appaiono frequentemente sul canale di Murdoch.

Se però Trump è stato creato da Fox News, la Fox News attuale è stata plasmata da Trump: via via che si consolidava il suo potere sia come candidato alle primarie repubblicane sia come presidente, moltissimi conservatori e repubblicani che lo osteggiavano in seno al partito sono stati ostracizzati dalla rete televisiva più vista d’America. Come The New Yorker cita, l’editorialista conservatrice Jennifer Rubin, che prima partecipava frequentemente alle trasmissioni di Fox, afferma: «Fox era iniziata come uno sforzo in buona fede per contrastare la distorsione liberale [liberal bias], ma è tramutata in qualcosa che non è nemmeno informazione. […] È semplicemente un portavoce del presidente, che ripete ciò che il presidente dice, a prescindere che sia falso o contraddittorio». Ma alla fine, anche Trump vive nell’universo di Fox News: ai dibattiti presidenziali le sue dichiarazioni sono apparse senza senso a tutti fuorché a coloro, milioni, che hanno contatto o che vivono dentro la bolla informativa costruita dall’emittente di destra, e da tutto quell’universo che in questi quattro anni è diventato la vera ideologia dominante, la vera opinione mainstream. A conseguenza di ciò, i Murdoch sono responsabili come Trump di migliaia di morti  dovuti a una continua e martellante diffusione di notizie false sul covid19 e sulla pandemia mondiale, che hanno impresso la linea presidenziale.

Ad ogni modo, così come Fox News è diventato praticamente una rete ufficiale, una piccola rete televisiva ancora più radicalmente ortodossa, apologetica e contraddittoria per il sostegno a Trump sta ricevendo sempre più attenzione: si tratta di OAN, One America Nation (Network), che quanto a proclami e audience deve tutto all’attuale presidente. Questa sorta di Radio Erevan in versione San Diego è cresciuta col presidente, che in quest’ultimo anno l’ha citata più frequentemente rispetto a Fox News. Infatti, se la rete di Murdoch ha ben presente che deve mantenersi anche dopo un’eventuale uscita di scena del presidente, e quindi ha ricominciato a porre delle timide e rare quasi-critiche – sempre però dall’angolazione conservatrice –, OAN fa parte invece di un vero e proprio network mediatico dell’estrema destra a sostegno del presidente, rappresentandone la trasmissione televisiva a fronte di altre pagine che si occupano della comunicazione nelle reti digitali, e così via. Particolare è, infine, il trattamento dei giornalisti: Fox News e OAN hanno la precedenza in qualsiasi conferenza stampa, e anche prima, nei colloqui direttamente col presidente.

Allo stesso tempo, si è creata una rete, a suon di finanziamenti da parte di miliardari conservatori, di pubblicazioni locali, mantenibili per il basso costo di personale, dal momento che gran parte degli articoli sono scritti da un programma. L’esempio maggiore è la rete di Brian Timpone, che ha oltre 1200 siti di notizie locali perfettamente accessibili, gratuiti per l’utente e copiosamente finanziati da dei donatori che di fatto si creano propaganda. Questo deterioramento dell’informazione provoca un grave problema: da parte liberale e socialista non ci sono effettivamente dei miliardari disposti a spendere soldi senza ritorno se non di consenso per le proprie attività e i propri interessi. Perciò, tali giornali e siti d’informazione sono costretti a innalzare i cosiddetti paywall, ovvero a far pagare per accedere agli articoli. Un’attività che limita notevolmente l’area di influenza e di diffusione delle informazioni, e che quindi lascia campo libero ai siti gratuiti dei conservatori, oltre le mura. Di conseguenza, le piccole testate e i piccoli siti d’informazione devono adattarsi in nuove formule per poter sopravvivere, perché sì da un lato ci sono dei giornalisti da mantenere, ma dall’altro l’informazione dev’essere gratuita se si vuole sia efficace e diffusa. È un problema democratico, perché frappone un diaframma informativo rispetto alla realtà e di fatto lascia in mano alla propaganda spicciola milioni di persone (che in Italia si potrebbe risolvere col finanziamento pubblico ai quotidiani).

La conseguenza di tutto questo è una base elettorale inamovibile e fanatica, il cui supporto è garantito e che è pronta a ricorrere alla violenza per far vincere il proprio presidente. Tale base riceve le proprie news da una rete di media di destra ramificati e ben finanziati da ricchi conservatori (siano essi i Koch o i Murdoch). I media stessi agiscono, come abbiamo visto nel caso di Fox News, in parallelo all’amministrazione Trump, la quale basa il proprio supporto sulla propria base estremista. Questo crea un circolo vizioso che porta ad una progressiva radicalizzazione di tutto questo complesso sociale, come dimostrato da un nuovo studio del V-dem Institute , che afferma come l’attuale Partito Repubblicano abbia raggiunto posizioni ideologiche equiparabili all’AKP di Erdogan, al BJP di Modi ed al Fidesz di Orbán. Questa tendenza alla radicalizzazione era presente ben prima di Trump; quest’ultimo l’ha accelerata e le ha conferito quella serie di idee che prendono il nome di Trumpismo. Una cosa è comunque certa: il Trumpismo è qui per restare, indipendentemente dalla volontà dei democratici di ritornare alla “normalità”.

5. La forza di Trump: la debolezza dei democratici

Questa, a pensarci, avrebbe dovuto essere un’elezione particolarmente facile per i democratici. Nel 2016 Trump venne eletto nel nome dell’anti-establishment e di una risposta reazionaria da parte dei repubblicani nei confronti di tutto l’establishment liberale, che aveva abbandonato la base tradizionalmente democratica dei colletti-blu, gli operai nella Rustbelt. Niente di anti-establishment è avvenuto realmente. Trump è attualmente il presidente con alcuni degli indici di gradimento più bassi dal dopoguerra. Non solo questo, ma meno di un anno fa è avvenuto un processo di impeachment, miseramente fallito, nei suoi confronti; i punti di forza con cui contava di vincere le elezioni – in primis, un’economia “forte” e una bassa disoccupazione – sono completamente crollati sotto la sua disastrosa gestione della pandemia del coronavirus. L’economia è a pezzi, così come la safety net Americana; decine di milioni di individui sono senza lavoro, ed i Repubblicani non hanno alcuna proposta legislativa da parte loro per risolvere alcuno di questi problemi, a parte i soliti tagli alle tasse, perché per quanto problematica la situazione, tutto sta andando come vorrebbero.

Gli unici che hanno una soluzione a tutto questo erano i progressisti, e infatti si è visto dalle sorprendenti vittorie che i socialisti hanno ricevuto a livello locale, in particolare a New York, dove c’è stata una vera e propria ondata rossa, socialista e non repubblicana. Ai democratici basterebbe anche solo adottare una delle proposte dei progressisti, che sono ritenute sia necessarie, sia amatissime dalla base , come abbiamo visto per il medicare for all nella prima parte supportato dal 68% degli americani fra cui dal 46% dei repubblicani, o come è per l’abolizione del debito scolastico: il 58% degli americani è a favore della gratuità del college  e dell’annullamento del debito scolastico finora sostenuto da migliaia di famiglie. Fra le altre cose, è da sottolineare come il supporto sostanziale per un’assicurazione sanitaria nazionale praticamente uguale alle proposte di medicare for all era una rivendicazione normale nei programmi del partito Democratico dagli anni Trenta agli anni Ottanta . Quello che i democratici hanno deciso di perseguire invece è una strategia basata sul fallimento repubblicano, ovvero: nessuna proposta significativa, ma la convinzione di vincere basata esclusivamente sull’odio che l’americano medio prova per i Repubblicani. In questo modo, i democratici centristi possono permettersi di rifiutare qualsiasi proposta legislativa indipendentemente da quanto sia supportata, e ottenere comunque una vittoria senza concedere nulla a nessuno. È un atteggiamento moralmente corrotto, estremamente cinico ed è per questo motivo che i Democratici, nonostante i sondaggi, non hanno inserito il medicare for all nella loro piattaforma ufficiale, ma solo concessioni minori.

Questo atteggiamento permette di concedere qualsiasi proposta legislativa ai “populisti”, ma nei confronti dei Repubblicani i democratici hanno al contrario sviluppato una vera e propria cultura di appeasement nei loro confronti. Infatti,  i democratici non conducono una narrativa antitetica a quella di Trump e del suo discorso sullo Stato dell’Unione, ma semplicemente si limitano a puntualizzare che le cose sono false, non propriamente vere, senza una visione alternativa che possa autenticamente trasportare il consenso fuori dai media dominanti conservatori. Nancy Pelosi e il suo strappo del discorso di Trump dopo averlo applaudito riassume la performatività dell’opposizione democratica: una farsa di opposizione debole e semplicemente estetica, senza una reale contrapposizione in termini ideologici e di visione del mondo. Non a caso il candidato democratico è Biden, che alle primarie è stato letteralmente giustapposto dalla dirigenza del partito, un democratico che ha sempre spinto al fine di fare concessioni ai repubblicani ed alla loro base, sin dalla sua prima corsa in Senato, che ha votato spesso come un repubblicano e che ha supportato presidenti repubblicani particolarmente indigesti, come Reagan e Bush.

Joe Biden, l’uomo dei democratici, in questo anno di campagna elettorale ha avuto modo di ripulirsi quarantasette anni di scabroso e disonesto comportamento politico. Come scrive un reportage di Current Affairs, il senatore del Delaware, nelle istituzioni fin dal 1973, si trova sistematicamente all’opposto di tutte le riforme  e le rivendicazioni democratiche degli ultimi quarant’anni, e anche quando proponeva o scriveva leggi, ha sempre sostanzialmente remato contro gli interessi del popolo statunitense.

Sulla questione sanitaria, di cui abbiamo avuto modo di scrivere nella prima parte, Biden si è sempre opposto a una riforma che permettesse l’accesso gratuito alle cure per milioni di americani: anche come vicepresidente – il cui ruolo era quello di rassicurare le istituzioni finanziarie che la presidenza Obama non avrebbe intaccato i loro privilegi –, il signor Biden invocava le ragioni del mantenimento del bilancio, sostenendo che il medicare for all sarebbe stato costoso e avrebbe raddoppiato il bilancio federale, esattamente come la propaganda repubblicana. Ciò ovviamente è falso. Allo stesso tempo, l’attualmente settantaquattrenne candidato alla presidenza ha avuto modo nella sua lunga carriera di lanciarsi in pericolosissime offensive contro la Social Security, ovvero il programma di assistenza welfare per anziani e disabili, e che ha tentato di scardinare pure sotto la presidenza Obama e nel 2018. La giustificazione è sempre la stessa dal 1984: serve congelare, comprimere la spesa federale, sposando in pieno l’ideologia reaganiana.

«Quando ho affermato che dovremmo congelare la spesa federale, intendevo anche la Social Security – disse al Senato nel 1995. – Intendevo il Medicare e il Medicaid. Intendevo i sussidi ai veterani. Intendevo ogni singola cosa nello stato. E non ci ho provato solo una volta, ma due volte, tre volte, e ci ho provato una quarta volta»

Il “candidato decente” fin troppo tranquillo contro Trump sposa né più né meno le stesse precise posizioni neoliberali contornate da un’aura di saggia tecnocrazia. D’altra parte, con la vittoria al Super Tuesday alle primarie democratiche, le assicurazioni sanitarie hanno visto salire vertiginosamente i propri stock azionari, a dimostrazione che ciò che importa sono i soldi e non le persone, e vista l’uscita di scena di Sanders dalla corsa presidenziale, non c’è più qualcosa che possa fermare il vampiresco travaso di soldi dai malati e disabili verso le alte sfere della finanza.

La fedeltà di Biden nei confronti delle grandi corporation è stata confermata più volte. Infatti, anche se a parole, e per strizzare l’occhio all’elettorato più progressista, si è dichiarato contro il lobbismo, lo staff di Joe Biden è composto da personaggi iscritti ai registri statali di pressione da parte di alcune aziende, come molti altri candidati democratici con l’eccezione di Warren e Sanders: Kenneth Jarin, che con Ballard Spahr lavora per conto dei gestori dei pedaggi Conduent e interessi di aziende sanitarie; Alan Kessler che lavora con l’azienda Duane Morris, per l’American Airlines e l’Unisys Corps, un’azienda di telecomunicazioni e informatica che lavora per diverse multinazionali e governi. In un evento questo luglio ha promesso ad alcuni influenti finanziatori di Wall Street che non proporrà alcuna legislazione contro le corporazioni e già l’anno scorso assicurò sempre agli stessi individui che una volta che sarebbe divenuto presidente, nulla sarebbe cambiato  per loro.

Sulla politica estera, vediamo che il voto del senatore del Delaware si è rivelato decisivo per promuovere le ultime scampagnate militari che hanno ucciso milioni di persone; fra tutte, la guerra in Iraq contro Saddam Hussein. Fervente sostenitore del fatto che Saddam avesse armi di distruzione di massa, non ci ha pensato due volte a supportare la presidenza – repubblicana – Bush per impelagarsi in uno dei conflitti più cruenti che gli SSUU abbiano mai intrapreso dopo la Guerra di Corea. Joe Biden ha sulla coscienza milioni di morti, e un repentino cambio d’opinione nel 2004 quando la guerra irachena è divenuta più odiata che ammirata dagli americani. Ha supportato i cruenti bombardamenti della Jugoslavia nel 1999, ha votato per la guerra in Afghanistan nel 2001 e nel 2009, e voleva persino un intervento americano nel conflitto in Darfur nel 2007. È dalla guerra in Iraq, però, che ha dovuto seguire l’opinione pubblica, e quindi dirsi anti-interventista, ma l’anima imperialista dovuta al surplus produttivo dell’apparato militar-industriale è rimasta: Biden è la mente del “controterrorismo” dell’epoca di Obama, ovvero i bombardamenti coi droni e la rinnovata Blitzkrieg dei commando speciali.

Ora un’occhiata ai diritti civili, primi fra tutti l’aborto e il sistema legale. Biden si è sempre dichiarato un rigido antiabortista, considerando fin dagli anni Settanta che non crede che le sole donne abbiano il diritto di dire cosa debba accadere al loro proprio corpo, ma anche si è prodotto in varie votazioni che permettessero ai singoli stati di rovesciare la sentenza della Corte Suprema che dichiara l’aborto un diritto federale. Perciò, se in diversi stati dell’Unione le donne non possono abortire o sono costrette a itinera insostenibili psicologicamente ed economicamente, lo si deve anche a Joe. 

Sulle carceri e quella che viene eufemisticamente chiamata «lotta al crimine», il senatore della costa atlantica si dichiara tanto duro quanto i repubblicani. Grazie a una serie di leggi bipartisan, firmate da lui e da vari senatori repubblicani, il sistema carcerario americano è uno dei più duri al mondo, con 2,2 milioni di incarcerati, l’aumento dei reati per cui è adottabile la pena di morte, la confisca dei beni per i rei sospetti senza ulteriori accertamenti, e l’abolizione del diritto alla bancarotta per gli individui, che quindi sono costretti a ripagare col carcere i debiti artificiosamente necessari per vivere.

Biden ha promosso attivamente la costruzione dell’attuale Stato di polizia dal 1993 , lo stesso che viene contestato dalle rivolte BLM e dalla base del partito Democratico. Ha permesso alla polizia di presentare in tribunale prove ottenute illegalmente, ha aumentato i requisiti possibili perché un detenuto possa richiedere l’habeas corpus, ovvero la scarcerazione per inconsistenza dell’accusa. Ha votato a favore della legge Antiterrorismo ed Efficace Pena di Morte del 1996 dall’allora candidato repubblicano alla presidenza Bob Dole, che infine ha ridotto del 40% la possibilità di rovesciare la condanna capitale. Ha votato a favore del Patriot Act del 2001, basato su una legge scritta da lui nel 1995, che ha sancito la definitiva militarizzazione delle forze dell’ordine, la possibilità di intercettare telefonicamente sia in patria che all’estero senza il mandato di un tribunale, ha ampliato la serie di reati definibili come terrorismo e ha inasprito le pene contro il terrorismo, violando in definitiva i diritti umani a un processo equo. Tuttavia, nonostante poi altri voti fedelmente repubblicani tanto che nei primi Duemila aveva un tasso di posizione del voto paragonabile ai repubblicani “moderati”, Biden si lava nel 2005-06 come un animato sostenitore delle libertà civili, cavalcando l’onda di qualsiasi cosa che potesse essere politicamente vantaggioso. 

Joe Biden (dx) e il fu senatore McCain (sx), candidato repubblicano alle presidenziali del 2008

Infine, l’immigrazione e il cambiamento climatico. Sulla prima, Biden come vicepresidente di Obama porta sul groppone le stesse accuse che si possono fare a Trump; come la separazione delle famiglie, con campi di concentramento per i bambini, l’internamento degli immigrati clandestini, lo strapotere dello stesso ICE che ora sterilizza con l’isterectomia involontaria le donne latinoamericane e gestisce campi che ricordano il pittoresco modello Theresienstadt degli anni Trenta. In sostanza, nulla di diverso per i milioni che ora soffrono dietro le sbarre, o perché sono nati troppo a sud, o perché vengono accusati di crimini ri-penalizzati da un Joe che non sembra troppo addormentato.

Il cambiamento climatico è stato accettato da Biden solo come dato di fatto, realtà incontrovertibile ma di cui non curarsi nemmeno troppo, siccome parte sostanziosa dei suoi donatori sono di compagnie petrolifere e raffinerie d’idrocarburi . Il suo consulente per il clima è un ex-consigliere per un’azienda metanifera, uno dei suoi finanziatori è cofondatore di un’altra azienda di idrocarburi, così come il Supercomitato per l’Azione Politica pro-Biden annovera molti ex-lobbisti del gas: insomma, Biden e la sostenibilità ambientale viaggiano su due binari divergenti, dal momento che per combattere il cambiamento climatico, si deve contrastare l’influenza e la potenza di fuoco delle aziende che lo provocano in massima parte, ovvero quelle di estrazione degli idrocarburi. E infatti, la candidata vicepresidente Kamala Harris è intervenuta proprio in difesa del fracking , una delle attività più inquinanti di estrazione del petrolio, scisto, dal momento che libera in atmosfera non anidride carbonica, ma metano, che è molto più climalterante.

Joe Biden e il suo atteggiamento complice con Wall Street e i Repubblicani è lo standard del partito democratico, il quale è pervaso da una cultura di appeasement nei confronti dell’establishment, se non una totale subordinazione. Se la riverenza nei confronti di Wall Street può essere vista come il prodotto di un partito corrotto economicamente, quella nei confronti dei Repubblicani è una cultura “da West Wing” (dal nome della serie TV di Sorkin ambientata nella Casa Bianca ed amatissima dai liberal ) una cieca credenza che il sistema lavora alla perfezione e chiunque non agisca in buona fede è destinato ad essere screditato e perdere, poiché la struttura istituzionale è perfetta e si auto-corregge al fine di eliminare ogni membro che non partecipi in maniera “corretta” al processo. Il compromesso è inevitabile, pena il suicidio politico, e desiderabile, perché ogni membro agisce sempre in buona fede e di conseguenza ogni dialogo non può che produrre un output positivo; le differenze sono viste più come il prodotto di incomprensioni, che vere e proprie differenze ideologiche. Nessuno ha obbedito più a questa cultura liberale degli Obama: Michelle Obama disse “Quando loro volano basso, non voliamo in alto”, una frase che mostra un risoluto impegno ad obbedire al processo ed al sistema, con la convinzione assoluta che ciò non può che portare alla vittoria. Obama tentò per tutto il corso della presidenza di scendere a compromessi coi Repubblicani, anche quando poteva benissimo evitarlo, per il semplice fine di presentarsi come un presidente di tutti gli Americani, come delineato da Nathan Robinson attraverso un’analisi dei suoi discorsi.

Ma tutto questo non fa altro che favorire i Repubblicani , che hanno abbandonato il rispetto delle norme democratiche e ogni tentativo di partecipare in buona fede al processo, come mostreremo nel dettaglio nella sesta sezione.   

La grande inazione del partito Democratico, e la sua riconferma come forza istituzionale conservatrice dello status quo, rende ancora più possibile la sconfitta elettorale a fronte di una macchina repubblicana altamente efficiente, per quanto altrettanto conservatrice e bieca, siccome non vuole far forza sull’elettorato giovane e sui lavoratori salariati, ma mira all’ennesima riproposizione di un candidato che ha fatto della debole decenza lo stendardo principale. Ma non è a decenza che si vincono le elezioni e si cambia un paese in una direzione degna ed equilibrata, né si vincono le elezioni integrando nel proprio partito quegli esponenti repubblicani allontanati dalla linea autoritaria del GOP attuale, e che hanno contribuito a creare l’humus a cui Trump deve il proprio successo.

6. La forza di Trump: la tattica elettorale repubblicana

C’è ovviamente una questione tattica sul voto, e ci si avvia alla conclusione. Com’è noto, fin dagli anni Ottanta c’è un grande problema per l’importanza del territorio sul voto e la sua neutralizzazione: dopo quarant’anni di gerrymandering, si sono disegnati collegi ad uso e consumo di chi deve essere eletto, annientando negli stati democratici la minoranza repubblicana, negli stati repubblicani la minoranza democratica. Vengono fuori dei bei pezzi d’arte nella definizione dei collegi uninominali, anche per il Congresso e, in misura minore, per il Senato. Ciò assicura a ogni partito la maggior parte dei collegi che periodicamente vanno alle elezioni, e quest’anno i seggi perdibili dai repubblicani sono relativamente pochi, circa un sesto alla Camera e un quinto al Senato, che però non ne cambia gli equilibri. Per questo i singoli politici repubblicani sono relativamente liberi di dire tutte le affermazioni impopolari che vogliono, perché comunque a perderci sono pochi colleghi.

Gerrymandering | come delle schemi di distretti disegnati diversamente producono diversi risultati elettorali

Data l’enorme importanza della territorialità del voto negli Stati Uniti, il governo sta agendo su diversi fronti per direzionare a proprio favore il voto di novembre (che come ora vedremo, non è solo a novembre): in primis, la delegittimazione del voto, anche per posta; in secundis, la manipolazione del corpo elettorale.

Il secondo punto è abbastanza tipico della politica statunitense – così come quella di altre dittature, verrebbe da dire –, ovvero da un lato la gestione e la distribuzione delle sezioni elettorali, dall’altro la limitazione del voto di determinate categorie che possano svantaggiare la presidenza. Siccome il voto è altamente polarizzato a seconda dell’etnia, della regione di residenza e del ceto sociale, e quindi, sommando tutto, del quartiere in cui si vive, l’apertura o meno di determinate sezioni elettorali sul territorio orienta il risultato del voto. Avviene che, per esempio, se dovesse essere la rielezione di un presidente repubblicano, si limitano o si chiudono molte sezioni nelle periferie urbane abitate in maggioranza da neri e asiatici o bianchi poveri socialisti, perché votano maggiormente democratico, e si concentrano sezioni nelle campagne o nelle cittadine rurali, dove si vota maggiormente repubblicano. Ciò provoca l’allungamento dell’attesa al seggio del voto tendenzialmente democratico, dissuadendo di votare visto che il tempo è sottratto al lavoro e la gente, specialmente povera, deve lavorare per tirare avanti.

Questo poi è ulteriormente confermato dalla pandemia, perché da un lato il governo può utilizzare la presenza di focolai come giustificazione per la presenza o meno del seggio elettorale, dall’altro dissuade molti votanti tendenzialmente democratici – i quali, come si è detto all’inizio, osservano tendenzialmente maggior attenzione alla pandemia e all’infezione, visto che devono andare a lavorare come dipendenti, e non possono permettersi le cure. Quattro ricercatori politici dell’Università di Washington, dell’Università di Stanford e dell’Università di Berkeley confermano  che gli studi hanno dimostrato un aumento dell’affluenza «soprattutto per coloro che già votano». In Colorado hanno scoperto che l’affluenza totale è aumentata del 9%, mentre è aumentata del 16% tra i giovani, del 13% tra gli afroamericani, dell’11% tra gli asio-americani del 10% tra i latino-statunitensi, tra gli operai, tra i non diplomati e tra coloro con meno di $10.000 di ricchezza.

Quali Coloradiani hanno beneficiato di più dal voto postale | Differenza tra l’affluenza reale e proiettata alle elezioni del 2018 del Colorado, divisi per etnia, livello d’istruzione e ricchezza del nucleo familiare

Inoltre, c’è la questione degli osservatori dei seggi, i cosiddetti “poll watchers”, che possono contestare i voti, sorvegliare e contestare i votanti, sorvegliare lo spoglio dei voti, a seconda dei regolamenti statali e col potere reale di dissuadere gli elettori dal votare. Nel 2018 si è concluso il mandato quarantennale di un decreto giudiziario del 1982 che imponeva alla dirigenza del partito Repubblicano di non poter apporre osservatori ai seggi senza il permesso e il controllo legale. Ciò è avvenuto perché alle elezioni governatoriali del 1981 in New Jersey, il partito Repubblicano locale ha assoldato poliziotti e sceriffi fuori servizio in qualità di osservatori dei seggi, che hanno minacciato gli elettori con vere e proprie liste di indesiderati e cacciando chi fosse in sospetto di votare democratico. Ecco, questa è la prima elezione presidenziale in cui il partito Repubblicano non è più tenuto a sottostare a quel determinato regolamento, perché è decaduto. Ciò significa che quanto avvenuto nel 1981 in New Jersey si possa ripetere in tutte le contee cruciali negli stati in bilico fra i due candidati, con l’intenzione di spostare l’elettorato verso il proprio partito, e Trump infatti ha annunciato che circa 50.000 “poll watchers” saranno disposti in tutta la nazione , fra cui molti, decisivi, a Filadelfia .

Anche l’incarcerazione di massa degli afroamericani, come nella cruciale Florida, è un esempio lampante di quella che è di fatto una tattica elettorale. Molti afroamericani devono ancora pagare i loro debiti e sono stati incarcerati proprio per questo – a causa proprio delle leggi varate da Biden negli anni Novanta – perciò sono permanentemente senza diritto di voto, né non possono uscire per votare. Nel frattempo pagano le tasse; no taxation without representation non vale più a quanto pare. Bloomberg, miliardario candidato alle primarie democratiche, si è offerto di pagare i loro debiti, almeno per qualche migliaio se non decina di migliaia di persone, e i repubblicani stanno facendo di tutto per impedirglielo, a costo di portare la questione in tribunale, dove la vincerebbero. Nel farlo, dimostrano che il problema non era il debito in sé e che l’obiettivo era davvero l’imprigionamento di massa della comunità afroamericana, e tutta una serie di tattiche volte ad impedire il voto ad una marea di persone. 

Il primo punto, invece, non è totalmente nuovo, ma provoca un problema piuttosto importante: dal momento che i repubblicani e Trump fra tutti hanno costantemente delegittimato il voto per posta come portatore di per sé di brogli elettorali – anche se i militari votano per posta dalla Guerra Civile (elezioni del 1864)  – possono effettivamente fare un appello alla Corte Suprema affinché decida che i grandi elettori siano assegnati in modalità che non tengano conto del voto. Fra l’altro, la Corte è stata rinnovata recentemente dopo la morte del giudice Ginsburg, rendendola ancora più repubblicana con la nomina di Amy Coney Barrett, miglior prodotto dell’intelligencija conservatrice americana. Già il fatto stesso di votare in differita è osteggiato da alcuni stati, in prevalenza repubblicani, e per usufruire di questo diritto è prima necessario far richiesta entro scadenze che variano da stato a stato, e votare prima del 3 novembre. 

In questo, anche la presidenza Trump ci ha messo lo zampino, nominando un donatore fedelissimo, Lewis DeJoy a capo del United States Postal Service , e implementando tutta una serie di norme di riorganizzazione interna che di fatto, assieme allo sradicamento delle cassette postali statali proprio nelle zone dove il voto democratico è storicamente in vantaggio, è allo scopo di rallentare rallentamento delle procedure di invio e quindi elaborazione del voto. Tutto questo persiste con una continua denigrazione del sistema postale americano, che invece è costretto dal Congresso a continui tagli e a condizioni insostenibili, e delle elezioni per posta, mitragliate da Trump circa quattro volte al giorno come di per sé fraudolente. 

Infatti, dal momento che le autorità repubblicane hanno spinto la retorica sulla corruttibilità del voto per posta, gli elettori repubblicani voteranno quasi totalmente di persona al seggio elettorale, mentre molti democratici per posta. Il risultato definitivo infatti non sarà disponibile da subito, ma ci vorranno settimane per conteggiare il voto per posta in numeri così alti (il sistema del conteggio postale è centralizzato a livello federale), perciò, se in prima battuta i repubblicani fossero in vantaggio e poi, con lo spoglio del voto postale dovessero perdere le elezioni, fioccherebbero senza dubbio accuse di illegittimità e brogli contro Trump. Se la sera del 3 novembre (la mattina del 4, in Italia), i risultati parziali saranno a favore dei repubblicani e decideranno che quello è il voto definitivo, quando nelle settimane successive se si scoprirà che attraverso il voto per posta i democratici hanno vinto degli stati, allora i repubblicani diranno che questa è la frode elettorale che avevano preannunciato fin da luglio. Ciò può portare all’annullamento di centinaia di migliaia di voti, se non addirittura milioni. Anche se in realtà le accuse di Trump di una frode elettorale in Pennsylvania, per citare un caso emerso a fine agosto, sono state dismesse dal giudice per insufficienza di prove.

E infatti, stanno emergendo un po’ su tutto il territorio nazionale come le schede per posta vengano invalidate. La trafila per l’invio e lo spoglio delle schede per posta è nettamente più complessa rispetto al voto di persona : la scheda dev’essere inviata al domicilio segnalato all’anagrafe, compilata correttamente dal votante, con la firma, dati anagrafici per la registrazione e la data di compilazione, chiudere la busta in un’altra busta speciale fornita all’invio, assicurarsi che l’importo dei francobolli sia esatto, e imbucarla nell’apposita cassetta, non quella della posta normale. Non è finito, perché poi è trattata come una raccomandata, inviata dall’ufficio postale alla sede dello spoglio della contea, e lì si verificano che tutti i passaggi, le firme e le compilazioni siano corretti. I poll watchers possono contestare ognuno di questi passaggi, persino la scarsa visibilità del timbro dell’ufficio postale, per dichiarare invalido il voto. Allo stesso tempo, le informazioni corrette per una giusta votazione non sono accessibili a tutti, ad esempio a New York si è scoperto che il bollo postale aveva bisogno di 15¢ ulteriori, non comunicati dall’amministrazione, dal momento che l’importo del francobollo cambia a seconda della zona in cui si vive. Ad esempio, a Chicago è gratis, nel resto dell’Illinois si paga 1,40$.

Lo zampino degli stati incide non poco sull’affluenza effettiva, tanto che a voto già iniziato in molti le leggi continuavano a cambiare. In Texas, Georgia e Wisconsin, sono stati ridotte le cassette per il voto per posta, il che si produce in una manciata di sedi per contee larghe centinaia di chilometri e con centinaia di migliaia di persone al voto, addirittura in Texas il governatore ha imposto che ci fosse una sede per contea, volendo  colpire il voto democratico delle città e favorire le campagne storicamente una roccaforte repubblicana: ad esempio, è più facile votare in una contea di 100 abitanti che di 5 milioni (Houston). In Iowa, il partito repubblicano locale è riuscito a tener da parte 100.000 schede, dal momento che erano precompilate dalla contea per i dati anagrafici e che la legge era cambiata quando queste schede erano già state mandate. In Pennsylvania, le file per registrarsi e depositare il voto al municipio sono diventate lunghissime, siccome è la prima volta che lo stato locale si trova ad affrontare un voto in differita di questa portata. Ciò potrebbe essere contestato in sede legale dai repubblicani nel caso lo stato dovesse essere perso.

Inoltre, il tasso di voti per posta rifiutati, secondo alcune proiezioni, sarebbe di centinaia di migliaia se non addirittura un milione: una mole di voti che negli stati cruciali per definire la presidenza potrebbe fare la differenza fra una vittoria democratica e una vittoria repubblicana. Su quest’ambiguità, Trump, come abbiamo detto, ha portato avanti una serie di tentativi per delegittimare il voto, e allo stesso tempo il caos delle legislazioni statali rende molto più difficile e macchinoso il voto per posta, e più rifiutabile. Infatti, in Florida e in North Carolina, secondo dati ufficiali, i voti rifiutati sono maggiormente quelli delle minoranze afroamericane o ispanoamericane, addirittura con tassi di invalidazione tre volte superiori. Addirittura, in California il partito Repubblicano locale ha sparso in diverse contee delle cassette false per i voti per posta, adducendo come scusa ufficiale che è per garantire agli elettori il diritto di avere consegnati i propri voti da un gruppo o un’organizzazione di fiducia invece che di estranei come i dipendenti dell’ufficio postale. Tale montatura è stata cassata dalla corte della California, anche se finora non è stata comminata nessuna pena per questa autentica falsificazione del voto.

Su tutto il territorio federale, i Repubblicani stanno tentando qualsiasi strada, dalla riduzione del numero di cassette per i voti, al limitare il tempo disponibile per il lavoro di spogliare i voti. Nel frattempo, dietro le quinte, si sta mettendo insieme una forza composta sia della struttura legale repubblicana con centinaia di avvocati che aiuteranno Trump per annullare i voti di decine di milioni di persone, sia del potere brutale della polizia sui manifestanti, e sia le forze ausiliare dell’estrema destra che opereranno sulle strade e di fronte ai seggi per intimidire i votanti e creare un’atmosfera di potenziale violenza.

Ci sono però diversi gruppi che tentano di facilitare il voto per tantissime persone, aiutandole e dando direttive più precise rispetto ai vaghi protocolli statali, al fine di lottare per il diritto del popolo americano a vivere in un’autentica democrazia. Non solo elezioni, ma anche proteste, con la crescita di varie associazioni e pure gruppi politici di sinistra pronti a rivendicare il proprio suffragio.

7. La forza di Trump: la Corte Suprema e il sistema legale

Infine, non possiamo dimenticare un altro enorme vantaggio che i Repubblicani detengono: la Corte SupremaIn realtà tutto l’apparato giudiziario, costellato di nomine di giudici dell’estrema destra da quattro anni a questa parte, si può considerare come un braccio indispensabile della forza di Trump. Il controllo della macchina statale è vitale per poter scongiurare una possibile presa del potere da parte dei democratici per vie elettorali, le uniche che vogliono intraprendere, fra l’altro, non avendo nemmeno ostacolato in Senato la nomina di Amy Coney Barrett, al contrario degli sforzi titanici nel mettere all’angolo una maggioranza di sinistra fin troppo influente.

La nomina di Amy Coney Barrett chiude a chiave la Corte Suprema da qualsiasi influenza democratica: in un’eventuale votazione sullo stile di Bush vs Gore per definire il corpo politico che deve assegnare i grandi elettori, se nel 2000 finì 5-4, oggi sarebbe saldamente 6-3. Infatti, il controllo della Corte Suprema è fondamentale, perché ha la parola decisiva e irrevocabile su tutto l’apparato giudiziario civile e su tutti gli appelli che possano venir prodotti in vista del tumultuoso e controverso conteggio dei voti, soprattutto quelli per posta. Come abbiamo sottolineato nella sezione sul Collegio Elettorale , la Corte Suprema ha una parola decisiva in caso le elezioni siano indecise o in odor di irregolarità, può revocare le sentenze delle corti statali, e può impugnare i precedenti come quello della Florida nel 2000 per spostare il risultato delle elezioni da parte repubblicana.

«La campagna di Trump sta cercando di invalidare tanti voti per posta e tanti voti pre-elettorali [ovvero prima del 3 novembre] quanto possibile, attraverso fasulle dichiarazioni di brogli. Questi sforzi hanno il supporto della maggioranza di destra della Corte Suprema, come dimostrato dalla decisione di martedì di annullare la decisione di una corte inferiore che permetteva allo stato del Wisconsin di contare i voti per posta che sarebbero arrivati fino a nove giorni più tardi del 3 novembre, finché fossero timbrati entro il giorno delle elezioni. Contare questi voti in ritardo è uno sforzo per contrastare il rallentamento deliberato della posta del Servizio Postale degli Stati Uniti, sotto la dirigenza di Lewis DeJoy, amico di Trump e finanziatore repubblicano. Nel sostenere quest’imposizione oltraggiosa e reazionaria, il giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh ha citato la decisione della corte del 2000 nel Bush vs Gore, il voto 5-4 che ha valso i grandi elettori della Florida e la presidenza al repubblicano George W. Bush […]. È la prima volta che la sentenza Bush vs Gore è stata citata come un precedente, un segnale che la maggioranza di destra della corte farà qualsiasi cosa in suo potere per consegnare le elezioni del 2020 a Donald Trump». 

Patrick Martin, WSWS, 28 ottobre 2020

D’altra parte, alcuni politici repubblicani si sono pubblicamente spesi per una distinzione tra repubblica costituzionale e democrazia. Il  Senatore dello Utah Michael Lee ha annunciato l’8 ottobre: «La democrazia non è l’obiettivo; libertà, pace, e prosperità lo sono. Noi vogliamo le condizioni umane per fiorire. La democrazia dei ranghi [rank democracy] può ostacolare ciò». Curiosamente poi ci azzecca, nel definire

https://twitter.com/SenMikeLee/status/1314016169993670656?ref_src=twsrc%5Etfw

E in effetti c’è da dire che il nostro senatore utahano ha le idee piuttosto chiare su come intenda la forma istituzionale degli Stati Uniti: una repubblica costituzionale, non una democrazia, nel senso labile e forse fin troppo legato alla liberaldemocrazia. D’altra parte, anche il Cile di Pinochet era una repubblica costituzionale, e non esattamente una democrazia.

I proclami impauriti di una dittatura di Trump negli Stati Uniti vengono spesso utilizzati con la funzione di raccogliere per i democratici l’ennesimo “voto utile” da sinistra, annientando le possibilità elettorali per partiti più vicini a parti sostanziose dell’elettorato, come i Verdi e il PSL, e allo stesso tempo ripetendo in una reiterazione del sempre uguale lo spostamento a destra del partito democratico per tentare di raccattare elettori repubblicani. Tuttavia, questi annunci non sono un semplice artificio di propaganda, ma nemmeno un qualcosa di totalmente nuovo e insito in Trump: è la forma istituzionale stessa degli Stati Uniti, con una costituzione sì pressoché immutabile, ma debole rispetto al potere che hanno le corti e i tribunali. Vige la legge consuetudinaria, una sentenza ha validità di legge, e il massimo organismo che può emettere sentenze, dunque leggi, è proprio la Corte Suprema.

Perciò, il controllo dei due rami del Congresso ha una forza relativa nel promulgare e promuovere leggi: anche quando i repubblicani lo avevano, la loro attività legislativa è stata pallida, quasi pigra, come scrive the New Republic, e soprattutto non necessaria nel delineare l’America dei grandi profitti e della scarsa dignità. Sono stati sì molto veloci nel promulgare gran parte del loro programma, ma non è indispensabile, perché per abbattere l’applicazione o tutto il testo di una legge, basta una sentenza di una corte che la definisca incostituzionale, o che accetti eventuali deroghe da parte degli stati.

Questa strategia di controllo dell’apparato statale sul lungo termine, attraverso la figura del Presidente che nomina cariche provvisorie o consultive – ma che nella prassi si rivelano dei veri e propri centri di potere autonomo rispetto alla piramide delle agenzie federali – rende di fatto molto difficile per i democratici smantellare quanto costruito in reti personali in questi quattro anni. Ed è il controllo di alcuni punti nevralgici dell’apparato statale (l’esercito rimane sostanzialmente autonomo e fedele alla costituzione, quasi una spina nel fianco per la presidenza) che profila gli scenari possibili dal 3 novembre.

Se la vittoria di Biden è chiara fin da subito, il margine d’azione per l’apparato repubblicano è probabilmente pressoché azzerato, non avrebbe la penombra legale per poter rivendicare seriamente il fatto che ci siano stati dei brogli elettorali. Probabilmente si spaccherebbe tra quelli prudenti e non troppo convinti di dover rivendicare la presidenza ad ogni costo, specialmente se non hanno troppa simpatia per Trump e hanno il seggio già assicurato, e gli oltranzisti che invece premerebbero per non concedere il potere. Quale delle due abbia il sopravvento, è tutto da determinare, però il fiorire della discordia fra i repubblicani potrebbe portare molti a salvarsi difendendo il senso dell’istituzione di cui finora han fatto parte.

Se invece si verifica il cosiddetto “miraggio rosso”, ovvero una situazione in cui al primo spoglio dei risultati è in vantaggio Trump o in leggero vantaggio Biden, tutte le tattiche finora utilizzate dai repubblicani potrebbero dispiegarsi per garantire al presidente uscente il controllo della Casa Bianca per altri quattro anni. Ciò significa un’aspra battaglia legale nelle corti per decidere le sorti del voto – il controllo del sistema giudiziario si rivela fondamentale –, fino all’extrema ratio di disporre truppe federali come il DHS e lo FBI (non l’esercito, nonostante l’Insurrection Act del 1807 che gli consentirebbe di venir disposto per motivi di sicurezza interna) contro eventuali manifestazioni di piazza, delegittimate come terroristiche durante tutto quest’anno.

Allo stesso tempo, i sindacati e le associazioni di sinistra probabilmente non rimarrebbero mani nelle mani, visto che già quattro anni fa Trump aveva vinto senza il voto popolare, e che neppure l’indigesto Biden avrebbe scalzato quest’anno. Perciò, si incide una crepa nell’ormai sbriciolato eccezionalismo americano: lungo tutto quest’anno i sindacati statunitensi hanno promosso mozioni di difesa del diritto di voto  e difesa del vero risultato delle elezioni, proponendosi anche di scendere in piazza qualora esso fosse disatteso dalla tattica repubblicana. Negli Stati Uniti, non c’è mai stato uno sciopero generale, se non a livello metropolitano, ma la violazione del più semplice paravento democratico potrebbe davvero porre i sindacati e i lavoratori nelle condizioni di fermare almeno importanti settori del paese, con un chiaro significato politico come in decine di paesi del mondo, ad esempio la Bolivia, il Cile, l’Argentina, il Sudan, l’Algeria, la Francia, il Libano, la Thailandia, l’Indonesia, la Bielorussia e la Russia.

È questo scenario che Trump teme e a cui sta pensando, e che temono anche i democratici, visto che si stanno organizzando – sinistra a parte – esclusivamente per condurre battaglie legali su tutto il paese. E forse la fiacca opposizione liberal sarà il tallone d’Achille per le proteste popolari che si stanno organizzando, contro le milizie paramilitari che si dimostrano sempre più spavalde perché col supporto dello stato e del Comandante in Capo, e il supporto della polizia e delle forze federali al presidente in carica.

Per conclusione, un simpatico assaggio della procedura legale, nel caso – dato all’1% di possibilità, rispetto al 10% di Trump di vincere, e all’89% di Biden – le elezioni finiscano in parità, 269 a 269. Visto che costituzionalmente per vincere le elezioni serve la maggioranza dei voti dei grandi elettori, e presupponendo che i grandi elettori votino esattamente quanto il loro mandato impone, in questo scenario l’elezione del presidente passa alla Camera dei Rappresentanti, mentre del vicepresidente al Senato. Attenzione però, i voti non contano singolarmente, ma sempre secondo la logica per stato: la Camera ha 50 voti, è escluso il Distretto di Columbia, nonostante il ventitreesimo emendamento che gli garantisce nelle elezioni federali pari diritti a quelli di uno stato, perché ha un solo rappresentante senza diritto di voto. Sono eleggibili presidenti alla Camera i primi tre candidati per numero di voti, ed è eletto presidente colui che ha ottenuto una maggioranza di 26 voti. Ogni delegazione decide al suo interno come definire il proprio voto.

Al Senato, per l’elezione del vicepresidente, sono eleggibili i primi due per voto popolare, e i 100 senatori votano uno per testa. Chi ottiene la maggioranza di 51 voti vince la nomina, e se la Camera dei Rappresentanti non riesce a nominare un presidente entro il 20 gennaio, il vicepresidente così eletto diventa presidente ad interim finché non si risolve l’elezione del presidente alla Camera.

In quest’ultimo scenario, se la Camera dovesse essere spaccata fra democratici e repubblicani (i repubblicani potrebbero avere la maggioranza per delegazione), Pence, eletto dalla maggioranza repubblicana al Senato, sarebbe presidente ad interim. E forse, la fine di Trump, ma non del trumpismo.

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