Gérard Duménil è un ricercatore francese di economia politica d’ispirazione marxista. Laureatosi all’École des Hautes Etudes Commerciales de Paris, fino al 2007 è stato direttore della ricerca al CNRS. A partire dagli anni ‘80, ha scritto la maggior parte dei suoi lavori con Dominque Lévy del CNRS. Oltre ad un attento studio del neoliberismo, da quando emerge come nuova fase del capitalismo e alla sua connotazione di classe, fino ad arrivare agli sviluppi più recenti, è famoso per i suoi studi sulla teoria del valore-lavoro di Marx e per l’ipotesi del capitalismo manageriale come formazione sociale ibrida che ci sta portando fuori dal capitalismo. Assieme a Jacques Bidet, scrive e prende parte ai dibattiti della rivista “Actuel Marx”.
In italiano è solamente disponibile, presso la casa editrice Asterios, “Capitale risorgente. Alle origini della rivoluzione neoliberista”. Tra i suoi principali lavori ricordiamo: “Le concept de loi économique dans Le Capital, Avant-propos de Louis Althusser”, François Maspero, Parigi, 1978; “De la valeur aux prix de production”, Economica, Parigi, 1980; “Altermarxisme. Un autre marxisme pour un autre monde”, scritto con Jacques Bidet, PUF, collection « Quadrige », 2007; “La grande bifurcation. En finir avec le néolibéralisme, Coll. « L’horizon des possibles », La Découverte, 2014 e “Managerial Capitalism Ownership, Management and the Coming New Mode of Production”, Pluto Press, 2018.
1. Il suo ripensamento della teoria del valore-lavoro, può essere considerato il modo per risolvere il dilemma della trasformazione dei valori in prezzi, soddisfacendo simultaneamente le due uguaglianze proposte da Marx: somma di valori pari alla somma dei prezzi di produzione e plusvalore totale pari al profitto totale, quest’ultimo espresso in denaro?
1. Ci sono, nella produzione capitalistica, prezzi di equilibrio, chiamati prezzi di produzione, che assicurano la uguale remunerazione del capitale richiesta dalla produzione di merci (i prezzi di produzione sono prezzi di equilibrio di lungo periodo, risultanti di un “processo operativo”, la mobilità del capitale secondo differenziali di redditività). A questa analisi possiamo aggiungere che l’esistenza di rendite su risorse non riproducibili porta alla considerazione di altri prezzi se vogliamo mantenere la tesi della parità di rendimento del capitale. Accanto a questi meccanismi si può citare il pagamento delle tasse sulla produzione, che modifica i sistemi dei prezzi di equilibrio.
La tesi di Marx è che questi prezzi influenzano l’allocazione di un surplus, il plusvalore, tra diversi beneficiari: capitalisti, proprietari terrieri, lo Stato… – ma non creano o distruggono nulla. La teoria del valore-lavoro sostiene che i prezzi ai quali vengono effettuati acquisti e vendite non modificano il valore totale creato ma alterano la distribuzione di questo valore, mentre, secondo l’economia dominante, i prezzi di equilibrio sanciscono il contributo dai vari “fattori” alla produzione. Marx definisce il capitale come valore assunto in un movimento di autoincremento. “Movimento” si riferisce al ciclo delle forme di capitale (denaro, merce e capitale produttivo) e la “crescita” risulta dall’appropriazione del plusvalore: senza lavoro non si crea valore. Marx raggiunse lì il vertice del suo pensiero teorico, e del pensiero teorico in generale di questa materia, senza alcun rivale.
La teoria del valore di Marx è definita a livello d’interfaccia tra la sua economia politica e la sua teoria della storia delle società umane, distinguendo vari modi di produzione secondo le modalità di appropriazione e realizzazione di un “surplus”: una frazione delle fatiche dello schiavo, del servo, del proletario, cioè il pluslavoro. Il capitalismo è l’ultimo anello della catena dei modi di produzione ed è definito dalle condizioni di appropriazione e realizzazione del pluslavoro che sono specifiche ad esso. Da ciò deriva l’economia politica del capitalismo (Marx è un critico dell’economia politica dominante, ma produce un’economia politica alternativa i cui concetti fondamentali sono merce, valore, capitale, plusvalore, profitto… per non parlare delle sue leggi, come la caduta tendenziale del saggio di profitto).
Possiamo vedere la questione diversamente. Personalmente penso che una volta fuori da questo quadro teorico dell’Economia Politica/Teoria della Storia, non ci sia alcuna possibile interpretazione delle dinamiche delle società umane. Ciò non significa, ovviamente, che queste teorie spieghino tutto. Ci sono, in particolare, altre forme di sfruttamento oltre all’estrazione del plusvalore, nel capitalismo come nei precedenti modi di produzione.
Entrando nel campo dell’economia politica, una tesi centrale è che, non appena il rapporto mercantile di acquisto/vendita si è imposto come nel caso del capitalismo, il prezzo (arbitrario) di una massa di beni è una “forma” del loro valore. Sacrificando il rigore analitico alla pedagogia, si potrebbe dire che i sistemi di prezzo sono sistemi di valori “rimodellati”. Nel capitalismo, la prevalenza dei prezzi di produzione manifesta il riconoscimento sociale del fatto che queste merci sono la materializzazione di una massa di lavoro la cui espressione nel prezzo viene così “rimodellata” nella competizione tra capitalisti (parlo come se ci fosse solo un tipo di lavoro per motivi di semplificazione).
A questo possiamo aggiungere due difficoltà, note come “problema della trasformazione”, la cui risoluzione è di interesse secondario:
- Il valore “creato” durante un periodo (ad esempio, un anno), vale a dire il valore del “prodotto netto” (valore o prezzo degli output meno valore o prezzo degli input), uguale al tempo di lavoro necessario alla sua produzione, è “conservato”, secondo la formula stabilita, qualunque sia il sistema di prezzi in cui si esprime: non si tratta di una proprietà ma di una definizione di valore.
- Nel cosiddetto problema della trasformazione, la difficoltà è che Marx non si è mai sbarazzato del riferimento privilegiato al “prodotto lordo” nel libro II, dove critica Smith in modo errato, mentre Smith anticipa il concetto di valore aggiunto. Nessuno è perfetto. Non può esserci corrispondenza valore-prezzo per i due aggregati, prodotto netto e prodotto lordo. Solo il valore dei proventi netti viene “creato” durante il periodo. Marx ha sottolineato che nel considerare il valore e il prezzo degli input, è stato necessario apportare delle correzioni.
- Marx cita un’altra correzione necessaria: “Per quanto riguarda il capitale variabile, il salario medio giornaliero è sempre uguale al valore prodotto durante il numero di ore che l’operaio deve dedicare alla produzione dei mezzi di sussistenza necessari. Ma la differenza del prezzo di produzione di queste ultime rispetto al loro valore falsifica questo stesso numero di ore.” (Veda le citazioni che ho riportato in vari testi, in particolare, pagina 74 di “De la valeur aux prix de production”).
2. Una delle sue ipotesi teoriche più audaci è che il capitalismo manageriale è l’espressione di una transizione di una società, ancora capitalista, ma in cui l’avanzamento della socializzazione della produzione mette in discussione il modo in cui la proprietà è istituzionalizzata e può condurre – nella misura in cui è diluito in forme collettive – a un altro modo di produzione che potrebbe essere chiamato “modo di produzione dei quadri” a causa della rilevanza e del controllo che i quadri eserciterebbero in esso. Che legame c’è con l’ipotesi marxiana della formazione del lavoratore collettivo?
2. Sì, la tesi centrale del nostro ultimo libro Managerial capitalism: Ownership, management and the coming new mode of production (Pluto Press, 2018) è che il capitalismo manageriale contemporaneo è una formazione sociale ibrida, espressione della transizione tra due modi di produzione, capitalismo e managerialismo (che per decenni abbiamo chiamato “cadrisme”, nel desiderio di parlare francese ma questo termine era mal percepito). Questa transizione tra due modi di produzione è un processo secolare (come la transizione tra feudalesimo e capitalismo in quello che viene chiamato, in Francia, l’Ancien Régime). Il capitalismo manageriale è una formazione sociale ibrida, mentre il managerialismo è un nuovo modo di produzione in via di costituzione.
Al centro dell’analisi di Marx del capitalismo c’è una teoria “duale” del lavoro d’impresa, in cui viene fatta la distinzione tra il lavoro produttivo del lavoratore e una categoria di lavoro improduttivo.
Possiamo, in un primo momento, supporre che la società sia formata solo da lavoratori, lavoratori produttivi e dal proprietario capitalista attivo (distinto quindi dal capitalista prestatore o semplice proprietario di azioni, che non partecipa attivamente al funzionamento dell’impresa). Consideriamo quindi, in primo luogo, una configurazione semplice, quella di una società fatta di lavoratori e di un capitalista.
Per seguire Marx, il capitalista attivo (il capitalista “operante”) lavora: “Ma essere rappresentante del capitale operante non è un fatto che comporti poco impegno e fatica come l’essere rappresentante del capitale produttivo d’interesse. Sulla base della produzione capitalistica il capitalista dirige il processo di produzione come pure il processo di circolazione. Lo sfruttamento del lavoro produttivo costa sforzo…”. Nel linguaggio contemporaneo, questa attività capitalistica è chiamata “gestione”. Copre tutte le funzioni dell’impresa diverse dalla produzione dei lavoratori: organizzazione e coordinamento della produzione, disciplina, assunzione e licenziamento, raccolta fondi, contabilità, attività commerciali di acquisto e vendita…
La nozione di “lavoratore collettivo” si riferisce strettamente al processo di lavoro produttivo, con l’esclusione di altre componenti della gestione. Il capitalista partecipa a questi compiti produttivi al vertice: Marx paragona il capitalista in produzione a un direttore d’orchestra che dirige come il primo dei musicisti. Sente, tuttavia, la prossimità delle funzioni di “coordinamento”, produttive e di “disciplina”, e sottolinea che la disciplina necessaria al lavoro assume, nella produzione capitalistica, un carattere di classe e deve quindi essere dissociata dalle funzioni produttive che spettano al capitalista.
Di fronte ai lavoratori troviamo quindi un capitalista che organizza la produzione, e quindi un lavoratore produttivo in quanto tale (sebbene questa posizione sia legata all’esercizio della disciplina di classe, che a questo proposito offusca i confini). Inoltre, questo capitalista svolge altri compiti di gestione, ritenuti improduttivi.
Ora sto abbandonando questa impresa “semplice”. Tutte le attività capitalistiche, produttive o improduttive, possono essere delegate ai dipendenti, come un ingegnere, un contabile o un impiegato commerciale, il che rappresenta un costo per il capitalista, ma contribuisce alla massimizzazione del suo saggio di profitto. Le categorie di questo lavoro, ritenute superiori (fino alla “direzione”), sono delegate a dirigenti salariati, come Marx analizza a lungo nel Libro III del Capitale; altri compiti sono delegati ai lavoratori, questi ultimi possono assistere direttamente il capitalista oppure i manager. Il punto chiave è che né questa delega, né la posizione gerarchica dei dipendenti a cui sono stati delegati i compiti, modificano la natura produttiva o improduttiva di questi compiti. Si tratta di distinzioni “ortogonali”: la natura dei compiti, da un lato, chi li esegue, dall’altro.
Nella citazione fatta sopra, l’ultima proposizione “Lo sfruttamento del lavoro produttivo costa sforzo…” [sottinteso, inclusa la partecipazione a compiti produttivi al vertice] è seguita da “sia che se ne incarichi lui stesso sia che ne lasci l’incombenza ad altri”. Possiamo vedere in un ingegnere /progettista /coordinatore, quello a cui il capitalista ha delegato i suoi compiti nella produzione. In questa impresa dove compaiono i manager, siamo quindi in presenza di un lavoratore collettivo dal quale il capitalista ha potuto recedere delegando le sue funzioni produttive di “conduzione” a un dipendente. Lo stesso vale per altre funzioni di gestione capitalistica al di fuori dell’officina o del luogo dove avviene la produzione, che sono improduttive, come la contabilità o le attività commerciali. Questi compiti possono essere delegati a dipendenti manageriali o subordinati. Si noti che la posizione nelle gerarchie non determina la natura produttiva o improduttiva dei compiti.
La nostra tesi sulla transizione verso un modo di produzione manageriale si riferisce alla trasformazione dei rapporti di produzione manifestata dall’ascesa della preminenza della classe dei managers (nel senso di “les cadres” in francese) sui capitalisti, riguardo a tutti i compiti svolti dalle classi dominanti (capitalisti e/o manageriali nella formazione ibrida contemporanea), non solo i compiti direttamente legati alla produzione nel lavoratore collettivo, ci vuole altro: il concetto di manager si riferisce a categorie sociali molto più estese della loro frazione tecnica che partecipa ai compiti di progettazione/coordinamento della produzione. Per fare un esempio estremo: i manager finanziari non sono membri del lavoratore collettivo, ma sono effettivamente manager che svolgono una parte delle funzioni capitalistiche.
Tralascio qui le funzioni legate al processo di socializzazione che va oltre la produzione, come il lavoro amministrativo o di insegnamento…
3. Collegandomi alla domanda di prima. La sua ipotesi è debitrice dell’analisi presente in Marx e Lenin sul capitale monopolista, ovvero la centralizzazione e concentrazione del capitale da un lato e la diffusione del capitale azionario dall’altro che porterebbe ad una netta separazione tra direzione e proprietà privata, dimostrandone l’inutilità?
3. Non usiamo la categoria del “capitale monopolistico”, che del resto non fa parte dell’analisi di Marx, a differenza di quelle della concentrazione e centralizzazione del capitale. Sì, siamo in un’economia dominata da grandi società. La nozione di capitale monopolistico nel senso di Baran e Sweezy ha arrecato abbastanza danni per quanto riguarda l’andamento del saggio di profitto.
Passo alla seconda parte della sua domanda riguardante la “separazione” tra proprietà e funzione. Il capitalismo manageriale e, in particolare, la rivoluzione manageriale sono stati la fonte di un’enorme letteratura economica e sociologica. La nostra enfasi su questi temi non è affatto originale o particolarmente marxista o leninista. Marx ha analizzato l’ascesa dei manager nel capitalismo nel Libro III del Capitale; il suo comunismo è stato denunciato nella Prima Internazionale come una società di classe; Lenin si confrontò con queste tesi che lo irritarono molto (Managerial capitalism, Capitolo 15, “Le socialisme autoproclamé”). Ciò che è unico per noi è l’interpretazione del progresso delle caratteristiche manageriali come espressione del passaggio a un nuovo modo di produzione. Stiamo completando l’analisi.
La “proprietà privata” dei mezzi di produzione è attualmente superata dallo sviluppo delle grandi società e dalla loro integrazione in grandi reti capitaliste/manageriali, internazionali e sotto l’egemonia anglosassone, dominate dalle grandi società finanziarie e dai vertici manageriali di queste istituzioni (Managerial capitalism, Capitolo 11). L’attuale “grande économie” è più manageriale che capitalista, nonostante la proliferazione di miliardari.
Sì, le classi capitaliste sono inutili nelle grandi imprese. Là sono parassiti.
4. Definisce il neoliberismo come un prodotto della lotta di classe che ha restaurato il potere del capitale finanziario e della frazione superiore dei capitalisti. Volevo chiederle, com’è compatibile questa sua definizione del neoliberismo con quella della scuola foucaultiana, penso soprattutto a Dardot e Laval.
4. Sì, il neoliberismo è il prodotto di una vittoriosa lotta di classe da parte delle classi dominanti. Inizialmente abbiamo flirtato con l’idea che fosse un ritorno delle frazioni superiori delle classi capitaliste, al fine di confutare le interpretazioni che presentano il neoliberismo come risultato di una lotta tra il mercato e lo Stato. La nostra analisi è rimasta, tuttavia, insufficiente. Il neoliberismo è il prodotto dell’alleanza, a destra, ai vertici, tra manager e capitalisti, le due classi dominanti del capitalismo manageriale, sotto l’egemonia manageriale. Non avevamo ancora articolato in modo rigoroso le nostre analisi sullo sviluppo delle relazioni manageriali e degli “assetti sociali”, cioè del dominio di classe e delle alleanze.
Vediamo in Michel Foucault uno dei principali artefici della “decostruzione” del marxismo, una catastrofe storica teorico-politica, che fa in ultima analisi il gioco del neoliberismo. Dobbiamo ripensare il marxismo, rifiutarne le forme stereotipate, riconoscerlo e andare oltre i suoi confini. Ed è un’altra cosa rispetto allo gettarsi nell’analisi foucaultiana.
Consideriamo la nozione di cambiamento della “razionalità governamentale”: 1) Supponendo che la razionalità governamentale sia un aspetto centrale del neoliberismo, il che è sbagliato, sarebbe banale: un cambiamento nella razionalità governamentale significherebbe che le politiche neoliberiste sono diverse da quelle del dopoguerra, come a tutti è noto; 2) Il cambiamento nel neoliberismo è solo secondariamente nell’azione dei governi, contrariamente a quanto pensava Foucault: questo cambiamento si trova prima nelle strutture finanziarie e nella gestione delle imprese. Le politiche della fine degli anni ’70 hanno posto fine all’inflazione a scapito degli interessi delle classi popolari, ma la loro caratteristica principale è che si adattano ai bisogni delle classi dominanti. Le attuali politiche del governo degli Stati Uniti, tasso di interesse minimo e deficit di bilancio, sono molto keynesiane, per non parlare delle politiche non convenzionali che sono “oltre” il keynesismo (un “iper-keynesismo” si potrebbe dire).
Vedere nella nozione di cambiamento della razionalità governamentale un progresso teorico segna il ritorno dell’idealismo: Madame razionalità entra – Esce la lotta di classe. Ciò è particolarmente vero per l’analisi di Foucault dell’Ancien Régime, punto di partenza della sua teoria, in cui non mi addentrerò qui. Quanto all’analisi di Foucault del neoliberismo in riferimento alla biopolitica, che di fatto ha anticipato l’emergere del neoliberismo vero e proprio, costituisce un incredibile malinteso. Ecco come Foucault ha definito la biopolitica: “Con questo intendevo il modo in cui abbiamo cercato, a partire dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica del governo dai fenomeni specifici di un gruppo di esseri viventi, costituito nella popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razza…”
Tutto questo non ha niente a che fare con il liberalismo. Veda l’appendice dedicata a Foucault in Managerial capitalism, con alcuni commenti su Dardot e Laval.
5. Crede che gli attuali sviluppi politici internazionali stiano mettendo in difficoltà la mondializzazione neoliberista e quali spazi ci sono ora, con l’emergere di movimenti di sinistra che reclamano il ritorno alla sovranità nazionale, per un’altermondializzazione?
5. Un aspetto del neoliberismo è la globalizzazione neoliberista. Il neoliberismo è prima di tutto una realtà di classe segnata dalla stretta alleanza tra le due classi dominanti del capitalismo manageriale. Questa alleanza è radicata in un processo di fusione di altissimo livello: il mondo è dominato dalle classi capitaliste/manageriali, sebbene il passaggio al managerialismo sia l’aspetto dominante.
La principale minaccia al neoliberismo è al centro del sistema, nella traiettoria socio-economica del paese dominante, gli Stati Uniti. Da un lato, il surplus capitalista-manageriale, che deriva dal plusvalore e da nuove forme di sfruttamento ancorate nelle gerarchie salariali, è ora interamente assorbito in questo paese dalle classi dominanti sotto forma di salari molto alti ai vertici, distribuzioni di dividendi e riacquisto di azioni proprie. Questa traiettoria sarebbe insostenibile senza le politiche molto forti della Federal Reserve, agli antipodi dell’ideologia neoliberista dell’autonomia di un cosiddetto mercato, come ho sottolineato. Il balzo in avanti è stato fatto durante la crisi del 2008, ma queste politiche hanno assunto una scala ancora maggiore durante l’attuale crisi Covid.
Ma la sua domanda è di una profondità insondabile. Stiamo pensando qui alla Cina… Posso solo dirle che il ritorno alla sovranità nazionale non è la soluzione. La domanda è: come far rivivere un’ideologia del progresso di fronte alla decomposizione del movimento operaio e realizzare le azioni corrispondenti?
6. Molti “marxisti” in Italia affermano che il capitale finanziario e il capitale produttivo sono due cose diverse e indipendenti. Cosa ne pensa?
6. Posso essere breve: questa è un’assurdità.
7. Ritiene possibile oggi risolvere l’attuale crisi economica, acuita dalla pandemia del Covid-19, con un ritorno a Keynes oppure le sue ricette economiche non sono più applicabili in questa fase del capitalismo, con un ruolo diverso dello Stato in economia e tal proposito, ritiene lo Stato, magari seguendo le tesi di Poulantzas, un campo di battaglia a cui noi marxisti non dobbiamo rinunciare?
Ripeto: tutte le ricette keynesiane sono all’opera oggi tranne il protezionismo (su cui Keynes esitava). I tassi di interesse sono al minimo; il deficit di bilancio sta raggiungendo livelli sbalorditivi. Cos’altro? Come ho detto, le politiche economiche consentono, almeno negli Stati Uniti, l’economia che studiamo quotidianamente da decenni, il proseguimento della traiettoria del neoliberismo che ha un solo obiettivo: il potere e il reddito delle classi dominanti. È importante comprendere la natura del rapporto: 1) le politiche attuate sono l’opposto delle dottrine neoliberiste; 2) consentono la continuazione delle dinamiche neoliberiste.
Lo Stato è un campo di battaglia a cui i marxisti non dovrebbero rinunciare? È una tesi di Poulantzas? Intende dire che i marxisti devono integrarsi nella politica dei partiti e delle elezioni? A priori, tutto è buono da prendere. Eppure in Francia, ad esempio, termini “anticapitalisti” difficilmente possono essere pronunciati di fronte all’opinione pubblica. Ci vorranno pazienza e immaginazione.
8. Che significa oggi essere un paese imperialista nell’attuale fase del capitalismo quando i capitali spesso sono di natura transnazionale?
8. Le rivalità internazionali rimangono molto forti oggi. Nel nostro lavoro, con Dominique Lévy, facciamo ampio uso di ciò che chiamiamo “fattore nazionale”. Come capire la traiettoria della Cina, ad esempio, senza riconoscere il ruolo svolto dal ripristino di una grandezza economica, politica e culturale e, soprattutto, dalla volontà di preservare l’integrità territoriale?
Tutto dipende, ovviamente, da cosa si intende per “imperialismo”. Diverse forme di imperialismo hanno segnato le fasi successive dello sviluppo del capitalismo, con le sue dominazioni “formali”, in particolare coloniali e “informali”, come nel caso dell’imperialismo statunitense dall’inizio del XX secolo. La globalizzazione neoliberista ha dato luogo all’emergere di forme ancora rinnovate, che corrispondono alle proprie strutture, inscritte, in particolare, nella rete delle grandi istituzioni finanziarie e delle classi manageriali finanziarie che le controllano. Un melting pot internazionale esiste a livello globale all’interno di queste élite capitaliste/manageriali neoliberiste, ma l’egemonia anglosassone è ancora evidente. Veda il Capitolo 11 del libro Managerial capitalism, in particolare la figura 11.4.
9. Mettendo al centro del discorso la lotta di classe, com’è possibile rivisitare il marxismo e recuperare un valore scientifico di questa dottrina per poter organizzare la lotta politica?
9. Molto brevemente. Teoricamente, “aggiornando” l’analisi di classe invece di ripetere le vecchie melodie. A livello ideologico, cercando di garantire la diffusione di questo quadro analitico invece di lasciarsi sedurre dalle mode. A livello politico, unendoci a tutte le lotte che consideriamo progressiste. Questo è, ovviamente, più facile a dirsi che a farsi!
10. Quanto è stato influenzato da Althusser, la sua scuola, e in economia penso a Bettelheim?
10. Ero uno studente negli anni ‘60. C’erano due correnti nella sinistra studentesca marxista, quella “althusseriana” e quella maoista, un miscuglio incongruo. Bettelheim, alla ricerca di nuovi parametri di riferimento, ha cercato di basarsi sulle analisi di Althusser. Ho partecipato al seminario di Bettelheim a Parigi. Si trattava soprattutto di uscire dallo stereotipo del marxismo del Partito Comunista Francese. Althusser ha proposto il progetto di una reinterpretazione di Marx da nozioni come la “rottura epistemologica”, più in generale, una visione della conoscenza che fa dei concetti strumenti di conoscenza (anziché “riflessione”). Queste analisi sono state trasmesse dagli studenti di Althusser all’École normale supérieure. Da loro ho imparato delle cose, soprattutto il progetto di una reinterpretazione. Allora studiavo Marx.
Dopo circa un anno, Bettelheim divenne maoista. Gli studenti di Althusser erano in prima fila al seminario di Bettelheim, con i loro stemmi di Mao Zedong e il sorriso dei giusti da un orecchio all’altro. Era un tempo nuovo. Ho quindi intrapreso una tesi sotto la supervisione di Bettelheim; doveva riguardare la Cina. Ho iniziato a studiare cinese alla Scuola di Lingue Orientali presso la quale mi sono diplomato nel 1968. Nel frattempo la Rivoluzione Culturale aveva interrotto gli scambi studenteschi a cui dovevo iscrivermi. I miei amici erano diventati maoisti. Personalmente dubitavo che l’entusiasmo ingenuo dei miei amici continuasse a crescere. Per sfuggire alla coscrizione militare, ho dovuto impegnarmi in programmi di “cooperazione tecnica”, che mi hanno portato in Algeria per tre anni. Ho cambiato argomento della mia tesi per scrivere “Le concept de loi économique dans le Capital”, sintesi del mio studio su Marx.
Bettelheim era preso dal suo maoismo ma la discussione della tesi è andata bene. Alla fine ho inviato il testo di “Le concept de loi économique dans le Capital” ad Althusser, che si è accordato come me per incontrarmi. Dopo alcune interviste, ha pubblicato questo testo nella sua raccolta di Teoria con un’ampia prefazione, nonostante la violenta opposizione di François Maspero. Alcuni aspetti del lavoro di Althusser relativi alla conoscenza mi hanno illuminato, anche se non mi sono mai considerato “althusseriano”, come Althusser sottolinea all’inizio della sua prefazione. Bettelheim, invece, è sempre stato per me oggetto di osservazione.