Con Toni Negri. 2/4: Soggettività rivoluzionaria

— Toni Negri, Francesco Barbetta, Elia Pupil

per la prima parte: Con Toni Negri 1/4: potere e potenza

Soggettività, tecnologia ed egemonia

PUPIL: La postmodernità, che stiamo vivendo, si presenta sotto forma di un’intima interconnessione tra bios e politica, forza vitale e violenza su di essa. Da qui si aprono due possibilità aperte dalla lotta: o il trionfo dell’eugenetica del potere, o la vittoria dell’innovazione della moltitudine. L’oggetto di questa lotta è la vita o la tecnologia della vita, che può essere sia l’ultimo passo verso il dominio tecnologico del capitale, sia una via alternativa al capitalismo. La lotta politica, oggi, non riguarda solo i salari e le condizioni di lavoro, né l’organizzazione o la struttura politica, ma riguarda la vita. Risulta evidente l’influenza di Foucault nelle sue riflessioni. Come ci aiuta a rileggere Marx? Quanto importante è in tale lettura la sua nozione di “produzione di soggettività” e come riesce ad ampliare o intensificare la portata della teoria marxiana?

NEGRI: Prima di tutto bisogna chiarire il terreno: l’aut aut che sembra essere fondante in questa domanda è la contrapposizione tra la tecnologia della vita e/o la vita. Penso che questa alternativa, se male interpretata, possa deviare dal terreno sul quale la questione è posta, alla domanda se si dia (o no) un’intima interconnessione tra bios e politica. Personalmente non penso che le modalità della tecnologia della vita possano essere contrapposte in maniera assoluta alla vita stessa: si pensi, ad esempio, ai casi in cui la sfera della vita stessa esiste solo mediante tecnologia, si pensi all’ambito medico e alla chirurgia delle protesi. Il rapporto tra vita e tecnologia è, nella mia stessa costituzione fisica, qualcosa che mi fa vivere e sopravvivere. Ne concludo che quando si parla di eugenetica, si rischia l’uso di un termine estremamente pericoloso che si riferisce ad un’ideologia definitivamente caratterizzata dall’esperienza nazista, nonostante (in ipotesi) ci possa pur esser un’eugenetica “buona”. La tecnologia non è il male, contrariamente ad un certo mainstream filosofico che ha troppo seguito; bisogna stare attenti ad un certo heideggerismo di maniera e ad una conseguente lettura di Foucault in termini agambeniani.

Quella (fin qui denunciata) articolazione del discorso ci renderebbe impossibile leggere Marx, perché in Marx tecnologie e vita costituiscono un unicum storico e sociale rispetto al quale ci muoviamo, nel doppio dispositivo di sfruttamento capitalista/strumento di emancipazione. La produttività del lavoro sottolinea questa dualità: sfruttamento umano nel logorarsi della forza lavoro e, di contro, introduzione delle macchine e velocizzazione dei percorsi produttivi in sostituzione del lavoro. Qui arriviamo ad un’altra soglia, quella postmoderna, dove questo tipo di interconnessione si determina su livelli diversi da quelli delineati precedentemente. La questione ecologica, ad esempio, è un elemento di riferimento per l’insieme di questi nuovi livelli: si tenga presente che il marxismo non è mai stato antiecologico.

BARBETTA: E’ la questione del cambiamento tecnologico come lo sviluppo delle forze produttive all’interno di determinati rapporti di produzione: quando Marx parla di cambiamento tecnologico parla sempre di un cambiamento qualitativo denotato dai rapporti di proprietà e di produzione prevalente.

NEGRI: Sono d’accordo. Nella misura in cui cambia la composizione di classe – ovvero l’assetto delle forze produttive – per epoche specifiche, si formano degli assi ontologici, determinanti la nuova composizione, ovvero dei piani rispetto ai quali è impossibile tornare indietro.

BARBETTA: Soprattutto non stiamo parlando del processo tecnico implicato nella visione neoclassica dell’economia, poiché noi lo inseriamo in una dimensione sociale in cui il progresso tecnico non porta automaticamente ad un avanzamento del progresso nel suo senso generale.

NEGRI: Sono d’accordo. Lasciamo perdere gli economisti neoclassici, sennò si dovrebbe tornare a polemiche degli anni ’40; chiamiamoli economisti liberali.

BARBETTA: Tronti diceva che Alfred Marshall era il nuovo Hegel della borghesia perché autonomizza l’economia dalla politica.

NEGRI: Tronti ne ha dette tante, affermazioni che hanno ancora validità così come molte altre soggette all’erosione del tempo (per esser pietosi…). Quello che ci interessa è chiarire che il rapporto tra il lavoro vivo ed il lavoro morto è estremamente complesso: il primo è reso morto dal capitale nello sfruttamento mediante il comando e l’accumulazione; d’altra parte, il lavoro vivo è reso ontologicamente attivo e genera potenza produttiva dentro lo stesso processo. Potete chiamarlo potenza contro-produttiva io lo prendo semplicemente per un fondo ontologico rispetto al quale si caratterizza la composizione di classe. Se non si passa attraverso questa ontologia del valore, non c’è la possibilità di estendere il discorso sul lavoro produttivo al lavoro riproduttivo, nella maniera continua nella quale oggi è possibile fare. È infatti, oggi, impossibile immaginare un’estrazione di valore sulla dimensione globale della vita e della storia se non si accede al livello ontologico del rapporto che si dà tra il lavoro vivo e quello morto.

PUPIL: Sinceramente, con la mia domanda, non volevo proporre implicitamente l’interpretazione agambeniana di Foucault. Questa domanda voleva portare ad un discorso specifico: a discutere attorno non solo la prospettiva di Agamben, ma ad una prospettiva ampia che sta divenendo mainstream in una certa sinistra radicale. Essa si pone agli antipodi del discorso dello stesso Agamben, presentando comunque una, per così dire, opposta pericolosità: parliamo dell’accelerazionismo come ideologia dello sviluppo tecnologico. La differenza che Lei traccia tra sfera della vita e sfera tecnologica al contrario mi sembra un’analisi lucida a fronte dei due estremi, l’uno derivante dalla stigmatizzazione della tecnica tipica del binomio autentico-inautentico presente nella sfera di influenza heideggeriana, l’altra, al contrario, derivante dalla valorizzazione acritica dell’aspetto delle tecnologie della vita come componenti slegate da qualsiasi circuito di sfruttamento, mai considerando dietro a queste il piano di lotta.

NEGRI: Bisogna stare attenti a questo tipo di posizioni, soprattutto alla deriva accelerazionista: nella discussione euro-americana, si è arrivati ad estremizzarla. L’accelerazionismo è stato preso in carico da Land e altri che lo hanno sviluppato in termini parafascisti o comunque ambigui. Lì cade la distinzione tra un accelerazionismo di destra e uno di sinistra. Ho conosciuto Land, allievo di Deleuze, negli anni ‘90: da allora ad oggi, è riuscito a monopolizzare il discorso accelerazionista e a deviarlo verso destra in maniera incisiva.

BARBETTA: Ora se non mi sbaglio lo stesso Land scrive per il governo cinese. Ci sono Srnicek e Williams che hanno dato un’interpretazione di sinistra dell’accelerazionismo.

NEGRI: Io intervenni nel dibattito con un articolo di discussione sulle tesi di Srnicek e Williams. C’è un libretto pubblicato da Merve Verlag, in relazione al Manifesto Accelerazionista, curato da un mio vecchio amico, Matteo Pasquinelli, docente a Karlsruhe. Questo consiste in una raccolta di articoli di autori di sinistra radicale in merito alla questione accelerazionista. Piccolo inciso: Pasquinelli attualmente sta facendo una profonda analisi su un autore spesso citato nel primo libro del Das Kapital, tale Charles Babbage, che lui ritiene una figura geniale ed essenziale nel discorso marxiano sulla tecnica. Per tornare alla domanda iniziale, bisogna capire come si articoli la connessione tra bios e politica, forza vitale e violenza. Per avanzare, è allora necessario comprendere cosa voglia dire “dialettica”. Quando la si sviluppa in un’ottica hegeliana, si ha una dialettica triadica, una dialettica del Tre come dialettica dell’Aufhebung, del superamento. Contrariamente a questa dialettica, dal punto di vista del materialismo, a noi interessa una dialettica esplicitata come confronto che si ferma al due: l’affermazione e la negazione si pongono in una contrapposizione che, nella catena causale, non implica necessariamente alcun aufheben. Questa è la dialettica di Spinoza. È chiaro che la forma espositiva del pensiero marxiano ha una forma in cui la dialettica hegeliana ha giocato un certo ruolo, ma è proprio spogliando la dialettica con cui rileggere Marx di questi orpelli, che si riesce a sviluppare un’analisi sull’interconnessione degli opposti, evitando ogni tipo di teleologia (presente esplicitamente nello sviluppo dell’hegelismo). Bisogna eliminare ogni tipo di prefigurazione del rapporto che apra a strutture internamente finalistiche o di superamento gerarchico. Soltanto muovendo da questa epurazione degli elementi idealisti, si riesce ad aprire all’analisi della produzione di soggettività, cioè alla soggettivazione interna al rapporto causale che ha in sé determinazione e movimento. In questo modo, reinventando la soggettivazione nel cuore della dialettica, si può amplificare la portata della teoria marxiana, ripercorrendola sia in quanto analisi dello sfruttamento, sia in quanto analisi del processo di liberazione (e tenendoli perennemente assieme). Questo cammino è proprio dell’operaismo: non pretende di staccare mai queste due analisi processuali, essendo ben conscio del fatto che una scienza oggettiva del capitale non esiste. Una “scienza operaia” esiste solamente quando la soggettivazione è in atto all’interno del capitale.

PUPIL: Oltre a Land noi abbiamo anche una certa offensiva accelerazionista all’interno dell’interpretazione – pur non landiana ma derivata dalle speculazioni della CCRU –  dei testi di pensatori non accelerazionisti come Deleuze: esempio su tutti il libro Dark Deleuze di Andrew Culp, tradotto e curato in Italia da Ronchi, Di Maio e Vignola. Che ne pensa di questa propensione a rendere ogni autore passato un precursore accelerazionista?

NEGRI: Sono pasticci fatti in famiglia, Land è pur sempre allievo di Deleuze. Non ho mai letto questo libro, forse è nato per semplificare la complessità del pensiero di Deleuze. Ma non è quella la via. Se voi prendete un mio libro appena uscito da Polity Press, Spinoza, Then and Now, trovate un articolo nel quale polemizzo con Hasana Sharp, pensatrice americana che sviluppa un’interpretazione ecologica del pensiero di Deleuze. Io non polemizzo sull’ecologismo del pensiero di Deleuze, che è oggettivo, tangibile, bensì polemizzo contro il fatto che si tenda a rendere l’ecologismo deleuziano in salsa bergsoniana, ovvero fluida, senza alcuna capacità di singolarizzare la presa del reale. Voglio dire che non sembra azzardato muoversi su un terreno siffatto, se si ha in mente che ci sono due Deleuze: il primo antecedente all’Antiedipo e a Millepiani, il secondo che invece si smarca da ogni opzione spiritualista a favore di una prospettiva molto più materialista, coadiuvata dal fertile incontro con Guattari. Se si leggono gli scritti di Deleuze si vede questa evoluzione. Nell’intervista che gli feci, pubblicata nel suo libro Pourparler, gli chiesi se fosse comunista.

Lui mi rispose affermativamente, chiarendo la maniera in cui era diventato comunista accanto a Guattari: comunista, non marxista. Quell’intervista è un bel documento, vale la pena di leggerla perché definisce da un lato come Deleuze possa esser ambiguo, d’altra parte come possa essere estremamente ricco di spunti e sviluppi, incredibilmente utili per avviare allo studio della soggettivazione. C’è poi lo splendido libro di Deleuze su Foucalut: ora si dovrebbe scrivere un libro foucaultiano su Deleuze. Foucault ha scritto la prefazione alla traduzione americana di Differenza e ripetizione, esprimendo in un “il secolo xxi sarà deleuziano” la sua chiave per un’omologia e una tangibile solidarietà concettuale con Deleuze: bisogna seguire questa traccia.

PUPIL. Tornando a parlare del ruolo della soggettività all’interno delle leggi di sviluppo del capitalismo, in particolare parlando di “produzione di soggettività”, lei definisce i processi di “sussunzione reale” come orizzonti che permettono la costruzione di poli di resistenza e di costruzione dell’orizzonte «biopolitico». Che legame esiste tra quella tendenza all’astrazione identificata da Marx come tendenza del capitale, l’astrazione metodologica che Marx utilizza nell’analisi del capitalismo e l’astrazione come processo anticipatore del concreto inteso come prodotto d’invenzione?

NEGRI: Per quanto riguarda il processo di astrazione, esso è definito da Marx per la sua funzione metodologica. L’astrazione deve essere sempre determinata: riguarda l’unificazione del reale attorno a dei concetti che vengono sempre presi con una hic, con una determinazione singolare che lega l’astrazione concettuale al suo movimento temporale. In Marx non c’è mai un’astrazione che sia un’astrazione senza la definizione di una singolarità in movimento. Non si può leggere Marx se non lo si legge in termini diacronici, attraverso la temporalità, in quanto ci permette di cogliere la natura del capitalismo in movimento, ovvero come tendenza. Questa tendenza è tuttavia qualcosa che subisce due modalità di esposizione: la prima è il suo essere anticipatrice, la seconda è l’esser depositaria di realtà ontologica. Così si mostra il rapporto tra produzione in generale ed i vari strati di sussunzione: ci sono sussunzioni “formali” che vanno fino alla sussunzione “reale”, ma quest’ultima è sempre in divenire dentro il movimento. Tale processo di sussunzione corrisponde a successive ricomposizioni: nella ricomposizione, la sussunzione è il deposito ontologico che sta dentro al processo di trasformazione delle forze produttive – questo è quanto ci interessa. Le forze produttive qualificate dal rapporto tra capitale variabile e capitale costante, capitale variabile e capitale complessivo, capitale circolante e capitale fisso, forza lavoro e ambiente (politica e natura): sono questi intrecci che determinano una composizione specifica, determinante il modo di produzione, ovvero determinante il rapporto in cui la forza produttiva si pone con i rapporti di produzione. Sia la forza produttiva che i rapporti di produzione vanno compresi nella loro più grande ampiezza: “sussunzione” è la capacità del capitale di raccogliere sotto il suo comando, interamente o meno, questo snodo del modo di sviluppo. La sussunzione “reale” rappresenta il momento nel quale i rapporti capitalistici di produzione assorbono le forze produttive in senso pieno – sempre relativo al grado di sviluppo di tali forze. Tutto questo ha però un limite ben preciso: la misura in cui il processo di sussunzione reale assorbe la forza lavoro, nella sua interezza, mette sì in atto una dinamica di dominio ma anche un processo di resistenza. Quanto più la sussunzione si presenta intensamente, tanto più si sviluppa in controtendenza un potenziale alternativo-produttivo, altrettanto alto ed intenso. Oggi, questa è la produzione di soggettività. Quando si dice soggettivazione si registra innanzitutto, come abbiamo visto prima, il fatto che la forza lavoro è oggi prodotta (dentro ai rapporti stessi di produzione) in termini soggettivi, ovvero in termini di soggettivazione: tale soggettivazione diviene elemento centrale dello sviluppo.

 PUPIL: La soggettività emerge quando c’è il massimale di dominio, ovvero il massimale di sussunzione.

NEGRI: Esatto! Si trattava di capire da dove veniva questa soggettività! Ed è in questo frangente che capisci come questa sia una questione interna al leninismo. Cerchiamo di situare la cosa cronologicamente. Siamo nei ’70, nel momento di massima insorgenza di soggettività, studiavo Lenin in quel periodo; c’era Luciano Ferrari Bravo, un carissimo compagno e amico, che all’epoca lavorava sulla teoria dell’imperialismo e continuava a fornirmi pezzi utilissimi alla lettura del pensiero leninista. Si trattava di vedere la creatività del lavoro resistente a livello globale, e ciò era possibile ponendo la nostra lettura vicino quella della Luxemburg. E tuttavia non bastava. Sia l’approccio hilferdinghiano, sia quello leninista, sia quello luxemburghista si danno dentro una condizione non superata da nessuno di loro – della classe operaia al centro della storia, e perciò destinata a rimanere soggetto fondamentale del progetto rivoluzionario. Però, ciascuno di questi autori sente l’insufficienza di questa condizione.

PUPIL: Nonostante la differenza tra Hilferding che, riprendendo le tabelle di riproduzione allargata del secondo libro del Das Kapital per vedere se il capitale teoricamente può riprodursi autonomamente in un sistema chiuso mentre la Luxemburg e Grossmann sono più portati ad affermare la teoria del crollo?

NEGRI: Senz’altro, queste differenze ci sono, eccome. Il problema è che bisognava cambiare treno – fissare un altro terreno – non la fabbrica ma il sociale. E farlo attraverso l’inchiesta. Credo che questo meccanismo estremamente empirico nel cercare il luogo, lo spazio, la determinazione singolare della socializzazione del lavoro sia stato un passaggio fondamentale, e che ora si stia andando ben più al di là di dove sia andato io. D’altronde, ognuno di noi lavora pezzetto per pezzetto su questa strada. Solo l’atto pratico, la rivoluzione, può permettere di riempire i vuoti dei nostri discorsi.

PUPIL: Rispetto al rapporto tra classe e massimale di sfruttamento, Gramsci parla (a proposito dell’americanismo) dello sviluppo delle politiche fordiste e tayloriste che vanno a disciplinare l’operaio, inteso come gorilla ammaestrato, sussunto da una parte nel circuito di fabbrica che lo costringe a compiere meri meccanismi automatici di produzione e, d’altra parte, controllato nel tempo libero (esempio storicamente tangibile, la questione del proibizionismo) al fine che certi vizi (come l’utilizzo di alcolici) non possano renderlo inefficiente in ambito lavorativo. Fino a che punto Gramsci riuscì a studiare i processi di sussunzione, nonostante il suo fermarsi alla visione della classe operaia come classe-soggetto?

NEGRI: Gramsci faceva quello che poteva: era già importante accorgersi che c’erano Ford e Roosevelt che trasformavano l’operaio in operaio fordista, e soprattutto era molto intelligente a sospettare che tale disciplinamento del lavoro venisse applicato pure in URSS – sospetto che, se espresso in Unione Sovietica, tranquillamente poteva far patire al malcapitato qualche anno di galera in più. Ciò che fa problema per Gramsci, è che l’hanno preso come un profeta di cose che non erano sue, inventandolo o mistificandolo, cominciando da Togliatti, a seguire Bobbio, il suo grande interlocutore in questo proposito. Poi, di volta in volta, venivano fuori Gramsci diversi: un Gramsci crociano, oppure hegeliano, desantissiano… mai un Gramsci leninista quale era.

PUPIL: A proposito di Gramsci, cosa pensa della ripresa attuata da Poulantzas rispetto la sua concezione di storicismo assoluto come non più nozione di ascendenza crociana ma dominata da una necessità performante che “non aveva nulla a che fare con alcuna concezione teleologica e metafisica della storia”, conscio del “carattere complesso, irregolare e multi-temporale del processo di emergenza dell’egemonia borghese” che avvicina il pensatore sardo ad “un’ontologia di singolarità e incontri, più vicina in questo senso al materialismo aleatorio successivo di Deleuze o Althusser, piuttosto che a Hegel” ? Che eredità secondo lei, in tempo di Moltitudini, ha il concetto di Egemonia di Gramsci?

NEGRI: Gramsci non bisogna trasformarlo da quello che era davvero, ovvero un autore leninista, a qualcos’altro. Quando Gramsci parla di egemonia, parla di dittatura del proletariato – che non è il totalitarismo di cui parlano autori come la Arendt, e neppure l’esercizio totalitario dell’apparato di potere statale sulla sfera della vita (un po’ come si dice faccia la Cina sugli Uiguri) – bensì è una forma in cui si deve sviluppare il socialismo come economia collettiva principalmente di piano che toglie ai capitalisti la proprietà dei mezzi di produzione. Egemonia è la capacità di accompagnare questa rivoluzione con un sostegno sociale e statale adeguato, condurlo è compito prioritario dei comunisti. Subordinatamente si tratta allora di considerare l’esercizio di tali misure e tali politiche prevalentemente in ambito agrario, al fine di organizzare il passaggio dei contadini all’industria, riorganizzando in concomitanza la città. Questo processo Gramsci ce l’ha ben in mente perché è leninista: in molti vogliono ora farlo passare come teorico della gloriosa storia del PCI, ma questo partito, con la sua idea di democrazia progressiva e di coesione tra forze politiche differenti, non corrisponde affatto al modello egemonico di Gramsci. Il PCI fu piuttosto l’anticipazione (non cosciente ma storicamente realizzata) dell’egemonia secondo Laclau, dell’egemonia populista. Questa posizione di Laclau rappresenta un tradimento profondo del pensiero gramsciano: Laclau è legato ad una composizione di classe completamente diversa (dell’Argentina della metà del secolo scorso) e ad un’ideologia specifica: il populismo peronista.

Di veramente originale in Gramsci c’era il discorso sul sud, tutt’ora valido all’interno di una vasta letteratura sul sud, che non è solo gramsciana. Insomma, Gramsci è un formidabile esempio di sapere e di militanza nel passato. Bisogna smascherare il tentativo di farlo passare per profeta: lo ridurrebbe ad essere un profeta di miseria e di sconfitta. La ripresa di Gramsci da parte di Poulantzas, di cui abbiamo tra noi parlato, era già più cauta rispetto alla questione dello storicismo: lui spesso ironizza in termini post-strutturalisti, come nella citazione riportata nella domanda. Siamo invece d’accordo sul fatto che lo storicismo di Gramsci non è lo storicismo crociano. Ma a questo proposito, seguendo l’indicazione di Poulantzas, andiamo più a fondo nel collocare Gramsci nel pensiero rivoluzionario del xx secolo. Ad esempio, poniamoci il problema del rapporto del suo pensiero con quello di Althusser. Ora, il rapporto tra Gramsci ed Althusser è nullo: il pensiero di Gramsci è totalmente storicista ma leninista. Althusser non accettava la lettura di Marx umanista, mentre Gramsci venne influenzato dall’attualismo gentiliano, ben diverso dalla “dialettica dei distinti” e da tutte le strategie crociane per tenere assieme l’uno, il due ed il tre. Senza qualche fortuna.

Diciamo piuttosto che pur coloro che nel dopoguerra si richiamavano esplicitamente a Croce, erano in realtà gentiliani: il gentilianesimo in Italia è stato molto profondo nelle scuole di filosofia, e anche ora è molto presente, nonostante ci si vergogni a dirlo. C’era un mio quasi omonimo, Antimo Negri, professore a Roma, che era molto divertente perché prendeva in giro tutti quelli che tentavano di rifiutare il gentilianesimo da posizioni di sinistra, non accorgendosi di essere fermamente gentiliani. Nel ‘79, l’anno in cui mi rinchiusero in carcere, proprio su indicazione di Althusser stavo facendo all’École Normale Supérieure a Parigi un corso su Gramsci; l’anno precedente l’avevo fatto sui Grundrisse.

Dovetti sospendere il corso poiché tornando in Italia venni arrestato. In questo seminario lavoravo assieme al traduttore francese di Gramsci che integrava il mio corso; lui era un bordighista, quindi andavamo abbastanza d’accordo nella valutazione di Gramsci. Ma ritorniamo appunto a Gramsci-Pulantzas, la cui definizione dello storicismo gramsciano mi sembra corretta. Ma aggiungevamo: Gramsci è storicista ma anche leninista. È quest’ultimo carattere che mi pare il più importante: non solo il proletario fa la storia, ma facendola si libera; non soltanto le moltitudini fanno la storia, ma costruiscono una cooperazione linguistica e produttiva sempre più larga. A me sembra che in Gramsci, più che in altri autori marxisti del xx secolo, ci siano questo spirito moltitudinario, questa intelligenza della cooperazione: questo e null’altro aprono il suo pensiero al xxi secolo.

PUPIL: Quindi si può tranquillamente dire che l’ambito dello storicismo gramsciano è totalmente a sé stante, non necessitando di quella metafisica dello sviluppo che si può trovare in Croce?

NEGRI: Questo senz’altro. Gramsci non chiude il processo storico nello storicismo (= determinismo + teleologia). È un processo che rimane aperto, aperto nella lotta di liberazione: la finalità storica è – mano a mano –totalmente eliminata a favore della finalità che i soggetti pongono dal basso. Questo processo chiamiamo di soggettivazione. La soggettivazione introduce anche finalità in quanto espressione che compete alle forze produttive, e che le costituisce in macchine di libertà: la storia è discontinua, è storia di lotte che residuano metamorfosi ontologiche. È certo il fatto che dopo la lotta non si torna più indietro. Se c’è stata sconfitta, ci si ferma, ma in ogni caso più avanti di dove si era partiti. Bisogna stare attenti a non prendere troppo sul serio la continua ripetizione che si fa di una frase di Benjamin: la storia come storia di catastrofi. Sarà vero che l’Angelus Novus guarda indietro e vede catastrofi, ma tra le catastrofi c’è pure il Welfare State, una delle più importanti conquiste della lotta di classe nel secolo scorso. Il Welfare State non si deve mollare, è stata la garanzia dell’allungamento della vita. Devo dire che gli allievi di Althusser, da Balibar a Pulantzas a Jessop, sono stati molto chiari nel sottolineare questa vittoria.

BARBETTA: Spesso il comunismo è visto solo come il raggiungimento di una società ideale, mai nella sua forma di movimento. C’è sempre una sottovalutazione velata delle lotte, oscurate dall’imponenza storica dei fini.

PUPIL Lo stesso Bensaid in un commentario sulla frase di Gramsci prima citata, in cui l’unico elemento scientificamente determinabile è la lotta, pone la differenza tra la “necessità prescrittiva” tipica delle teleologie e una “necessità performante” che può rendere conto del comunismo solo in lotta, in movimento.

NEGRI: È una bellissima definizione di che cos’era la lotta comunista per Gramsci.

Quanto a Bensaid, era un trotskista molto aperto, contrariamente a Callinicos, altro grande manitou (col quale feci un dibattito feroce a Saint Denis nelle assemblee no-global). Comunque Bensaid era pure lui un uomo di partito e con me polemizzò nel 2005 attorno al referendum francese per la Costituzione Europea: io ero a favore della Costituzione, sono europeista fino in fondo, e lo resto. Fu per me un periodo difficile. Dovetti stare attento a mantenere un certo distacco dalle posizioni decisamente destrorse del mio vecchio amico Cohn-Bendit, con cui feci un ciclo di incontri a favore dell’approvazione della Costituzione. Bensaid mi attaccò aspramente. A posteriori non posso dire abbia fatto, in quel caso, una scelta corretta. Lui ed il suo partito speravano, unificando le forze antieuropee, di aprire un fronte unitario per le elezioni della presidenza francese che erano proposte subito dopo il voto europeo. Era, il loro, un progetto estremamente ambiguo, sovranista, ed inoltre fallimentare perché si dirigeva a forze quasi tutte di destra che ovviamente non aderirono alla linea proposta. Posso aver fatto errori tattici, loro fecero degli errori strategici.

BARBETTA: Ha parlato del movimento no-global: come mai secondo lei quel movimento è giunto al termine? Dove si è arenato?

NEGRI: Il movimento no-global fu un fenomeno di grande valore. Fu bloccato con operazioni politiche repressive che ne impedirono il ricambio generazionale. Si arenò in Italia attorno a quel brutto corpaccio oramai putrescente che era il vecchio PCI; Rifondazione tentò di recuperare il movimento con una polemica contro la violenza tanto retoricamente vibrante quanto politicamente inutile, perdendo così completamente la gioventù comunista che si rintanò nel movimentismo. Perché mai RC fece questa mossa politica, così dannosa e gratuita? Era coscientemente finalizzata ad allontanare COBAS e autonomi dalla sua base politica. Non avevano capito che per crescere politicamente in Italia o si cerca un nuovo terreno, tagliando ogni possibile relazione col passato, o si finisce come il corpaccio morto ed enorme che ci è rimasto in eredità del PCI, un corpaccio marcio entrato dappertutto, negli apparati istituzionali, nella cultura popolare e negli ambiti familiari. Senza una generazione che decide di non far più propria quella tradizione puramente istituzionale, non ci sarà mai più una sinistra radicale. E invece a sinistra si cerca sempre il papà, ricostruendo l’unica esperienza che si considera esser stata giusta ed efficiente: quella del PCI. Bisogna invece ormai puntare al futuro lasciando decomporre quel corpo che non ha più nulla da dirci. Certo, fu l’unica sinistra valida, agente dal ‘43 al ’56, per poi passare il testimone ad un immenso corpo burocratico, che già negli anni ’60 verrà a definirsi in pochi anni come forza socialdemocratica (sino a portar, con D’Alema, la guerra in Jugoslavia!). Ci si chiede ora perché i movimenti autonomi, antagonisti a questa logica, non siano riusciti a restituire nulla di nuovo. Forse perché non hanno idea di come sviluppare una ricomposizione di forze adeguate ad una nuova composizione tecnica e politica del proletariato del postmoderno. In Europa, l’unico esempio di ricomposizione politica è stato lo spagnolo Podemos, che ha applicato Laclau. A queste condizioni, meglio aspettare ancora un po’ che la ricomposizione si dia, senza Laclau, e senza neppure un’oncia di pciismo.

BARBETTA: In relazione invece a movimenti come Barcellona in Comune?

NEGRI: Barcellona in Comune è stato un progetto molto intelligente, ma la dirigenza è stata schiacciata sia dalla linea di Podemos sia, in Catalogna, dalla sinistra catalana, ovvero da un insieme molto strano di militanti… talora sembrano avere molto più in comune con la Lega Nord di Bossi che con un movimento comunista. Si può diventar matti cercando di creare un polo sovversivo, comunista, tra queste due posizioni.

BARBETTA: In Francia al contrario Melenchon ha cercato in tutti i modi di civettare con gli elettori della destra sovranista, tentando ottenere una qualsiasi leadership all’interno del movimento dei Gilets Jaunes.

NEGRI: Cosa che i Gilets Jaunes non accolsero affatto positivamente: la loro lotta ha inaugurato un anno di mobilitazioni e proteste della qualità dello Champagne più pregiato! Poi c’è stata la repressione, poi c’è stato il massacro degli innocenti: non riuscite ad immaginare cosa abbia fatto la polizia in Francia contro i manifestanti, siamo al di là del bene e del male. In quarant’anni di esperienza di lotta contro la polizia, non ho mai visto una tale violenza: impediscono i cortei entrandoci a forza e con estrema violenza, e se reagisci utilizzano armi tremende come le flash balls, per accecare – che hanno fatto centinaia di feriti gravi. Sono armi illegali in moltissimi paesi europei.

PUPIL: Tant’è che in Italia c’è ancora la moratoria sul loro uso.

NEGRI: Si ha paura ormai pure di uscir di casa. Ma proprio in questo contesto si riesce a vedere come incredibilmente i Gilets Jaunes siano riusciti a imporre due caratteristiche essenziali per un movimento rinnovato, ovvero presenza e continuità. Esiste inoltre una forte capacità di elaborazione, seppur in condizioni molto difficili. In ogni caso, i GJ riescono a tenere assieme proletariato urbano e classi popolari non cittadine che hanno sofferto più di tutti i contraccolpi della globalizzazione. Ora, il problema da mettere in primo piano è come organizzare, unificare nel movimento il proletariato colorato, che è stato fin qui estromesso per la sua natura identitaria dal movimento, seppur poi riassorbito nelle varie lotte: il balzo in avanti sarebbe enorme.

Abbiamo in Italia ancora tanto lavoro da fare se vogliamo arrivare a scadenze di questo genere.

 

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