— Toni Negri, Francesco Barbetta, Elia Pupil
- per la prima parte: Con Toni Negri 1/4: potere e potenza
- per la seconda parte: Con Toni Negri 2/4: soggettività rivoluzionaria
BARBETTA: Spesso ho letto alcune critiche al suo lavoro in cui la si accusa di porre fine alla differenza tra lavoro e capitale attraverso il concetto di lavoro immateriale. A me sembra, invece che le sue riflessioni mirino ad analizzare l’egemonia del lavoro immateriale, ovvero a chiarire come una certa forma di lavoro tende a diffondere i suoi elementi e le sue caratteristiche ad altre forme di lavoro e alla società in generale. L’egemonia del lavoro immateriale porterebbe alla costruzione di una cooperazione autonoma rispetto all’impresa capitalistica, in cui gli strumenti di lavoro sarebbero in gran parte le capacità generali delle persone, incorporate in esse – il general intellect.
Lei, dunque, mette in relazione l’egemonia del lavoro immateriale con l’affermazione di una nuova forma di lavoro nel determinare il surplus di produttività, nella creazione di plusvalore.
NEGRI: Sono d’accordo. Ragionare così significa seguire il meccanismo della tendenza. È questo qualcosa di assolutamente implicito nell’analisi marxiana che definisce un modo di lavorare e lo incorpora nel modo di produzione. Modo di lavorare e modo di produzione sono cose sempre diverse, ma sempre collegate – laddove il lavoratore fa muovere sistemi meccanici sempre diversi nello sviluppo storico del capitale e trae da questo rapporto forme del vivere, ma anche dove la trasformazione del lavoro (e del lavoratore) determinano nuovi sistemi di macchine. Questa serie di rapporti è raccolta nel concetto di “composizione tecnica” della forza-lavoro.
BARBETTA: Questo può spiegarci perché ci sono forme di lavoro non capitalistiche che convivono nel capitalismo stesso.
NEGRI: Esattamente, così come ci sono diverse forme di sussunzione del lavoro nel capitale.
BARBETTA: Si tratta comunque di una tendenza che attiva delle controtendenze.
NEGRI: Tendenze e controtendenze che qualificano ogni composizione specifica del lavoro vivo e specificano il modo di produzione in una fase di sviluppo. Queste tendenze e le controtendenze si propongono esse stesse a vari livelli. Possono darsi a livello locale e/o a livello globale. Si tratta di capire come l’una e l’altra vengano a incrociarsi in una composizione specifica che va analizzata come tale. Da questo punto di vista c’è un esempio di analisi (secondo me assolutamente formidabile) che tiene cioè presente l’oggetto in questi diversi modi: sono i contributi (nei Quaderni rossi) sulla Fiat e l’Olivetti di Romano Alquati. Romano fu il primo degli operaisti che ha sempre avuto presente questa massiccia diversità di livelli (locali e/o internazionali) e la maniera nella quale questi coincidono e/o si differenziano, in tutta la loro contraddittorietà. Si tratta di una scoperta innovativa di metodo.
Tornando alla tendenza: essa, da questo punto di vista, è aperta, multipla e si dà all’interno del rapporto di forza dei lavoratori nella lotta di classe.
Soggettività ed oggettività si mescolano nel formarla. Quindi: la tendenza non è astrattamente oggettiva, è nella lotta di classe che si determinano la sua oggettività e materialità.
BARBETTA: Questa fa sì che il soggetto che noi analizziamo non è un soggetto agito, dipendente da meccanismi oggettivi a lui esterni. Si confronta con una realtà che lui può modificare attraverso il conflitto.
NEGRI: Certo, può agire con il conflitto perché è dentro il conflitto. Viene prima la lotta di classe e poi lo sviluppo capitalista. Bisogna ben intendere che la lotta di classe non è solo quella che fanno gli operai in fabbrica, talvolta pretendendo che solo la loro sia lotta di classe. La lotta di classe è dentro il rapporto di capitale. Il capitale è un rapporto antagonista tra due soggetti: tra capitale variabile/lavoro vivo e capitale fisso (costante)/padrone, comando padronale.
Questo rapporto antagonista è sempre in atto, anche quando sembra non esserci più. C’è anche quando sembra non ci sia – laddove, illusoriamente, si vede solo zoè, nuda vita; ma la zoè operaia è sempre antagonismo. Si tratterà di vedere su che dimensioni, in quale ambito. La cosa assolutamente fondamentale è assumere il capitale come rapporto antagonistico.
BARBETTA: Quindi l’irriducibilità del lavoro a mera appendice del capitale:
NEGRI: Certo, è il capitale che è riducibile ad appendice del lavoro. Da questo punto di vista, anche tutta una serie di teorie del valore dovremo rivederle. Perché quando si parla di valore si parla di lavoro, quando si dice che la legge del valore non funziona più o funziona solo in maniera ridotta, non si dice assolutamente che la produzione non sia sfruttamento del lavoro.
BARBETTA: Senza forza lavoro il capitale è un ammasso di fattori produttivi meno il lavoro: necessariamente ha bisogno di questa soggettività che il capitalismo crea, ma non può ridurla mai ad appendice della macchina. Il lavoratore non potrà mai esser ridotto a semplice appendice della macchina: ed è qua che si forma la contro produttività in potenza e nasce una visione ontologica antagonista a quella del padrone: non è il capitale ad esser produttivo, lo è la forza lavoro. Il capitale diventa produttivo se c’è il lavoratore.
NEGRI: Sono d’accordo salvo il fatto che quando si parla di lavoratore si parla di qualcosa che, alla fin fine, è molto difficile da determinare. Per esempio, quando arriviamo a parlare di sussunzione reale, e cerchiamo una singolarizzazione, dobbiamo parlarne in termini globali. Bene – una delle ragioni che mi ha portato a studiare la globalizzazione, è stata la necessità di dar materialità a questo discorso: che cosa significa sussunzione “reale” nella situazione che stiamo vivendo? In una situazione nella quale la socializzazione delle forze produttive si dà interamente e nella quale trova concretezza il concetto di operaio sociale? La “conricerca” ci aveva permesso di passare dall’operaio fordista a quello sociale: quello fordista riuscivo a collocarlo, quello sociale mi era sempre più difficile farlo. Aveva bisogno di spazialità: questa era da trovare nella sussunzione reale. La vedevo nelle migrazioni, nella precarietà, nella mobilità estremamente alta della forza lavoro: questo serviva alla polemica anti-fabbrichista, polemica utilissima nel far capire che i colonizzati non appartenevano ad un altro mondo o un terzo mondo, ma potevano essere interni allo sviluppo capitalista nella maniera più diretta. Ma bisognava andare più avanti. Era così costruito nel dibattito l’attacco a tutte quelle interpretazioni del marxismo che vedevano nel proletariato occidentale, industriale, il solo soggetto storico destinato dai meccanismi del capitalismo ad essere anche soggetto della rivoluzione. Di contro, si trattava di spazializzare quello che veniva dopo l’operaio di fabbrica.
BARBETTA: Si tratta del tentativo di guardare alla teoria del plusvalore come autonoma dallo sfruttamento capitalistico. Continuando il nostro discorso, questa egemonia del lavoro immateriale implica anche che questa estrazione di plusvalore non si darebbe più nelle fabbriche ma nelle reti sociali?
NEGRI: Quando parliamo di “egemonia” del lavoro immateriale, della sua rilevanza, della sua più alta incidenza bisogna stare attenti. Perché quando (ad esempio) si parla di egemonia del lavoro industriale rispetto al lavoro manifatturiero non industrializzato nell’Inghilterra del xviii secolo, si parla di una base minima ma che guida la tendenza. Così faceva Marx. Per quanto ci riguarda, quando cominciammo a lavorare sull’immateriale si trattava di identificare (talvolta su basi assolutamente minoritarie) la tendenza, che era quella al lavoro immateriale. Solo in questi termini si poteva parlare di egemonia del lavoro immateriale. Quando alla fine degli anni ‘70 o al principio degli anni ‘80 con alcuni compagni ci accorgemmo che il lavoro diventava sempre meno materiale con l’intervento delle macchine telematiche, informatiche, con la riorganizzazione sociale della produzione… ad iniziare con il toyotismo.
BARBETTA: Il toyotismo è un ibrido tra fordismo e questo lavoro immateriale
NEGRI: Infatti, ma non è solo un ibrido bensì un originale momento di trasformazione. Prendiamo come esempio le automobili ibride, che sono tali perché vanno a benzina ed elettricità. Sono ibridi che vogliono diventare macchine elettriche. Nel toyotismo il circuito produzione-circolazione diveniva breve e il rapporto tra il produttore, che stava alla base del circuito, e il consumatore, era attuato in brevissimo tempo. C’è stata una riduzione del tempo di circolazione riportata all’interno del ciclo produttivo. Quando Coriat ha scritto un libretto, pubblicato da Materiali Marxisti, già alla metà degli anni ’70, ha visto bene questa cosa.
BARBETTA: Quindi – assunta dal punto di vista dell’ l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro – cosa significa quando si dice “cooperazione autonoma”?
NEGRI: Significa che la forza lavoro, impegnata in un’industria o in qualsiasi progetto industriale, è obbligata a sviluppare un livello di intelligenza superiore a quello che concede al processo produttivo. La relativa indipendenza nel costruire il rapporto produzione/circolazione (toyotismo) diviene sempre più forte quanto più la forza lavoro è spinta a cooperare nel nuovo modo di produrre. Nelle reti che lo compongono. Nella cooperazione, quindi, questa intelligenza della forza-lavoro è estremamente produttiva e viene, per così dire, strappata, tolta al capitale. Il capitale cerca disperatamente di andare oltre questo rifiuto, questa potenza. Si veda, ad esempio, come i capitalisti usano adesso il lavoro a distanza. Si tratta per loro di una chiave fondamentale per rompere ogni fenomeno di centralizzazione, di associazione che può, nella lotta di classe, divenire esplosivo. Questa crescita della forza lavoro autonoma bisogna intenderla per quello che è: i lavoratori cooperano perché trattengono questa produttività, pronti a svilupparla altrimenti se ci fosse alternativa. Mi piace riconoscere una sorta di “potenza spinozista” da mettere qui in movimento. Con questa cooperazione autonoma, non abbiamo il potere, abbiamo una potenza che può diventare atto creando circostanze, esplodendo, trovando l’Evento. Ed organizzandolo.
BARBETTA: Si tratta del Comune?
NEGRI: Abbiamo sperimentato centinaia di tentativi di organizzazione, e siamo qui ancora a sperimentare, evidentemente. Non sono certo che il leninismo, così come è stato usato nel ‘17, oggi possa funzionare. Anche se io resto leninista. Questo non significa essere certi che un piccolo partito, nel quale si marcia mano nella mano, non possa conquistare il potere. Mi accontenterei che potesse semplicemente tenere la direzione del Welfare, agire insomma, su un livello che interessi tutti i lavoratori.
Tornando a noi. Quando parliamo di cooperazione autonoma, dobbiamo parlare di questa modificazione nel rapporto di lavoro e vedere come incida sulla composizione della classe.
Prima di tutto chiarisco cosa significa “composizione di classe”.
Se la “composizione organica” del capitale è data dalle varie misure di capitale variabile e capitale costante e del loro rapporto, la composizione della classe è data dal rapporto fra la sua composizione politica e la sua composizione tecnica. Abbiamo diverse composizioni tecniche, attraverso periodi diversi. Si può fare una storia della classe operaia, inseguendo la composizione tecnica del lavoro e le sue trasformazioni. Ad esempio mio nonno, che faceva il bracciante agricolo, era qualcuno che usava le mani e le spalle e qualche strumento manuale. Mio padre invece era un impiegato, ed usava solo le sue mani. Anch’io uso le mani ma anche e soprattutto la testa per lavorare… Anche se non si direbbe.
Ora, il singolare modo di lavorare è strettamente legato alla forma del processo produttivo. Manifattura, grande industria, ed ora epoca delle reti (o delle piattaforme, o del General Intellect) implicano diverse composizioni tecniche del processo lavorativo. Il modo di lavorare di mio nonno, di mio padre e mio si collocano dentro la composizione tecnica (sicuramente fino agli anni ’70 inclusi) della grande industria. A quella composizione tecnica (fin qui considerata dal punto di vista del processo lavorativo) corrispondevano specifiche norme di consumo, singolari modelli di regolazione sociali e politici. Questo insieme, gli operaisti chiamano composizione politica. Ieri, questa composizione si mostrava essenzialmente nella cultura socialista delle masse e negli indirizzi politici del Partito. Oggi, la composizione politica è profondamente mutata, in seguito alle modificazioni della composizione tecnica. Oggi, l’uso della testa per lavorare è senz’altro predominante…
BARBETTA: Tutto ciò è anche collegato al tema del rifiuto del lavoro?
NEGRI: Intendi dire che da facchino a impiegato e a intellettuale si è messo in gioco il rifiuto del lavoro? Certo, questo è rifiuto del lavoro. Tu interpreti in maniera sana il rifiuto del lavoro, era proprio un grido: “Basta lavorare, non ne posso più di morire di lavoro”.
Qualche giorno fa, ragionando con un compagno che lavora in Russia e scrive sulla Russia, gli chiedevo come mai c’è tanta nostalgia dello stalinismo oggi in quel paese. Mi rispose dicendo: “Parliamoci chiaro, c’è stata la Grande Guerra Patriottica, che ha portato la bandiera rossa sopra il Reichstag, ed è un fatto importante per la coscienza nazionale… ma soprattutto c’è il fatto che sotto Stalin gli operai lavoravano quando gli andava. Oggi invece se vai a leggere gli indici della pesantezza del lavoro, la Russia è al quinto posto nel mondo. Mentre prima, in fabbrica, gli operai, quando erano stanchi, dicevano: ‘basta!’” E il Soviet eseguiva!
BARBETTA: Propri su questi temi scrisse tanti libri Rita Di Leo in Italia.
NEGRI: Certamente, ma spesso quei temi venivano usati in maniera antisovietica. Va di contro tenuto presente che i Soviet sono stati una grande cosa, nonostante gli operai lavorassero poco.
BARBETTA: Ritornando alla domanda, questa egemonia del lavoro immateriale implica anche che questo eccesso di produttività non sarebbe più nelle fabbriche ma nelle reti sociali, come può tale caratteristica potenzialmente emancipatrice dar luce ad un soggetto rivoluzionario? Dove potrebbero formarsi questi nuclei di soggettivazione?
NEGRI: Questa è una questione importante. Seguiamo la tendenza alla socializzazione del lavoro, la quale implica che questo incremento di produttività non si dia solo nelle fabbriche ma anche e soprattutto nelle reti sociali. Bisogna tuttavia stare attenti, non bisogna mai dire “basta con le fabbriche”. Nelle reti sociali si comprendono anche le fabbriche. Il problema è di definire la tendenza. Ad esempio, si deve comprendere come tra dieci o vent’anni saranno probabilmente solo le reti sociali a produrre la “ricchezza delle nazioni”. E se vi saranno solo i robot a produrre, come si costruisce una soggettività antagonista in questa tendenza?
La domanda sul soggetto rivoluzionario implica questa domanda: dove possono riscontrarsi o dove potrebbero formarsi – a quelle condizioni – dei nuclei di soggettivazione? La risposta non può essere che questa: questi nuclei di soggettivazione possono formarsi solo dentro la socializzazione del lavoro, per prima cosa, dentro le reti, dentro il rapporto di sfruttamento e di estrazione di valore che si stabilisce a questo livello. Dentro e contro.
E qui, allora, c’è un ulteriore discorso da fare. Quando si parla di cooperazione produttiva relativamente autonoma, e tendenzialmente “egemone”, si tratta di qualcosa che alcuni di noi chiamano “Comune”. Quindi il Comune è il prodotto del passaggio della forza-lavoro dal lavoro manifatturiero a quello di un alto grado di socializzazione, insomma, dalla composizione industriale-cognitiva al General Intellect. Nell’evoluzione del lavoro cognitivo socializzato si dà la costituzione del Comune. Questa è la base dentro la quale si tratta di iniziare a costruire un progetto comunista. Si tratta di un discorso che fanno ormai molti compagni, a partire dall’analisi del “capitalismo delle piattaforme”. Cioè di un capitalismo che costruisce la base del Comune, attraverso uno sfruttamento fortissimo dell’intelligenza del lavoro socializzato connesso in rete. Ma non solo l’intelligenza bensì anche i corpi, la forza fisica, e tutto quello che costituisce il vivente, viene messo al servizio della capacità di lettura ed operativa della macchina automatica. È tuttavia su questa base, rovesciandone la potenza del lavoro vivo contro il progetto capitalistico, è su questa base comune che oggi si può iniziare a costruire un progetto comunista. Si tratta di un potenziale che sta alla rivoluzione a venire come l’avanguardia dell’operaio sovietico stava alla Rivoluzione d’Ottobre.
L’operaio sovietico era l’avanguardia di un tessuto enorme di proletariato (anime morte dei servi della gleba), di un’enorme massa di contadini e di proletari ai bordi delle città. La classe operaia cos’era? Era l’avanguardia. L’avanguardia industriale che conosce il meccanismo della fabbrica e può riprodurlo. E il partito che cos’è? Si tratta dell’avanguardia nell’avanguardia. L’avanguardia politica dell’avanguardia industriale, materiale, che si è costituita nella fabbrica. Il partito di Lenin è l’espressione delle officine Putilov. L’organizzazione del partito era la stessa della fabbrica. La centralizzazione del progetto che viene interpretato dai suoi operatori, dai militanti del partito. Il partito non è un’essenza democratica, è un’essenza di comando, di avanguardia per la rivoluzione. La partecipazione riguarda il progetto, l’adesione ad esso. Si badi bene, paradossalmente può essere una produzione spontaneista, ed in un certo modo è stato questo: nessuno è stato costretto ad entrare nel partito bolscevico prima della rivoluzione. Nel partito bolscevico è entrato chi voleva entrarci. Ed era gente che ha dato la vita per la rivoluzione.
Lì si creava immediatamente la corrispondenza tra la composizione tecnica del proletariato, la composizione politica (cioè il partito) e il processo rivoluzionario. Oggi, se la composizione tecnica della classe operaia (e il proletariato diffuso in quanto figura del lavoro cognitivo) non è esaustiva della forza-lavoro ma comprende in sé la socializzazione in rete di questa, chiamiamola piattaforma del Comune: essa trattiene la potenza materiale di una composizione tecnica alla quale dobbiamo far corrispondere una composizione politica. Noi abbiamo oggi la necessità di identificare una forma politica che corrisponda a questa figura. Perché la rivoluzione oggi può darsi solamente se il Comune viene portato direttamente al potere.
PUPIL: Che corrisponde anche ad una formula interamente antipopulista.
NEGRI: Assolutamente.
PUPIL: Riprendendo anche Lenin nella sua polemica contro i menscevichi e il puro proselitismo, contro il partito di proseliti e non di libere individualità.
NEGRI: Sì, sono d’accordo. Riprendendo il nostro discorso: nuclei di soggettivazione potranno formarsi ed esercitarsi nella lotta di classe dentro questa costruzione del Comune. Nuclei di soggettivazione che sappiano, ad esempio, trasformare la corporazione sindacale in organizzazione rivoluzionaria. Questo può essere un terreno di prova. Da quando è caduto il comunismo, i sindacati, nella società neoliberale, sono diventati degli operatori diretti del sistema capitalista. Si tratta di reinventare lo scontro di classe sul terreno sociale – fuori dalla fabbrica, non escludendola, ma riassumendo la forza degli operai industriali dentro la potenza sociale di tutti i lavoratori subordinati.
BARBETTA: Però ci sono anche i sindacati di base come i Cobas o CUB che cercano di cambiare rotta.
NEGRI: Certo, ma il rapporto è sempre difficile con loro, perché continuano ad avere la fabbrica come punto centrale di organizzazione. A me sembra invece che sia nella società che bisogna organizzare una classe lavoratrice ormai formata da mille diversi colori, generi, ecc.
BARBETTA: Oltretutto c’è una forte difficoltà a rappresentare i lavoratori legati al lavoro cognitivo, come gli ingegneri informatici o i dipendenti di Google. Spesso nasce da un loro sentirsi diversi da una classica tuta blu.
NEGRI: Ma prima o poi ci riusciremo. Stamattina leggevo una cosa divertente. Facebook faceva una politica di urbanizzazione dei suoi quadri attorno alle sue fabbriche, i suoi centri di produzione. Adesso, durante la pandemia, questa gente ha iniziato ad andare in campagna, nella sua seconda casa. Evidentemente parliamo di gente che non si muove al livello della sopravvivenza, come dici tu. Facebook ha allora cominciato ad insistere perché andassero in campagna ma – e questo è divertente – ha abbassato immediatamente i salari perché in campagna il costo della vita è inferiore rispetto alla città. Sono infinite le vie del Signore per cui la gente si incazza con il padrone!
BARBETTA: La difficoltà risiede nel farlo capire. La contrattazione individuale, il tentativo di valorizzare il proprio capitale umano individualmente, non porta da nessuna parte.
NEGRI: In Francia, con il movimento dei gilets jaunes, molte cose sono cambiate a questo livello, anche sul piano sindacale. Il movimento si è veramente dimostrato molto avanzato ed è riuscito, finché la pandemia non ha bloccato tutto, a far convergere lotte diverse: quelle contro la nuova politica governativa delle pensioni (non certo per aumentarle) e quelle contro la polizia e la sua assatanata voglia di reprimere, ecc. ecc.
BARBETTA: La CGT ha cercato un dialogo con questo movimento.
NEGRI: Lo ha cercato. Anche se, trattandosi della CGT, è sempre molto difficile capire quello che succede realmente al suo interno. Però è vero che a partire dalle lotte dei ferrovieri per arrivare a quella sulle pensioni negli ultimi tre anni c’è stato sicuramente un avvicinamento della CGT prima con i movimenti e poi con i gilets jaunes.
Ma con la CGT occorre essere sempre guardinghi: promettono e non praticano. Per esempio, ho partecipato alle lotte del ‘95 in maniera diretta e alla fine di queste lotte ho fatto un’intervista al segretario della CGT-ferrovieri di allora, Thibault, che ne aveva diretto le lotte e poi è diventato segretario generale. Questa intervista l’ho riletta dieci volte nei dieci anni che seguirono perché là mi giurava che la CGT sarebbe tornato ad essere il sindacato dei lavoratori, dei consigli e via di questo passo. Ed invece non ha fatto assolutamente nulla.
PUPIL: Io mi ricorderò sempre quando protestarono contro la “Loi travail”, che in Italia chiamarono il Jobs Act francese, nelle proteste la CGT era la minoranza di fronte ad una massa, invece, piuttosto spontanea.
BARBETTA: Questo però deriva anche da una storica bassa sindacalizzazione degli operai francesi.
NEGRI: C’è piuttosto un’alta politicizzazione. I gilets jaunes, nel giro di poche settimane, hanno portato centinaia di migliaia di persone a parlare di politica. È un processo non ancora finito perché adesso si è aperta una battaglia sulla sicurezza contro la polizia e i suoi metodi. Oggi pomeriggio c’è una manifestazione contro questa legge a Parigi e la prefettura non la voleva far fare. La magistratura ha aperto alla possibilità di farla – c’erano molte migliaia di persone e la questione sta divenendo centrale.
BARBETTA: Tempo fa Alain Bihr si disse molto critico sulle possibilità di sviluppo di questo movimento.
NEGRI: Come tanti altri. Detesto comunque la gente che critica senza tentare. Quando c’è una realtà che vive mettiti dentro e cerca di farla funzionare. Perché ti devi mettere a criticare prima di vedere? A fare il profeta del malaugurio?
Quando le cose cominciano, bisogna starci dentro, valutarle razionalmente per non fare errori, chiaramente, ma bisogna viverle. Non esiste militanza senza vivere il movimento, senza vivere le lotte. Bisogna avere l’occhio dall’interno. Ci sono troppi profeti di sventura che vengono fuori ad ogni momento che c’è una lotta a dire: “Vedrai che andrà a finire male, io ne ho viste tante nella mia vita”. Cavolo, anch’io ne ho viste tante, sono stato 12 anni in galera, ma non significa nulla – solo le lotte autonome e comuniste danno aria alla vita.
BARBETTA: Sono assolutamente d’accordo.
NEGRI: Adesso in Francia stanno facendo una legge per cui non si possono più fare le fotografie ai poliziotti. Ma sono stati scarognati. Infatti, il giorno dopo, dei poliziotti che pensavano fosse loro tutto permesso, si sono trovati un ragazzino di colore per strada, gli sono entrati in casa, l’hanno pestato a sangue anche quando stava chiamando la polizia, perché non aveva capito che erano poliziotti. Il tutto è stato filmato dalle videocamere di casa.
BARBETTA: Trovo sbalorditivo che dopo tutto il sangue fatto scorrere durante le manifestazioni dei gilets jaunes, se ne escano con certe proposte.
NEGRI: C’è stata una chiusura bestiale delle informazioni sui gilets jaunes, quello che è realmente accaduto in questi due anni sta venendo fuori solamente ora sulla stampa. Migliaia di persone ferite, decine di persone rimaste senza un occhio perché i poliziotti sparavano all’altezza del viso. Neanche negli anni bui della repressione italiana ho visto una tale repressione di massa. Davvero mai vista una repressione di massa di questo genere come è avvenuto in questi ultimi anni in Francia.
BARBETTA: Oltretutto, questo movimento è riuscito ad allontanare sia Le Pen che Mélenchon.
NEGRI: Sì, Le Pen tentò di avvicinarli e i media dissero che i gilets jaunes erano fascisti. Si tratta di un movimento fin dal principio assolutamente antifascista, ed alcuni gruppi di destra che ne avevano tentato l’infiltrazione ne sono stati immediatamente espulsi. C’è stata poi la costituzione delle Assemblee delle Assemblee (ADA), dove sono state poste delle linee politiche anarco-comuniste (se proprio volete dargli un’etichetta ideologica).
Si battono per un reddito garantito generalizzato e per gli strumenti di una democrazia diretta: sono questi i pilastri della loro azione. Chiedono poi una tassazione progressiva per ottenere il reddito per tutti. Il fatto interessante è l’aver unito la rivendicazione salariale, materiale, e quella costituente-politica, cioè la rivendicazione di democrazia diretta. Chiedono la possibilità di sottoporre la tassazione a referendum e non escludono di presentarsi alle elezioni nei comuni. Pensando sempre ad una democrazia diretta che si esprima dal basso.
BARBETTA: Sarebbe interessante collegare tutto ciò al tema del sindacalismo sociale che mi riguarda personalmente, facendo parte della CGIL e confrontandomi con letture diverse dalla sua sul tema, come quella di Bruno Trentin. Di questo argomento ha parlato in un libro molto interessante edito da DeriveApprodi e alfabeta2, dal titolo “Sindacalismo sociale. Lotte e invenzioni istituzionali nella crisi europea” e che riprende nel più recente “Assemblea”, nel capitolo nono “L’imprenditorialità della moltitudine”. Lei afferma che “la produzione non avviene tramite individui che producono in isolamento ma nelle reti della cooperazione” e dobbiamo intendere la produzione come “produzione (spesso attraverso le merci) delle relazioni sociali, vale a dire della vita umana stessa”. L’invito che fa al sindacato è rovesciare il rapporto tradizionale tra lotte economiche e politiche perché deve interfacciarsi non con un potere costituto (come un partito politico) ma con un potere costituente, ovvero i movimenti sociali. L’idea centrale è cementare un’alleanza tra sindacato sociale e movimenti a partire da un fatto: dal momento in cui “il centro di gravità della produzione capitalistica si sposta fuori dalla fabbrica, l’attività sindacale lo deve seguire sul terreno della produzione e riproduzione sociale, dove sorge l’imprenditorialità della moltitudine.”
In questo modo avviene l’alleanza tra movimenti e sindacato. Con i primi che possono appoggiarsi alle strutture organizzative dei secondi, dando una portata sociale e una continuità, che altrimenti non avrebbero, alle proprie lotte. Mentre il sindacato può allargare la propria sfera sociale, andando oltre le lotte per il salario e che si svolgono nei luoghi di lavoro, affrontando tutti gli aspetti della vita della classe lavoratrice. Ed evidenzia come questa sarebbe la via per rinnovare i metodi dell’azione sindacale e per distruggere le vecchie strutture gerarchiche sindacali. Sul piano della lotta, questo ragionamento ha come conseguenza la proposta di un reddito incondizionato di base. Ho molti dubbi a tal proposito, preferendo ancora la lotta per un lavoro garantito, perché lo vedo come uno strumento per destrutturare il welfare state. Non lo vede questo rischio?
NEGRI: Le idee di Bruno Trentin non sono del tutto male. Era un opportunista politico ma molto intelligente a livello teorico: capitava spesso nel vecchio PCI. Comunque, i rischi ci sono sempre. Però, per opporsi al reddito universale di base, i rischi dovrebbero essere talmente importanti da immaginare una società del lavoro che funziona e non la vedo proprio. Soprattutto non vedo più una società del lavoro basata sul maschio che fa un lavoro manuale con le mani callose e con ciò esclude dalla riproduzione sociale tutto il resto della popolazione (donne, giovani, migranti…). Parlare solo di salario significa immaginare una società fatta solo di salariati.
BARBETTA: Possono invece combinarsi queste due proposte? Ovvero, lavoro garantito e reddito universale di base?
NEGRI: Credo proprio di si. Come può combinarsi un welfare compiuto con un reddito universale di base.
BARBETTA: Il reddito universale di base è spesso confuso con il reddito di cittadinanza del Movimento Cinque Stelle, ovvero una forma di workfare. Il lavoratore passa da un lavoretto sottopagato all’altro senza raggiungere mai una forma di stabilità lavorativa e facendo muro ad ogni proposta di lavoro garantito. Si tratta, allora, di una parola di cui eventualmente riappropriarsi?
NEGRI: Ha perfettamente ragione a presentare la questione in questi termini. Non solo viene presentata in questi termini ma l’impresa capitalistica si arroga il diritto di saper gestire il passaggio dal lavoro al non-lavoro, in maniera piena, cioè investendo sulla qualificazione quando si passa da un lavoro all’altro. L’impresa capitalistica si afferma come l’unica in grado di determinare la continuità della vita. Il problema diventa di riuscire a dare un quadro complessivo di welfare nel quale il lavoro sia mantenuto con il suo valore nella altalena che nella vita passa tra lavoro e non-lavoro, tra necessità di procurarsi un salario e piacere, gioia di vita. Si tratta di trovare una mediazione e si può senz’altro fare. Va sempre costituita la transizione, se di transizione si può parlare, verso una società liberata dal bisogno nella quale si possa lavorare e godere allo stesso tempo.
BARBETTA: Penso, però, che non ci sarà mai una società liberata dal bisogno perché i bisogni aumentano con la capacità di soddisfarli.
NEGRI: Chiaramente, quando parlo di bisogni, come quando parlo di desideri, il discorso è calibrato storicamente. Non parlo di un bisogno sempre uguale, naturalizzandolo, dall’uomo di Neanderthal a noi – ci mancherebbe. I bisogni sono storici e commisurati dal consumo, dal lavoro e dalla capacità di creare il mondo intorno a te. Non sono come Agnes Heller che faceva affermazioni sui bisogni che non stavano né in cielo né in terra, un po’ come l’ultimo Marcuse.
C’è però una differenza enorme all’interno della Scuola di Francoforte: Marcuse poneva questa contraddizione fuori dalla possibilità di mediazione. Poneva la capacità di godere, che era l’elemento forte e critico del suo discorso, contro il lavoro. La poneva dentro una contraddizione non risolvibile. La trovate già teorizzata nei suoi primi libri, come in quello su Hegel. I francofortesi sono tutti partiti dallo Hegel di Jena, lo Hegel dei primi anni dell’Ottocento, che non ha ancora definito la dialettica, in termini di Aufhebung. La sua allora era una dialettica ancora aperta, nella quale il lavoro è centrale e in cui probabilmente (come sosteneva Lukács) gli elementi economici della scuola economica scozzese erano già presenti nel suo pensiero a definire una dinamica aperta dei bisogni. Habermas andrà a cercare lì per trovare la “dialettica del riconoscimento”, così come Honneth. Però questo terreno era già stato dissodato in maniera assolutamente precisa da Marcuse nel suo libro su Hegel – su questi argomenti appunto. Si tratta di un terreno sul quale si può riscendere ancora oggi se si vuole lavorare in questi termini.
BARBETTA: Tornando a noi, ritiene possibile, oggi, tornare alla piena occupazione.
NEGRI: Non so se ne valga la pena di tornare alla piena occupazione. Quando ci sono le macchine che possono produrre per te, perché tornare alla piena occupazione? Possiamo intendere la piena occupazione in contemporanea con un orario di lavoro di due ore al giorno.
BARBETTA: Esattamente.
NEGRI: Però non facciamo equivoci. Oggi, si parla di piena occupazione in una situazione nella quale non esiste più. Vedrete cosa succederà quando finirà la pandemia. La mia impressione, e non credo di sbagliarmi di tanto, è che ci sarà una accelerazione nella precarizzazione generalizzata del lavoro e nello sviluppo del telelavoro, con una capacità di comando sui tempi della giornata lavorativa che si svilupperà in maniera feroce. Dal principio abbiamo avuto la netta impressione che questa pandemia avrebbe portato a delle trasformazioni pesanti per il lavoro. Ci siamo giocati un primo periodo nel quale sembrava che i capitalisti fossero lì a guardare perché erano anche loro spiazzati davanti alla pandemia. Dopodiché, si sono ripresi ampiamente e oggi hanno un preciso piano. E vi assicuro che qui in Francia è mostruoso come lo stanno gestendo. Non solo hanno avuto la fortuna di bloccare, con il primo lockdown, un livello enorme di lotte a marzo dell’anno scorso ma, a partire da allora, si sono ripresi e si stanno organizzando in maniera efficace. Stanno facendo la legge sul telelavoro, obbligando cioè gli imprenditori, ovunque ci sia la possibilità di farlo, di imporlo. Pensate poi a quello che è successo con la scuola. Insomma, stanno facendo di tutto per vincere su questo terreno, ovvero per ridurre una società macro-organizzata da parte del lavoro vivo ad una società di formiche. Una società dentro la quale ognuno correrà contro l’altro dentro le piattaforme e non c’è esempio peggiore di quello delle formiche, per l’intera giornata lavorativa. Capisce l’equivoco di chiedere la piena occupazione? Bisogna avere la capacità di mettere insieme il lavoro e la liberazione dal lavoro: mentre una volta si diceva liberazione del lavoro, oggi, con un po’ più di saggezza, si dice “liberazione dal lavoro salariato”.
BARBETTA: La questione che lei pone sempre è chiara. Non esiste più una distinzione tra il lavoro in fabbrica e quello che avviene fuori dalla fabbrica. Quando parlo di piena occupazione, descrivo una situazione che è alla lunga insostenibile per il capitalismo e ci può portare verso una socializzazione dell’investimento.
NEGRI: Questo mi sembra evidente, ma la socializzazione dell’investimento è già perfettamente visibile nella struttura attuale della produzione/riproduzione attraverso piattaforme. Tutto ciò si chiama finanziarizzazione.
BARBETTA: Intendo una produzione orientata ai valori d’uso sociali che metta in scacco il primato dei valori di scambio.
NEGRI: Anche qui, valori d’uso è come bisogni, sono storicamente determinati. Dentro le forme di lavoro in stretto collegamento, lo stesso uso si determina a livello diversi.
PUPIL: Visto che abbiamo parlato di reddito incondizionato di base, un po’ di anni fa lessi un libro molto incisivo sul tema di Dario Gentili, professore all’università di Roma Tre, “Crisi come arte di governo”. Parte dalle tesi di Koselleck sulla crisi per arrivare a Foucault. In una sezione del libro analizza il reddito incondizionato di base all’interno di un contesto capitalistico partendo dall’imposta negativa di Milton Friedman, affermando che esso concorre unicamente ad abbattere il cuneo fiscale all’azienda (in particolare la parte finalizzata ad investimenti in capitale variabile) e viene usato dall’ente di garanzia per reintrodurre il lavoratore all’interno dell’ambito lavorativo, unicamente per sfruttarlo ancora di più.
NEGRI: Conosco bene Dario Gentili, è un compagno. Il fatto che il reddito incondizionato di base sia stato elaborato inizialmente dal mainstream economico è noto. Nasce con Milton Friedman e viene sviluppato da Van Parijs che illustra la tematica del reddito in tutta la sua estensione. Lo si può solo comprendere in una situazione ideale: la concezione del reddito garantito, proposta da questi signori, prevede infatti una società capitalista senza conflitto, senza dialettica alcuna.
Si badi bene, la motivazione iniziale del Movimento Cinque Stelle riguardo a quell’aborto di reddito di cittadinanza che hanno prodotto, era friedmaniana. Quello tuttavia che il mainstream dimentica è che il salario non è semplicemente una quota di reddito ma riguarda il comando. Quando ero giovane, nel 1967, abbiamo fatto una lotta enorme con circa 60.000 operai del settore chimico della Montedison di Marghera, in cui chiedevamo un aumento di salario di 5000 lire, ed era niente, perché il padronato era alla fine disposto a concederne 3000. Però avevamo aggiunto “uguale per tutti”. Questo “uguale per tutti”, non passò e non poteva passare e divenne l’elemento centrale di rottura. Il capitale poteva benissimo accettare un aumento salariale di 5000 lire ma quello che il padrone non poteva in nessun modo accettare – il padrone, non tanto il capitale – era l’”uguale per tutti”, perché gli rompeva la divisione del lavoro che dentro la fabbrica era una logica di trasmissione del comando. Quando la stessa rivendicazione la portammo nel 1969 in Fiat fu l’inizio dell’Autunno Caldo. Vedi quindi la differenza che sussiste tra la teorizzazione di Friedman e la nostra richiesta? A me sembra che tutto ciò si basi su una visione della tendenza di sviluppo del capitalismo ormai determinata: dove, cioè, produzione, riproduzione e circolazione sono unificate, gli elementi di valorizzazione si danno nella connessione tra questi elementi, ed il lavoratore è inserito in questa triade come elemento produttivo singolarizzato. Quindi, è solo nella piattaforma che il lavoro si ricompone. La piattaforma si allarga dalla fabbrica fino alla società ed è su questa estensione che si sviluppa la domanda salariale da parte della forza lavoro. Su questo terreno, in questa estensione, deve svilupparsi la lotta operaia. Continuiamo a parlare di “lotta operaia” anche se si tratta di una nuova figura di soggettivazione che va inserita a questo livello. Solo che questa soggettivazione non c’è ancora. Abbiamo questo quadro in sé, comprensibile, ma non riusciamo a trasformarlo in un per sé di azione. Abbiamo la moltitudine ma non riusciamo a trasformarla in classe. Tuttavia, l’unica cosa che non possiamo fare, è tornare a dire che quella che abbiamo davanti sia la stessa composizione di classe di prima. NO, non è più una classe 1 ma è una classe 2.
Di mezzo c’è una nuova moltitudine di lavoratori-cittadini che arricchisce il tessuto, non è una moltitudine caotica ma carica di intelligenza, di lavoro immateriale, di capacità di connessione e di essere attiva a livello sociale, o che addirittura (cosa sulla quale non giuro ma continuo a pensarlo), è stata capace di riprendersi, di riappropriarsi un po’ di capitale fisso. Ed è su questa base che la tematica dell’uso diventa facile/difficile perché è chiaro che dentro questo terreno conflittuale, nel quale il lavoro vivo è riuscito a portare dalla sua parte una porzione del capitale fisso, diventa possibile parlare di imprenditorialità. Badate bene, si tratta di ipotesi di cui è solo possibile parlare in libri pubblicati in America… poi nella pratica bisogna starci molto più attenti. C’è il rischio di presentarsi come dei riformisti, quando invece questo è un processo del tutto rivoluzionario.
BARBETTA: Di questo ne parla anche nel capitolo nono del libro “Assemblea”. Il capitale ha la necessità di far lavorare i lavoratori con questo tipo di cooperazione ma è anche una minaccia costante.
NEGRI: Esattamente, dopodiché non è detto che la via indicata dal capitalismo, dal mainstream economico, sarà percorsa.
PUPIL: Il problema, quando si parla di reddito di cittadinanza nel discorso generale, arriva nel momento in cui si introduce l’imperativo di doversi avvicinare sempre di più a quello stato di catallassi hayekiano che lotta per la destituzione dell’esercizio politico a favore dell’esercizio di mercato. In questo contesto Gentili parla di uno strumento per annientare le possibilità di lotta e infatti la vera e propria lotta, alla fine, la si fa all’interno delle strutture aventi il potere sui mezzi di produzione, quindi lo si fa all’interno dei rapporti di proprietà. Non facendo semplicemente una redistribuzione indiretta.
NEGRI: Può darsi, chiaramente. Siamo in una situazione critica. Solo per parlare della lotta sulla proprietà: privato, pubblico e comune sono categorie già maledettamente in crisi.
Privato o pubblico, ad esempio: quando guardiamo al Recovery Plan, vediamo che c’è denaro che arriva dall’Europa, denaro senz’altro pubblico e debitorio per lo Stato, poiché un giorno o l’altro si dovrà ripagare. Viene gestito da strutture pubbliche, governative, ma subito trasferito a privati. Normalmente viene trasferito attraverso istituzioni metà pubbliche e metà private. Già i ministeri funzionano attraverso strumenti ibridi. Né privati né pubblici non significa “comuni”, non sono comuni perché questo esigerebbe una partecipazione generalizzata e la definizione di un uso e di un interesse comune. Il comune è qualcosa di democratico, moltitudinario cioè, in senso buono, una pratica diretta e non parlamentare. Siamo in una situazione nella quale la capacità di denominare le cose comporta, per citare un vecchio termine althusseriano, una “lotta nell’ideologia”. In realtà, si tratta di qualcosa che ha una consistenza maggiore di un orizzonte ideologico, non è un semplice rispecchiamento ma una macchina concettuale, ideologica, direttamente funzionale alle tecniche finanziare e produttive. La realtà è molto difficile e tuttavia è lì dentro che bisogna lavorare.
Io sono per il reddito incondizionato di base dal 1969. Il primo articolo di Potere Operaio è “Un salario per tutti” e dentro veniva espressa l’esigenza marxiana di trasformare l’ontologia dello sfruttamento, di rovesciarla in soggettivazione, in lotta dei salariati. Da questo punto di vista, per me, si è trattato di un’approssimazione continua ad un risultato di liberazione – dentro questo progetto, cercando di far corrispondere al reale l’approssimazione teorica e l’indirizzo politico. Certe volte si facevano degli strafalcioni, dei salti in avanti troppo lunghi, altre volte si è agito più correttamente, con qualche irreversibile risultato.
Perché in questa chiacchierata il sig. Negri si riferisce al valore d’uso come storicamente determinato (affermazione a parer mio più che condivisibile – e che sinceramente non mi aspettavo proprio di ritrovare nelle sue analisi) mentre nella precedente evocava una ontologizzazione del valore? Non è una contraddizione piuttosto problematica?
Ciao Afshin! Elia e Francesco ti fanno osservare che il prof. Negri nella scorsa intervista invitava a ricerche ontologiche intorno al valore sans phrase, dunque quello che si manifesta come valore di scambio eccetera. Non parla di “ontologizzazione” del valore, come se si debba leggere come una categoria eterna e imprescindibile controparte al valore d’uso in qualsiasi formazione sociale; bensì appunto richiede che si colgano correttamente le determinazioni del valore, il quale può essere prodotto solamente da lavoro vivo e che si accumula in lavoro morto (il quale è di nuovo “fluidificato” dal lavoro vivo eccetera).
Se il mio chiarimento non ti soddisfa, o il tuo dubbio esula da puri problemi di lettura di questo tipo e si sposta sull’interpretativo, in caso possiamo chiedere al prof. Negri la sua opinione in merito e discuterne più avanti.
– Un compagno