Già fischiano le bombe sulla testa dei curdi, dei siriaci e degli arabi nel nord della Siria: ieri sera è stato dato il via all’Operazione «Sorgenti di Pace». È una situazione critica quella che vivono i siriani in questi giorni: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha annunciato in pompa magna da Belgrado che intende costituire il prima possibile una «zona cuscinetto» per contrastare, a suo dire, le attività terroristiche lungo il confine con l’Amministrazione Democratica Autonoma Siriana – che in realtà si è configurato come uno dei confini più stabili e sicuri per Ankara. C’è da dire che la Turchia ha sempre opposto alla guerra siriana un duplice volto: da una parte il supporto, nemmeno tanto velato, ai miliziani islamisti del sedicente Esercito Siriano Libero, uniti contro i curdi e contro il governo siriano, dall’altra la partecipazione verbale alla crociata occidentale contro l’ISIS, foscamente dipinta dai media occidentali.
Il primo tassello chiave per il piano espansionista di Erdoğan è stato la conquista della città curda di Efrîn, tra gennaio e marzo 2018, in cui ebbe un ruolo determinante il bombardamento da parte dell’aeronautica turca sulla città, senza molte distinzioni fra postazioni dell’esercito di liberazione e abitazioni civili: il piano rientrava nell’evitare il collegamento del cantone di Efrîn col resto della Siria amministrata dai curdi – e già allora si vedeva l’artiglieria turca mirare alla diga che rifornisce oltre 100mila persone di acqua. Stesso copione oggi, anche oggi bombardamenti sulla diga Baas di Dêrika Hemko, che invece fornisce acqua a oltre 2 milioni di persone. Oggi si è accesa una lotta asperrima che mira a spazzare via il socialismo in Medioriente nella forma del Rojava, dove l’offesa del secondo esercito della NATO e le velleità ottomane di Erdoğan svolgono la parte truculenta del massacro non solo delle Forze Democratiche Siriane, ma anche e soprattutto di moltissimi civili, come hanno già dimostrato gli attacchi – ad ora respinti – di iersera contro le città curde di Kobanê, Serê Kaniyê e Girê Spî, con grande utilizzo di truppe paramilitari islamiste nell’azione di fanteria. Nel frattempo i miliziani islamici incarcerati dai curdi si rivoltano, come se pregustassero una scarcerazione a breve; a Raqqa, la capitale dell’ISIS ora sotto amministrazione curda, si sono accese delle cellule dormienti dello Stato Islamico, sia in tre attentati suicidi, sia in vere e proprie sparatorie nelle strade contro le postazioni curde – subito soffocata con la morte degli attentatori islamisti – e contro la democrazia consiliare del Rojava.
Tuttavia questo conflitto si preparava da mesi, per non dire da oltre un anno, quando gli Stati Uniti costrinsero i curdi a smobilitare il confine lungo la Turchia, promettendo loro protezione, benché già allora il confine turco riservava milizie addestrate in aperta aggressione al Kurdistan siriano e ai suoi popoli. Con il ritiro definitivo delle truppe americane, si è sventolata la bandiera a scacchi per l’imperialismo turco, non tenendo conto, tuttavia, della feroce resistenza dei popoli della Siria orientale all’invasione: il «sogno ottomano» di Erdoğan non si traduce solo nella costituzione di una zona d’occupazione dove poter insediare uno dei tre milioni di rifugiati siriani – attuando di fatto una vera e propria politica di pulizia etnica rispetto ai curdi, ai siriaci e agli assiri, e quindi incrinando il positivo equilibrio multiculturale raggiunto fra i popoli liberati dalle YPG-YPJ – ma anche con rivendicazioni precise su tutta la Siria a est dell’Eufrate, comprendendo città oggi in mano al governo siriano.
La diplomazia curda si è sempre dovuta destreggiare fra Assad, Erdoğan e Rouhani da un lato, che mirano alla soppressione del popolo curdo nei rispettivi territori, e fra i poli imperialisti americano e russo. In questo, il pragmatismo dettato dalla necessità di sopravvivenza ha convinto i curdi ad accettare l’aiuto statunitense. Qualsiasi rivendicazione di presunta coerenza ideologica, specialmente da un certo irriducibile estremismo da sinistra, deve fare i conti con la realtà dei fatti, in cui è stato necessario scendere a patti per poter costruire un nuovo equilibrio in cui il Rojava potesse esistere a pieno titolo, soprattutto in un periodo, come quello passato a combattere lo Stato Islamico apparentemente invincibile, dove qualunque aiuto era accettabile, anche da paesi ideologicamente opposti. Un esempio storico è dato dalla firma della pace di Brest-Litovsk da parte dei bolscevichi e degli Imperi Centrali: due forze ideologicamente antitetiche, che nella realtà e in quel contesto particolare si son trovati a dover istituire un compromesso – e all’epoca, la Russia sovietica era una forza rivoluzionaria multietnica che lottava per la propria esistenza.
Gli Stati Uniti non hanno perso interesse nel Medioriente, hanno sacrificato quella che fino a ieri spacciavano per un’alleanza naturale, e tuttora Trump twitta aggressivamente nei confronti della Turchia e dell’Europa, quando in realtà si è solo sacrificato il Rojava non appena ha cessato di essere utile nella lotta propagandistica contro l’ISIS e come postazione di controllo rispetto alle forze russe in Siria e all’Iran. Infatti, non è mai sorto un equilibrio solido dalla conferenza di Ginevra, supportata dal Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti, bensì la stabilizzazione, o almeno il suo tentativo serio, della faccenda siriana è dovuta alla Conferenza di Astana, dove Putin, Rouhani ed Erdoğan si sono allegramente messi al tavolo e stretti la mano – e infatti, il presidente iraniano non si è disperato per l’invasione da un paese così ostile come la Turchia, per quanto abbia minacciato che tale atto di violazione dei confini siriani avrebbe fatto saltare l’accordo di Astana.
Comunque i curdi non sono soli: dalla Repubblica di Siria giungono chiarissimi inviti di distensione e di unione delle forze contro la comune minaccia turca, supportata da dichiarazioni e mobilitazioni ben più serie del presidente americano, peraltro il Rojava non ha mai dichiarato l’indipendenza dalla Siria, bensì si è definito come Amministrazione Democratica Autonoma Siriana, con precisi riferimenti interni alla Siria, senza volontà secessioniste. Ciò può segnare un punto in netto favore per formalizzare una coalizione comune già di tacito assenso nella comune lotta allo Stato Islamico, e l’osso presentato dal socialismo siriano si potrebbe presentare ben più duro dei poderosi denti della Turchia.
Nel contesto che si va inasprendo la Russia trova un ruolo da vero ago della bilancia, benché le posizioni della Federazione non siano delle più cristalline: le dichiarazioni ufficiali del Cremlino tentennano tra accorati richiami per l’integrità territoriale della Siria e invocazioni per il mantenimento della pace. In effetti il fitto dialogo telefonico tra il ministro degli esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov e la sua controparte turca dà ampio margine alle congetture data l’assenza di comunicazioni al riguardo. Di sicuro è da precisare il ruolo strategico geopolitico ed economico che svolgono Siria e Turchia: la prima è uno storico alleato di Mosca fin dagli anni Sessanta, ospita la base navale di Tartus, l’unico porto russo a libero accesso invernale fuori dei Dardanelli. La seconda, invece, si è avvicinata a Mosca in conseguenza della grave crisi monetaria dell’anno scorso e dell’inefficacia militare statunitense a sostegno delle mire espansionistiche di Erdoğan, infatti oggi la Turchia è una potenza secondaria che si giostra fra i due poli, pur facendo parte della stessa alleanza atlantica.
Entrambi i paesi comunque si presentano come sbocchi principali per il mercato russo delle armi, l’unico oltre alle materie prime che possa vedere la Russia come seria potenza produttrice, e l’infiammarsi di una guerra fra i due può definirsi sia come un mercato inesauribile per le armi russe, sia come indebolimento della sfera d’influenza russa nel Medioriente, se la guerra dovesse protrarsi intensamente molto a lungo. Sta di fatto che la Turchia è anche una potenza rivale nel contesto geopolitico, dal momento che col Consiglio Turco influenza le decisioni economiche e politiche dei paesi dell’Asia centrale e dell’Azerbaijan, in sovrapposizione con la CSI e con l’Unione Eurasiatica, sostenute invece da Mosca.
E dalla Germania, dall’Italia, dalla Grecia provengono già le prime, immediate anticapitaliste proteste popolari contro la connivenza europea all’ennesimo sfogo militarista della potenza turca, giacché l’Unione giace succube del ricatto costituito da tre milioni di rifugiati ospitati in condizioni ignote sul territorio turco, che sono anche uno dei motivi dell’efferato combattimento contro i siriani. Mentre Trump sferza contro la consacrazione di un polo imperialista europeo – questo significa la guerra dei dazi contro i vassalli europei benché siano nella NATO – l’Unione Europea resta a guardare l’ennesimo conflitto che si apre nelle sue immediate propaggini, o addirittura conta già i proventi dalle vendite di armi alla Turchia, con grande sfoggio di diplomazia inerte e di formalità impalpabile nella realtà delle cose, dei fatti, delle vite di milioni che in Siria patiscono una guerra che non si è mai voluta finire.
— Emanuele