Dialogato con Marco Curti Obregon intorno al libro La rivoluzione non è che un Sentimento
Di Elia PUPIL , Grimm MONBERG, Marco CURTI OBREGON
EP: Buongiorno a tutti e tutte, quest’oggi siamo a Bologna con Marco Curti Obregon degli Archivi della Resistenza di Fosdinovo. Marco, gli archivi di cui fai parte hanno pubblicato per edizioni ETS un libro che, a mio dire, sembra una delle collezioni più complete e coerenti di testimonianze relative agli eventi del G8 di Genova del 2001. Questo libro si chiama “La Rivoluzione non è che un sentimento: venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova”. La prima domanda risulta doverosa: come nascono gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo? Come vi è venuta l’idea del libro?
MCO: Grazie Elia per essere qua a Bologna a fare questa intervista. Archivi della resistenza nasce come un collettivo multigenerazionale. Questo era andato a definirsi come archivio senza fissa dimora finché non venne affidata la gestione del Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo, dove ha sede anche il bollettino “Archivi della Resistenza”. Questo, oltre ad occuparsi della raccolta delle testimonianze dei vari membri della resistenza lunigianese, è andato ad articolarsi nello studio della storia del lavoro e dei movimenti contadino e operaio nelle due province di Massa e Carrara e La Spezia. Oltre che del Museo, ci occupiamo pure di cicli di incontri e iniziative, come il festival ‘Fino al cuore della rivolta’ che prima della Pandemia si svolgeva ogni agosto con un bacino di presenza piuttosto rilevante provenienti dalle due province sopracitate. Ci si occupa quindi oltre che del museo, dell’archivio, delle pubblicazioni dei libri e di varie attività culturali, con uno sguardo d’eccezione nel campo della storia orale. Occupandoci di storia orale, ovviamente il libro non poteva che avere il formato dell’intervista.
EP: Come vi siete organizzati per realizzarlo? Vorrei ricordare che questo è un libro realizzato in piena pandemia, una particolarità non secondaria dato la sua natura di raccolta di testimonianze.
MCO: Il libro è stata una scommessa per abbattere i muri di casa durante la pandemia, per rimanere sempre attivi. Purtroppo, i due eventi che ci caratterizzano (il 25 aprile al fosso di Fosdinovo e Fino al cuore della rivolta al museo) sono stati fatti in forma telematica. Organizzando da remoto pure due Primo Maggio con delle live di quasi 12 ore, non possiamo nascondere come l’impatto del Covid sia stato duplice: innanzitutto per noi, nel grosso lavoro che abbiamo imbastito al fine di garantire alle persone abituate a venire di persona a Fosdinovo gli eventi di interesse. Poi per gli stessi spettatori, non abituati a questa modalità di diffusione delle informazioni e di festeggiamento. D’altra parte, abbiamo utilizzato quelle tecnologie che un po’ tutti studenti, lavoratori – purtroppo non tutti i lavoratori e purtroppo tutti gli studenti direi – hanno dovuto utilizzare. Sempre con la modalità del remoto abbiamo deciso di fare le interviste: abbiamo puntato sulla stanza virtuale in cui dialogare. Quindi di fronte all’esigenza di non restare con le mani in mano abbiamo usato gli strumenti di comunicazione per organizzare in un tempo abbastanza breve queste venti interviste da pubblicare con l’anniversario del G8 di Genova 2001, che ricorreva lo scorso luglio.
GM: È stata una bella scommessa tecnica; come mai venti interviste? Ha un qualche significato specifico?
MCO: È stata una scommessa, sicuramente non eravamo abituati a lavorare in questo modo, ma gli archivi della resistenza hanno un particolare valore formativo: dal fare una grigliata per 300 persone a aggiustare collegamenti elettrici, fino a fare lavori di ricerca sia sul campo che da casa con interviste organizzate da su tutto l’arco invernale. Si sarebbe voluto fare un libro suddiviso in più volumi per avere una più ampia visuale di quello che è stato il G8 di Genova, di tutte le sue anime, particolarità, singolarità, ma molto probabilmente neanche un’intera collana di Editori Riuniti sarebbe stata più pesante di 10 volumi sul G8 di Genova. Quindi si è deciso per il numero simbolico di venti interviste, venti personalità diversissime fra loro e tutte con una grande tempra, pari solo alla loro voglia di raccontare. Sono state disponibilissime al progetto e devo ringraziarle di cuore: è stato un esperimento molto appagante per uno studente di storia come me. A Genova non c’eravamo, o perché non eravamo nati o perché lo eravamo da poco: abbiamo potuto avere un riscontro plurimo e sfaccettato e quindi capire più nel vivo della questione cos’è stato il G8 di Genova.
GM: Per iniziare ad addentrarci nel tema di questa intervista vorrei chiederti: prima delle giornate di Genova del 2001 le persone che erano interessate dai fatti, chi era impegnato ad organizzare il forum e i cortei, ma anche chi semplicemente seguiva la faccenda, come immaginavano quelle giornate? Un altro momento del movimento contro la globalizzazione come erano stati Seattle, Praga, Göteborg, o in Italia a Napoli, oppure già veniva percepito che era qualcosa di diverso? In che modo ci si immaginava che sarebbe andata? Da vent’anni le immagini emozionanti, tremende, di quelle giornate ci sono più che familiari, che tipo di immagini si aveva in mente prima che tutto iniziasse?
MCO: Quello che si può estrapolare dalle interviste sulla preparazione della lotta in vista del G8 è che, al di là del non aspettarsi ciò che poi è successo, l’organizzazione per una manifestazione di quel tipo – come pure per le manifestazioni precedenti al G8 – si articolava in una complessione di fattori che ne delineavano l’immensità dell’iniziativa in termini di risorse tecniche e risorse umane. Il sentimento era quello della possibilità tangibile di un cambiamento. Unire tutta la parte subalterna – quella moltitudine si direbbe – contro ciò che dispone e domina.
GM: Deve esserci stata la percezione di qualcosa che ha dato il primo colpo di scure al movimento no global. Dal libro emergono alcune idee fondamentali, tra cui quella espressa da molti intervistati riguardo la sorpresa e l’impossibilità di capacitarsi del livello di repressione che si presentò di fronte nelle tre giornate che misero il capoluogo ligure a ferro e fuoco. Emerge il fatto che non ci si aspettava quello, ci si aspettava una risposta violenta da parte delle forze dell’ordine ma non ci si aspettava quel grado di violenza, quella applicata strada per strada, non solo quello più eclatante ormai inscritto in una memoria codificata della sinistra italiana, simboleggiato da una serie di nomi che ormai fanno liturgia: la Caserma di Bolzaneto, il complesso scolastico Diaz-Pertini e Pascoli, Carlo Giuliani, il caso Placanica ecc. Prima dei tre giorni di lotte e mobilitazioni a Genova contro il G8, prima dell’organizzazione del Genoa Social Forum, prima dei fatti di Genova si sarebbe mai potuto pensare ad una cosa del genere? Non che la violenza non fosse mai stata all’ordine del giorno in Italia, gli anni di Piombo, gli anni dello stragismo, le ambiguità ed i martiri del rapporto Stato-Mafia ci dicono tutt’altro. Però nulla è stato paragonabile ad una normalizzazione della violenza così automatica…
EP: La resa a norma di un sadismo organizzato che volgeva al ludico, oltre che al sistemico…
MCO: Tutti noi sappiamo o ricordiamo che a Napoli, prima di Genova, vennero sparati dei colpi contro i manifestanti che colpirono un ragazzo alla schiena: io credo che in generale – o almeno, da quello che si evince dal libro – si possa evidenziare una grossa divisione tra la vecchia guardia del movimento, ovvero quelle persone che venivano dalle occupazioni di fabbrica e dalle lotte di piazza degli anni ‘60 e ‘70 rispetto a chi magari aveva partecipato alle lotte studentesche e ai movimenti degli anni 90, che venivano dal mondo della disobbedienza piuttosto che dal gran partito o dal sindacato. Chi si preparò per più di un anno summit del g8 credo avesse preso in considerazione tutte le possibilità, probabilmente non fino al punto di una Diaz o di Bolzaneto ma sicuramente organizzare in quella maniera la gestione della piazza, tante persone come Vittorio Agnoletto credo abbiano fatto un lavoro coscienzioso e responsabile in vista di qualsiasi evenienza. C’è stata una grossa preparazione anche a Porto Alegre, c’è stato poi Napoli dove si è vista già una fortissima repressione, un accanimento mai visto prima nella storia dell’Italia repubblicana. Probabilmente non ci si prospettava quel livello di organizzazione della reazione: d’altra parte però, pensa di andare contro gli 8 stati più potenti al mondo, questi caratterizzati da alti e tra loro diversificati livelli di militarizzazione delle diverse forze dell’ordine, che imparavano ed ibridavano tecniche e dotazioni proprio per quel momento. Infatti, in quegli anni avevano cambiato dotazioni, erano sempre più dei robocop umani. A Seattle era passata l’idea che i manifestanti avessero vinto, e quindi si pensava che anche a Genova si avrebbe potuto lasciare il segno, ma il segno lasciato è stato il sangue a terra, sulle pareti della Diaz, dei cancelli, di Piazza Alimonda; vero è, come dicevo all’inizio, che le personalità più anziane ebbero una reazione diversa. Personalità intervistate anche nel libro, abituate all’analisi di piazze e di strade degli anni 70, alla prefigurazione dello scontro e della possibilità che ci fossero persone armate da una parte e dall’altra persone che di fronte alla violenza della polizia si coprono naso e bocca per resistere alla pioggia di lacrimogeni e combattono e resistono. I meno esperti invece vanno totalmente in stato di shock, e questi sono gli stessi a cui si creerà una sorta di shock post traumatico. La “Genova dei colori” è anche l’operazione di repressione, il trauma. L’organizzazione non poteva essere altrimenti, dato l’ambiente e i numeri immensi. Quella generazione là doveva essere traumatizzata, quel movimento in generale, e la sconfitta sta nel trauma. L’autonomo con lo scudo di plexiglass e il foulard, o col casco e la maschera antigas, piuttosto che i vari servizi d’ordine sindacali, non potevano niente contro la potenza violenta schierata a Genova a protezione del G8, non potevano niente davanti ai grandi della terra che si spartivano l’economia mondiale. Si era creata l’idea di una battaglia campale, di un assedio, e molti genovesi sono rimasti fuori città o chiusi in casa in quei giorni, una città svuotata dei suoi abitanti e riempita stracolma dal conflitto. L’idea era contestare la zona rossa, rendergli difficile il summit.
EP: Marco tu hai parlato di trauma, trauma del movimento. Il trauma è qualcosa a cui si cerca di dare un significato, un significante vuoto che vuol risposta: lo psicologo Gabriel Tupinamba è andato due anni fa a scomodare Freud per formalizzare una sua osservazione: in un campo di battaglia i feriti superano meglio i traumi degli illesi. Nelle proteste del 2013 avvenute in Brasile sembra che “le ferite e i lividi segnassero i contorni dell’Altro” dando alla repressione politica un frame di significazione ben determinato. Se seguissimo questa logica, la tua distinzione tra militanti più o meno scafati troverebbe nel grado di repressione individuale la misura del significato politico del sistema Genova 2001. Tu puoi farci alcuni esempi di questa repressione?
MCO: Può essere una prospettiva fertile ponderare in questo modo le esperienze individuali a Genova. Quello che si può trovare nelle varie storie degli intervistati nel nostro libro è intanto la differenza di linguaggio con cui chi intervistiamo si esprime, in funzione del loro retroterra e della specifica “geografia” della violenza da loro subita. Si osserva come i diversi tipi di impatto di cui ognuno è stato vittima siano determinati già semplicemente dalla diversa collocazione geografica all’interno della manifestazione di Genova. Banalmente dormire in uno dei vari centri adibiti all’ospitalità dei manifestanti o capitare alla scuola Diaz ha significato una diversificazione estremamente tangibile delle esperienze vissute. A seconda di dove queste persone erano collocate nei cortei, della loro età e provenienza, di dove erano collocate nel momento in cui accadeva qualcosa di significativo, di potente o di tremendo, come ad esempio l’esplosione del colpo contro Carlo Giuliani, oppure durante le cariche al corteo dell’ultimo giorno a Piazzale Kennedy, dove venne spezzato il corteo e la gente cominciò a scappare. Questa però, bloccata dalla conformazione geografica della città, venne aggredita spietatamente dalla polizia, fermatasi nel momento in cui la situazione si stava tramutando in una carneficina. Da diverse prospettive il trauma ha forme differenti, ma c’è come un fondo comune. Il trauma comune, l’esperienza onnipresente in quelle pagine, prende il segno della labirintite, questa dissociazione dai corpi intorno e dal tuo stesso corpo e dalla situazione intorno a te con la perdita della visione periferica del corteo, anche perché venne raggiunto un numero di presenze nelle vie genovesi veramente mai visto. Nella perdita della percezione generale, sui gruppi di protesta si scagliavano le cariche e i pestaggi. Rimane quindi un primo smarrimento, poi il vomito, il sangue, la gente a terra, le urla stordenti nelle orecchie, i lacrimogeni dal cielo sparati da elicotteri e navi, l’impossibilità di respirare, il dolore fisico e la paura: la repressione prese caratteri scientifici. In quella reale tonnara, le vie di Genova si sono dimostrate predisposte a incanalare la violenza e la ferocia delle forze dell’ordine: i sanitari sicuramente non si aspettavano tutta quella violenza nei loro confronti, ancor meno le suore, i pacifisti. Credo che da lì si sia capito che non si può andare di fronte alle 8 potenze mondiali con le mani dipinte di bianco, perché nessuno è stato veramente risparmiato avendo pure le piazze autorizzate. Il fatto di avere la piazza autorizzata ed essere stati comunque caricati con così tanta violenza sia fisica che psicologica ha creato quello che in due giorni di scontri a Genova ha portato ad un continuo senso di smarrimento.
GM: Ci sono pure stati episodi di resistenza, giusto? Tra cui un precedente giuridico piuttosto rilevante.
MCO: C’è anche chi fa resistenza, come un compagno spezzino con anni di esperienza alle spalle, uno che aveva fatto il ‘77, e di fronte alla violenza della polizia si protegge naso e bocca e comincia a darsi nello scontro con le forze dell’ordine che stavano caricando. Sarà uno di quelli che finirono a processo. Ricordiamo infatti che la repressione di Genova non è solo la Diaz, Bolzaneto o i pestaggi sanguinari in strada, ma c’è poi anche un diverso tipo di trauma giuridico che in molti ancora vivono e scontano. Lui, tra l’altro, venne prosciolto a processo perché gli venne riconosciuto lo stato di cittadino che resiste a un assurdo sopruso, e quella polizia che non doveva stare lì perché avevano l’ordine di andare su a Marassi perché c’era il Despar in fiamme, i black block, e invece si fermarono davanti al corteo delle tute bianche. In quel momento il corteo contava più di quindicimila persone, che legittimamente era lì autorizzato dalla questura e che poteva ancora proseguire per un chilometro almeno. Durante lo scontro il corteo si disperse nella parte alta del Quartiere della Foce nelle varie strade laterali dove le vie di fuga erano state bloccate e i carabinieri aspettavano i manifestanti, e lì fu davvero tremendo: i blindati che inseguivano le persone, i carabinieri che pestavano a sangue, lanciavano sassi, accerchiavano le persone. E teoricamente le tute bianche erano tra quelli che credevano di poter rispondere anche violentemente in modo organizzato alle cariche, ma non potettero quasi niente di fronte a quello che gli si era presentato. Ancora maggiore sarà la paura e lo smarrimento di chi il giorno dopo nel corteo grande con le famiglie pensava che, non essendo loro le tute bianche, essendo in molte famiglie con bambini, non sarebbero stati caricati e invece come le piazze dei pacifisti il giorno prima vennero colpiti con uguale violenza dalle cariche e dai pestaggi.
GM: Parli dell’episodio avvenuto contro le mani bianche [Rete Lilliput, Rete contro il G8 ecc] in Piazza Manin?
MCO: Esatto, arrivati i black block da Marassi avvisando che stava per arrivare una carica, loro si misero in piedi con le mani alzate, sapendo che quella piazza spettava a loro e che più in basso, a Piazza Corvetto, stava un altro loro presidio – anch’esso legale. Arrivata la polizia nemmeno riuscirono a leggere il documento d’autorizzazione della questura che vennero subito bersagliati dai fumogeni ad altezza d’uomo, per poi esser manganellati.
EP: Mi sono annotato un termine che hai utilizzato prima e che non mi ha lasciato affatto indifferente: la Genova dei Colori. All’epoca di Genova 2001 c’erano le bandiere, c’erano le differenze, c’era un’unità di intenti che però non voleva eliminare la differenza in un’identità omogenea generale. In particolare, c’erano 4 colori: rosa, giallo, blu e nero; i colori con cui la questura identificava la pericolosità dei singoli gruppi e organizzazioni. Questi indicavano il rischio potenziale di cui ciascuna organizzazione era caratterizzata secondo le istituzioni. Il rosa erano i movimenti pacifisti o la Rete Lilliput – cristiano-sociale e pacifista – che prima abbiamo citato, il blu e il giallo tutti quei movimenti che non si sapeva quanto potevano creare disturbo e quanto potenzialmente potevano tentare di entrare nella zona rossa – come le Tute Bianche o Rifondazione – il blocco nero era invece questo spettro di presunte origini teutoniche, quello dei black block, di cui fin’ora non siamo andati a discutere in maniera approfondita. Questa differenziazione tra colori presupponeva come le stesse istituzioni avessero dei dubbi sull’adattabilità della struttura urbana genovese a determinate azioni: nel ‘99 c’era stata la battaglia di Seattle dove a vincere furono i manifestanti, le istituzioni probabilmente temevano un conflitto armato. Lo stato aveva la coscienza di ciò che si andava preparando in termini di scontro e violenza, in particolare in relazione a questa new entry quale era la componente black block?
MCO: Sul tema dei black block, tralasciando lo spinoso tema delle infiltrazioni e quindi della strumentalizzazione, io credo che si possa discutere e condividere la legittimità di una certa impostazione pratica nella lotta e che poi anche queste vadano sempre contestualizzate, ma invece trovo molto sbagliato quando qualcuno, interno o esterno, impone un modo di manifestare che và a disturbare gli altri, in un evento enorme come Genova se vuoi manifestare a modo tuo devi comunicare e ritagliarti così i tuoi spazi. Il blocco nero in Germania usava manifestazioni fatte a tavolino per colpire punti strategici durante la manifestazione e poi dissolversi. Il problema a Genova è che le modalità del blocco nero diventano parte del problema dal momento in cui danno maggiore presunta legittimità alla peggiore repressione, tralasciando le infiltrazioni. Alle frontiere, al Brennero, si sapeva dell’entrata nel paese di questi elementi, venivano schedate persone sospette, si sapeva dell’arrivo di certa gente dalla Germania, e non sono stati fermati per poterli usare come cavallo di troia.
EP: Hanno portato un metodo di lotta rodato ancora nella Germania dell’Ovest, ancora ai tempi in cui vestirsi tutti di nero, senza evidenziare caratteristiche specifiche a determinare i militanti, era la garanzia di non finire assassinati in carcere, come accadde a Stammheim alla Banda Baader-Meinhof: previo restando che la loro matrice fosse esplicitamente terroristica, ma urge considerare come all’epoca in Germania la violenza di stato era resa di pubblico dominio grazie a politiche di sicurezza gestite mediante uccisioni mirate. Quindi la polizia sapeva bene chi aspettarsi, il fatto che non fu fermata questa onda che proveniva in particolare dai paesi teutonici poteva essere stata tranquillamente una scelta strategica per disinnescare completamente un movimento e per dare una giustificazione alla violenza istituzionale? Tant’è che è lecito interrogarsi sul questo fatto; al netto della valenza simbolica di Genova, ciò che veniva preparato per quei giorni ed i numeri che ci si aspettavano erano tali da far optare per quell’ enorme dispiego di forze dell’ordine? Fini negli stessi giorni era a passare in rassegna le file dei militari coordinando le azioni sul posto. Vediamo pure il capo della polizia De Gennaro che è di continuo lì a Genova nonostante se ne lavi completamente le mani dei fatti che sarebbero accaduti di lì a poco, tentando in tutti i modi di addossare la colpa solo alla politica. Vediamo pure Castelli a Bolzaneto prima dei fatti.
MCO: Cito Maurizio Maggiani, che ha visto come la sua città veniva modificata durante la preparazione del G8: le inferriate e le cancellate della zona rossa venivano inchiodate ad edifici e palazzi storici genovesi, la città veniva progressivamente svuotata e militarizzata, veniva trasformata in preparazione a quella che sarebbe stata una vera e propria zona di guerra. Come la polizia è stata armata, è stata anche motivata ad agire: sapevano che sarebbero arrivati i Black Bloc; Alle frontiere, soprattutto con la Germania e la Francia, si teneva ben conto e si sapeva chi stava entrando e chi arrivava, tant’è che alla polizia veniva costantemente ricordato che sarebbero stati attaccati dai manifestanti, che sarebbero state gettate sacche di sangue infetto, forse di AIDS; quindi, c’era una preparazione da camerata militare. Quella ai black block non è tanto una critica dei metodi violenti che vanno sempre contestualizzati, lì se ne può discutere caso per caso, quanto il non aver capito la realtà di Genova – in cui si sono imposti – e soprattutto il fatto che qualcuno di certo aveva già previsto la loro venuta e li avrebbe usati come diversivo da lì a poco, probabilmente pure con infiltrazioni. Poi i black block dell’epoca, quelli che venivano da quella specifica storia di lotta che ha origini nella Germania federale, non hanno assolutamente niente a che vedere con ciò che oggi i media chiamano black block, cioè semplicemente manifestanti magari più radicali che vengono etichettati così, chiunque potenzialmente potrebbe essere definito tale, ma non ha nulla a che fare con ciò che erano i black block nel 2001 a Genova.
GM: Parlando invece delle infiltrazioni che prima hai citato?
MCO: Essendo i Black Block disposti in gruppi abbastanza piccoli in cui meno ci si conosce meglio è, l’infiltrazione diventa una pratica molto semplice: l’infiltrazione da parte della polizia è stata più o meno nascosta, nel senso nel libro vengono citati questi gorilla con la maglietta di Che Guevara e la pistola nel cinturone che, infiltrati nella massa, andavano a dire ai manifestanti di come il pass da giornalista e lo smanicato con la scritta “press” non sarebbe servito a niente: la polizia avrebbe comunque menato.
EP: C’è la testimonianza dell’onorevole Morgantini: lei era di fronte la Diaz, si salvò e probabilmente salvò coloro che erano con lei perché esibì il pass parlamentare alle forze dell’ordine.
MP: Certamente. La questione è che v’era una voglia di farsi capire a metà, avevano carta bianca e l’hanno usata come volevano: sicuramente possiamo pensare a molteplici infiltrazioni. In una città come Genova, in una realtà come quella italiana dei primi anni 2000, l’azione Black Block era a mio avviso completamente fuori contesto. Nella realtà italiana degli anni 70 da cui provenivano molte persone intervistate siamo abituati a vedere immagini di scontri, ma anche di scontri in cui i manifestanti hanno bastoni in mano ed inseguono la polizia, ed in cui si è sparato da entrambi i lati: pensiamo al caso di Giorgiana Masi che ci fa ancora discutere a oltre 40 anni dal suo omicidio. A Genova invece siamo abituati a vedere tutt’altro: nel nostro immaginario sorge perentoria l’immagine di un ragazzo di 23 anni steso a terra, dilaniato in Piazza Alimonda. Non è più il contesto del movimentismo. Mi viene in mente il libretto “Ma l’amor mio non muore mai”, una raccolta di vari volantini con consigli pratici del movimentismo del ‘77, in cui sulla copertina c’è un gruppo di manifestanti che, brandendo dei bastoni, inseguono la polizia: è l’immagine di una manifestazione a Milano di quegli anni. Se ci dovesse essere una copertina simile per Genova 2001 vi si dovrebbe illustrare l’immagine dello strazio e della morte per strada. Questo nuovo modo di manifestare e di reagire alle cariche tipico dei black block è stato impattante per la visione italiana: l’importante per i manifestanti italiani era non farsi imporre da altri il modo di manifestare. Nella loro eterogeneità erano però abituati a sistemi di organizzazione della piazza che i black block misero in crisi: la presenza dei servizi d’ordine – già impensabile nel contesto genovese, al di là delle nuove modalità nord europee di organizzazione dell’azione – la conoscenza quasi fraterna con l’altro, l’organizzazione dei vari spezzoni del corteo, l’eliminazione autonoma degli elementi di disturbo, la decisione dell’uso della violenza solo in determinate occasioni e rispondendo ad una suddivisione della responsabilità decisionale già ben definita nelle sfere organizzative. In questo contesto i manifestanti con questo retroterra determinato videro i Black Block organizzarsi in maniera completamente autonoma e distaccandosi dalla manifestazione per compiere un’azione verso un edificio piuttosto che verso un simbolo a rappresentazione di ciò che combattevano, per poi scomparire. Era il loro modo di lasciare il segno, colpire ed essere meno individuabili. All’attuale noi vediamo quelli che giornalisticamente vengono connotati come black block come una massa dinamica di persone vestite di nero o col viso completamente coperto che si frappongono tra la prima linea dei manifestanti e le forze dell’ordine: nulla a che vedere con quel modus operandi appena descritto. A Genova sono serviti a qualcosa? Effettivamente no, nel libro si vede come molti intervistati li attaccano apertamente, altri invece si ritrovano a doverci fare i conti poiché con loro hanno condiviso la piazza o la strada. Volente o nolente, sicuramente si è creata una situazione di escandescenza, e loro sono stati quel quid che ha esasperato la situazione; la violenza ci sarebbe stata comunque, vedendo almeno quello che è effettivamente successo – come ho risposto già a Grimm. Anche leggendo il libro si può desumere come la violenza ci sarebbe stata in ogni caso; il giorno dopo l’assassinio di Carlo Giuliani si decise di continuare la manifestazione e, nonostante la copertura mediatica e lo scandalo degli eventi, vennero caricate senza pietà, tant’è che a Piazzale Kennedy il corteo si spezzò in due e venne caricato da tutte le parti, con lacrimogeni che vennero sparati dal mare, dagli elicotteri e dalle camionette. Ci sarebbe stata violenza in un modo o nell’altro, l’azione dei Black Block è semplicemente servita da movente ulteriore, istituzionale allora e mediatico per i posteri che andarono a giudicare l’organizzazione della zona rossa.
EP: Come hai detto prima è una questione generazionale quella di dare un significato, di risignificare il colpo di manganello piuttosto che il giovane che per la prima volta si vede in mezzo ad una violenza non contestuale al clima politico italiano della seconda metà del novecento, con tutte le sue peggiori pagine, come i processi farsa, le leggi antiterrorismo esercitate arbitrariamente per colpire qualsiasi realtà non normalizzata nella divisione del potere partitico da Prima Repubblica, le relazioni tra gruppi di potere e gruppi terroristici e lo stragismo. La violenza dei rapporti di forza puramente italiani a Genova si consumava nei decenni con gli scontri tra poliziotti e camalli, in cui spesso e volentieri i secondi riuscivano a prevaricare sui primi. Quella dei fatti del G8 è una violenza per la quale a lotta intersezionale paradossalmente va a corrispondere una violenza internazionale, molto più simile alla violenza di Göteborg che ad una Battaglia di Valle Giulia. Quando prima parlavi di come la polizia caricò pure sulle vie di sfogo nel fuggi fuggi generale dal quartiere della Foce, Norma Bertullacelli va a raccontare che nello stesso quartiere si era tenuto il Genoa Social Forum di Agnoletto e Casarini, completamente pacifico e pacifista. Era lì a parlare Padre Zanotelli, non certo un alto rappresentante dei gruppi dei Black Block.
MCO: Ti faccio un ulteriore esempio per far capire meglio come le persone lì presenti potevano calarsi in quella situazione. Racconta anche il Lega nel libro “Alessio Lega” la sua personale esperienza di cantautore che, rifacendosi nella sua carriera al cantautorato politico e alla scuola francese degli anni ‘60/70, visse l’esperienza del 2001, quando era giovane e sindacalizzato, anarchico e sognatore, andando a rispecchiare quel mondo da cui riprendeva e riprende tutt’ora lo stile musicale. Lui vedeva in Genova la possibilità di una grande manifestazione, un grande evento, una cosa che la sua generazione non aveva vissuto come invece quella degli anni Settanta: si prospettava un ritorno all’epoca, compreso ai rapporti di forza in piazza. Alessio Lega scriveva appunto di questo suo viaggio in bus con la sorella da Milano verso Genova, dell’idea che si era fatto e dell’illusione conseguente: Genova è stata per lui un grosso bagno di realtà.
GM: Nonostante tutto questo ci sono ancora coloro che giustificano mediaticamente la violenza entro un alone di becero pragmatismo: “Sì, è stato un massacro ma non potevamo fare diversamente”. La risposta violenta della polizia sarà il terreno per iniziare a fare le classiche distinzioni di stampo calcistico. Si offre a posteriori dei fatti del G8 la tipica divisione tipica italiana tra il movimento dei contestatori buoni – che masticano a bocca chiusa – e quello dei violenti; quindi, si apre ad un secondo utilizzo strumentale dei Black Block, non solo da parte delle forze dell’ordine di allora come elementi destabilizzanti, ma anche da parte dell’apparato mediatico d’adesso e d’allora, in seno alla famosa massima del divide et impera. Secondo te, come i media sono intervenuti a definire – se non direttamente produrre per il grande pubblico – i soggetti dei fatti di Genova?
MCO: Ho in mente l’intervista a Norma Bertullacelli che, genovese, ha diretto contro il G8 i Gruppi Pacifisti di Affinità, i quali con il loro modo di manifestare e vedere la piazza avevano organizzato delle azioni alle cancellate della zona rossa di Genova. La Bertullacelli ed i Gruppi di Affinità vissero in un anno tutto quello che sia il governo che il comune di Genova preparavano come propaganda: una sporca guerra mediatica, una perfetta macchina del fango contro il movimento no global e pacifista, definendolo come eversivo. E la Bertullacelli da insegnante ebbe da sputare sangue di fronte a colleghi e superiori del comparto pubblico, tant’è che molti si chiedevano cosa ci facesse una “maestra” in questo campo di battaglia che era la preparazione per le proteste contro il G8, quasi a rimproverarla perché aveva preso la decisione di confrontarsi con le singole istituzioni allora lì presenti. Tutta questa ambiguità, cercare di mettere in cattiva luce queste persone e questi movimenti era sintomatico della preparazione di una macchina repressiva che aveva fatto solo vedere solo il lato mediatico del suo carattere disciplinante. D’altra parte, i media sono stati non solamente uno strumento ad appannaggio del discorso dominante: Genova è sicuramente un punto di rottura, un “prima o dopo” che ha segnato singolarmente le componenti ed universalmente l’intera Genova, non solamente per la violenza, per il modo di vedere la piazza, per il modo di organizzare una piazza, ma anche per il modo di filmare e documentare, sia da parte dei manifestanti che della polizia. Si ha un nuovo tipo di riscontro, caratterizzato da una valenza giudiziaria completamente originale: adesso è normale tirare fuori il telefono e filmare la repressione della polizia, come per la polizia fotografare un atto illegale, all’epoca era una rivoluzione di ordine metodologico all’interno dei conflitti di piazza.
EP: Al panottico mediatico si rispondeva con il carattere rivoluzionario di un’infosfera sempre più fluida, libera e capace di rendere edotto il grande pubblico e i piccoli gruppi manifestanti in tempo reale. Si stava realizzando quel villaggio globale di McLuhan. con i suoi giochi di tendenza, i molteplici punti di interesse, osservazione e finalizzazione degli agenti sociali che lo compongono, che articolano la loro presenza nel momento dello scontro, nell’utenza dei mezzi di informazione e dell’organizzazione delle iniziative.
MCO: Oggi noi ci organizziamo principalmente tramite telefono o computer, talvolta tanto celermente che si va a discapito dello stesso evento da organizzare. Nel 2000/2001 v’era una preparazione più che mensile. La gente tramite internet si avvicina al nuovo villaggio globale: da un lato il capitale ma anche la sinistra anticapitalista comincia a creare una grande rete che va dalla vecchia Europa a Seattle sino alle baraccopoli africane o latinoamericane. La multimediaticità ha permeato i soggetti che agivano allora senza appiattirli a macro posizioni da sostenere per fedeltà ad un movimento o ad un partito: nelle stesse venti interviste non si può nemmeno dire che dieci la pensano in un modo e dieci in un altro, non ci sono risposte uguali nemmeno se valutiamo una statistica sull’affinità delle provenienze territoriali o politiche.
GM: Non c’è una linea unica di pensiero di quella che è stata Genova perché all’epoca la parola differenza era una parola d’ordine anche nel valutare la stessa azione politica che si stava compiendo D’altra parte, quella era una sinistra che nella sua radicalità era eclettica e divisa, variegata al punto che talvolta i diversi punti di vista si sono contrapposti tra loro.
EP: Uno degli intervistati, Niccolò Villinger, inizia la sua intervista con un titolo molto esplicativo: don’t hate the media, become the media! I media non erano un ambiente da evitare perché anche lì si esercitava il potere, ma era un ambiente da colonizzare, riprendere come ripresa della propria socialità e creazione di una moltitudine di soggetti comunicanti, questo grazie ai complessi apparati di rete. Genova è il punto di non ritorno per accettare la tesi del superamento del capitalismo fordista: gli stati nazionali vanno gradualmente a disfarsi, la disposizione delle forze risponde ad una transnazionalità degli apparati di valorizzazione e sussunzione, quindi ad una transnazionalità delle possibilità di conflitto. A Genova c’era l’operaio così come c’era il migrante con i Cobas; non c’è più quell’enorme differenza tra centro-periferia, c’è uno sviluppo ed una semantica dello sfruttamento che si riverbera in varie occasioni ed in vari luoghi e situazioni: il riflesso dell’ enorme catena di produzione mondiale, diffusa, dislocata, sempre più just in time e sempre più dipendente dalle reti di comunicazione apre a nuovi spazi di individuazione di molteplici soggetti interrelati, che si danno conseguentemente allo sviluppo di una catena di repressione e sfruttamento, anch’essa reticolare.
MCO: Infatti Genova presenta un circuito resistenziale al simbolo del potere, il summit, che supera le ottiche tipiche del terzomondismo da una parte, diviso nell’esaltazione dei processi di decolonizzazione e nella proiezione di categorie politiche spesso troppo occidentali per riuscire a capirli fino in fondo, e della lotta occidente-centrica per eccellenza, per cui il movimento poteva solo prospettarsi la rottura delle contraddizioni nei paesi a capitalismo avanzato. Sono tante anime indipendenti che trovano nella tendenza centrifuga e centripeta nel gestire i flussi del capitale l’elemento comune di questa articolazione multicolore. Nel libro ho imparato che molte barriere furono abbattute in quegli anni, il mondo sembrava un unico grande calderone di diverse lotte, anche violente. Ad esempio, dal Chiapas zapatista emerge una nuova simbologia, un nuovo linguaggio politico legato a nuove pratiche, il Subcomandante Marcos diventa una figura da appendere in cameretta accanto al poster di Che Guevara per un adolescente o uno studente universitario.
GM: Il fatto è che se da una parte col G8 di Genova, ma col Movimento di Seattle ancora prima, si innescano nuovi strumenti d’analisi della realtà globale -come hai detto tu per l’adolescente politicizzato c’è un altro Che Guevara che è il Subcomandante Marcos- e si sposta anche tutta quella rete, quel reticolato di potere che dalla caduta della cortina di ferro in poi va’ a comportare un nuovo paradigma mondiale di distribuzione del potere. Ho in mente i contesti di discussione generale, in cui i portatori delle istanze non riuscivano ad esibire più una matrice identitaria riferita al proprio paese d’origine o alla cultura politica di appartenenza, bensì le esponevano consapevoli di esser tutti sulla stessa barca. Non esiste più così chiaramente quella prospettiva terzomondista classica del centro e della periferia, un tempo valida: si va a strutturare qualcosa di ancora più intricato, di più interessante e complesso. Dai villaggi zapatisti arriva questo messaggio: non cerchiamo il potere, non vogliamo quel tipo di sovranità, oggi la sovranità e il capitale si identificano a livello globale. Altra idea fondamentale degli zapatisti, in America Latina storicamente legata al guevarismo, sosteneva che ogni nuova società nata dalla lotta rivoluzionaria, così come ogni conflitto sociale, è il frutto diretto della propria storia. Dunque da diverse realtà con storie e culture diverse, con diverse condizioni materiali e con ingiustizie diverse, nascono necessariamente diverse resistenze.In tal senso lo zapatismo ha sempre ripetuto di essere solo un sintomo della globalizzazione, uno dei tanti ciascuno con le sue peculiarità determinate, come lo sono altri sparsi nel mondo.
MCO: Con la caduta del muro, con la fine dello scontro bipolare tra le due visioni del mondo, l’occidente tira tutta la corda a sé, i paesi del terzo mondo si ritrovano spesso con debiti nazionali spaventosi, non solo per i prestiti del FMI e dei suoi piani di riqualificazione economica, i cui parametri di necessaria attuazione diventano indispensabili al fine di percepire i prestiti pianificati. Questi paesi dovettero iniziare a scontrarsi senza mediazione con le esigenze, gli investimenti e le speculazioni dei privati, che vedevano e vedono tuttora in strategie come il dumping salariale e lo sfruttamento a basso prezzo dei giacimenti di materie prime un’ottima strategia di allocazione degli investimenti e di gestione dei propri dividendi finanziari. Lo spiega benissimo Vittorio Agnoletto nella sua intervista, ci si trova davanti a emergenze sanitarie (soprattutto in Africa) in cui questi stati a cui è stato imposto questo patto col diavolo si trovano talmente indebitati e privi di beni materiali per far fronte ai problemi di welfare e devono ricorrere sempre al privato. Cosa che per noi oggi è abbastanza normale, soprattutto in Europa, per non parlare di America o Messico. Ed il privato costa, il privato si impone con dei limiti e delle perdite calcolando un’utile marginale aziendale che non riesce mai a corrispondere all’utile sociale.
EP: Ci si scontra col grande problema dei beni con un’offerta strictly bound nel libero mercato: anelasticità, innalzamento esponenziale dei prezzi senza un proporzionale aumento dei fattori produttivi, incapacità d’allocazione ottimale delle risorse, impossibilità di un sistema di mercato multiattoriale.
GM: L’abbiamo visto con la pandemia, se il G8 di Genova è stato uno dei tanti fenomeni che ha voluto portare al mondo una nuova disposizione delle forze, d’altra parte la pandemia ha fatto vedere tutta la forza di una determinata reazione sistemica in ogni possibile resistenza ai vari problemi economico sociali che il covid 19 ha portato o incrementato, si pensi soltanto al fatto che qui in Italia ancora si discute sull’importanza o meno di vaccinarsi, con tutte le sterili opposizioni al green pass, se non addirittura al vaccino stesso. Non ad esempio all’importanza della liberalizzazione dei brevetti: poche forze politiche ne hanno parlato, tanti stock vaccinali che dovevano essere inviati nel terzo mondo sono stati distrutti o non sono direttamente stati inviati.
MCO: Esattamente, Agnoletto così come altri del movimento porta avanti un discorso sulle rivendicazioni inerenti la sanità e i diritti umani negati. Emerse la grande emergenza sanitaria che fu l’AIDS, con i vaccini “di marca bianca” che vennero bloccati e i brevetti che vennero bloccati lasciando a morire milioni di persone e tutt’ora è un male presente che dilapida molte vite in tutto il mondo. Per puro profitto economico. Ti faccio un altro esempio: nell’intervista fatta, Agnoletto tratta del fatto che la Dichiarazione di Doha del 2001 sui brevetti dei farmaci non sono è stata in alcuna maniera seguita: il loro effetto è stato completamente limitato in sede di OMC. La conseguenza sarebbe stata la cessione del brevetto dei vaccini per il COVID anche per i paesi del terzo mondo. Inoltre, con l’accordo commerciale Trips plus vengono ancora di più vincolati gli stati africani che vogliono avere a che fare con l’Unione Europea per il commercio e la cessione di medicinali. L’Europa delle università occupate, delle fabbriche occupate, delle proteste di piazza, dei morti di piazza, delle stragi di stato, che si è sempre guardata molto nell’ombelico, una volta superate queste esperienze guarda al sud del mondo, e lo guarda in modo diverso dai tempi dei processi di decolonizzazione, una visione molto radicale di una condizione comune dato da un livellamento che non permetteva più di sognare uno sganciamento dal mondo capitalista. Padre Zanotelli va a parlarne, Genova è il momento in cui si capisce come l’umanità eterogenea diventi sinonimo di anticapitalismo, come rifiuto di atti e situazioni disumane, della condizione di subalternità in un’ottica realmente globale.
GM: Dopo questo gigantesco spartiacque che fu il G8 di Genova, noi oggi ci ritroviamo con le stesse rivendicazioni. Un esempio tangibile di inappellabile attualità tra quelli riportati dal libro può essere quello delle Donne in nero della Morgantini, un’associazione che metteva sul piano di una moderna lotta intersezionale, donne palestinesi e donne israeliane, col motivo comune di criticare il G8, per discutere attorno le politiche sul villaggio globale. Perché la globalizzazione non si esime dall’intervenire sull’affare della striscia di Gaza: si discute sulla visione di Israele come stato assediante, sulla soluzione dei due stati, sulle implicazioni della Palestina nell’equilibrio economico politico del Medio Oriente, che si dimostra tanto un ente di peso internazionale quanto difficile da qualificare, con la continua rivalità tra Hamas e l’OLP.
MCO: Si ripete ma ci si stanca anche di ripetere che si aveva ragione. Combattiamo ancora quel sistema che alimenta e produce il cambiamento climatico così come la distruzione ambientale, l’inquinamento dell’ambiente e quindi la perdita di biodiversità, la rottura di interi ecosistemi sia tramite la violenza estrattivista sia tramite gli effetti sul lungo periodo delle nostre attività come appunto il cambiamento climatico che cambia gli ambienti a spese degli esseri viventi che li abitano e che si sono evoluti per adattarsi a questi habitat e viverci. Non capiamo che anche noi subiremo e già subiamo su noi stessi le gravi conseguenze di questo errato rapporto con la natura in cui anche noi siamo parte. Queste erano già le argomentazioni dei giovani del 2001, erano queste le rivendicazioni, ma lo erano tutte: dalla sanità all’ecologismo, al lavoro. Eppure, ora domina una febbre di identità, quella dei fili spinati. Spesso chi oggi piange sui social la scomparsa del mondo in cui in cima ad una montagna la vecchia nonna preparava con mano un piatto tipico, sono pure quelli che poi hanno sostenuto o sostengono politicamente un processo che sfrutta una parte di mondo per arricchirne un’altra. La difesa di elementi culturali locali o particolari attaccati dalla globalizzazione liberista può aver senso solo se è preceduta dall’assunto che non si può e non si vuole tornare indietro bensì andare oltre il capitalismo.
GM: Ad esempio lo zapatismo non impone il ritorno a un cieco primitivismo, bensì costruisce qualcosa di nuovo che non è mera difesa della diversità culturale bensì difesa di una propria autonomia di percorso inserita in un processo rivoluzionario anticapitalista e progressista che vuole andare oltre il presente, non indietro. L’eredità di questi movimenti è molto fragile. L’idea di una soggettività transnazionale perché è il conflitto ad esserlo, senza estinguere in un’unica identità politica le molteplici componenti diverse. Dopo Porto Alegre ormai vediamo collettivi che dicono di far rete, sono centinaia se non migliaia in ogni città italiana, vediamo tantissimi gruppi che spesso e volentieri battagliano tra di loro per imprecise norme interne o piccoli dissidi.
MCO: Gli Zapatisti che all’epoca erano nel pieno auge della Rivoluzione Zapatista sono venuti in Europa e hanno cercato di farsi conoscere con estrema umiltà da altri giovani, non per istruirli sulle tecniche e sulle teorie – come nell’epoca precedente alcune tendenze terzomondiste imponevano – ma per conoscere ed imparare perché ora il Chiapas non è più simboleggiato dal guerrigliero nella giungla che si difende dal governo paramilitare, ma è un Chiapas che si apre al mondo. Ed a loro cominciarono a sommarsi diverse singolarità sociali nuove e prospettive nuove a livello di costruzioni politiche. Sembra che queste esperienze siano andate completamente nel dimenticatoio. Anche nella nostra sinistra ci si chiude in inutili identitarismi in base a differenti sfumature di colore, ne esce un movimento frammentato. L’episodio di Porto Alegre è una cosa che per noi è quasi inimmaginabile, per noi appartenenti a vari gruppi o collettivi frammentati suona difficile l’idea di ritrovarsi tutti nella stessa stanza, nella stessa città. All’attuale, nonostante i mezzi di comunicazione siano sempre più efficienti, resi reticolari e onnipresenti a livello globale, ormai è più forte la volontà di tagliare i ponti, la tendenza ad essere identitari. Se prima c’era una ricerca dell’unità nel movimento stesso, non dico la ricerca di omogeneizzarsi ma anzi di creare differenza, una differenza che potesse costituire una soggettività politica unita, mondiale, volta all’ alter-globalismo, ora abbiamo dovuto sperare che la pandemia, dopo le prime ondate, riportasse al sorgere di un nuovo movimento globale, un autunno caldo, sensibile a tutta una serie di temi variegati e di esigenze eterogenee, in buona parte già sentite nel 2001, e invece abbiamo un milione di posti di lavoro persi sotto il covid solo in Italia, i licenziamenti di massa via mail (vedi GKN), la precarietà dilagante, siamo lì per lì per frantumarci; forse c’è ancora spazio per una scommessa?
EP: Dopo Genova sembra si abbia un ventennio di pura osservazione delle lotte, abbiamo delegato a terzi agenti, luoghi e tempi la modificazione di quegli stessi rapporti che la prospettiva immediatamente precedente a Genova 2001 aveva inteso a cambiare con quell’economia degli incontri. E chissà come mai abbiamo delegato ormai queste lotte a metodologie parziali, con un che di vetusta moderazione e di illogico identitarismo. Se prima ci siamo chiesti come la reazione completamente inaspettata delle istituzioni abbia portato al primo gradino d’arresto del movimento, non ci siamo ancora dati una motivazione di questo strappo generazionale. A causa di chi o cosa si è lasciato che tutto naufragasse? Perché la nuova generazione ha un’altra prospettiva che è ormai una prospettiva residuale, rispetto alla carica politica che certi movimenti potevano avere?
MCO: C’è stato qualcosa che ha profondamente disinnescato la potenzialità organizzativa di questa articolazione “multifocale” ma unitaria del movimento, che ci ha costretto ad essere spettatori immobili della storia. Deve esserci stato un quid che – almeno in Italia – ha definito il cambio di costume nel comportamento del militante qua in Italia. Quando invece prima la parola d’ordine era far rete davvero, ormai siamo di fronte ai figliocci e figliastri di Genova che per mantenere un certo settarismo tentano in tutti modi di non risultare più coerenti a questa massima. Riprendendo un’intervista del vostro libro, quella a Norma Bertullacelli, dove lei si esprime in termini molto specifici e molto belli: “Da quando il lavoro è diventato precario le persone non hanno più tempo per mobilitarsi”.
GM: Ci viene in mente il discorso sulla vertenza Texprint a Prato; l’azienda è principalmente composta da forza lavoro straniera che lavora in media 12 ore al giorno, 7 giorni su 7, per poi tornare a casa la sera tardi, in piena periferia: non hai tempo per lottare, studiare, parlare con altri lavoratori del tuo settore, imparare la lingua, integrarti, creare un nucleo famigliare, sindacalizzarti.
EP: Si pensi anche alla nuova dicitura di “lavoro povero”: contratti a chiamata, in somministrazione, alcune casistiche di parasubordinati, i famosi contratti atipici…vi è un’offensiva sul tempo di lavoro e sul valore aggiunto, in particolare nelle PMI italiane che marciano sull’aumento di plusvalore assoluto, non parliamo poi del terzo settore, dove il delivery è incentrato sui contratti a chiamata. È ovvio che togli lo spiraglio di spingere il lavoratore ad organizzarsi temporalmente, se è vero, come diceva Lenin, che l’unica ricchezza del subalterno è l’organizzazione.
MCO: Infatti, vien da pensare come Norma va a sviluppare tutto un discorso piuttosto articolato sul fatto che all’epoca si davano i manifestini, anche in formato A4, che riuscivano però grazie alla garanzia delle sigle che avevano dietro, a ottenere una certa presenza assicurata. Parla di quando padre Zanotelli arrivato a Genova riesce a riempire una chiesa con duemila persone. Duemila persone raccattate a furia di manifesti. Le mail erano ancora un enorme formalità, si cominciava a utilizzarle soprattutto per parlare con l’altra parte del mondo. All’attuale con tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo è già dura fare qualcosa a livello territoriale, in tempi recenti in Italia l’unica “sigla” capace di dare quello stesso tipo di garanzia solo col proprio nome è il collettivo di fabbrica Gkn. Ci si deve organizzare per un’altra globalizzazione, contrapponendola a quella offerta dal capitalismo: l’esempio proprio sono le delocalizzazioni come per il caso GKN, a cui abbiamo partecipato assieme nel corteo di marzo. Se mi permettete, vi è però un dato positivo in tutto questo: all’epoca di Genova 2001 sorprende come il mondo della società civile italica negò qualsiasi empatia in primis ai giovani coinvolti, i quali avevano intenzioni pacifiche. Da parte italiana ci si chiedeva “chi sono questi? Cosa vengono a fare queste persone qui da noi? Che vogliono?”. Invece che vedere una brusca rottura nella società italiana, come era solito sin dai tempi del golpe Borghese, non successe proprio nulla. Nulla tranne un aumento della repressione e della aggressività delle destre. Ora vertenze come quella della GKN, della TextPrint o della Caterpillar sono riuscite ad attorniarsi di diverse anime con un appello ai giovani, alle compagne femministe, ai compagni migranti, alla lotta ecologica (in particolare la GKN). E la società civile non è più così refrattaria, tant’è che pur le istituzioni sindacali di fronte alla lotta del collettivo di fabbrica hanno dovuto accettare di aver di fronte qualcosa di nuovo ed importate.
EP: La grossa sfida è pensare a qualcosa di nuovo e che a Genova si tentava di pensare: l’alter-globalizzaione, qualcosa di altro, una nuova soggettività, nuove pratiche produttive: una moltitudine. Progettare la Comune. Sono parole che diventano di uso assiduo a quei tempi: tra i vari nuovi riferimenti di quel movimento viene pubblicato Empire di Negri e Hardt, a cui abbiamo fatto riferimento velato in questa discussione, piuttosto che altre opere, anch’esse importanti come quelle di David Harvey o Naomi Klein.
MCO: L’attualità di certe tesi, quelle di Negri e Hardt in primis, penso che sia sconcertante. Già all’epoca cambiano le parole d’ordine perché cambiano le analisi di fatto, e questo cambio voleva esattamente dire: signore e signori non siamo più a quarant’anni fa, non stiamo più cercando di resistere dei nuclei sociali più o meno eversivi. Non possiamo che prendere esempio dalle esperienze migliori del passato senza romanticizzarle: la vita deve servire la storia solo e soltanto nella misura in cui la storia serve la vita. Tra queste parti della nostra storia collettiva sta anche Genova, e quella del G8 2001 è la Genova dei colori, con le sue bandiere, i suoi tanti modi di organizzare la vita e la piazza.
EP: È forte il ricordo di un Pasolini che si trovava di fronte ad un ambiente intellettuale italiano impostato sulla doppia alternativa: o per certi strati popolari non v’è più alternativa (posizione di Montale) oppure ci deve essere un ricambio totale nell’ottica di immaginare un futuro teleologicamente dato. Pasolini dirà di no, si sottrarrà a questo bivio, dirà che per certe soggettività sociali si tratta di fare un lavoro resistenziale, mai nel rimpianto del passato ma anzi contro il presente capitalista, ma comunque un’opera di resistenza culturale contro l’egemonia culturale del potere, un’operazione resistenziale che in quei termini a differenza di ieri, come hai ben esplicitato tu, oggi non ha più senso.
MCO: Proprio perché hai citato Pasolini parto con una riflessione mia sul titolo del libro, La rivoluzione non è che un sentimento, citazione tra l’altro rimaneggiata più volte ma attribuita proprio a Pasolini stesso. La rivoluzione non è che un sentimento, nel senso che nella lotta rivoluzionaria, come a Genova, la colla, il collante, è proprio uno scuotimento comune dei sentimenti, un’emozione che vuole andare oltre per raggiungere maggiore concretezza. Questo sentimento ha chiaramente in sé del romanticismo, sta nell’immagine del partigiano, del guerrigliero, della scioperante, dell’operaio o del contadino, nei ragazzi e nelle ragazze delle piazze degli anni sessanta e settanta. Ognuno può metterci ciò che vuole, ed è una componente necessaria, immancabile. Bisogna comunque starci attenti dal momento che può però diventare fuorviante, un peso addirittura: l’economia emozionale non può andare a sostituire l’economia organizzativa, il romanticismo può considerarsi come il momento di rottura ed introduzione all’azione, ma non può sostituirsi al fare tattico e all’articolarsi strategico, li implementa, li introduce, ma bisogna starci attenti.
E tornando a ciò che tu dicevi, noi la resistenza la portiamo nel nome, e continuiamo a fare resistenza anche nel mentre ci vanno ad incolpare di corruzione perché accettiamo diversi generi, diverse sessualità, diverse etnie, diverse storie, nuove soggettività emerse da nuovi contesti storici. Fare resistenza non è l’azione sclerotizzante di porre a santino una forma di vita o un fatto storico piuttosto che un simbolo, come molte organizzazioni della sinistra radicale italiana vorrebbero intendere il termine resistenza, che diviene superstizione. Queste valgono quanto una reazione che vorrebbe un ritorno a una purificazione inesistente e che nella pratica è la barbarie vera: uno scoglio non può arginare il mare e fare resistenza non è questo. È il settarismo che chi vuole realmente cambiare il mondo non può più permettersi, Genova ne è la prova, resistere è aprire a qualcosa già di nuovo, crearlo nel mentre dell’acuirsi delle contraddizioni- La nostra associazione si occupa soprattutto della resistenza del ‘43 – ‘45, su un cucuzzolo nelle pre-apuane, in una vita ancora abbastanza bucolica lontana da un certo caos urbano ma a cui non siamo indifferenti, anzi, ci riguarda a pieno, e non siamo indifferenti neanche alla storia più attuale, come Genova 2001.
GM: Mi sa che ci avviciniamo ad una conclusione; quindi, siamo alla consueta domanda di chiusura: perché leggere La rivoluzione non è che un sentimento? A chi lo consiglieresti?
MCO: Ti rispondo facendo riferimento ad un evento laterale a questo libro, ovvero lo spettacolo teatrale della compagnia del Teatro dell’Assedio di Michelangelo Ricci, di cui fa parte anche Lega, che è stato creato in comunione e concomitanza al libro e di cui molte delle interviste sono state usate come canovaccio per l’opera. Qui il Lega fa da cantastorie e inizia parlando di Bologna e della strage alla stazione del 1980, immaginando questo autobus sul quale vengono caricati i morti per l’esplosione del piazzale – dato che i feriti erano così tanti da aver esaurito le ambulanze – ed il suo intraprendere un viaggio per l’Italia. Morti che non sono semplicemente morti bensì memoria viva di quella ferita italiana, mai guarita. Una ferita questa che sin dal fascismo, passando per gli anni di piombo e la strage di Bologna, arriva a Genova rompe i punti di sutura di questa ferita sanguinante. C’è chi vorrebbe chiuderla forzosamente in un modo o nell’altro, da entrambi i lati, ma questa continua a riaprirsi e non riesce a guarire, e questo spettacolo rappresenta la memoria viva di cui si fa portatore. Per me questo libro è esattamente un atto di memoria viva della nostra storia: italiana e di militanti ed antagonisti. Non è a mio avviso questo un ennesimo tentativo di ricucire la ferita, perché prima di suturarla bisogna aspettare che guarisca: dovremmo quindi curare l’intera società. Il libro non vuole essere un monolite di Genova, dicendo “è andata così, è stato questo”. Non siamo inoltre noi, e non di certo io che a Genova non c’ero nemmeno, a raccontarla: questa è l’analisi di chi l’ha vissuta e racconta cosa è stato. Noi, con le nostre competenze, possiamo dare alito a discussioni e confronti, ad esempio portando il dibattito, come si pensato e cercato di fare qua in certa misura e oltre questa intervista in maniera più specifica, sulle tesi di Negri e Hardt . Possiamo così rileggere cosa è accaduto a Genova ed analizzare il presente attuale. Non credo però si possa prendere Genova e portarla come gagliardetto; certamente è storia recente e dovrebbe far parte del bagaglio politico ed attuale di ogni ventenne. Carlo Giuliani dovrebbe essere fratello di ogni ventenne, così come lo era per i ventenni in piazza in quel giorno, non può invece essere portato a baluardo di qualcosa che c’era e adesso non c’è più. Non facciamo quell’errore che si fa spesso e volentieri con gli anni ’70, piuttosto che gli anni ’60 o ’20.
GM: Intendi andare a portare a santino Giuliani e Genova?
MCO: Sì, portare a santino qualcosa, e lo dico di Genova perché è qualcosa di abbastanza attuale ed essendo cresciuto in Liguria son passato infinite volte per quei luoghi. È grazie all’immagine di piazza Alimonda che mi sono avvicinato anni fa alla politica, quando feci caso alla targa cancellata, sapendo cos’era successo. Adesso che con Giuliani ho già condiviso l’età, nella quale è stato inchiodato per sempre, penso che se ne debba fare tesoro ed esperienza e non dobbiamo assolutamente fermarci alla sfilata, alla parata e al gagliardetto o fare la conta dei morti e di chi si è arreso. Bisogna evitare di fare un resoconto quasi religioso dei fatti, una sorta di processione in cui invece che preghiere si cantano slogan degli anni Settanta e si fa il simbolo della P38: premetto, io sicuramente rimango un romantico, ma c’è bisogno di una certa dose di pragmatismo. Non che serva smettere di pensarci e abbandonare ciò, ma proprio fare un passo avanti che apra un nuovo spartiacque: superare il fatto che noi siamo il “dopoGenova”. Io come ventenne sono stanco di essere il “dopoGenova”! Perché essere il “dopoGenova” nell’immaginario comune della sinistra radicale è considerato una sconfitta. Rappresenta il trionfo del berlusconismo, del mondo post-ideologico, nella paura del comunismo, nella sua sconfitta politica e brandizzazione. Con tutta l’esperienza che abbiamo e la documentazione che s’è fatta si è potuto portare questa goccia d’acqua al mare. Vogliamo superare ciò che è stato Genova e quel trauma, anche noi che non l’abbiamo vissuto di prima mano. Quello che sono stati Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, che comunque hanno tenuto viva la memoria e la lotta, una specie di martiri. Invece Giuliani, anche per l’infamia che è stata fatta alla sua famiglia e noi, lo vedo più come un Cristo sulla croce che da entrambi gli schieramenti viene portato o lapidato, quando secondo me, e da quello che ho potuto far esperienza nell’intervista fatta alla madre, nella semplicità dell’indecisione di un ragazzo che non sapeva se quella giornata andare al mare o in piazza si mostra la gravità dell’accaduto. Non c’è infamia che tenga quando gli mettono il taglierino nello zaino e nella calunnia del descriverlo come una persona rissosa vicina ad ambienti di hoolingans e droga. Sono inutili le mitificazioni quando è stato inchiodato un ragazzo quei giorni, nell’inesperienza generale di quello che poi sarebbe stato in ciò che ci si aspettava essere una grande festa dell’alterglobalismo, perché quello doveva essere Genova. Vorrei invitare tutti i ventenni a riprendere come monito un’usanza dei gitani di Spagna, che è quella di schiodare il cristo dalla croce e riportarlo in mezzo alla gente, e lo dico non da religioso. L’ossessione con il macabro del martirio e del dolore di una persona sulla croce è inopportuna quando noi tutti preferiremmo che Giuliani fosse vivo. Non tanto vedere le scritte “Carlo vive e lotta assieme a noi”, per quanto questo paradossalmente mi abbia avvicinato al mondo della politica. E: c’è questo bisogno storico della sinistra dei martiri, del martirizzare ciò che in realtà è un omicidio politico.
EP: Ringraziamo te e gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo per la disponibilità ed il bellissimo lavoro fatto in questo libro.
Si ringrazia come aiuto tecnico: Laura Pettinari, Veronica De Maria, Massimiliano Cosmani,
Federico Billi, E.G.