-Compagna Elisa
Questo 25 novembre sarà un po’ particolare. Oggi, infatti, si presenta ancora più inderogabile l’urgenza di levare le nostre voci e di elaborare soluzioni alternative alla realtà vigente. Per la prima volta, in oltre settant’anni di storia repubblicana, l’Italia è governata da una Presidente del Consiglio, benché Meloni si ostini a declinare il suo ruolo al maschile.
La presidenza di Giorgia Meloni costituisce un’esaustiva dimostrazione del fatto che non è sufficiente mutare il genere dell’uomo al potere per cambiare la sostanza di una società che strutturalmente si regge su meccanismi di oppressione e sfruttamento. In altre parole, Meloni non esprime un reale ed effettivo cambiamento. La sua vittoria non rappresenta una “vittoria per le donne”; rappresenta, semmai, la vittoria di un modello maschilista di esercizio del potere. Il potere borghese può essere gestito senza grandi differenze sia da un uomo sia da una donna, purché non si pongano in discussione i principi del potere in questione. Del resto, è proprio questa la ragione per cui sono state spesso donne di destra a raggiungere per prime posizioni apicali. Una leader liberale o conservatrice non si scaglierà mai contro il potere costituito; essa, non diversamente da un leader liberale o conservatore, aspirerà sempre a lambire quel potere e a portare avanti un’agenda politica reazionaria.
Ulteriore riconferma di ciò è lo stesso programma politico della destra post-fascista, atto a reiterare il paradigma familiare borghese e patriarcale. Si tratta dello stesso paradigma che contribuisce a dispiegare quelle forme di violenza che la destra dichiara di voler combattere. È un programma che ignora deliberatamente tutte le soggettività distinte da quella etero-normata. Esso riconosce e tutela solo la categoria tradizionale di famiglia e educa alla replicazione acritica di tale modello. Le proposte di FdI, quindi, sono tacitamente cariche di violenza e pregiudizio. Lungi dal proporre mutamenti radicali e dal sopperire alle gravi carenze nel sistema pubblico, propone un’idea di famiglia che possa fungere da ammortizzatore sociale. Così, in virtù di ragioni sia ideologiche sia opportunistiche, la donna viene ancora relegata al ruolo di moglie e di madre.
Esistono molteplici forme di violenza, tutte figlie della medesima struttura. La società patriarcale è malata dalle sue fondamenta e il veleno dell’oppressione di genere si propaga in ogni espressione di questa. Intossica chiunque, senza alcuna eccezione. Abbiamo tuttə assorbito quella mentalità patriarcale che con il tempo si è sedimentata sul fondo delle nostre coscienze. Ne consegue, dunque, che il primo dovere di ogni socialista scientifico è di decostruire il pensiero comune. Per farlo occorre anzitutto analizzare in che modo si manifesta il fenomeno della violenza di genere.
Secondo un recente rapporto stilato dalla Direzione centrale della polizia criminale, realizzato in collaborazione con La Sapienza, sono stati 82 i femminicidi commessi da gennaio 2022. Se andiamo a raffrontare questo dato con quelli degli anni precedenti ci accorgiamo di un’inquietante verità: i numeri variano pochissimo di anno in anno. Nel 2021 sono state 103 le donne uccise, 101 nel 2020, 92 nel 2019. In tal senso, il dato 2022 registra una lieve inflessione, ma non un’inversione della tendenza generale.
Sempre secondo il rapporto della Direzione, sono soprattutto le donne a cadere vittime del reato di revenge porn: su un numero di 3496 delitti, il 72% è perpetrato a danni di donne.
Potremmo continuare ancora a snocciolare dati, ma il problema è che non sono pienamente rappresentativi. Essi si limitano a fornire una fotografia tanto preoccupante quanto parziale della realtà. Quello della violenza di genere è, infatti, un fenomeno ancora non documentato del tutto, dal momento che sono purtroppo moltissime le donne che non sporgono denuncia o non si rivolgono a centri anti-violenza.
Le ragioni per cui molte donne “scelgono” -ammesso e non concesso che esista realmente una libertà di scelta- di non denunciare sono diverse. Il punto è che queste dinamiche non potranno mai essere del tutto debellate fino a quando le donne non raggiungeranno un’indipendenza economica rispetto agli uomini. Le donne guadagnano mediamente salari più bassi e sono generalmente più povere. È proprio dal potere economico che scaturisce il potere di ricatto e di controllo che i partner esercitano sulle loro compagne.
A tutto questo si devono sommare altri fattori, fra cui il processo di colpevolizzazione al quale le vittime di violenza vengono sistematicamente sottoposte. Una donna che subisce una qualsiasi forma di violenza, sia essa fisica e/o sessuale, viene solitamente ritenuta in parte “meritevole” di questo male. La responsabilità risiede nella condotta scorretta di quella donna, colpevole di aver troppo provocato, di aver sollecitato, e forse addirittura desiderato, la reazione maschile.
Simili pregiudizi si insinuano nella mente delle stesse vittime di violenza: secondo un’indagine ISTAT del 2014 solo il 35,4% delle donne che ha subito violenza ritiene di essere stata vittima di un reato. Viene da domandarsi quanto sia cambiato dal 2014 ad oggi.
Molte si caricano della responsabilità delle colpe del compagno: “forse mi ha menata perché gli ho risposto male, forse mi ha menata perché non gli ho dato retta e quindi è colpa mia se lui ha reagito così”. Altre donne ancora non sporgono denuncia intimorite dalla prospettiva di lasciare il proprio compagno. Tutte noi cresciamo nella consapevolezza di dover seguire una sorta di percorso prestabilito, che non solo contempla la vita di coppia, ma la pone addirittura al centro delle aspettative. La denuncia del partner, pertanto, implica l’assunzione di scelte che molte donne possono considerare addirittura “degradanti”.
Ma perché sono proprio le donne ad aver paura di questo? Perché nonostante alcuni stereotipi stiano lentamente decadendo, le donne sono sempre state raccontate come creature più inclini all’irrazionalità, più fragili e quindi bisognose di protezione. Tale protezione può provenire soltanto dalla figura maschile: dal padre, dal fidanzato, dal marito, dal fratello e così via.
In effetti è vero che il mondo circostante è un luogo grande e ostile per le donne, ma forse dovremmo iniziare a cambiarlo piuttosto che ricadere nella retorica sessista della donzella in pericolo. Tutto questo richiede un percorso graduale e radicale di decostruzione dell’educazione patriarcale, implica un’unificazione dei modelli educativi, a prescindere da ogni distinzione di genere.
Alcune hanno paura di non essere credute oppure di vedere sminuita la propria rabbia e il proprio dolore. Così quello della violenza subita diviene un fantasma, una presenza ossessiva che non riusciamo ad esorcizzare attraverso il racconto. Sta lì, bloccato nella nostra mente, come un taboo del quale non riusciamo a parlare.