Il libro L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, edito dai compagni di Punto Rosso, è una bussola per orientarsi nel mare di spiegazioni sull’inflazione che ha colpito in questi anni, successivi alla pandemia da COVID-19 e che hanno visto la Russia invadere l’Ucraina, l’intera Europa. Gli autori sostengono la tesi secondo cui l’inflazione derivi essenzialmente dagli aumenti dei profitti delle imprese.
Il libro, come dimostra il primo saggio di Lampa e Oro, critica la teoria quantitativa della moneta (TQM) che lega l’inflazione ad un’eccessiva espansione della quantità di moneta. In quest’ottica i fenomeni inflattivi sono esclusivamente un fenomeno monetario. Ancora oggi questa è la teoria che guida il dibattito economico sull’inflazione, con importanti conseguenze sulle politiche adottate dalle autorità economiche e monetarie per combattere l’inflazione. Pensiamo solamente alla stretta monetaria caldeggiata da questa teoria per interrompere la crescita dei prezzi.
Un punto di riferimento centrale del libro è Kalecki che criticò aspramente la TQM a partire dalle dinamiche inflattive successive alla fine della Seconda guerra mondiale. All’epoca le economie europee erano in una situazione di pieno impiego delle risorse a causa dello sforzo bellico. Per la ripresa economica era necessario investire le risorse nei beni d’investimento, sottraendole ai beni di consumo.
Quindi, a parità di prodotto, l’offerta dei beni di consumo cadeva ma la domanda era rimasta inalterata, inducendo un aumento dei beni di consumo. In un simile contesto, i lavoratori perdono potere d’acquisto mentre gli imprenditori realizzeranno degli extra-profitti” che “spingeranno in alto i consumi degli imprenditori ma, a causa dell’insufficiente offerta, i prezzi dei beni di consumo aumenteranno ulteriormente, indebolendo ancora di più i redditi reali dei lavoratori a vantaggio degli imprenditori1.
Lampa e Oro, tuttavia, affermano che questo scenario favorevole alle analisi della TQM non è qualcosa di scontato. Se il prezzo dei beni di consumo cade assieme alla loro quantità, i prezzi continueranno ad aumentare in virtù della minore disponibilità di questi beni. Allora per interrompere l’inflazione occorrerà colpire la domanda aggregata. A questo punto gli imprenditori potranno scegliere di non vendere i beni di consumo subito, speculando, mentre i consumatori, colpiti nel potere d’acquisto dall’inflazione, decideranno di sbarazzarsi della moneta per comprare i beni di consumo sul mercato.
Queste dinamiche non fanno altro che alimentare l’inflazione. Kalecki, inoltre, critica la tesi della TQM sulla velocità di circolazione costante della moneta perché in un simile scenario i banchieri centrali saranno costretti ad alzare i tassi d’interesse per contrastare la conversione della moneta in beni di consumo da parte dei consumatori e dei risparmiatori. Ne consegue che:
In presenza di una spirale iperinflattiva, il governo dovrà immediatamente ridurre il deficit a zero e raffreddare l’economia. La caduta dei prezzi che ne consegue non avverrà in virtù di una riduzione della base monetaria ma semplicemente per la normalizzazione del conflitto sociale e distributivo imposto dal governo stesso attraverso l’aumento della disoccupazione2.
Seguendo Michal Kalecki, gli autori, specialmente Esposito e Gaddi, adottano la prospettiva secondo cui le aziende decidono i prezzi di vendita in base alla loro struttura dei costi, applicando un ricarico percentuale sulla somma dei costi delle materie prime, i beni intermedi utilizzati nel processo produttivo, e dei costi del lavoro. Il markup dipende dal grado di concentrazione del settore, dal suo conseguente potere di mercato, dal potere rivendicativo dei lavoratori. Analizzando i bilanci delle imprese metalmeccaniche, tenendo conto che le discussioni sull’inflazione nei media vertono sulla dinamica dei prezzi al consumo mentre nei bilanci delle imprese è visibile soprattutto la dinamica dei prezzi alla produzione, Esposito e Gaddi affermano che:
il quinquennio, che include il crollo verticale della produzione dovuto ai lockdown durante la pandemia, mostra comunque un forte recupero della redditività delle aziende. Ad esempio, il risultato operativo aumenta del 35% contro un aumento del valore della produzione di meno del 14%. Si consideri che nel quinquennio il PIL è cresciuto di appena il 2,6%; quindi a un’economia sostanzialmente stagnante si contrappone un aumento degli utili aziendali di quasi l’80%. Sempre nel periodo considerato, l’aumento dei redditi da lavoro dipendente si attesta sul 7%. Pur tenendo conto dei cambiamenti dell’occupazione, è evidente la forte redistribuzione del reddito a favore delle imprese. Un’altra dimostrazione che le scelte di politica economica e l’inflazione abbiano favorito le imprese sta nel rapporto tra costo del lavoro e output delle imprese. Il costo del lavoro pesava attorno al 12% nel 2017-2018 e pesa per l’11,3% nel 2021. Il costo del lavoro scende, i profitti salgono. L’effetto di questo aumento dei profitti per le imprese in un periodo di investimenti comunque contenuti è di far aumentare i depositi delle aziende presso il sistema bancario. (…) In attesta che i dati dei bilancio per il 2022 confermino o meno queste dinamiche, possiamo concludere, sulla base dei dati sia a livello aziendale che macroeconomico, che l’inflazione, così come le politiche economiche impostate nel periodo precedente nei principali paesi avanzati, hanno permesso un forte aumento della profittabilità delle imprese3.
Questa situazione è strettamente legata ai processi di centralizzazione del capitale con delle implicazioni molto interessanti per i futuri studi sul fenomeno, come ci ricordano su Il Manifesto Bertorello e Corradi:
Se la crescita è tuttora bassa, dunque la domanda stagnante, com’è possibile che i profitti salgano scaricandosi sui prezzi? Teoricamente la concorrenza dal lato dell’offerta, per soppiantare i potenziali concorrenti, dovrebbe frenare il rialzo dei prezzi. Non abbiamo una risposta convinta e documentata, ma vogliamo esplicitare il nostro dubbio. Il grado di concentrazione raggiunto dal capitale in diversi settori, e su cui ha scritto analisi di indubbio interesse Emiliano Brancaccio [e aggiungerei Bellofiore ed Halevi, tra i primi a parlare in Italia di centralizzazione senza concentrazione], rende più facile giocare sul prezzo per alzare i margini? (…) se ci trovassimo di fronte ad una inflazione da costi e da concentrazione, l’azione delle banche centrali sarebbe particolarmente spuntata e rischiosa, perché potrebbe anche ottenere una riduzione dell’inflazione, ma pagando un prezzo particolarmente elevato sul lato della crescita. Non solo, sarebbe un ulteriore segnale di un mercato che si fa sempre meno regolatore e sempre più regolato da grandi concentrazioni e alleanze geopolitiche. Varrebbe la pena chiedersi, persino, se svolga ancora la sua primaria funzione di generare concorrenza tesa ad abbassare i prezzi4.
Sono suggestioni interessanti ma è bene ricordare che non tutte le imprese sono nella stessa posizione sul mercato. Le imprese di settori con una struttura oligopolistica possiedono un significativo potere di mercato. Questa situazione è normalmente riscontrabile nei settori dell’energia e della distribuzione alimentare. Queste imprese sono in grado di aumentare i propri prezzi al fine di mantenere o aumentare i propri margini di profitto per rispondere ad un aumento dei costi di produzione oppure ad un clima di incertezza. Diversa è la situazione di imprese che operano in settori con meno potere oligopolistico rispetto al primo gruppo ma che possiedono un potere sufficiente nei confronti dei lavoratori per tutelare con una certa efficacia i propri margini. Ciò è possibile a causa del contesto degli ultimi decenni, segnato dal costante indebolimento delle organizzazioni sindacali e della contrattazione collettiva. Gaddi ci regala due capitoli molto importanti, in questo senso, sulla ricostruzione della storia della scala mobile in Italia dagli anni ‘50 ad oggi, con relativo aumento del lavoro precario.
Infine abbiamo le imprese operanti in mercati più competitivi o dove è maggiore la forza dei sindacati. Parliamo di PMI con minori potenzialità produttive che a causa della loro posizione nel mercato o delle rivendicazioni dei lavoratori vedono ridursi i propri margini di profitto.
Questa diversa forza delle imprese è legata, come sostiene sul Manifesto Brancaccio, alla tassa sugli extraprofitti delle banche recentemente proposta dal governo Meloni. La tesi è che con questa nuova misura il governo Meloni stia portando avanti un pericoloso esercizio di equilibrismo tra capitali forti e creditori e capitali deboli e debitori.
L’aumento dei tassi, infatti, compensa l’erosione di valore del capitale che i creditori e le banche subiscono a causa dell’aumento dei prezzi. In sostanza, la banca centrale agisce come una sorta di “scala mobile per i capitalisti” in posizione di credito. Quelli hanno ancora l’adeguamento al costo della vita, i lavoratori ovviamente no. Banche e creditori, dunque, calorosamente ringraziano per l’aumento dei tassi d’interesse deciso a Francoforte. Ma le imprese debitrici? Finché l’inflazione persiste, queste possono scaricare l’aumento dei tassi direttamente sui prezzi. Ma se la fase inflazionistica volge al termine allora l’aumento degli oneri sul debito non trova più sbocchi e inizia a mordere, specie per le piccole imprese con scarso potere di mercato. Che a quel punto cominciano a lamentarsi. Meloni e Salvini temono così che l’esercizio di equilibrismo tra i due padroni finisca tra le proteste di uno di essi: i padroncini. Per questa ragione, inventano una piccola imposta straordinaria, che dovrebbe dare un gettito di circa 2 miliardi. Una parte cospicua di queste entrate, statene certi, andrà a mitigare proprio l’onere delle piccole imprese debitrici5.
Le diverse posizioni delle imprese e dei settori economici influiscono sulla propagazione dell’inflazione. L’aumento dei prezzi in qualsiasi settore dell’economia ha sempre un impatto diretto e indiretto sull’inflazione. L’impatto è diretto perché questi prezzi corrispondono a una frazione del paniere di beni e servizi utilizzato per calcolare l’inflazione. L’impatto è indiretto perché sono una componente della struttura dei costi di altri settori dell’economia. I prezzi praticati dai settori che comprendono gli oligopoli dell’energia e della produzione e distribuzione di prodotti alimentari, rappresentano una parte consistente dei costi che devono affrontare le restanti imprese. Un aumento dei prezzi praticato in questi settori, associato agli extraprofitti, ha rapidamente un effetto di propagazione dell’inflazione verso i restanti settori dell’economia.
Inoltre, gli oligopoli ci rimandano al coordinamento del mercato che sono in grado di generare. A maggior ragione in un contesto inflazionistico in cui vi è una successiva revisione dei prezzi da parte di tutte le imprese contemporaneamente e ogni singola impresa può aumentare i prezzi che pratica senza rischiare di perdere quote di mercato.
Il concetto viene ribadito nel libro da Cucignatto e Garbellini:
Per comprendere quali siano gli effetti di un aumento del costo dell’energia – nel nostro caso, del gas naturale – sul livello generale dei prezzi (…) bisogna considerare non solo gli “effetti diretti”, ma anche quelli indiretti: anche la produzione del capitale fisso e circolante impiega energia, e pertanto ad aumentare saranno i prezzi di tutti i beni e servizi intermedi, non solo quello del gas6.
I due autori presentano uno studio molto interessante sul rapporto tra inflazione e aumento del prezzo del gas, dove giungono alla conclusione, partendo da un dato di fatto inattaccabile, cioè che i salari nominali in questo periodo non sono aumentati, che ad aumentare sono stati i margini di profitto. Inoltre affermano che “l’aumento dei costi di produzione non sembra sufficiente a spiegare l’andamento dell’inflazione degli ultimi mesi. È dunque legittimo concludere che si sia trattato piuttosto di inflazione da profitti: dal momento in cui si è iniziato a parlare di aumento dei prezzi del gas e di inflazione, le persone hanno iniziato ad attendersi rincari generalizzati. Non si sono quindi sorprese quando hanno visto i prezzi aumentare”7.
Questo processo è collegato anche alla centralizzazione del capitale: “la dinamica dei prezzi del gas potrebbe causare non solo un’ulteriore redistribuzione del reddito dai salari ai profitti, ma anche un cambiamento nella struttura del capitale in favore delle grandi imprese – in altre parole, un aumento della centralizzazione”8.
È importante notare che i settori in cui inizialmente si è concentrata l’inflazione, come quello energetico e, in misura minore, i prodotti alimentari, sono proprio settori tipicamente popolati da grandi imprese o che hanno subito un processo di concentrazione negli ultimi decenni, oltre a liberalizzazioni e privatizzazioni, lasciando la maggior parte delle quote dei mercati dei beni energetici e della distribuzione nelle mani di un ristretto numero di grandi imprese. Di fronte alle interruzioni delle catene distributive delle materie prime, causate inizialmente dalla pandemia e successivamente dall’instabilità legata alla guerra in Ucraina, questi settori si sono protetti dall’aumento del costo delle materie prime e hanno scaricato tale costo sui consumatori. Non resta che aggiungere altre informazioni utili per analizzare la diffusione dell’inflazione.
Partiamo dalla finanziarizzazione della nostra economia e al ruolo svolto dai prodotti finanziari derivati nel processo di determinazione dei prezzi delle materie prime come cibo, petrolio o gas. Esemplare è il caso dell’indice TTF. La volatilità registrata nei mercati finanziari, dove questi prodotti sono scambiati, rafforzata dalla guerra in Ucraina, nonché il peso dei grandi fondi di investimento in questi mercati, ha portato i prezzi a salire molto più di quanto sarebbe giustificato dalle condizioni della domanda e dell’offerta. Cioè, un’economia internazionale molto finanziarizzata ha amplificato le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime scambiate a livello globale ben oltre i fondamentali competitivi.
Infine troviamo il conflitto distributivo che evidenzia come l’evoluzione dell’inflazione dipenda anche da come lo shock dell’offerta influisce sulla posizione relativa e sul potere contrattuale dei lavoratori e dei datori di lavoro. Lo shock iniziale, alterando la distribuzione funzionale del reddito, innesca un conflitto sulle frazioni di reddito assegnate al lavoro e al capitale nel processo produttivo. Così come il canale oligopolistico contribuisce, in un primo momento, alla persistenza dell’inflazione attraverso collegamenti intersettoriali, il conflitto distributivo è essenziale per comprendere la persistenza dell’inflazione anche come fenomeno intrasettoriale. Per concludere, dobbiamo analizzare come la banca centrale contrasta l’inflazione.
Se un individuo ha un reddito fissato a livello nominale, senza nessuno schema di recupero dei prezzi, la sua inflazione ideale sarà 0”9. Tuttavia, per le condizioni di accumulazione del capitale che le banche centrali devono garantire, non funziona allo stesso modo. Le banche centrali guardano al cosiddetto differenziale inflattivo. “Un’inflazione del 5% è alta se i competitor registrano un’inflazione del 3%, è bassa se i competitor registrano un’inflazione dell’8%. Quello che la banca centrale minimizza non è dunque l’aumento dell’inflazione tout court, ma la distanza da quella degli altri paesi. (…) Non è l’inflazione a peggiorare la competitività di un paese ma il differenziale inflattivo10.
- AA.VV., L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, Punto Rosso, Milano 2023, p. 5. ↩︎
- Ivi, p. 6. ↩︎
- Ivi, pp. 157-158. ↩︎
- M. Bertorello, D. Corradi, Lo strano caso della spirale prezzi-profitti, https://ilmanifesto.it/lo-strano-caso-della-spirale-prezzi-profitti ↩︎
- E. Brancaccio, I due padroni del governo e l’opposizione, https://ilmanifesto.it/i-due-padroni-del-governo-e-lopposizione ↩︎
- AA.VV., L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, Punto Rosso, Milano 2023, p. 127. ↩︎
- Ivi, p. 137. ↩︎
- Ivi, p. 171. ↩︎
- Ivi, p. 171 ↩︎
- Ivi, pp. 171-172 ↩︎
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