Rifare il sindacato: la proposta di Giulio Marcon

  1. Introduzione

Il libro Il sindacato nell’Italia che cambia di Giulio Marcon analizza in maniera dettagliata lo stato del sindacato nel nostro paese. In Italia ci sono 16 milioni di iscritti al sindacato, di cui il 40% pensionati. Gli iscritti sono autodichiarati e non sono certificati da terzi. Una fonte per conoscere il vero numero degli iscritti, in assenza di una legge sulla rappresentanza, sono le trattenute in busta paga per l’iscrizione che, in maniera parziale poiché alcuni sindacati autonomi non usano le trattenute per l’iscrizione ma il versamento di una quota, può essere reperita tramite l’INPS. CGIL, CISL e UIL hanno insieme 11 milioni e 200.000 iscritti. Su 900 contratti di lavoro nel settore privato, a livello nazionale, appena il 23% è firmato dai confederali mentre il resto viene approvato da sigle più piccole, spesso sindacati pirata con pochi iscritti. I sindacati sono strutturati per categorie in base al settore produttivo che può scomporsi in base alle funzioni e al profilo professionale che in passato hanno prodotto una parcellizzazione della rappresentanza. Questa struttura è alla base dell’organizzazione per federazioni o confederazioni.

“CGIL forse ne è l’espressione più convinta. Riguardo a quest’ultima, su più di 5.168.000 iscritti, questa è la loro ripartizione: poco più di 383.000 sono del pubblico impiego, circa 731.000 sono del settore dell’industria e dell’edilizia, poco meno di 650.000 sono dei servizi e del terziario, 316.000 del settore della comunicazione e della conoscenza (università, scuola, ecc.), 161.000 del settore dei trasporti, 120.000 della categoria dei lavori atipici, 251.000 del settore agroalimentare, meno di 40.000 di altri settori. Gli iscritti al sindacato CGIL dei pensionati sono oltre 2 milioni e 524.000, poco meno della metà del totale”1.

Il sindacato non è presente in tutto il mercato del lavoro allo stesso modo. Esso non è diffuso nelle piccole imprese e dove il lavoro è sempre più precario e parcellizzato. Su 23 milioni e 500.000 occupati, il sindacato ne rappresenta poco più di un terzo. Circa il 45% dei pensionati, invece, è rappresentato da un organizzazione sindacale. La tendenza, dice Marcon, è la diminuzione del lavoro nelle grandi fabbriche e una crescita di quello precario delle micro e piccole imprese. Questi lavoratori devono essere rappresentati nello spazio sociale e pubblico come la strada e il territorio. Questo compito è reso più arduo dalla mancata linearità, rispetto al passato, del rapporto tra sindacato e classi subalterne da rappresentare. Infine l’autore lamenta la fine della sovrapposizione tra classi subalterne, sindacato e partiti di sinistra.

2. Lo sguardo verso il passato

Per elaborare delle proposte per il futuro, Marcon analizza alcune fasi storiche del passato del movimento sindacale italiano.

Le Camere del Lavoro nascono alla fine del XIX secolo per far fronte ai bisogni del lavoro e per sviluppare mutualismo e solidarietà di classe. Organizzano i disoccupati con il collocamento e/o le scuole e le università popolari oppure erogano le mutue, le attività sociali e ricreative. Queste esperienze si incrociano con quelle delle amministrazioni rosse con cui realizzano percorsi di reciproca sussidiarietà con nuove funzioni assegnate dal comune alle Camere del Lavoro. Questo porta a contrasti con il partito socialista e i sindacati di mestiere con la loro rigida separazione dei ruoli tra partito che deve occuparsi di politica e il sindacato che deve occuparsi di contrattazione e rivendicazioni.

“Le Camere del lavoro (ma anche le altre esperienze di soggettività operaia come le mutue e le cooperative) si fondano prevalentemente invece su un principio orizzontale e associativo, che privilegia l’autogestione, la partecipazione dei soggetti coinvolti; che non separa la dimensione sociale da quella politica, la rivendicazione dei propri dritti dal “far da sé solidale” e dall’auto-organizzazione; che alimenta la formazione – per usare un ossimoro – di una élite collettiva rispetto a quella oligarchica dei partiti, che non pretende disciplina indiscussa, ma si autodisciplina”.

Queste organizzazioni svolgono la funzione pedagogica di educazione delle masse alla democrazia senza imitare il principio di organizzazione dello Stato e dei partiti ma facendo valere quello di associazione erede del mutualismo, orizzontale e democratico. Purtroppo, con alcune eccezioni, nel Novecento i sindacati hanno seguito la prima strada. Si tratta di una lezione per costruire oggi forme di organizzazione reticolari che aderiscono alle pieghe irregolari del mercato del lavoro e delle dinamiche sociali.

L’altro momento storico analizzato sono i due Bienni Rossi, 1919-1920 e 1968-1969. In entrambi si sviluppa un movimento autogestionario dei consigli con un forte protagonismo operaio. Durante il primo biennio si cerca di costruire un soggetto gestore delle fabbriche per governare lo Stato. È qualcosa di diverso dal sindacato ed ha l’obiettivo di educare le masse ad essere classe dirigente ma anche di sradicare la burocrazia dai sindacati. Nel secondo biennio ci troviamo alla fine del ciclo di sviluppo del neocapitalismo basato su gabbie salariali, bassi salari e rigido controllo padronale nelle fabbriche e durante la trasformazione della classe operaia del Nord grazie all’emigrazione meridionale a Torino e Milano. Influenzati dalle istanze libertarie degli studenti del ’68, nacque il movimento dei consigli che rinnovò il sindacato. Gli operai fanno entrare la democrazia in fabbrica e l’assemblea è lo strumento centrale delle lotte che mettono in discussione l’organizzazione del lavoro e l’autonomia del sociale. Negli anni ’70 questo mutamento porterà alle 150 ore, all’istituzione del servizio sanitario nazionale…

Il sindacato rompe con la tradizionale divisione del lavoro con i partiti e diventa un soggetto politico che espande la sua influenza nella società.

3. Cosa fare per il futuro.

Il sindacato, in particolare la CGIL, sta rinnovando la sua prassi con la trasformazione in sindacato di strada anche sulla base di queste esperienze storiche. L’espressione evoca un sindacato con un forte rapporto con la base, il territorio e con l’identità sociale delle persone. Rappresenta un nuovo modo per mettersi in sintonia con la società, con la comunità e senza intermediazioni burocratiche. È anche una rappresentanza dei lavoratori oltre la categoria. Si ricollega ad alcune riflessioni recenti nel mondo sindacale come il sindacato dei cittadini del segretario della UIL Benvenuto che nasceva dall’analisi della trasformazione e frammentazione del lavoro e il superamento della fabbrica fordista. Nel 1991 la CGIL di Trentin prova a fare un’operazione teorica simile coniando l’idea del sindacato dei diritti e della solidarietà, un sindacato che fa politica oltre ai contratti. Si tratta di una ripresa del sindacalismo delle origini con due modi di essere sindacato che finiscono per integrarsi.

I problemi che oggi deve affrontare il sindacato sono molteplici ma Marcon ne individua essenzialmente tre: burocratizzazione, corporativismo e consociativismo.

Il primo problema viene ripetutamente analizzato da Trentin nei suoi diari. La burocratizzazione è un ostacolo alla partecipazione democratica che non può coesistere con l’autoreferenzialità e l’autosufficienza della burocrazia. Questo fenomeno tende a centralizzare e verticalizzare l’organizzazione, irregimentando il dibattito interno, alimenta il conformismo, rallenta il tempo delle decisioni e produce oligarchie portatrici di interessi particolari ed estranei a quelli dei lavoratori. La tendenza qui descritta rende gli organismi esecutivi una riunione di staff invece che il luogo di dibattito politico e generale. Infine, come ricordava Trentin, produce resistenza passiva verso ogni cambiamento. L’antidoto a questo male è più democrazia nel sindacato.

Il consociativismo, invece, annulla la dialettica tra diverse posizioni e orientamenti nell’organizzazione facendo prevalere l’unanimismo di facciata. Il massimo dello scontro è tra chi vuole più conflitto e chi vuole più accordi con imprese e governo. Questo ha reso il posizionamento dei singoli legato a correnti e raggruppamenti di interessi. Il consociativismo si lega anche ai rapporti tra sindacato e politica e sindacato ed imprese che portano a scambi di favori funzionali all’organizzazione e non ai lavoratori. Questo, unito alla disintermediazione promossa dai governi che scavalcano le parti sociali durante la presa delle loro decisioni, ha portato alcuni sindacati a cercare la loro legittimità davanti ai lavoratori per mezzo dell’erogazione di servizi fiscali e di patronato. Con le imprese questo problema si traduce nella voglia di firmare un contratto pur di firmarne uno. Il sindacato avrebbe la funzione di firmare contratti, anche sé da 4/5 euro l’ora di retribuzione.

Il terzo problema è il corporativismo che porta alcuni sindacati a prendere la posizione di specifici interessi senza legame con l’organizzazione del lavoro, la sua qualità e la democrazia sul luogo di lavoro. Questa tendenza non riguarda solo il sindacato ma tante realtà del terzo settore che sono degradate nel parastato e paramercato nella demolizione del welfare pubblico. Il sindacato traduce ciò nelle trattive per il welfare aziendale che rafforza le assicurazioni private, soprattutto quelle sanitarie.

“I fondi sanitari integrativi che coinvolgono 12 milioni di lavoratori sono una spinta alla privatizzazione della sanità e l’alibi per il degrado della sanità pubblica. Il welfare aziendale introduce una forte discriminazione tra i lavoratori, a seconda dei profili professionali e dell’azienda. Perché una parte del sindacato non si sia interrogato seriamente sulle ambiguità del welfare aziendale suscita perplessitàè il segnale dell’indebolimento della cultura solidaristica e universalistica del ruolo di una parte delle organizzazioni sindacali”.

Il risultato è una progressiva demolizione del welfare per creare un’architettura funzionale ad un mix di corporativismo aziendale e mercato.

Per costruire il sindacato di strada del futuro bisogna ripensare il modo di essere e di fare sindacato. Uno dei primo compiti è riequilibrare la dimensione orizzontale e territoriale con quella verticale, di mestiere o settore di lavoro. La prima è stata distrutta nel corso del tempo e serve rivitalizzarla in una fase del capitalismo contraddistinta da precarietà e polverizzazione del lavoro. Oggi i lavoratori si incontrano nello spazio metropolitano e non nei luoghi di lavoro. Questo dovrebbe portare al rilancio delle Camere del Lavoro per renderle i luoghi di socialità, organizzazione della solidarietà, mutualismo e aiuto. In questo modo si fa contrattazione sociale dal basso che ricostruisce l’unità sociale delle persone. Se non è possibile avere strutture fisiche, bisogna compensare con camper sindacali e gazebo da mettere nei luoghi della sofferenza sociale del paese.

“Il secondo compito dovrebbe essere quello di tematizzare e declinare fino in fondo le parole che Trentin volle nel titolo del congresso della CGIL del 1991: i diritti e la solidarietà. Nelle letture di Trentin, l’opera di Simone Weil occupa un posto di rilievo. Se il sindacato mette al centro i diritti, non deve dimenticare i doveri (in fondo la solidarietà è un dovere sociale, politico, morale) e l’esercizio dei diritti è speculare al rispetto dei doveri: e il ruolo del sindacalista deve essere un esempio per gli altri, i suoi comportamenti devono essere ispirati allo spirito di dedizione e di sacrificio”.

Se si parla di diritti, occorre mettere al centro la persona nella sua totalità, discutere del suo benessere personale e come vive fuori dal lavoro.

Il terzo compito è la riforma della rappresentanza sindacale attraverso una specifica legge mentre il quarto è la costruzione di un concreto rapporto con la società civile che apra le strutture del sindacato ai movimenti che si occupano della difesa dei principi costituzionali e del bene comune.

  1. Giulio Marcon, Il sindacato nell’Italia che cambia. E/O, Roma 2024, le citazioni legate al libro sono prese da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎

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