Democrazia, Stato, Rivoluzione. Presente e futuro del socialismo nel XXI secolo è un libro che ci mette davanti ad una serie di questioni centrali per ogni forza che si definisca di rottura e alternativa allo stato di cose presenti. L’autore è uno dei più importanti pensatori marxisti latinoamericani ancora in vita, Alvaro Garcia Linera, che con questo volume, edito dalla casa editrice Meltemi, finalmente viene pubblicato anche nel nostro paese.
La sua è una storia comune a molti protagonisti della marea rosada latinoamericana di inizio millennio. Come Dilma Rousseff o Mujica ha un passato da guerrigliero, per il quale negli anni ‘90 è stato incarcerato, è come loro ha avuto l’opportunità di assumere incarichi di governo mettendo le mani in pasta da una posizione ormai rara da riscontrare: la possibilità per un pensatore marxista di confrontarsi con la sfida della transizione al socialismo.
Possiamo leggere da tre diverse angolazioni questo libro.
Cosa significa rivoluzione nel XXI secolo? La prima riguarda la possibilità di portare avanti un processo rivoluzionario nel XXI secolo, seguendo le regole della democrazia borghese. Linera chiarisce nel suo libro due elementi a mio avviso centrali: il socialismo deve necessariamente essere una questione globale, come il capitalismo, per potersi realizzare e il primo obiettivo di ogni governo è il superamento del modello neoliberista di governamentalità. Lo strumento indicato per fare ciò è lo Stato, inteso come un rapporto sociale. Uno dei saggi teorici più interessanti del libro ha come titolo “Stato, democrazia e socialismo” ed ha come argomentazione principale le teorie del grande filosofo marxista Nicos Poulantzas sullo Stato. “Lo Stato è il costante processo di stabilizzazione delle relazioni esistenti (rapporti di dominio) nei corpi e nelle strutture di percezione e di organizzazione pratica del mondo di ciascuno. è la costante formazione delle strutture mentali con le quali le persone comprendono e agiscono nel mondo esistente e percepito. Pertanto lo Stato sono le strutture mentali, gli schemi simbolici, i sistemi di interpretazione del mondo che consentono a ciascun individuo di essere in grado di operare e districarsi in questo mondo chiaramente gerarchizzato, ma che nel farsi schema di interpretazione e azione possibile nel corpo di ognuno cessa di essere percepito come estraneo e diventa piuttosto un mondo “naturalizzato”. Lo Stato va inteso come una relazione tra dominanti e classi popolari, un rapporto che cerca il dominio che deriva da processi e lotte più profonde e lunghe. Leggendo lo Stato come un processo e non come un punto di partenza da cui far cadere la propria strategia, chiave di lettura che offre la possibilità sia di criticare la prospettiva riformista che delle avanguardie rivoluzionarie, significa riconoscere al suo interno l’esistenza degli spazi vuoti del dominio che consentono la resistenza o l’emancipazione delle classi popolari. L’emancipazione non può essere portata “da fuori” ma sarà opera delle stesse classi popolari. Ritengo che il bersaglio di questa critica di Linera sia in particolar modo la tradizione guevarista che ha mandato alla macello un’intera generazione di comunisti. Sognando la replica della rivoluzione cubana in tutto il continente, tanti giovani rivoluzionari hanno pensato che fosse possibile vincere le forze dello Stato borghese piazzandosi sul cucuzzolo della montagna aspettando la sollevazione generale. Com’è facilmente intuibile, fu una strategia totalmente fallimentare che impose una seria rivisitazione della dottrina guevarista da parte dei movimenti guerriglieri che si richiamavano agli ideali del Che. Da questa impasse nacque l’idea della guerriglia urbana di Marighella e dei Tupamaros o le varie modifiche del metodo di lotta adottate da Douglas Bravo in Venezuela. Da dentro lo Stato, allora, emerge progressivamente l’idea di una diversa organizzazione della società che marcia assieme all’estensione delle democrazia stessa, fino a renderla incompatibile con il capitalismo stesso, da qui l’idea di Linera della rivoluzione come un momento di democrazia assoluta.
Questo mutamento impone due strade possibili da percorrere: o la restaurazione delle vecchie credenze o l’affermazione di nuovi rapporti di forza, nuove credenze mobilitanti e la nascita di una nuova forma statale. Parliamo dell’”equilibrio catastrofico” in cui due modelli inconciliabili di società si scontrano, dopo un duro lavoro di convincimento e costruzione di egemonia da parte dei comunisti, è la cosiddetta “guerra di posizione”.
Linera deve molto a Gramsci, anche nello stile pedagogico con cui ha scritto questi testi che riflettono la volontà di far comprendere i propri concetti ai ceti popolari per aiutarli nel processo di mobilitazione e presa del potere. Alla “guerra di posizione” segue quello che l’autore chiama “Momento Robespierre”, ovvero, la necessità di distruggere l’ordine discorsivo e organizzativo antagonista. Ogni classe spodestata dal proprio potere, tenderà inevitabilmente ad assumere un atteggiamento sempre più aggressivo, facendo sempre di più uso della violenza. Qui sta il momento che segna il passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione” leninista, le quali non si escludono vicendevolmente ma sono complementari. In questo preciso momento devono essere dispiegate le forze per lungo tempo condensate dalla rivoluzione per la propria sopravvivenza. Lasciati i controrivoluzionari senza progetto politico, torna in campo Gramsci e la logica del convincimento nei confronti degli oppositori, ma questa volta da una posizione di consolidata egemonia e nel ruolo di blocco sociale dominante, dovuto al mutamento dei rapporti di forza.
Linera lavora sulla schema Gramsci-Lenin-Gramsci per un’idea democratica di socialismo, il quale deve essere inteso come un lungo processo di transizione che non potrà realizzarsi per decreto statale.
L’obiettivo ultimo resta l’estinzione dello Stato nell’ottica del superamento della proprietà pubblica e privata nel comune che impone la partecipazione diretta delle persone alla soluzione dei propri problemi e alla gestione dei beni comuni. Questo è il nocciolo del libro che ci consente di capire le altre due angolazioni con cui leggere il resto dei testi.
Conoscendo questa impostazione teorica, sappiamo analizzare il processo rivoluzionario boliviano che viene descritto molto nel dettaglio nella seconda parte del volume e le spietate critiche alla sinistra europea. La Bolivia ha tentato un percorso di transizione al socialismo che ha coinciso con la riproposizione della dottrina economica desarrollista. Il governo boliviano ha cercato prima di tutto di uscire dal modello neoliberista di governamentalità, mettendo al centro lo sviluppo del capitalismo boliviano per mezzo della sottoscrizione di un patto sociale in cui il surplus derivato dalle vendite delle proprie materie prime, estratte da aziende statali, sul mercato internazionale veniva usato per far uscire dalla povertà i ceti popolari su cui poggiava il consenso del governo.
Sono evidenti i limiti di un modello del genere, dall’eccessiva dipendenza dal mercato mondiale che rischia di schiacciare tutto in uno sviluppo del sottosviluppo, lasciando il paese in una posizione dipendente nella divisione internazionale del lavoro, all’ampliamento di un ceto medio composto in larga parte da nuovi consumatori animati dal vecchio senso comune.
Anche lo stesso Linera intravede questi limiti, nonostante l’ottimismo sulla forza e la stabilità del processo rivoluzionario che traspare in alcuni suoi saggi. Tuttavia trovo semplicemente sterile la critica sull’estrattivismo mossa al governo boliviano, specialmente da alcuni settori dell’estrema sinistra, in un contesto simile. Un governo rivoluzionario non può aspettare l’invenzione di metodi sostenibili per vestire o riscaldare i propri cittadini, deve soddisfare rapidamente i bisogni essenziali della società se non vuole essere spazzato via. In questo caso, è mancata la volontà di porsi obiettivi più radicali, capaci di andare oltre mera scadenza elettorale. Questi governi hanno mobilitato forze sociali che potenzialmente avrebbero consentito una presa violenta del potere e l’instaurazione di una dittatura di classe. Invece ci si è illusi di poter integrare una fantomatica borghesia nazionale in questa avventura politica, con i risultati che conosciamo tutti.
Oltre a ciò, è mancata una soluzione dal respiro internazionalista ai problemi del capitalismo dipendente, potenzialmente risolvibili per mezzo dell’ALBA e un vero processo di sganciamento del sistema-mondo capitalista.
L’ultima angolazione di lettura è una spietata critica alla sinistra europea, incapace di influire nelle proprie società, riducendosi ormai anche all’irrilevanza culturale, e che spesso rifiuta anche di interrogarsi sulla prese del potere, pensando di poter cambiare il mondo senza di esso. Linea ci invita nuovamente a intravedere nella realtà quotidiana la possibilità di un cambiamento rivoluzionario, il suo è un messaggio che invita alla riflessione, all’autocritica e alla lotta.
Articolo originariamente apparso su Tempo Fertile