Intervista ad Ernesto Screpanti sul suo nuovo libro “Liberazione: Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente”

Ringraziamo Gabriele Repaci per averci concesso di pubblicare l’intervista.

  1. Professor Screpanti, nel suo ultimo libro Liberazione: Il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente, edito da Tedaliber e da Punto Rosso (PDF scaricabile gratis da qui: https://www.tedaliber.it/liberazione/), lei contesta la visione della storia come processo di liberazione, cioè di espansione della libertà, definendola una metafisica destituita di ogni pretesa di scientificità. Se in passato, lei sostiene, abbiamo avuto un’evoluzione liberatoria, nulla garantisce che possa andare così in futuro. In altre parole per lei non c’è alcuna ragione per cui la storia debba avere un senso. Quindi, se non ho frainteso ciò che vuole dire, la storia è semmai il campo sterminato di una pluralità di processi, di dinamiche, di una molteplicità di percorsi, che spesso non hanno alcun rapporto tra loro, tanto meno uno di natura causale, ma sono dominati in gran parte dalla casualità e dall’eventualità delle cose.

La tesi che la storia è un processo di liberazione determinato dalle lotte sociali è centrale nel mio libro. È un’interpretazione giustificata da uno studio del passato. Ciò che nego è che esista un senso universale della storia per cui le cose debbano andare necessariamente così anche nel futuro. Sulla base di quella interpretazione possiamo ragionevolmente aspettarci che le lotte continuino ad avere esiti liberatori – possiamo sperarlo ma non possiamo esserne certi. Affermare il contrario equivale a costruire una filosofia metafisica della storia. In un orizzonte temporale ravvicinato possiamo solo dire che in ogni momento si apre una biforcazione tra liberazione e barbarie. In un orizzonte un po’ più lungo possiamo intrattenere quell’aspettativa e quella speranza, se non altro come motivazione della partecipazione alle lotte. In un orizzonte indefinito non possiamo dire nulla.

  1. Come lei ricorda nel suo libro, di ribellioni nella storia ce ne sono state molte ma di rivoluzioni ben poche. Forse perché le classi subalterne tendono a fare proprie le ideologie oppressive della classe dominante? Si tratta dunque esclusivamente della mancanza di un’egemonia culturale per dirla con Gramsci, oppure dell’assenza di un’avanguardia politica adeguata?

I soggetti che vivono nell’oppressione, nella povertà, nell’alienazione tendono ad attivare dei congegni psicologici di difesa che gli permettono di accettare la dura realtà. Per le classi oppresse la vita è un “adattamento infelice”. Ciò crea una predisposizione a far propria l’ideologia delle classi dominanti, l’ideologia che giustifica la realtà esistente e la sua struttura di classe e induce gli oppressi a considerare riprovevoli i tentativi di ribellione. Non è facile rompere la gabbia mentale che sostiene l’adattamento, anche perché ogni rottura comporta una serie di rischi economici (ad esempio, il licenziamento), giuridici (la galera), esistenziali (l’anomia), la paura dei quali è proprio ciò che spinge gli individui ad adattarsi alla dura realtà. Per questo è molto difficile decidere di fare una rivoluzione. Tuttavia in certe circostanze storiche possono darsi condizioni sociali, economiche, culturali e psicologiche che favoriscono la riflessione critica e predispongono gli oppressi a correre il rischio di lottare per un mondo migliore. Le cosiddette “avanguardie politiche” proliferano in questi processi ma non sono loro a determinarli. Più importante è il lavoro delle avanguardie intellettuali, quelle che lavorano a minare l’egemonia del pensiero dominante e a prospettare modi alternativi di convivenza. Queste avanguardie in certi periodi storici producono il pensiero radicale che sovverte l’ordine costituito nella cultura e mette gli oppressi in condizione di lottare per sovvertire quello politico. La rivoluzione inglese non sarebbe stata possibile senza la riforma protestante, né quella francese senza il movimento illuminista, né quella russa senza il pensiero socialista dell’Ottocento.

  1. La crisi economica causata dal capitalismo sta portando sempre più persone, in particolare fra i giovani, a contestare le logiche di mercato e a parlare apertamente di socialismo anche in un paese come gli Stati Uniti, dove un tempo era un tabù. È un segno che la storia si è “rimessa in marcia” dopo che negli anni ’90, in seguito al crollo del “socialismo reale”, se ne era dichiarata la fine con il trionfo della democrazia liberale?

Sì, credo che si stiano avvicinando i tempi in cui la liberazione si rimette in marcia. Il neoliberismo, che ha dominato il mondo nell’ultimo mezzo secolo o quasi, non ha mantenuto le sue promesse. Il potenziamento del mercato e la ritirata dello stato non hanno determinato un aumento del benessere e della libertà, e tantomeno un’espansione della democrazia. Al contrario hanno causato crescente povertà, disuguaglianza, oppressione. Ormai molta gente l’ha capito, e un numero sempre più ampio di persone si sta convincendo del fatto che è necessario un cambiamento radicale. Credo che i tempi siano maturi per l’esplosione di un altro dirompente movimento globale di liberazione. Le lotte di protesta contro il genocidio palestinese ne sono un sintomo, come quelle contro la guerra nel Vietnam lo furono per il Sessantotto e l’Autunno caldo.

  1. Nei paesi industrialmente avanzati assistiamo a una disaffezione generale verso le istituzioni. Sempre meno persone vanno a votare, e abbiamo assistito al successo politico di demagoghi di estrema destra come Donald Trump, Orban e Giorgia Meloni. Da cosa dipende secondo lei questo fatto?

Tra i congegni difensivi che vengono attivati per sostenere l’adattamento infelice ce n’è uno, noto come “spostamento”, con cui la rabbia che non può essere sfogata rivolgendola verso i veri soggetti oppressori, viene spostata su altri soggetti oppressi. Questo meccanismo è favorito e incoraggiato dei servi intellettuali del potere, giornalisti, professori, politicanti eccetera. Così, se i salari sono bassi, la colpa non viene attribuita ai padroni che usano la concorrenza di mercato per abbassarli, ma ad altri oppressi che la subiscono – oppressi, come gli immigrati, che il pensiero dominante ci induce a vedere come diversi e come nemici. Se perdiamo il lavoro perché l’impresa in cui lavoriamo chiude per delocalizzare, la colpa viene attribuita non alla sete di profitto delle multinazionali, ma alla cosiddetta “globalizzazione”. La conseguenza è che, avendo spostato la colpa, vengono deviate le lotte. Invece di prendercela con la UE che ci impone politiche fiscali restrittive, ce la prendiamo con le ONG che salvano i migranti dall’annegamento. Invece di lottare contro le multinazionali, lottiamo per la sovranità nazionale. Accade che, quando viene alla ribalta una ducetta che vuole accrescere il prestigio della nazione e deportare i migranti in Albania, molti la votano; così come molti votano per un pazzoide che vuole fare di nuovo grande l’America alzando muraglie ai confini col Messico e dazi contro le merci cinesi. Aggiungi il fatto che molti tra i cittadini più consapevoli non vanno più a votare perché hanno capito che il gioco “democratico” è truccato, e capisci perché oggi la destra più becera tende a vincere dappertutto.

  1. In questi giorni assistiamo a feroci repressioni da parte delle forze dell’ordine contro gli studenti che manifestano per la Palestina sia in America che in Europa. È possibile secondo lei che una radicalizzazione delle lotte, che si estenda alla classe lavoratrice, possa provocare l’ascesa di un governo bonapartista o addirittura fascista, oppure tale pericolo non sussiste?

Il capitale non si ferma di fronte a nulla. Quando è messo in discussione il suo potere e la sua esistenza, reagisce ferocemente. È accaduto in passato, quando si è inventato il fascismo contro il Biennio Rosso, il nazismo contro la repubblica sovietica di Baviera, il franchismo contro la repubblica democratica spagnola. Può accadere anche in futuro. D’altronde le premesse ci sono già tutte nelle moderne accozzaglie ideologiche di tipo sovranista, suprematista, vannaccista. La repressione dei movimenti di protesta studenteschi è una fioca avvisaglia dei metodi repressivi che potrebbero essere adottati.

  1. Nel suo libro tratta del problema della pianificazione economica. Scrive: «L’ufficio centrale del piano non ha a disposizione tutte le informazioni necessarie per adeguare l’offerta alla domanda e quindi non può riuscire a fare meglio che in un sistema con decisioni decentralizzate. In termini microeconomici il mercato è superiore all’ufficio del piano perché è anarchico, cioè perché il decentramento delle decisioni consente di raccogliere e usare in modo abbasta soddisfacente le informazioni microeconomiche». Quindi lei contrappone alla pianificazione centralizzata una forma di socialismo di mercato dove l’ufficio centrale avrebbe solo una funzione indicativa. Si potrebbe obiettare che il fallimento del modello jugoslavo basato sull’integrazione tra piano e mercato ha dato esiti altrettanto disastrosi di quelli dell’URSS e dei paesi del Patto di Varsavia.

Il modello di socialismo che propongo prevede un’economia mista in cui i beni privati sono prodotti da vere cooperative che operano in un mercato ben regolato, mentre lo stato controlla la produzione dei beni pubblici, dei beni comuni, dei beni meritori e di quelli fabbricati in regime di monopolio. Il governo pratica una pianificazione indicativa, una pianificazione negoziata e vari tipi di politica economica (sociale, fiscale, monetaria, industriale, commerciale) con cui governa l’economia. La superiorità del mercato concorrenziale rispetto alla pianificazione autoritaria era stata teorizzata dall’economista conservatore Hayek. È una superiorità definita non in termini di efficienza allocativa ma in termini di efficienza nella raccolta e nella gestione delle informazioni. La teoria fu verificata “empiricamente” in quell’immenso laboratorio sperimentale che fu l’URSS. La storia ha dimostrato che il capitalismo di stato è fallito innanzitutto dal punto di vista economico. Oggi quasi tutti gli economisti, anche marxisti, hanno riconosciuto la validità di quella teoria di Hayek, la fallacia del modello stalinista e la superiorità del socialismo di mercato. Quanto all’esperimento Jugoslavo, si deve tener presente che: 1) ha dato comunque esiti migliori di quelli dei paesi del patto di Varsavia, 2) non era esente da difetti (ad esempio: lo stato era controllato da una nomenklatura e non dai lavoratori o dal popolo; gli operai avevano il controllo delle fabbriche ma non la responsabilità per l’uso dei mezzi di produzione, cosa che favoriva certi comportamenti opportunistici), 3) il crollo del paese fu largamente determinato da interferenze politiche esterne.

  1. L’ultima domanda che le vorrei fare riguarda la situazione della sinistra di classe in Italia. Nonostante tanti anni di lavoro politico non si è riusciti a ricostruire, dopo la debacle del 2008-9, un soggetto politico in grado di rappresentare gli interessi della classe lavoratrice. Come spiega questo fatto?

La sinistra di classe emerge e acquista influenza quando partono le lotte sociali e i movimenti collettivi, quando gli oppressi si ribellano e cercano di cambiare il mondo. Così è stato nel Biennio Rosso, nella Resistenza e nel Sessantotto. Nei periodi di riflusso delle lotte e di normale funzionamento del sistema capitalistico, i partitini di sinistra si accartocciano su sé stessi, si dimenano nelle diatribe tra leaderini, si scindono e si moltiplicano senza ritegno, perdono contatto con la realtà. La classe lavoratrice non si accorge nemmeno dell’esistenza di qualche decina di partitini comunisti, se non altro perché nella ricerca dell’adattamento infelice tende a prestare orecchio più alle genialate di Salvini che a quelle di Rizzo. Quanto alla debacle del 2008-9, si spiega con la psicanalisi non con la politica: si è trattato di un karakiri determinato dal narcisismo.

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