- Introduzione
Con questo saggio sul libro Beni comuni vs merci vogliamo omaggiare Giovanna Ricoveri, recentemente scomparsa. La sua analisi inizia parlando delle frontiere del profitto che nel XXI secolo si sono spostate per assorbire i beni pubblici e comuni. Si tratta di un patrimonio di beni naturali, infrastrutture, servizi che hanno un valore appetibile per il capitale e generato dal lavoro, l’ingegno e il risparmio delle popolazioni locali. Il concetto è stato profondamente trasformato nel corso del tempo fino ad essere un termine con cui indicare beni a cui ogni essere umano dovrebbe avere libero accesso, come cibo, acqua, farmaci, energia o istruzione. Di solito si aggiunge che questi beni dovrebbero essere gestiti dallo Stato per raggiungere questo obiettivo, tuttavia è un errore perché confonde pubblico e statale che non sono la stessa cosa come dimostra il cambiamento di funzione dello Stato nei processi di globalizzazione dove ha decisamente preso la parte del capitale. Allo stesso tempo il concetto di beni comuni si è modificato in maniera tale da mettere in secondo piano i beni comuni naturali. Intorno ai beni comuni, seguendo il pensiero di Ostrom, è possibile organizzare istituzioni, produzione e società in maniera tale da rompere con il capitalismo costruendo una realtà non dominata dallo scambio di equivalenti e dalla mano invisibile del mercato. La tesi sostenuta da Ricoveri è che la difesa dei beni comuni o la loro riproposizione nel Nord del mondo rappresenta una robusta risposta alle dinamiche distruttive del capitalismo.
- I beni comuni
Ricoveri sostiene che non sia possibile definire in modo univoco e preciso cosa siano i beni comuni perché dipendono dalla specificità del luogo e dalla flessibilità con cui le comunità si adattano alle situazioni che mutano. Possiamo però discutere del perché possa tornare utile una loro riproposizione o riappropriazione, a secondo del luogo geografico in cui ci si trova. La riproposizione, in base alla realtà del contesto, può essere utile nel Nord del mondo mentre nel Sud del mondo si parla di riappropriazione, obiettivo storico dei movimenti che lottano per delle comunità che sopravvivono spesso grazie alle economie locali di sussistenza capaci di garantire l’accesso a terre, foreste e acqua senza averne la proprietà ed esercitando forme efficaci e partecipate di sovranità dietro cui si cela un tipo di organizzazione istituzionale, sociale e produttiva alternativa al mercato capitalistico. Non sempre si parla di beni fisici e materiali, infatti spesso siamo davanti a diritti d’uso comuni o collettivi sui frutti di un bene naturale. I beni comuni, quindi, sono beni o mezzi di sussistenza da non intendere come merci e portano con sé un assetto sociale non basato sul mercato e la concorrenza ma sulla cooperazione, non c’è uno scambio impersonale tra soggetti che non hanno rapporti tra di loro ma sono agenti che tramite lo scambio soddisfano dei propri bisogni e stabiliscono delle relazioni sociali. Non c’è, nel sistema dei beni comuni, l’assorbimento della società da parte dell’economia. I beni comuni, inoltre, hanno la particolarità di non produrre merci perché coloro che li gestiscono o producono non sempre dispongono anche del bene fisico utilizzato e quindi non possono alienarlo. I beni naturali e gli ecoservizi, infatti, sono resi gratuitamente dalla Natura e non dovrebbero appartenere a nessuno in particolare perché sono di tutti gli esseri umani. Coloro che li utilizzano non ne sono proprietari ma solo degli usufruttuari e la comunità o lo Stato ne sono i custodi e tutori. Con l’arrivo degli Stati moderni, tuttavia, è iniziato il processo di rivendicazione e appropriazione dei beni comuni, la tendenza alla loro recinzione prevalse su ogni movimento di resistenza rendendo i beni comuni che ancora esistono, come la proprietà e la gestione comune dell’acqua o i diritti di pesca, marginali e poco importanti. Si tratta di un lascito di un passato sconfitto dall’affermazione del modo di produzione capitalista. I beni comuni, dice Ricoveri, sono quelli essenziali per la sussistenza degli esseri umani come il cibo, l’acqua e la casa ma si tratta di un concetto storicamente e socialmente determinato che è capace di variare nel tempo e nello spazio. Inoltre tendiamo a considerare il mercato come il fornitore par excellence di questi beni dimenticando che esso non è in grado di produrre l’aria o l’acqua e, sostiene l’autrice, non è capace neanche di sfamare il mondo. Delegare al mercato significa produrre fallimenti perché non è in grado di allocare efficientemente le risorse naturali e i tentativi di correggere questo limite del mercato hanno prodotto solamente degrado, spreco delle risorse e ingiustizia sociale nell’accesso a questi beni comuni. Ricoveri sostiene che questi limiti si incontrano anche in alcuni movimenti in difesa dei beni comuni come quelli a difesa dell’acqua pubblica che si dimostrano incapaci di tenere insieme la lotta per il diritto universale ad un minimo gratuito di acqua per ogni essere umano con l’attacco alla scarsità artificiale di questa risorsa creata dalla società dei consumi di massa. Infatti l’acqua non era scarsa quando era direttamente gestita dalle comunità locali o indigene che utilizzavano tecniche di captazione, conservazione e utilizzo tradizionale. Fanno eccezione quei movimenti capaci di riprendere in mano queste tradizioni minacciate dal capitalismo come la lotta per l’acqua a Cochabamba in Bolivia nel 2000 che ha vinto perché ha impostato la lotta nella giusta prospettiva. Nella categoria dei beni comuni rientrano anche ecosistemi biologici che assicurano la nostra vita come l’acqua, l’aria, il cibo, la casa, i combustibili e i medicinali. L’autrice sostiene che in una riproposizione futura dei beni comuni sarà possibile includere anche beni non strettamente connessi con la nostra sussistenza come le risorse fossili e minerarie. Tutti questi beni possono essere in parte forniti dal mercato ma tramite meccanismi che non prevedono alcun controllo sull’allocazione delle risorse naturali, sui prezzi e sulla qualità dei prodotti venduti.
In definitiva, i beni comuni sono sistemi locali con una loro diversificazione nello spazio e nella storia che per questi motivi rappresenta un’alternativa al mercato. La diversità e la flessibilità consentono di utilizzare al meglio le risorse naturali legate ai beni comuni evitando il sovrasfruttamento, il degrado e la distruzione che sono conseguenze inevitabili delle dinamiche distruttive del capitalismo. Inoltre, diversamente dall’economia di mercato, in un’economia caratterizzata dai beni comuni le risorse non sono percepite come scarse perché la scarsità è prodotta da interventi esterni che vogliono ottenere questo risultato. Tutto ciò è possibile perché beni comuni come aria, acqua o diversità genetica si rinnovano in tempi relativamente brevi ed essi soddisfano bisogni che non sono illimitati ma lo diventano quando entrano in relazione con il modo di produzione capitalistico e le sue dinamiche orientate alla produzione mercantile. Di norma i bisogni delle comunità sono limitati perché inseriti in un regime non competitivo che governa i beni comuni. Senza la competizione non si genera alcuna relazione tra crescita e scarsità e nelle comunità si fa strada un senso di sazietà.
In tutto questo discorso sui beni comuni giocano un ruolo centrale le risorse. Il termine è carico di ambiguità perché è possibile utilizzarlo sia per la risorse naturali che per i beni economici. Non è un problema solo di termini ma di sostanza. Le risorse della natura sono organismi viventi che hanno la capacità di auto-organizzarsi mentre i beni economici sono delle merci da vendere sul mercato mondiale. Ricoveri sottolinea che le risorse naturali sono capaci di autorigenerarsi e non sono quindi uguali alla realtà delle risorse economiche, non si possono equiparare perché significa non riconoscere il ruolo della Natura nella vita sulla Terra. Questa riflessione serve per evidenziare l’importanza dei quattro elementi naturali essenziali alla vita, ovvero acqua, aria, terra e fuoco inteso come energia. Sono gli elementi con cui il filosofo greco Empedocle ha descritto il mondo e non si tratta di categorie con cui elencare delle risorse naturali ma quattro radici della vita, quattro matrici primitive che interferiscono con gli elementi naturali da cui dipende il ciclo della vita sul nostro pianeta.
I beni comuni naturali non sono solo alla base della nostra vita ma hanno un ruolo centrale anche a livello sociale e culturale, proponendo un sistema sociale fondato sulla cooperazione e le relazioni tra persone nella gestione comune delle risorse. Si tratta di un aspetto fondamentale per la sostenibilità culturale e ambientale. Ricordiamoci che tutti dipendono dalla natura, questo vale sia per le popolazioni che sopravvivono grazie ad un’economia di sussistenza che le popolazioni che vivono nelle società industriali avanzate dove questo rapporto di dipendenza è meno visibile ad un primo sguardo. Tuttavia, dice Ricoveri, la produzione di beni e servizi cesserebbe immediatamente nel momento in cui vengono meno le risorse naturali, a maggior ragione se partiamo dal fatto che la produzione delle merci inizia con un processo di sottrazione, spesso irreversibile, dei beni della natura che sono facilmente disponibili ma non sono illimitati. La natura, però, non è una riserva di input inanimati a disposizione di mercato e imprese, bisogna tenere sempre in considerazione come funziona il sistema in tutte le sue parti perché nella natura e nella biologia tutto è interdipendente. Un altro elemento di cui parlare quando si affronta il tema dei beni comuni è “la natura ecosistemica delle risorse naturali legate da interconnessioni e complementarietà tra gli elementi naturali, che definiscono insieme i processi naturali e quelli sociali di riproduzione della società. La natura ecosistemica delle risorse e dei beni comuni non viene più neanche percepita nella cultura corrente, che considera la natura un dato scontato e sotto controllo, tanto da non prenderla più in considerazione; il fenomeno si può cogliere nella sua rilevanza solo analizzando il funzionamento effettivo dei singoli ecosistemi”1.
Il valore di questi servizi resi dagli ecosistemi naturali non è facilmente misurabile. Gli economisti che hanno provato a farlo hanno scoperto che si tratta di un’economia parallela, quantificabile nella seconda economia del pianeta, operante nel silenzio e gratuitamente offrendo servizi e beni a tutti gli esseri umani.
- La crisi ecologica è sempre una crisi del capitale
Nei suoi ragionamenti Ricoveri non fa sconti a nessuno, critica il capitalismo che ha reso il mito dello sviluppo economico l’unico modo per raggiungere il benessere e la felicità per tutti ma anche il socialismo reale di cui condanna il produttivismo. Entrambi, infatti, mostrano un forte disprezzo per la Natura i cui diritti iniziano ad essere riconosciuti dai paesi dell’ex Terzo Mondo come l’Ecuador e la Bolivia che hanno avuto il coraggio di inserirli come diritti costituzionali nelle loro Carte Costituzionali, rendendo la Natura un soggetto di diritti per il rispetto della Pachamama e di tutti i viventi.
A questo punto, seguendo la lezione di O’ Connor che legge la crisi ecologica sempre come crisi del capitale, si inserisce nel dibattito sulla crisi economica del 2007-2008. Per Ricoveri l’esplosione della bolla finanziaria negli USA deve essere ricondotta alla sovrapproduzione di merci favorito da un uso dissennato del progresso tecnologico che dilapida le risorse naturali e umani per soddisfare dei bisogni indotti dal mercato mentre, allo stesso tempo, lascia insoddisfatti quelli preesistenti. In questo modo si creano merci per consumatori che non hanno il reddito monetario per acquistare le merci. Questo è il contesto in cui operano nuove forme di recinzioni dei beni comuni con l’intento di aprire all’accumulazione del capitale nuove terre vergini da intaccare. Ricoveri sostiene che uno degli esempi più limpidi di recinzione di nuova generazione è il riscaldamento climatico che coinvolge la nostra atmosfera. Essa è una risorsa e un bene a disposizione di tutti, requisita, però, dalle industrie del capitalismo fossile che la utilizzano come spazio privato dove smaltire i loro prodotti inquinanti, immettendo in atmosfera una quantità di gas climalteranti incompatibile con l’assorbimento da parte degli ecosistemi. In questo modo gli esseri umani e gli animali sono stati privati del loro diritto ad una quota di aria pulita e non inquinata e sono stati prodotti cambiamenti climatici globali di cui, soprattutto nei paesi poveri, non sono in massima parte responsabili. Un secondo livello di recinzione dell’atmosfera riguarda il mercato delle quote di emissione di anidride carbonica con cui un paese può comprare da un’altra nazione il diritto ad inquinare e quest’ultima si impegna ad inquinare di meno. Questo processo ha preso il via con il Protocollo di Kyoto del 1997 e finisce per concedere ad inquinatori storici, paesi ricchi e multinazionali altri diritti di proprietà sull’atmosfera.
Le nuove recinzione si scaricano anche su determinate fasce della popolazione come i contadini che vengono colpiti dalla perdita di biodiversità e con la possibilità di brevettare le sementi, finendo per rendere le pianete oggetto dei diritti di proprietà intellettuale. Il risultato è il contadino, specialmente del Sud del mondo, costretto a pagare dazio alle multinazionali comprando da loro le sementi.
Un altro modo in cui vengono colpite queste popolazioni è l’aumento della fame causato dalla recinzione dei beni comuni, ad iniziare dalle terre delle economie rurali. A ciò si aggiunge la scarsità idrica, il cambiamento climatico, l’alterazione dei cicli idrogeologici, la perdita di fertilità del suolo e l’agricoltura industriale orientata all’esportazione e basata sulle monocolture.
Tramite la costruzione di dighe e l’ingresso delle multinazionali nella distribuzione dell’acqua sono emerse, in questa fase del capitalismo, nuove pervasive recinzioni dell’acqua come bene comune. Le prime sono funzionali al mantenimento dell’agricoltura industriale tramite la produzione di energia, senza coinvolgere l’agricoltura contadina. La seconda ha portato, sin dagli anni ‘90, alla mercificazione dell’acqua. Tramite i progetti della Banca Mondiale le multinazionali sono entrate nella gestione di questa risorsa naturale in molti paesi del Sud del mondo visto che purificare, trattare e distribuire l’acqua richiede ingenti quantità di capitale e perciò si era davanti ad una qualsiasi merce. Tuttavia questo discorso ignora il contributo determinante e gratuito della natura nella gestione dell’acqua. Grazie ad essa abbiamo la raccolta dell’acqua dalle montagne, il suo trasporto fino al mare, la sua evaporazione e infine il suo ritorno sulla terra. Tenere in considerazione anche solo uno di questi elementi rende chiaro che privatizzare l’acqua è un furto contro un diritto fondamentale degli esseri viventi.
La recinzione dei beni comuni non riguarda solo le risorse naturali ma anche il welfare non intaccato da una sua gestione privatistica e di mercato. Parliamo di scuola, sanità, servizi pubblici, infrastrutture… La privatizzazione di questa ricchezza rende le comunità locali più povere e precarie. Per quanto riguarda il cielo, viene recintato da strumenti che lo sorvolano e legati a servizi telefonici, televisivi, informatici e di telecomunicazione a veicoli in orbita stazionaria. Tutta questa strumentazione emette una considerevole quantità di gas serra e diventa una fonte di guadagni per le multinazionali e i governi tramite l’utilizzo gratuito di un bene comune a spese della salute e della sicurezza della popolazione. Un altro problema legato alle nuove recinzione è la mancata cura del territorio che genera danni alle popolazioni e alle comunità locali. Questo fenomeno ha subito una forte accelerazione a causa del riscaldamento climatico e il dissesto idrogeologico ma non assolve l’incuria umana, senza la quale molti disastri si sarebbero potuti evitare con politiche di manutenzione e cura del territorio. Un’ultima recinzione di nuova generazione è l’erosione dei diritti dei lavoratori nel Nord e nel Sud del mondo.
In conclusione troviamo la parte di proposta politica del libro in opposizione all’economia finanziaria parassita, dove non si crea la ricchezza ma la si distrugge ed è lo strumento con cui le classi dominanti vivono a scapito delle classi subalterne su cui scaricano il prezzo della speculazione. Questa economia è la negazione estrema di quella basata sui beni comuni, intesi come beni naturali di sussistenza e come un nuovo sistema istituzionale, sociale e produttivo alternativo a quello basato sulle merci. Si tratta di un paradigma alternativo al mercato e che privilegia il locale rispetto al globale, la solidarietà alla concorrenza, le energie rinnovabili decentrate a quelle fossili centralizzate, l’agricoltura di prossimità a quella industriale… Al capitale per Ricoveri bisogna rispondere con la riproposizione2 dell’esperienza dei beni comuni, legati alle risorse naturali, minerarie ed energetiche, e delle comunità, offrendo lo spazio per esprimersi alle popolazioni colpite dalle multinazionali. Le associazioni e movimenti impegnati nel difendere le risorse naturali e la sostenibilità locale esprimono delle istanze che le rendono delle nuove comunità che rappresentano il ritorno al territorio in risposta alla globalizzazione e alla finanziarizzazione. Questo fenomeno però potrà dare i suoi frutti solamente se la comunità sarà aperta, cosmopolita, solidale e capace di valorizzare le specificità locali per valorizzare le differenze. Per realizzare tutto ciò serve, ovviamente, la politica che, dotando le comunità locali di un loro riconoscimento giuridico e di una loro sovranità le trasforma in un presidio sul territorio indispensabile per una corretta gestione delle risorse naturali e per evitare o limitare i danni ecologici del mercato.
- Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010, pp.40-41 ↩︎
- Quando si parla di ritorno dei beni comuni, non bisogna confondersi con i movimenti di riappropriazione dei beni comuni del Sud del mondo con cui le popolazioni locali tentano di arginare il saccheggio delle risorse naturali da cui dipende la loro stessa sopravvivenza. ↩︎