Contro i rossobruni e la loro propaganda: i dati economici del fenomeno migratorio

  1. Introduzione

Luca Lombardi inizia la sua analisi nel libro L’immigrazione. L’economia e la sinistra tracciando un quadro dell’attuale fase del capitalismo segnata dal ritorno dei dazi e dalla costruzione di blocchi geopolitici contrapposti in lotta tra loro in una contesa, per ora solo economica, che richiede un ritorno da protagonista dello Stato in economia nella politica industriale e nell’attacco ai concorrenti con ogni mezzo, ad esempio recintando i propri mercati o attaccando quelli altrui. Questa situazione favorisce una svolta ideologica in politica fautrice di una maggiore aggressività generale, spianando la strada a formazioni politiche apertamente reazionarie che fanno della lotta al diverso, sia esso un migrante, una donna, un omosessuale o una minoranza etnica, la base della propria proposta politica. Il mutamento appena descritto in economia ha effetti anche sulla sinistra riformista che si divide in due correnti. Quella maggioritaria, liberista ed austeritaria in economia, concentra la propria strategia politica sulla scontro con la destra a partire dal terreno dei diritti civili che, senza intaccare l’accumulazione del capitale, consente un’alleanza con gli strati più avanzati della classe dominante e fornisce una valvola di sfogo alle masse. La seconda variante, minoritaria, è una sinistra sovranista che propone un’uscita da sinistra dall’Unione Europea e ricerca un’alleanza con i capitalisti perdenti nell’attuale fase del capitalismo. Finisce per assumere posizioni fortemente nazionaliste e trova, come valvola di sfogo per la masse più arretrate, nel migrante un capro espiatorio. Ovviamente, dice Lombardi, è molto meglio condurre una lotta per la parità di genere o contro le discriminazione piuttosto che prendersela con gli immigrati ma si tratta sempre di un modo per non prendere il toro per le corna. La lotta per i diritti civili non può essere separata dalla lotta  di classe, altrimenti produrrà solo cambiamenti formali e compromessi minimali che non risolvono nulla. Va aggiunto che sostenere l’idea secondo cui lottare per l’emancipazione femminile o per i diritti dei migranti è una distrazione dalla lotta di classe equivale a portare acqua al mulino della reazione e serve a dividere i lavoratori. Tutti gli avanzamenti sociali e politici nascono dall’unità della classe lavoratrice che vince unita e perde divisa. Il libro sceglie di concentrare la sua attenzione sulla sinistra sovranista che davanti ai problemi del capitalismo sceglie di prendersela con i migranti.

  1. Finalmente i dati

La dinamica della popolazione umana è orientata verso un calo della natalità grazie all’urbanizzazione, alla medicina moderna, alle tecniche anticoncezionali e all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Si tratta di una tendenza universale accentuata nei paesi a capitalismo avanzato dove, senza l’immigrazione, questo calo sarebbe ancora più pronunciato. Se ad esempio togliessimo stranieri, cittadini naturalizzati e figli di stranieri dal nostro paese, avremmo la popolazione degli anni ‘60. Questi fatti già da soli ci fanno domandare come mai i migranti sarebbero un problema per il nostro paese. La sinistra sovranista e anti-immigrati risponde in due modi. La prima risposta sostiene che esistendo già nel nostro paese molti scoraggiati e disoccupati non ha senso importare dall’estero altra forza lavoro. Questa posizione avrebbe senso solamente se si verificasse in ogni momento una situazione in cui il numero di disoccupati e scoraggiati italiani supera sempre il numero degli immigrati. Tuttavia il trend demografico è costantemente in calo e se occasionalmente questi due dati si avvicinano, non direbbe nulla sulla tendenza di lungo periodo. Inoltre l’uguaglianza aritmetica tra disoccupati e immigrati non ha alcun significato perché non sono intercambiabili sul mercato del lavoro. La seconda risposta riguarda la tesi secondo cui l’immigrazione riduce le nascita degli autoctoni e in assenza degli immigrati essi farebbero più figli. In questo modo viene favorito, sostiene la sinistra sovranista, un processo di sostituzione etnica. Lombardi risponde a queste affermazioni con dei semplici dati, la dinamica che ha visto un costante calo della popolazione nei paesi a capitalismo avanzato è iniziata prima del momento in cui gli immigrati avessero un peso rilevante nelle nostre società. Sostenere che nel mondo siamo troppi, quindi, non ha alcuna base fattuale viceversa la disoccupazione è strettamente legata agli alti e bassi del ciclo degli investimenti, cioè alla profittabilità dell’impiego dei lavoratori. Quindi i lavoratori sono in eccesso in funzione alle esigenze del padrone di massimizzare il rendimento del proprio capitale e su questo fronte i temi demografici, inclusa l’immigrazione, non sono rilevanti. Sono rilevanti invece per mantenere il bilancio demografico dei nostri paesi. In Europa, per mantenere la popolazione al livello del 1995 con il tasso di fertilità degli anni ‘90 l’immigrazione dovrebbe triplicare nei quattro maggiori paesi dell’UE e per mantenere la forza lavoro del 1995 dovrebbe quadruplicare arrivando 1,1 milioni all’anno. Per salvare la sicurezza sociale, invece, dovrebbe aumentare di 37 volte fino ad arrivare a 8,9 milioni l’anno. In poche parole l’immigrazione fa crescere l’economia, Resta ovviamente da determinare chi avvantaggia questa crescita ma è una questione che attiene alla lotta di classe. La figura del migrante è vitale anche per tutte le analisi sul funzionamento del mercato del lavoro. Lombardi sostiene che il concetto di immigrato sia un tema legale e non ha nessun particolare connotato per l’economista. Ad esempio, considerare un messicano che lavora a Los Angeles da 30 anni un immigrato e un texano arrivato il giorno prima no, dal punto di vista dell’analisi dei flussi del mercato del lavoro non ha alcun senso. Per un’analisi statistica ha senso considerare come immigrati tutti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro nazionale in uno specifico ciclo economico, per esempio gli ultimi 4 o 5 anni, ma in questo modo verrebbe meno molta della propaganda contro i migranti. Il tema del rapporto tra migranti e mercato del lavoro ovviamente non si esaurisce con queste indicazioni statistiche. Uno dei cavalli di battaglia della sinistra sovranista è la retorica del migrante che ci ruba il lavoro. L’analisi, dice Luca Lombardi, è complessa perché la domanda di lavoro dipende dallo stato macroeconomico internazionale e del singolo paese. La domanda che bisogna porsi è se l’immigrazione aiuta la crescita economica o la riduce. L’argomento della sinistra sovranista è in breve il classico malthusiano, smentito dall’esperienza di secoli di storia dell’umanità, secondo cui la crescita demografica peggiora la situazione dei lavoratori. Questo li porta a sostenere che per ogni immigrato in arrivo c’è un disoccupato autoctono in più, riecheggiato lo slogan del Front National degli anni ‘70: due milioni di immigrati sono due milioni di disoccupati. Ovviamente questa parola d’ordine non aveva alcuna attinenza con la realtà visto che nel 1978 gli immigrati erano cinque milioni e i disoccupati poco più di un milione. Negli anni ‘80 il partito passò allo slogan tre milioni di disoccupati sono tre milioni di immigrati di troppo. Dall’assurda posizione del rapporto 1 immigrato e uguale 1 disoccupato autoctono si passa alla preferenza nazionale per l’assunzione dei disoccupati francesi. Queste posizioni avrebbero senso se, ad esempio, in un anno entrano 500.000 immigrati in età lavorativa e si producono 500.000 disoccupati in più. Lombardi svolge questa analisi con i disoccupati italiani tra il 2007 e il 2019 in relazione ai nuovi permessi di soggiorno per cittadini non comunitari dello stesso periodo. La correlazione è di -19,7%. Non esiste, quindi, nessuna connessione particolare. Anche costruendo un grafico prendendo in considerazione l’obiezione che il migrante contribuirebbe alla maggiore disoccupazione nel tempo e non immediatamente la correlazione che viene fuori è assolutamente negativa. Una variante di queste tesi è l’idea secondo cui gli immigrati non tolgano il lavoro in una misura di 1 a 1 ma aumentano comunque la disoccupazione. In questo caso si parlerebbe di una proporzione che avrebbe una sua validità solo se stabile tra i diversi paesi, ad esempio se ogni 100 immigrati in ogni paese troviamo che aumentano di 30 i disoccupati autoctoni. Se la situazione varia nei paesi analizzati allora la proporzione cesserebbe di avere qualsiasi validità e sarebbe figlia di altri fattori, non gli immigrati, per esempio la situazione macroeconomica, le politiche dei governi o delle banche centrali. Di conseguenza il mercato del lavoro dipende da molti fattori interconnessi e la domanda di lavoro non è altro che un sottoprodotto della crescita economica, non di elementi demografici. Quando questa posizione, per la forte variabilità della proporzione, diventa indifendibile allora resta in piedi solo un’analisi specifica dei comparti del mercato del lavoro per poter mostrare il modo in cui l’immigrazione colpisce alcuni settori del mercato del lavoro come le donne, precedenti lavoratori migranti e precari. L’immigrazione, secondo questa idea, rende la vita più difficile ai settore più marginali del mercato del lavoro. Si tratta di un argomento ininfluente per la destra razzista che se ne frega del lavoro povero ma utilizzabile dalla sinistra rossobruna contro l’immigrazione. Per quanto riguarda il rapporto con la dinamica salariale, chi è contro l’immigrazione di solito argomenta sostenendo che comprima verso il basso i salari. Questa idea equivale a dire che l’aumento della forza lavoro genera una riduzione dei salari. Significa sostenere che i salari sono in calo da quando esiste il capitalismo perché la specie umana in questo periodo di tempo è passata da 1 a 8 miliardi di abitanti. Non esiste alcun legame automatico tra immigrazione e salari visto che esistono periodi di crescita salariale e demografica e periodi di calo demografico e dei salari. 

Partendo da una serie di analisi sul tema immigrazione e disoccupazione, Lombardi prova a fare una sintesi della letteratura scientifica presente sul tema. Per esempio, un paper del 2008, partendo da 45 studi empirici pubblicati tra il 1982 e il 2007, dimostra come l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro degli autoctoni sia quantitativamente molto ridotto. Un altro articolo scientifico del 2006, dimostra, partendo da 9 studi empirici, come un aumento dell’1% dei migranti faccia calare l’occupazione degli autoctoni dello 0,024%, ciò significa che se nel paese arrivassero all’improvviso 100.000 migranti, 24 persone perderebbero il loro impiego. Una cifra assolutamente irrilevante se messa a confronto con le persone arrivate nel paese e la conseguente creazione di posti di lavoro. Ciò che si trova in questi studi, invece, è che gli immigrati meno qualificati e meno integrabili nel breve periodo, ad esempio perché non conoscono la lingua, fanno più fatica ad inserirsi nel mercato del lavoro. Scendendo più nel dettaglio, ad esempio analizzando la situazione degli USA, si scopre come mettendo a confronto la popolazione degli USA nata all’estero tra il 1900 e il 1989 e il tasso di disoccupazione nazionale non ci sia alcuna correlazione statisticamente affidabile. L’immigrazione, è la conclusione, non causa la disoccupazione ma l’espansione della produzione totale e della domanda di lavoro, arrivando a compensare gli effetti negativi di una maggiore offerta di lavoro. La tendenza degli immigrati è quella  di essere altamente produttivi e promuovono la formazione di capitale per mezzo di alti tassi di risparmio. Occupano nicchie agli estremi dello spettro delle competenze, finendo per essere impiegati sia in lavori poco qualificati che non vengono occupati dai nativi che in lavori altamente qualificati. Un altro elemento della propaganda razzista che l’analisi empirica consente di smentire è l’idea secondo cui esista una concorrenza mortale tra lavoratore autoctono e migrante per il posto di lavoro. Questa tesi parte dal presupposto erroneo secondo cui i posti di lavori siano fissi, che gli immigrati e gli autoctoni abbiano le stesse competenze e qualifiche e che la mancanza di informazioni sul funzionamento del mercato del lavoro li porta ad accettare salari più bassi. Sicuramente le prime due informazioni sono errate visto che l’immigrazoine tende a far aumentare la domanda globale aumentando produzione e posti di lavoro. Spostando l’attenzione su altri paesi, come il Regno Unito, troviamo conclusioni simili sulla mancanza di evidenze circa il rapporto tra immigrazione e aumento dei disoccupati o delle persone lontane dal mercato del lavoro del paese in periodi in cui il fenomeno è coinciso con un periodo di crescita economica. Non solo, anche in questo paese si assiste alla relazione tra immigrazione ed espansione dei posti lavoro. Questo perché non esiste mai un numero di posti di lavoro fisso nell’economia. Pensare il contrario significa restare incastrati nella fallacia della quantità fissa di lavoro chiamata lump of labour fallacy. I migranti finiscono per aumentare la domanda di beni e servizi da parte dei consumatori mentre i padroni possono aumentare la produzione in tutti quei settori dove possono impiegare la manodopera migrante. Se passiamo all’Europa continentale, per esempio la Francia, si giunge alla conclusione che sul lungo periodo gli immigrati regolari tendono ad abbassare il tasso di disoccupazione in modo permanente. Nel breve periodo, invece, fanno aumentare la disoccupazione con un impatto paragonabile ad un aumento della partecipazione della forza lavoro. Gli effetti negativi, in ogni caso, sono molto ridotti, temporanei e non specifici della forza lavoro straniera. Per quanto riguarda la Germania, Lombardi evidenzia un dato molto importante, ovvero la scelta negli studi analizzati di non tenere in considerazione i salari in relazione all’immigrazione perché la forza dei sindacati ha impedito un loro calo. Questo dimostra che quando si parla del legame tra occupazione, salari e immigrazione bisogna tenere conto anche dei rapporti di forza tra capitale e lavoro per non trarre conclusioni sbagliate. Anche nel nostro paese viene dimostrato come la probabilità di uno spostamento dei cittadini italiani verso la disoccupazione non è aumentata grazie all’immigrazione. Tra disoccupazione regionale e immigrazione, infatti, vi è una correlazione negativa. A conferma dell’incapacità dell’immigrazione di modificare le dinamiche del lavoro vi è un dato evidenziato da Lombardi, ovvero la mancata riduzione del divario della disoccupazione tra Nord e Sud Italia in presenza del fenomeno migratorio. In seguito l’autore si focalizza sul rapporto tra immigrazione, salari e la situazione macroeconomica anche in questo caso facendo abbondantemente uso di survey. Da questi paper scopriamo come, a partire dall’effetto medio di 344 stime che prendono in considerazione un aumento della proporzione di forza lavoro dell’1%, il salario cala dello 0,119%. Ciò significa che, ad esempio, per avere un calo del salario del 5% gli immigrati dovrebbero aumentare fino a giungere ad essere il 45% della forza lavoro. Una cifra astronomica. Altre indagini, concentrate sul tema della convergenza delle condizioni degli immigrati e dei locali, scoprono come l’elasticità salariali siano piccole e vicine allo zero. Bisogna tuttavia notare come inizialmente gli immigrati facciano lavori a basso salario e potrebbero far calare il salario medio senza che ciò implichi una caduta del salario verso il basso per coloro che svolgevano già i lavori in questione. Questo perché bisogna sempre tenere in considerazione come il mercato del lavoro si componga di molti aspetti. Lombardi fa un esempio molto calzante per spiegare questo concetto. Il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è molto più elevato che in passato ma, in assenza di un welfare state decente, questo dato è legato alla disponibilità sul mercato del lavoro di lavoratori, soprattutto immigrati, disposti a sobbarcarsi il lavoro di cura. In questo modo si creano due lavori. quello della donna e del migrante. Il primo viene pagato 1500 euro al mese, il secondo 1000. La media è 1250 euro e ciò potrebbe ridurre la media salariale ma senza colui che si occupa del lavoro cura avremmo due posti di lavoro in meno. I problemi riguardanti il rapporto tra immigrati e salari si concentrano sulla parte più sfruttata e precaria della forza lavoro. I salari dei migranti sono più bassi perché di solito sono impiegati in lavori meno qualificati e perché, a parità di mansione, a causa delle discriminazioni prendono uno stipendio inferiore agli autoctoni. Quindi, in linea di massima, ad esempio con aumento del 10% dell’afflusso di migranti in un paese, abbiamo una riduzione modesta del salario degli autoctoni, circa l’1,3% ma l’effetto è triplicato nelle occupazioni meno qualificate. Andando ad analizzare nel dettaglio alcuni paesi, come gli USA, notiamo come le stime econometriche prese in esame ci dicono che i migranti riducono lievemente i salari, il calo peggiore è solo dello 0,17% del salario reale, ma fanno aumentare la domanda aggregata. Se l’analisi dell’impatto della migrazione viene fatta su un arco temporale di 10 anni, notiamo come gli effetti sul salario complessivo degli autoctoni sono ridotti vicino allo zero. In uno dei casi di maggiore arrivo in un solo momento di migranti in un paese, parliamo dei 900.000 francesi che tornarono dall’Algeria in Francia dopo la guerra d’indipendenza del paese africano nel 1962 e rappresentavano l’1,6% della forza lavoro totale del 1968, la disoccupazione nel 1968 è aumentata di appena 0,3 punti percentuali. I salari medi, invece, erano calati di percentuali inferiori dell’1,3% a causa del loro arrivo. In questa dinamica non va ignorato l’uso fatto dai padroni degli immigrati che, con l’aiuto del governo, ne approfittarono per ridurre i salari. Per evitare simili manovre può essere utile avere un salario minimo che tende a proteggere dalla concorrenza indotta dall’immigrazione a bassa qualifica. Di conseguenza salari minimi elevati rendono i salari e l’occupazione degli autoctoni meno sensibili alla concorrenza degli immigrati. Risultati simili a quelli degli USA si riscontrano anche in altri paesi come il Regno Unito. Per quanto riguarda l’Italia, viene notato come tra il periodo 1986-1995 l’afflusso dei migranti abbia prodotto un aumento dei salari degli italiani, con un effetto maggiore nelle PMI e nel Nord Italia. Per il periodo 1996-2007, invece, si nota come gli immigrati a bassa qualificazione abbiano aumentato l’intensità di capitale contrastando il declino dell’industria dovuto agli scarsi investimenti. Il periodo 2008-2011 è contraddistinto da un effetto positivo sulla produttività totale dei fattori di cui beneficia tutta l’economia. Ad esempio il valore aggiunto dovuto ai lavoratori stranieri era di circa il 12,8%, più che raddoppiato rispetto al 2005. 

Ora affrontiamo temi legati alla fiscalità generale e allo stato sociale. Spesso coloro che sono contrari ai migranti fanno notare come essi siano un peso per la fiscalità generale. Per calcolare questo peso, dice Lombardi, bisogna compiere due operazioni. La prima è calcolare il peso netto e quindi fare una somma algebrica tra contributi e uscita. La seconda operazione consiste nel fare questo calcolo lungo l’intero ciclo vitale della generazione analizzata. Questo si può fare ma con un’avvertenza. Il primo elemento preso in considerazione, cioè la dimensione e la composizione della spesa pubblica, dipende da scelte politiche. Se un paese decide di non investire nella sanità pubblica, l’arrivo dei migranti non inciderà sulla spesa sanitaria del paese. In generale, più lo stato sociale funziona male e meno peserà l’immigrazione sulla spesa sociale. Lo stesso discorso vale per le uscite. Se un paese, dice Lombardi, decide di intraprendere una lotta al crimine costruendo più prigioni e reclutando più forze di polizia, tutte queste spese potrebbero essere imputate all’ondata migratoria. Inoltre, sostiene l’autore, tutti i contributi empirici su questi temi non prendono in considerazione le varie componenti del sistema dei trasferimenti e ciò li rende incomparabili tra di loro in molti casi perché prendono in considerazione diverse posizioni di budget. Per quanto riguarda il secondo elemento preso in considerazione all’inizio del discorso sullo stato sociale, bisogna tenere in considerazione che tutte le generazioni di individui prendono dalla collettività nei primi anni di vita, quando si stanno formando, e restituiscono alla collettività quando lavorano per poi tornare a prendere dalla collettività quando vanno in pensione. Sicuramente è possibile calcolare entrate e uscite durante la vita di un individuo, pensiamo solo ai contributi pensionistici versati e poi prelevati, ma la reale dinamica dipende da questioni macroeconomiche su cui l’individuo non ha voce in capitolo. Pensiamo solamente alla produttività del lavoro fortemente dipendente dagli investimenti. Un’ora di lavoro di un operaio del 1980 non è paragonabile ad un’ora di lavoro di un operaio del 2024 e questa differenza dipende dagli investimenti fissi effettuati nel frattempo. Questo significa che quanto un lavoratore prende dallo stato sociale dipende dall’andamento generale dell’economia nei decenni in cui è vissuto. Questo discorso si applica anche ai migranti. Al momento del loro arrivo, specialmente se giovani, è probabile che inizialmente siano percettori netti di contributi dalla collettività e cui poi contribuiranno entrando nel mercato del lavoro. Si ha gioco facile nel dimostrare che gli immigrati sottraggono risorse allo stato rispetto a quanto danno alla collettività se si isolano gli anni di formazione o quelli immediatamente successivi al loro arrivo. Lombardi, prima di passare ai dati sul tema, ci avverte di una problematica di queste ricerche, ovvero che tutte le analisi esistenti sull’impatto fiscale dell’immigrazione sono caratterizzate  da presupposti impliciti ed espliciti discutibili ed è necessaria molta prudenza perché ognuno prova a portare acqua al proprio mulino. Ad esempio c’è chi sostiene, per sostenere una riduzione dell’immigrazione negli USA, come gli immigrati costino al fisco americano alcune decine di miliardi di dollari. Ricercatori della parte opposta criticano questi studi affermando che siano viziati da errori nella stima delle entrate raccolte dagli immigrati e dei costi imposti dagli immigrati e l’inclusione selettiva solamente di alcuni impatti indiretti dell’immigrazione. Superati questi problemi. l’impatto fiscale degli immigrati negli USA è positivo per almeno 25 miliardi di dollari. Inoltre sembra che in tutti i paesi OCSE i risultati empirici portino a concludere come la migrazione internazionale abbia un impatto positivo sulla performance economica e fiscale dei paesi in questione. Altri dati trovati da Lombardi ci dicono come gli immigrati in un’economia riducono il peso della sicurezza sociale e se trovano rapidamente lavoro, smettono di incidere sulle casse dello stato a cui iniziano a contribuire. Analizzando i singoli paesi notiamo come alcuni studi negli USA sostengano che gli immigrati pesino sulle famiglie native tra i 166 e i 266 dollari. L’analisi tuttavia dipende da cosa si misura. Se teniamo in considerazione le spese pregresse, come il debito pubblico, gli immigrati non producono un extra-gettito fiscale sufficiente e quindi il loro impatto è negativo sia sul breve che sul lungo periodo. Se consideriamo solo la dinamica complessiva da quando arrivano, allora sul lungo periodo l’impatto è positivo e nel breve è negativo ma molto ridotto. In altri paesi, come il Regno Unito, viene notato come gli immigrati arrivati nel paese dopo l’allargamento dell’UE ad Est nel 2004 danno un contributo positivo alle finanze pubbliche nonostante i deficit di bilancio registrati dal paese negli ultimi anni. Questo dato deriva dal tasso di partecipazione alla forza lavoro più elevato e pagano più imposte indirette e utilizzano meno le prestazioni e i servizi pubblici. In Germania, invece, il contributo netto dei migranti per il paese è di 2000 euro l’uno. In Italia troviamo un rapporto positivo costi-benefici partendo da un saldo positivo dell’INPS di quasi 40 miliardi l’anno. C’è una riduzione della spesa sanitaria perché gli immigrati sono giovani. Lombardi sostiene che a questi dati gli anti-immigrati potrebbero rispondere affermando che il debito dell’INPS possano essere ripianato tramite tagli alle pensioni e allungamento dell’età pensionabile, come fatto in Europa in questi anni nonostante l’immigrazione. Questo ci porta ad un problema di fondo molto importante, parlare di stato sociale e immigrazione senza tenere in considerazione come funziona e viene finanziato lo stato sociale non serve a molto. La crisi dello stato sociale, dice Lombardi, nasce dal declino dell’economia capitalista che cresce molto meno rispetto al passato e in maniera sempre più distorta. In questo scenario la borghesia reagisce rifiutandosi di investire ed evadendo o eludendo le tasse. 

  1. I rossobruni

Abbiamo capito che l’ostilità agli immigrati, alimentata dalla destra, non ha alcuna base oggettiva su cui agganciarsi. Si tratta di narrazioni basate su pregiudizi alimentati ad arte dalle classi dominanti per dividere le classi subalterne. Questi discorsi spesso nel corso della storia hanno assunto la forma di una giustificazione scientifica della sottomissione dei popoli coloniali all’uomo bianco, Non è difficile trovare intellettuali disposti a trovare un appiglio scientifico a certe tesi e posizioni. Ancora oggi, dice Lombardi, esistono studi a dimostrazione di un’inferiorità intellettuale genetica dell’uomo nero rispetto a quello bianco. Questa differenza è alla base, dicono, della maggiore povertà dei neri. In questo modo è possibile giustificare sia il saccheggio imperialista dei paesi africani che tagli ai programmi di welfare state a sostegno di neri e immigrati. Questo esempio serve a dimostrare come in ogni epoca si sono sviluppate ideologie utili a giustificare l’asservimento. La borghesia nel corso della storia è stata capace di un’elevata duttilità nel maneggiare qualsiasi idea per rafforzare il proprio dominio. Lombardi cita il caso della democrazia. Inizialmente era il modo in cui i borghesi si controllavano a vicenda, le cui istituzioni sono state utili per schiacciare le vecchie classi dominanti del feudalesimo sconfitte e per trattare gli affari comuni dei proprietari dei mezzi di produzione. Nella prima metà dell’Ottocento, dove si erano imposti i regimi democratici, però votava solo una piccola percentuale della popolazione, non a caso i socialisti pensavano di poter fare la rivoluzione semplicemente tramite il suffragio universale. Le classi dominanti sono state capaci di estendere il suffragio senza perdere il potere ma, anzi, addomesticando il movimento operaio bloccandolo nell’idea che prendere il potere significasse vincere le elezioni. L’ideologia diffusa tramite i mezzi di comunicazione varia in base a ciò che è più utile nello specifico contesto storico. Questo spiega perché si è potuti passare dall’ideologia segregazionista nei confronti dei neri ad una che fa finta che non esista più questo fenomeno senza intaccare il perno delle società moderne, ovvero l’accumulazione del capitale, nonostante la presenza di cambiamenti tangibili. Allo stesso tempo l’ideologia della donna casalinga non era più funzionale al processo di accumulazione e doveva essere sostituita da una visione della donna in linea con il suo ingresso massiccio nel mercato del lavoro. La disaffezione per idee retrive, reazionarie, razziste, sessiste, omofobe è ovviamente qualcosa di positivo e la borghesia, costretta a prendere atto di questo cambiamento, sfrutta questi sviluppi per integrare le nuove leve della propria forma di dominio. Lombardi cita alcuni esempi per spiegare questo meccanismo. Pensiamo all’elezione di Obama alla guida degli USA, un uomo di colore che diventa il primo presidente nero della storia americana. Si tratta di un modo per dimostrare come, con il duro lavoro, anche coloro che abitano nei ghetti possono ambire a simili traguardi. Oppure pensiamo alla fine del regime di apartheid in Sudafrica, qualcosa di assolutamente correto e positivo ma che non ha intaccato le leve del potere, rimaste nelle solite mani a cui si è aggiunto qualche borghese nero che non si pone il problema di mandare la polizia, nera, sudafricana a sparare sui minatori in sciopero come successe a Marikana nel 2012. Le ipocrisie generate da queste situazioni sono sfruttate dai rossobruni e dalla loro schifosa macchina propagandistica per negare l’importanza delle lotte per i diritti civili, bollate come roba da radical chic e secondarie rispetto alla lotta dei proletari contro il sistema. Sicuramente è corretto dire che è insufficiente eliminare sulla carta le discriminazioni per farle scomparire dalla società ma non possiamo accettare l’idea che i diritti civili vengono dopo quelli sociali o saranno prodotti, automaticamente, ad esempio, dalle lotte sindacali. Le avanzate proletarie sono sempre coincise con un avanzamento di tutta la società. La vittoria dei bolscevichi in Russia non hanno portato solo al rovesciamento del potere degli zar, della chiesa ortodossa, della borghesia russa ma anche alla creazione di una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda i diritti femminili, politici, sociali e contro ogni forma di discriminazione. Allo stesso modo, le lotte operaie contro l’America segregazionista hanno aperto la strada al movimento per i diritti civili. Nel nostro paese l’aborto e il divorzio furono ottenuti sull’onda delle lotte operaie e studentesche degli anni ‘60 e ‘70. Tutte queste lotte sono la dimostrazione che è l’unità di classe che permette l’avanzamento sociale e finché la borghesia riesce a dividere i lavoratori sulla base del colore della pelle, l’età, il sesso o l’orientamento sessuale, il suo potere è ben saldo. Tutto ciò non viene compreso dai rossobruni che per quanto riguarda il nostro tema centrale, sono stati capaci di imputare all’immigrazione il declino della sinistra. Secondo questi geni della politica la sinistra ha smesso di lottare per i diritti dei lavoratori nel momento in cui hanno iniziato ad inseguire la tutela dei migranti e l’idea di un mondo senza frontiere. Ovviamente si tratta di falsità, la crisi della sinistra era ben precedente a questo mutamento di scenario. La sinistra che i rossobruni criticano, quella liberale, non difende realmente neanche i migranti ma allo stesso l’alternativa sovranista non difende i lavoratori. In entrambi i casi siamo davanti a un marketing politico di basso livello che rifila lo stesso prodotto funzionale agli interessi del capitale. La sinistra liberale prende i suoi voti dal ceto urbano nauseato dall’odio verso migranti, donne e omosessuali diffuso dalla destra ma si guarda bene dal saldare le battaglie per i diritti civili che promuove con le lotte sociali. I rossobruni invece provano a parlare ai lavoratori impoveriti dai processi della globalizzazione promuovendo però folli soluzioni nazionaliste come l’uscita dall’euro o la cacciata dal paese dei migranti. Va sottolineato che non si tratta di una divisione del lavoro netta. Trattandosi di marketing politico, può benissimo verificarsi il caso in cui un partito socialdemocratico inclusivo e antirazzista si trovi, in base al consenso della popolazione o alle esigenze delle imprese, a virare sulla criminalizzazione dei migranti. Sono tutte proposte che il capitale può tranquillamente digerire, anche se si parla di affondare i barconi in mare. Quello che non può realmente tollerare è la lotta unita dei lavoratori. Questo implica ragionare, soprattutto in un momento di basso conflitto sociale, sul superamento delle divisioni all’interno del proletariato che sono con molta solerzia coltivate dalla classe dominante. Pensiamo alla contrapposizione tra lavoratore del pubblico impiego e delle imprese private, a quella tra giovani ed anziani e infine tra lavoratori autoctoni e immigrati. Tutte queste divisioni rappresentano la distanza che separa la classe dominante dal suo rovesciamento. Oltre alle divisioni l’ideologia dominante alimenta le illusioni. Pensiamo alla carta della meritocrazia che spaccia il duro lavoro come il mezzo con cui tutti possono raggiungere la ricchezza e il successo. Se si fallisce nella corsa al successo, dice Lombardi, allora la colpa è di qualcuno, sia esso la burocrazia, le femministe o gli immigrati. Bisogna contrapporre a tutto ciò l’unità dei lavoratori, qualcosa di difficile da realizzare ma necessaria per ottenere conquiste importanti e superare la contrapposizione tra proletari che, come dimostra la storia dei paesi a più antica immigrazione, sono da sempre alimentate dai padroni. Per questo motivo il capitalismo ha sempre bisogno del razzismo, perché esso è funzionale alla sua sopravvivenza. 

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