In difesa di Federico Zappino (e di tutt+l+docent+/attivist+ LGBTQIAP+)

È di pochi giorni fa la notizia dell’ennesimo attacco di un esponente della maggioranza parlamentare alla comunità lgbtqiap+ e allo spettro della “teoria gender”. Questa volta, ad essere sotto attacco è il corso di Teorie di Genere e Queer del ricercatore e attivsta Federico Zappino, traduttore in Italia di Judith Butler e di altr* autor* fondamentali dell’elaborazione teorico-politica queer e autore di svariati contributi, tra cui, il più noto Comunismo Queer: note per una sovversione dell’eterosessualità, opera in cui l’autore, lungi dal condannare l’eterosessualità in quanto mero orientamento sessuale, propone una ricca serie di contributi ad ampio raggio di riflessione sull’eteronormotività.

L’attacco viene dal sottosegretario all’istruzione, il leghista Rossano Sasso, il quale trova scandaloso il fatto che soldi pubblici vengono utilizzati per insegnamento di ideologia gender e teoria queer. In più, il grosso dell’attacco si fonderebbe sul fatto che, tra i libri obbligatori per l’esame, ce ne sia uno di Mario Mieli, che sempre secondo l’Onorevole Sasso, sarebbe un sostenitore della pedofilia!

La questione è approdata in aula parlamentare e una petizione, che vede la stessa Butler come prima firmataria, ha superato le duemila firme.

Per argomentare una difesa a favore di Zappino, e di tutta la categoria, occorre analizzare vari punti. Non ci meraviglia l’ennesima intromissione degli esponenti della destra in questioni di cui sanno poco e niente, lo abbiamo visto con l’ospedale Careggi, lo abbiamo visto in campagna elettorale, abbiamo visto e continuiamo a vedere una maggioranza parlamentare e di governo ossessionata dallo spettro della “teoria gender”. Questa volta è stato colpito il prof. Zappino, sappiamo benissimo che sarebbe successo, solo non sapevamo quando e con chi. Peccato che un “teoria gender”, lungi dal credere alla propaganda reazionaria, non esiste.

E allora da semplice attivista e studioso di questioni di genere non posso che mettere la faccia a difesa di un amico e “collega” nonché stimato autore del libro che mi fece approdare a questi studi e che mi portò alla scelta di corsi universitari quali “Storia dei generi e delle sessualità in Età Moderna” e “Storia delle donne e dei femminismi”.

Il sottosegretario leghista, insieme a tutta la maggioranza parlamentare, dovrebbero sapere che non esiste una “teoria gender” intesa come unica, monolitica, come una sorta di programma politico ben definito e strutturato il cui scopo sarebbe far diventare tutti i bambini e le bambine del mondo transessuali o omosessuali o lesbiche, peggio ancora un programma destinato a “confondere le idee” dei bambini nelle scuole o altre castronerie che spesso si sentono pronunciare sui canali ufficiali di radio, televisioni e social. Possiamo al massimo parlare di “teorie queer” con la quale intendiamo un vasto insieme di ricerche, in cui si confrontano metodologie ma anche opinioni differenti che si applicano alla letteratura, al cinema, all’arte, all’antropologia, alla sociologia o alla storia. Esse sono comunque accomunate da una finalità critica e condividono alcuni fondamentali punti di ancoraggio.

Cosa si potrà studiare allora in un corso di teoria queer?

Si studieranno una serie fitta, articolata e complessa di contributi che affondano le radici in un preciso momento storico e che hanno dato vita a loro volte a nuove prospettive di studio e di analisi delle vicende storiche, antropologiche, umane, finanche scientifiche. Il termine queer ha origini anglosassoni e nel secolo XIX veniva utilizzato nei confronti degli omosessuali per indicare lo “strano” e/o “bizzarro”; nel corso del tempo è avvenuta una riappropriazione del termine da parte dei membri della comunità lgbtqia+ e oggi viene utilizzato come termine ombrello da molte persone che non si riconoscono pienamente nel binarismo uomo/donna. Negli ultimi anni l’utilizzo del termine queer è cresciuto soprattutto grazie al proliferarsi di ricerche accademiche: uno dei primi utilizzi risale a Teresa de Laurentis, che nel 1991 lo introdusse in un articolo della rivista «Differences» dal titolo Queer Theory. Gay and lesbian sexualities; secondo l’autrice l’utilizzo del termine si riferisce a un rifiuto della visione etero-normativa, al superamento del binarismo degli orientamenti sessuali e alla preponderanza della componente razziale nella costruzione della soggettività sessuale. La tradizione vuole che questo articolo sia una delle prime tre pubblicazioni che diedero vita alla Queer theory, insieme Gender Trouble. Feminism and the Subversion of the Identity di Judith Butler, del 1990 ed Epistemiology of the Closet di Eve Kosofky Sedwick, dello stesso anno.

L’uso del termine queer sta a indicare, prima di tutto, una postura anti-normativa, che rivendica la necessità di una decostruzione storica dei processi di soggettivizzazione identitaria, insieme all’esigenza di prendere in considerazione le diverse forme di oppressione. Dagli anni ’90 in poi, soprattutto grazie alle analisi femministe, iniziò a diffondersi anche l’uso del termine «genere», che pian piano mise in seconda luce le altre categorie analitiche utilizzate fino ad allora per indicare l’inferiorizzazione delle donne; un articolo di Joan Scott del 1986, dal titolo Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, non solo ha fortemente contribuito alla diffusione del termine ma ha anche ampliato la sua potenzialità critica; per Scott il genere altro non è che la bi-categorizzazione costitutiva dei rapporti sociali fondati sulle differenze percepite tra i sessi e come tale investe le produzioni simboliche, normative, istituzionali e i sistemi d’identità e identificazione; questa analisi è pienamente in linea con le conclusioni di Bourdieu, dal momento che il genere viene considerato come una categoria relazionale e storica che indaga il modo in cui le diverse classi sociali rappresentano sincronicamente e diacronicamente i rapporti di dominazione, poiché il genere è una «“struttura strutturante”» che nella diversità dei suoi significati e usi porta alla produzione di un «“conformismo morale e logico”» sulla preminenza socialmente costruita della differenza percepita tra maschile e femminile e sul suo valore di operatore cosmogonico. Nel 1990 Judith Butler pubblica Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity e un anno dopo esce Penser le genre: problèmes et rèsistances di Christine Delphy: in entrambe le opere si procede a un ulteriore ribaltamento della prospettiva. Secondo la Delphy il genere è, prima di tutto, «“il sistema di divisione gerarchica dell’umanità in due metà diseguali”» e inoltre «“crea il sesso anatomico nel senso che tale partizione gerarchica dell’umanità in due si trasforma in distinzione permanente per la pratica sociale una differenza anatomica in sé provvista d’implicazioni sociali”».

Il genere, dunque, precede e determina i sessi, costruisce e consolida la credenza della loro pre-socialità; secondo l’autrice le proprietà considerate “maschili” e “femminili” sono acquisite con maggiore probabilità dall’una o dall’altra classe di sesso in ragione di una socializzazione di genere molto pervasiva e in accordo con l’attribuzione sociale iniziale. Ma per evitare una banalizzazione del termine Scott suggerisce, in Unaswered Questions, di fare del genere «la chiave per il sesso» e di «donne» e «uomini» categorie analitiche per studiare i gruppi sessuali come strutture sociali storicamente costruite. Allo stesso tempo Judith Butler pone l’accento su un equivoco in cui ci si potrebbe imbattere facilmente, ossia il fatto che il genere non è come un’illusione o un artificio, bensì costituisce la stilizzazione reiterata dei corpi

che si costituisce come una serie di atti pratici, all’interno di un quadro ben più ampio dove questi atti si cristallizzano e finiscono per apparire come naturali, «finiscono per produrre l’apparenza della sostanza: un genere naturale proprio dell’essere».

I processi di incorporazione e di istituzionalizzazione contribuiscono così a rendere

“sacro” e “naturale” un principio di visione e divisione gerarchica, che pur risultando arbitrario e storico, riproduce l’esistenza di uomini “maschili” e di donne “femminili”. Indagare il processo storico alla base della creazione e naturalizzazione dell’omosessuale, e all’eterosessualità come norma identitaria, ha significato inaugurare un campo di indagine investito dalla questione della storicità del proprio oggetto, delle proprie categorie d’analisi, dei «miti fondatori» della comunità che ha contribuito al sorgere di queste teorizzazioni. Butler si chiese quale fosse il vero elemento determinante del significato della sessualità, se la struttura dell’immaginario, l’atto, il genere o l’anatomia. L’analisi storica delle diverse forme culturali prodotte da gruppi sessuali stigmatizzati mostra come l’espressione culturale non sia una costante e che le subculture non si possano comprendere isolatamente o attraverso posture che le equiparano alla cultura dominante, dal momento che, come afferma Chaucey, chiamarla subcultura significa affermare che questa «“si sviluppa in relazione a una cultura più forte che definisce i sui parametri di esistenza secondo modalità implicite ed esplicite molteplici”». Le analisi di genere e sessualità consentono così di vedere la storicità e l’arbitrio delle gerarchizzazioni dello spazio sociale che producono le classificazioni sessuali, le quali possono essere pensate come variabili, contestabili e dis-facibili.

Dopo aver svelato la funzione svolta dalla differenza sessuale nella formazione

dell’identità individuale e collettiva alcuni storici e storiche hanno iniziato a porsi il problema della propria sessualità e della sua rilevanza rispetto al modo di fare storia. Ciò ha contribuito a una maggiore consapevolezza dei processi di costruzione del linguaggio storiografico e ha favorito un certo rinnovamento nei modi di scrivere la storia. Le nuove categorie analitiche hanno consentito di riformulare la nozione di “fatto storiografico” mettendo in discussione i confini di cosa può e deve essere considerato di pertinenza della storia e cosa deve restarne estraneo; il «genere» come categoria d’analisi ha sicuramente contribuito ad affermare la centralità della questione del rapporto tra i sessi nell’ambito storico e a favorire la critica dei supposti universali, improntati a dicotomia stereotipe, come, per esempio, pubblico/privato,

dominio/subordinazione, natura/cultura.

Al di la di tutto ciò, i deputati leghisti dovrebbero sapere che i corsi universitari in cui si studiano queste e altre tematiche esistono in Italia come in gran parte del resto d’Europa, per non citare poi gli Stati Uniti e alcune zone del Sud America. Insomma, non riescono proprio a smettere di remare contro il progresso!

Ma ora passiamo alla parte consistente della polemica, ossia Mario Mieli e la pedofilia. In Elementi di critica omosessuale Mieli rielabora alcuni spunti teorici di Freud riguardo la sessualità, attraverso le lenti di Herbert Marcuse che ne rifece una lettura tra gli anni ‘50 e ‘60, in opere come Eros e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione (1964) in cui l’autore azzarda una fusione tra marxismo e psicanalisi.

Fu in primis Freud a sostenere che l’orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi direzione riconducendo “eterosessualità” e “omosessualità” a semplici varianti della sesasualità umana in senso lato. Una non escluderebbe l’altra, e anzi, in potenza, tutti saremmo “plurisessuali”, “polimorfi” o “bi-sessuali”. Per Mieli era assurda e inconsistente l’opposizione ideologica “eterosessuale” vs “omosessuale”, essendo viziato il principio stesso di “mono-sessualità”. Mieli preferisce opporre un principio di Eros libero, molteplice e polimorfo. Ma sì, per onestà intellettuale, bisogna forse ammettere che nella sua voglia di trasgressione Mieli si spinse un po’ oltre: Team Dean, psicoanalista dell’università di Buffalo, che redasse l’appendice dell’edizione Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale affermava che «nel processo politico di ristrutturazione della società (…) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (…). In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi “i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose” annullando “democraticamente” ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie». A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».

Mario Mieli fu un forte, fortissimo provocatore: era nato a Milano nel 1952, penultimo di sette figli di Walter Mieli e Liderica Salina. Il padre era un ebreo originario di Alessandria d’Egitto, trasferitosi a Milano dalla metà degli anni Venti aveva fondato un’azienda di filati che divenne una delle più importanti per la lavorazione della seta. Nel 1971 Mario fu esonerato dal servizio di leva per la sua miopia e si trasferì a Londra per perfezionare lo studio della lingua inglese: qui entrò in contatto col “Gay Libertation Front” e tornato in Italia, insieme ad Angelo Pezzana fondò il FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Italiano).

Torniamo alla pedofilia: da grande provocatore Mieli si spinse fino all’apologia della pedofilia, ripartendo da alcune considerazione di Freud, in particolare quelle relative al complesso di Edipo. Ma per comprendere realmente le sue affermazioni occorre che queste vengano calate nel dibattito dell’epoca sulla sessualità infantile, in un’epoca in cui l’omosessualità era vista come malattia mentale a tutti gli effetti e anche confusa con la pedofilia. Ricordiamoci che solo alla fine degli anni ‘80 del Novecento gli abusi sessuali su bambini sono entrati a far parte delle leggi internazionali e considerati come crimini di particolare gravità (per fortuna, aggiungerei). Non è un segreto di Stato il fatto che Mieli, a pagina 62 del suo Elementi di critica omosessuale afferma che:

«Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l’Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica. La società repressiva eterosessuale costringe il bambino al periodo di latenza; ma il periodo di latenza non è che l’introduzione mortifera all’ergastolo di una «vita» latente. La pederastia, invece, «è una freccia di libidine scagliata verso il feto».

Al netto di ciò, avendo la comunità lgbtqiap+ superato (e condannato) di gran lunga questa idea giustificatrice, non possiamo gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca: voglio dire che il contributo politico-sociale di Mieli alle riflessioni sul genere è molto più grande, molto più interessante e forse possiamo far crollare il principio di autorità per il quale qualsiasi cosa scriva un autore a noi caro debba essere legge allo stesso modo delle tavole consegnate da Dio a Mosè. Voglio dire che lo studio di certi autori non significa di certo doverne condividere al 100% ogni implicazione teorica e pratica, altrimenti dovremmo condannare a damnatio memorie la maggior parte della produzione artistica e letteraria occidentale! Dovremmo vietare la lettura di tantissime opere, partendo dai tempi di Socrate e Platone fino ad arrivare ai giorni nostri: non ci sarebbe pratica più nefasta e deleteria, con unica conseguenza quella di appiattire e annullare il pensiero critico. Voglio dire: posso benissimo leggere il Mein Kampf, gli scritti delle Brigate Rosse in carcere, i diari di Mussolini o gli scritti di Stalin senza la paura che tutti i corsi di storia in cui vengono proposte queste letture vengano chiusi per i deliri di un parlamentare di turno che poco conosce la materia di cui parla. Per la tranquillità del sottosegretario voglio assicurare che nessuno organizza corsi universitari in cui si “sponsorizza” la pedofilia, e invito lo stesso onorevole a verificare quanti corsi di studio, di laurea, di dottorato e di master, su tematiche di genere e femministe, esistono nel mondo dagli anni ‘70 in poi. Insomma, il nostro onorevole dovrebbe chiedere la chiusura di interi dipartimenti universitari a livello mondiale!

Siamo vicini al prof. Zappino, consapevoli del fatto che più si proverà a soffocare le nostre voci, più si proverà ad appiattire la scuola e l’università su posizioni prettamente lavoriste, trasformando l’istituzione scolastica in una nuova forma di ufficio collacamento o agenzia interinale, (perchè questa è la visione della nostra borghesia ben pensante) e sempre più ci troverete al nostro posto, non faremo un passo indietro.

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