Note su Riforma o rivoluzione di Rosa Luxemburg

di Gabriele Repaci

L’arrivo in Germania di Rosa Luxemburg, avvenuto nel 1898, coincise con l’inizio del dibattito teorico aperto da Eduard Bernstein, il cosiddetto Bernsteindebatte, che coinvolse la socialdemocrazia tedesca, la SPD, dal 1896 ai primi anni del Novecento. Tra il 1897 e il 1898, tutta la stampa socialdemocratica fu dominata da questo dibattito. Nella Neu Zeit, l’organo teorico della SPD diretto dal 1883 da Kautsky, furono pubblicati numerosi articoli di Bernstein, sotto il titolo Problemi del socialismo. Questi, insieme al suo libro I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia del 1899, rappresentavano il primo tentativo organico di dare basi teoriche a una pratica opportunistica già presente nei sindacati e nel partito, che conviveva con una teoria marxista ufficiale, rappresentata in primo luogo da Kautsky. La risposta al padre di quello che sarebbe poi diventato noto come revisionismo non venne dall’esecutivo della SPD, né inizialmente da Kautsky, ma da Rosa Luxemburg, appena giunta a Berlino e non ancora trentenne. Sostenuta da Parvus, Luxemburg pubblicò il volume Riforma sociale o rivoluzione?, che segnò uno spartiacque nella formazione di una corrente marxista radicale, distinta dal resto del partito. Secondo Bernstein, la tesi di Marx sulla tendenza al crollo inevitabile del capitalismo sarebbe stata contraddetta dai fatti, poiché non solo le crisi decennali non si stavano più verificando, ma addirittura la prosperità economica cresceva. Dopo la crisi del 1873, infatti, il capitalismo aveva dimostrato una capacità di adattamento tale da lasciar supporre una crescita più o meno inarrestabile. La democrazia borghese si stava sviluppando e quindi, secondo Bernstein, le condizioni per il socialismo erano più favorevoli. Di conseguenza, la socialdemocrazia non si doveva più battere per il fine socialista, bensì per ottenere miglioramenti per la classe lavoratrice attraverso riforme sociali, sostenendo lo sviluppo del capitalismo, il militarismo e il colonialismo. Bernstein concludeva il suo scritto con una frase destinata a passare alla storia: «Il movimento è tutto, lo scopo finale è nulla». Rosa Luxemburg, nel suo saggio Riforma sociale o rivoluzione?, smonta punto per punto le argomentazioni di Bernstein. Nella prima parte del volume, dimostra come i presunti fattori di adattamento del capitalismo sostenuti da Bernstein, quali il credito e le cooperative, siano in realtà elementi che acuiscono le crisi del capitalismo. «Per cominciare dal credito – scrive l’autrice – esso assolve nell’economia capitalistica molteplici funzioni, ma la più importante consiste notoriamente nell’accrescere la capacità di espansione della produzione e nel mediare e facilitare lo scambio. Perché là dove la tendenza della produzione capitalistica all’espansione illimitata urta contro i limiti della proprietà privata, contro le dimensioni ristrette del capitale privato, il credito si presenta come il mezzo atto a superare questi limiti in forme capitalistiche, a fondere in uno molti capitali privati – società per azioni – e a far sì che un capitalista possa disporre dei capitali altrui – credito industriale. D’altro lato esso accelera, come credito commerciale, lo scambio delle merci, quindi il riflusso del capitale alla produzione, e conseguentemente l’intero ciclo del processo produttivo». «Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito, per quanto si è detto, è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto, esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo avere, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo, durante la crisi, la capacità di consumo». «Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi altri modi in relazione col determinarsi delle crisi. Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona a impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri, persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una perturbazione per ogni minimo motivo. Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente per attenuare la crisi, è tutt’al contrario un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto, non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere al massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche». Questo testo fu scritto trent’anni prima della crisi del 1929 e centonove anni prima di quella del 2008. Considerando questi eventi, appare piuttosto evidente chi avesse avuto ragione tra Bernstein e Luxemburg. Per quanto riguarda le cooperative, continua l’autrice: «Esse rappresentano, per la loro natura interiore, qualcosa di ibrido in mezzo all’economia capitalistica: una produzione socializzata in piccolo nell’ambito dello scambio capitalistico. Ma nell’economia capitalistica lo scambio domina la produzione e, in considerazione della concorrenza, fa dello sfruttamento spietato, cioè del predominio degli interessi del capitale sul processo produttivo, la condizione per l’esistenza dell’impresa. Ciò si manifesta in pratica nella necessità di rendere il lavoro il più possibile intensivo, di abbreviarlo o allungarlo a seconda della situazione di mercato, di ingaggiare la forza-lavoro o licenziarla e metterla sul lastrico a seconda delle richieste del mercato dello smercio, in una parola nel mettere in pratica tutti i metodi conosciuti che rendono un’impresa capitalistica capace di essere concorrenziale». «Ne deriva la necessità contraddittoria per i lavoratori (…) di svolgere con sé stessi il ruolo dell’imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione, la cooperativa produttiva va in rovina, riconvertendosi in impresa capitalistica, oppure, nel caso in cui gli interessi dei lavoratori siano più forti, sciogliendosi». Anche in questo caso, vista la degenerazione del movimento cooperativo in regioni come Emilia Romagna, ritengo superfluo dedicare ulteriore spazio per dimostrare se la grande rivoluzionaria polacca avesse avuto ragione o meno. La lotta quotidiana per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ma anche per i diritti e per le battaglie democratiche, non più garantite dalla borghesia, spiega Luxemburg, è un compito imprescindibile per i marxisti, ma, a differenza dei riformisti, esso rappresenta solo un mezzo e non un fine. «Il titolo del presente scritto – scrive l’autrice – può di primo acchito sorprendere. Riforma sociale o rivoluzione? Dunque la socialdemocrazia può essere contro la riforma sociale? O essa può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell’ordine esistente che costituisce la sua meta finale, alla riforma sociale? Certamente no. Per la socialdemocrazia, la lotta pratica quotidiana per riforme sociali (…) costituisce l’unica via per guidare la lotta di classe proletaria e per cercare di raggiungere lo scopo finale, la presa del potere politico e la soppressione del sistema salariale. (…) Tra la riforma sociale e la rivoluzione esiste un nesso, inscindibile, giacché [per la socialdemocrazia] la lotta per la riforma sociale è il mezzo ma la rivoluzione sociale è lo scopo. Una contrapposizione di questi due momenti del movimento dei lavoratori la troviamo solo nella teoria di Ed. Bernstein. (…) Bernstein stesso, con il massimo di precisione e rigorosità, ha formulato le sue opinioni, scrivendo: “La meta finale, qualunque cosa essa sia, per me non è nulla, il movimento è tutto”». Inoltre: «La legislazione e la rivoluzione non sono dunque metodi diversi del progresso storico che si possono scegliere al buffet della storia a piacimento, come salsicce calde o salsicce fredde, ma momenti diversi nello sviluppo della società di classe che si condizionano e si completano a vicenda, ma nello stesso tempo si escludono (…). E in verità la costituzione giuridica è di volta in volta solo un prodotto della rivoluzione. Mentre la rivoluzione è l’atto politico creativo della storia di classe, la legislazione è il continuare del vegetare politico della società». «È fondamentalmente falso e del tutto antistorico rappresentare il lavoro di riforma delle leggi semplicemente come la rivoluzione tirata per le lunghe e la rivoluzione come una riforma condensata. Una rivoluzione sociale e una riforma legislativa sono momenti diversi non per la durata ma per la sostanza. Tutto il segreto delle rivoluzioni storiche ottenute attraverso l’uso del potere politico sta anzi proprio nella trasformazione di mutamenti puramente quantitativi in una qualità nuova». «Chi si esprime quindi per la via della riforma legale invece e in contrapposizione alla conquista del potere politico e alla trasformazione della società, sceglie di fatto non una via più tranquilla, più sicura e più lunga in direzione dello stesso obiettivo, ma sceglie anche un obiettivo diverso, cioè, invece dell’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale, sceglie i mutamenti solo quantitativi nell’ambito del vecchio ordinamento». La posizione di Luxemburg non va fraintesa: il socialismo non sarebbe stato raggiunto attraverso un lavoro continuo di riforma del sistema, senza una rottura rivoluzionaria. Anche quando si riescono a ottenere cambiamenti significativi, questi entrano presto in contraddizione con le basi del sistema capitalistico. Il movimento operaio, prima o poi, si trova di fronte a un dilemma: rinunciare alla riforma o alla rivoluzione? Accettare di rinunciare a ogni rivendicazione sostanziale o lottare contro le fondamenta stesse del capitalismo? Nei momenti di crisi economica, questo legame diventa ancora più evidente: l’assenza totale di margini economici per le riforme rende ogni richiesta di cambiamento immediatamente conflittuale con il meccanismo capitalistico. Da questo non deriva la rinuncia alla lotta per le riforme. Al contrario, i marxisti sono i veri difensori della lotta per il miglioramento quotidiano delle condizioni dei lavoratori. La rivoluzione, quindi, non è per i marxisti un’idea astratta da contrapporre a quella delle riforme. Essa diventa necessaria perché nessuna riforma, nemmeno la più piccola, potrà mai essere al sicuro fino a quando l’ordine borghese non sarà rovesciato.

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