Commento di Giulia Muccioli di Mohanty, C. T. (1984). Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses, in «Boundary 2», 12/13, pp. 333–358. https://doi.org/10.2307/302821.
- Introduzione
Comparso per la prima volta nel 1986 nel giornale progressista Boundary 2, quando la sua autrice non aveva ancora portato a compimento il suo ciclo di studi dottorale, Under Wester Eyes può a giusto titolo essere considerata la prima pubblicazione di Chandra Tapenade Mohanty nell’ambito degli studi femministi. Descritto da lei stessa come il suo biglietto d’ingresso nella comunità femminista internazionale, il saggio risponde in primis all’urgenza sociopolitica dell’epoca in cui è stato pensato. In piena svolta neoliberale e neocoloniale del capitalismo globale, il testo si dimostra essere particolarmente sensibile rispetto alle esigenze accademiche di un contesto storico particolare, quello sviluppatosi attorno ad almeno due grandi eventi storici che meritano di essere ricordati: l’elezione di Ronald Reagan nel 1981, che rivestirà la presidenza degli Stati Uniti fino alla fine del decennio, e il periodo delle Conferenze mondiali sulle donne, inaugurate in Messico nel 1975 e convocate a cadenza cinquennale su iniziativa dell’ONU fino al 1995. Due fatti che soli sono già sufficienti a definire il contesto politico di un’epoca in cui le divisioni nazionali, sessuali ed economiche non fanno che inasprirsi ulteriormente. In reazione a questa nuova fase, particolarmente severa, del capitalismo, cominciano ad aprirsi nuovi cantieri in cui (ri)collocare le rivendicazioni sociali, inedite o ereditate dall’effervescenza sociale del decennio precedente sulla scorta dei Black mouvements: è il caso dell’emergenza di un rinnovato interesse accademico – antropologico, sociologico ed etnografico – per gli studi postcoloniali, con centro di indagine privilegiato la costruzione della soggettività corrispondente al cosiddetto Terzo-mondo e la sua rappresentazione in Occidente. In linea con le acquisizioni teoriche di Edward Said e in parallelo alla fondazione negli Stati Uniti dei Subaltern Studies da accademiche e accademici di origini sud-asiatiche, l’interesse critico di Chandra Mohanty è rivolto nello specifico alla costruzione discorsiva della «donna del Terzo-mondo» secondo modalità funzionali al femminismo occidentale. In quanto teorica femminista transnazionale, Mohanty è del tutto all’altezza dell’ambizione da lei rivendicata di far luce sulle ambiguità epistemologiche che segnano il discorso femminista dominante e che la sua peculiare posizione di donna nata in India con un percorso di studi portato a compimento negli Stati Uniti le consentono di rilevare. Come dirà lei stessa nell’edizione “rivisitata” del saggio, comparsa nel 2003 per la rivista Signs dell’University of Chicago Press, è questa peculiarità che fa sì che la sua produzione teorica sia arricchita da questo vero e proprio entre-deux. La teoria si definisce come un continuo tentativo di coniugare questi due poli, quello delle sue origini che la avvicinano biograficamente alle donne del cosiddetto Terzo-mondo e quello marchiato dalla sua appartenenza alla comunità accademica del paese del “Primo-mondo” per eccellenza, appunto gli Stati Uniti. Questa particolarità esperita e vissuta è alla base dell’operazione che compie, nella sua critica al femminismo occidentale, di trasporre la nozione di colonizzazione a questo processo di produzione discorsiva, per mettere in evidenza i rapporti di potere in gioco dietro alla metodologia analitica occidentale. La sua critica si sviluppa interamente all’interno del quadro del materialismo storico per poter elaborare un’analisi congiunta della singolarità e della strategia politica generale senza perdere mai di vista il contesto di applicazione dei concetti.
Considerata tuttora l’opera maggiore di Chandra Mohanty, il testo si mostra particolarmente recettivo rispetto al dibattito della sua contemporaneità, riuscendo al tempo stesso a immettervi istanze di riflessione e di critica che avrebbero poi trovato terreno fertile nel campo degli studi femministi e postcoloniali. Ristampato a cadenza regolare dopo la sua prima pubblicazione e tradotto in quasi dieci lingue straniere, scopo di questo articolo è rendere conto del suo spessore argomentativo a partire dalla costellazione delle discipline eterogenee che ne attraversano e ne costituiscono il cuore. È possibile individuare tre linee argomentative che necessitano un ulteriore sviluppo per rispettare la logica espositiva: l’analisi della costruzione discorsiva delle donne del Terzo-mondo, gli universalismi metodologici propri al femminismo occidentale e infine le relazioni di potere che sono in gioco nel processo di produzione di soggetti. Questa articolazione permette di far luce sulla tesi principale di Mohanty rispetto all’appropriazione egemonica delle donne del Terzo-mondo come categoria analitica omogenea da parte della ricerca accademica occidentale, al punto da rendere del tutto possibile impiegare lo stesso termini di colonization.
2. «Donne del Terzo-mondo»: una categoria analitica
Se è possibile individuare due movimenti complementari nella definizione politica dei «femminismi del Terzo-mondo» – una pars destruens relativa alla critica della produzione teorica occidentale a cui fa seguito una pars construens volta alla definizione positiva di strategie autonome di lotta – il progetto di questo saggio risponde nello specifico alla prima di queste due esigenze. La riuscita di questo compito negativo si gioca sulla mobilitazione delle categorie impiegate solitamente e costruite dal discorso sociale e accademico egemone, ovvero quello occidentale, che resta sempre a un livello meramente descrittivo, senza presupporre alcuna determinazione epistemologica o ontologica1. In questo senso, è possibile cogliere in filigrana l’influenza di un quadro analitico di matrice foucaultiana nella misura in cui l’argomentazione si indirizza sempre agli effetti concreti, quindi politici, delle assunzioni teoriche. Il binomio foucaultiano savoir/pouvoir viene impiegato per dimostrare come la produzione discorsiva della donna del Terzo-mondo si inserisce sempre in certi tipi di relazione di potere, di dominazione e di appropriazione, che è necessario porre in questione per vedere come le linee di definizione della soggettività non rispondono mai solo a esigenze teoriche e analitiche, ma implicano sempre «a directly political and discursive practice that it is purposeful and ideological» (p.334). A fare oggetto di analisi sono nello specifico quei rapporti di potere, e di dominazione, o di colonizzazione, che plasmano la costruzione monolitica «producing/re-presenting a composite, singular “Third World Woman”- an image which appears arbitrarily constructed» (p.334). Lo scopo è di mostrare da chi, come e secondo quali finalità si pone la costruzione epistemologica di questa soggettività: in linea con gli studi elaborati brillantemente da autori come Edward Said, Anouar Abdel-Maled e Maria Miers, Mohanty denuncia lo sguardo etnocentrico ed eurocentrico che definisce la postura accademica del Primo-mondo rispetto all’Oriente e che determina conseguentemente una «colonizzazione» delle differenze vissute dalle donne, raggruppate indistintamente sotto una stessa e unica rappresentazione. Cancellando la distinzione tra la costruzione sociale della «Donna» e le donne come «real, material subjects of their collective histories» (p.334), il discorso femminista occidentale opera un passaggio illecito di generalizzazione e universalizzazione della particolarità e «”colonize” the fundamental complexities and conflicts which characterize the lives of women of different classes, religions, cultures, races and castes in these countries» (p.335). Per dare un’immagine più precisa dei rapporti di potere entro cui si iscrivono le pubblicazioni di Zed Press per la serie “Women in the Third World” che l’autrice prende in considerazione nella seconda parte, è possibile sottolineare la sua vicinanza alla posizione che la filosofa Gayatri Chakravorty Spivak elabora in Can the Subaltern Speak? (1988) rispetto alla violenza epistemica di cui la Soggettività colonizzata è vittima:
The clearest available example of such epistemic violence is the remotely orchestrated, far flung, and heterogeneous project to constitute the colonial subject as Other. This project is also the asymmetrical obliteration of the trace of that Other and its precarious Subject-ivity2.
In questa dialettica tra soggetto di conoscenza e oggetto di appropriazione, al rango del quale è portata in questo caso la donna del Terzo-mondo, due sono le problematiche concomitanti: in primis, la rappresentazione di quest’ultima prende la forma di un «homogeneous “powerless” group often located as implicit victims of particular socio-economic systems» (p.338); inoltre, questa è del tutto funzionale all’(auto)rappresentazione implicita delle donne del Primo-mondo attraverso un’immagine rovesciata, ovvero come «educated, modern, as having control over their own bodies and sexualities, and the freedom to make their own decisions» (p.337). L’obiettivo critico di Mohanty è esplicito nella messa in questione della considerazione delle donne come di un gruppo unitario e unificato dal fatto di subire un’oppressione comune. Anche se «what binds women together is a sociological notion of the “sameness” of their oppression» (p.337), e non una nozione essenzialista o biologizzante che radicherebbe una determinata oppressione subita nel fatto di avere un determinato corpo, quello che è completamente soppresso è il contesto particolare in cui le linee di oppressione si esercitano.
3. Universalismi metodologici
Tre sono i principi di analisi principali che Mohanty rileva essere all’opera nella maggior parte delle produzioni discorsive del femminismo occidentale: l’assunto che le donne facciano tutte parte di uno stesso gruppo unito dall’operatore astorico del patriarcato come forma indifferenziata della loro oppressione, la considerazione ingiustificata della validità universale di quello che è valido esclusivamento nel caso particolare e specifico di un determinato contesto socioculturale e infine il presupposto politico soggiacente le metodologie impiegate. Mohanty ripercorre la produzione di sei autrici femministe per la collezione “Women in the Third World” edita da Zed Press. Gli articoli a cui si rivolge sono nello specifico lo studio sulla mutilazione genitale delle donne africane e orientali di Fran Hosek (1981), la pubblicazione di Beverly Lindsay (1983) sulla questione della dipendenza e dell’assenza di potere delle donne africane, l’analisi del rituale di matrimonio dei Bemba da parte di Maria Cutrufelli (1984), e delle analisi sul sistema familiare (Juliette Minces, 1980) e religioso (Mina Modares, 1981) proprio alle società arabe. A essere problematico in questi diversi articoli è il fatto che vi è proposta «an ahistorical, universal unity between women based on a generalized notion of their subordination» (p.344), considerando, a seconda del caso, le donne come tutte vittime o della violenza maschile e della colonizzazione, o del processo economico, o del codice familiare arabo o ancora della religione islamica. La conseguenza è pertanto di pensare al meccanismo di funzionamento del poter secondo una modalità binaria e semplice in modo da operare una divisione in due gruppi distinti, «people who have [power] (read: men), and people who do not (read: women)» (p.344). Se Spivak aveva posto questa problematica nei termini dell’agency3, rifacendosi alla corrente accademica inglese dei Cultural Studies inaugurata da Stuart Hall e alle formulazioni teoriche di Antonio Gramsci, Mohanty denuncia l’assunto degli universalismi metodologici che marchiano i lavori transculturali femministi con lo stesso obiettivo di cercare delle modalità di articolazione di un progetto femminista più vasto sulla base di un legame di solidarietà e di dialogo tra le differenti realtà vissute dalle donne. Facendo luce sull’esempio positivo di Maria Mies, nello specifico del suo lavoro sulle lace-makers indiane (1982), l’autrice pone la necessità di cconndul’analisi sempre all’interno di un contesto storico e sociale particolare. Lungi dal proporre una rappresentazione riduttiva e generalizzata della donna del Terzo-mondo, il lavoro di Mies non perde mai di vista il significato specifico che certe categorie analitiche – come la divisione sessuata del lavoro o l’ideologia della casalinga – acquisiscono «within the situation and context being analyzed» (p.345). Solo uno sguardo costantemente orientato verso il significato e il valore assegnati alle diverse pratiche in diversi contesti storici e sociali può garantire la comprensione materiale di queste stesse pratiche e la definizione di strategie politiche adeguate:
Only through such context-specific differentiated analysis does feminist theorizing and practice acquire significance. It is on the basis of such analyses that effective political strategies can be generated. To assume that the mere practice of veiling women in a number of Muslim countries indicates the universal oppression of women through sexual segregation would not only be analytically and theoretically reductive, but also prove quite useless when it comes to political strategizing (p.347).
4. Soggetti del potere
Avendo adeguatamente segnalato le mancanze metodologie che attraversano la maggior parte dei testi teorici occidentali, pur con sfumature non irrilevanti da tenere in considerazione per evitare di chiudere a priori il dialogo con queste studiose, resta importante interrogarsi su quali rapporti di potere, quindi quali finalità e assunzioni politiche, ne fungono da presupposto. Ogni formulazione teorica non è infatti «the mere production of knowledge about certain subject» (p. 334), ma è sempre inserita in un quadro di potere specifico che, nel caso della donna del Terzo-mondo, va indagato a scala globale. La reiterazione dell’idea che le donne siano tutte vittime dell’oppressore generale che è il patriarcato pone una sistematizzazione binaria del modo in cui il potere viene esercitato e subìto, ponendo un discrimine netto tra due gruppi, uomini e donne, non delineati sulla base dell’appartenenza (presupposta) biologica a un sesso, ma esclusivamente da fattori sociologici. Che si parli di società piuttosto che di natura, non esclude che sia ugualmente preclusa ogni possibilità di riscatto da parte del gruppo oppresso, soprattutto nel proporre come ipotesi risolutiva un’inversione dei termini interni al sistema. Considerando infatti il potere secondo una concezione binaria, il fatto che il rapporto tra i gruppi sia rovesciato, presupponendo quindi le donne in una posizione di possesso e esercizio del potere in sostituzione agli uomini, non porta ad alcun cambiamento (o messa in questione) del modo in cui questo viene effettivamente esercitato. Che siano gli uomini o le donne a detenere il potere, quello che resta in ogni caso escluso dal piano discorsivo è la differenza costitutiva e inerente di ciascun gruppo, che viene al contrario assunto come omogeneo. Assumere il patriarcato – definito in termini sociologici sulla base dell’evidenza che nel mondo sono gli uomini a essere identificati con il gruppo dominante – come operatore astorico e indifferenziato significa non pensare alla complessità dell’oppressione subita dalle donne, a partire dalla differenza delle loro esperienze vissute:
The major problem with such a definition of power is that it locks all revolutionary struggles into binary structures-possessing power versus being powerless. Women are powerless, unified groups. (p.350)
È qui che si colloca precisamente il gesto colonizzatore da parte del discorso femminista occidentale, in quanto questo «appropriates the pluralities of the simultaneous location of different groups of women in social class and ethnic frameworks» (p. 351), standardizzando l’immagine della donna a un ideale normativo da assumere come categoria fissa e stabile di analisi. Lo scacco tra la rappresentazione delle donne del Terzo-mondo e l’autorappresentazione di quelle del Primo fa insorgere quindi quella che l’autrice chiama «Differenza del Terzo-mondo». Pensandosi emancipate, libere economicamente e sessualmente, le donne “occidentali” si definiscono tali solo a partire dall’assegnazione di caratteristiche inverse alle donne del Terzo-mondo, come modelli per eccellenza di vittime di un sistema patriarcale che si esercita indistintamente in ogni aspetto della loro vita, dal lavoro, alla famiglia e alla religione. Il sostrato eurocentrico che pone i valori occidentali come i referenti universali è del tutto evidente: la problematica sta nel considerarli come presupposti nella pratica accademica.
Come sottolinea Anibal Quijano rispetto alla nozione della colonialità del potere4, la considerazione etnocentrica dell’Occidente come quadro referenziale privilegiato implica che tutto ciò che vi è escluso, tutto ciò che raffigura l’Altro, sia plasmato di conseguenza secondo categorie di lettura occidentali, che non permettono una corretta interpretazione delle differenze, che al contrario sono annesse in maniera indistinta e omogenizzante al discorso dominante. Quello che Mohanty vuol portare in superficie è il fatto che il vissuto concreto delle donne del Terzo-mondo non risponde alle esigenze teoriche del femminismo occidentale, che restringe il proprio sguardo senza riuscire a cogliere davvero quella differenza del Terzo-mondo, senza quindi riuscire a contestualizzare i propri strumenti in casi dove questi non possono essere impiegati alla stessa maniera.
Legal, economic, religious, and familial structures are treated as phenomena to be judged by Western standards. It is here that ethnocentric universality comes into play. When these structures are defined as “underdeveloped” or “developing” and women are placed within these structures, an implicit image of the “average third world woman” is produced. This is the transformation of the (implicitly Western) “oppressed woman” into the “oppressed third world woman.” (p.352)
Togliendo il patriarcato come strumento di oppressione, a restare esenti da ogni forma di interrogazione sono comunque l’imperialismo e il colonialismo: quelle relazioni gerarchiche tra Primo e Terzo-mondo, tra Occidente e Oriente, non solo costituiscono il quadro di partenza da cui l’analisi non esce mai, ma vengono oltretutto rafforzate da questa costruzione della differenza del Terzo-mondo riletta e costruita attraverso lenti completamente inadeguate. Questo è esplicitato da Mohanty nel suo porre in primo piano la relazione che intercorre tra l’immagine di due tipi di donna a seconda del fatto che siano «Western» o «non-Western»: questa relazione dialettica – nel senso che la costituzione della donna del Terzo-mondo secondo «images like the veiled woman, the powerful mother, the chaste virgin, the obedient wife, etc.» (p.352) è ciò da cui la definizione discorsiva della donna del Primo trova massimo nutrimento – è infatti il riflesso delle relazioni egemoniche tra Occidente e Oriente, il centro e la periferia, il Nord e il Sud globale. Così come è il secondo termine a rendere possibile la sussistenza teorica del primo, anche l’immagine della donna del Terzo-mondo si mostra del tutto funzionale all’autorappresentazione di un Occidente che si crede essere libero, emancipato e secolarizzato. L’omologazione indifferenziata dall’Altro come donna e come donna del Terzo-mondo non è che un’espressione e un modo per definire lo status di un Occidente eterogeneo e problematico come altrettanto unitario e stabile. Il problema è che si tratta solo di costruzioni discorsive, scisse dal reale.
Conclusione
Opera maggiore degli studi femministi postcoloniali e transnazionali, il saggio di Chandra Mohanty solleva delle problematiche intellettuali, accademiche, istituzionali e politiche che restano sempre centrali nell’elaborazione di una metodologia adeguata a uscire dall’universalismo eurocentrico che determina il quadro di produzione egemonica della conoscenza. La tesi principale elaborata da Mohanty fa luce sul processo di colonizzazione per mano del femminismo occidentale nella sua costruzione discorsiva della donna del Terzo-mondo, sollevando due tipi di problematiche particolarmente attuali. Da un lato, la necessità di pensare l’articolazione della differenza rispetto alla soggettività politica «donna» impone un’operazione di contestualizzazione che si oppone alla sua considerazione indifferenziata e universalista. Questa attenzione al contesto micropolitico, d’altra parte, solleva la questione del suo rapporto con «the macropolitics of global economic and political systems and processes»5: come evitare di cadere nella tendenza opposta di prioritizzare il particolare sul generale, essendo che una strategia di lotta richiede una collettività politica di base? Se l’interrogativo al cuore di ogni strategia femminista è rivolto da sempre al modo con cui armonizzare il singolare e il particolare, l’opera di Mohanty ha il merito di allargare la prospettiva critica fuori dal discorso mainstream per porre lo stesso problema su scala globale. Senza che la differenza diventi un mezzo di rivendicazione contro ciò che determina il terreno di condivisione delle donne come soggettività politica, Mohanty considera questa stessa differenza come un punto strategico che ci permette di articolare la lotta all’esterno delle distinzioni binarie e riduttive su cui si sviluppa il discorso egemonico e coloniale dell’Occidente. Prendendo queste categorie nel loro senso descrittivo, e non vincolate a una determinazione monolitica e omogenea preimpostata, il pensiero delle differenze come angolo di osservazione privilegiato da cui cogliere al meglio le connessioni e le comunanze ci permette di non considerare queste stesse differenze come frontiere rigide e impossibili da superare, ma al contrario come la sfida politica concreta che solo un femminismo trasnazionale e decoloniale potrà accogliere fino in fondo.
- Cfr. Mohanty, T. C. (2003). Under Western Eyes Revisited: Feminist Solidarity through Anticapitalist Struggles, «Signs», Vol. 28, No. 2, p. 502, nota 4. ↩︎
- Spivak, G. C. (1988). Can the Subaltern Speak?, in Nelson, C., Grosberg, L. (Eds.). Marxism and the Interpretation of Culture, Basingstoke: Macmillan Education, p.76. Corsivo mio. ↩︎
- È possibile dare una definizione di agency nel modo in cui è impiegato da Spivak e Hall nei termini di uno spazio di azione preso nella tensione tra la resistenza e la negoziazione da parte di un soggetto, questo come sempre localizzato nelle strutture storico-sociali che lo trascendono. ↩︎
- Cfr. Lander, E. (2004). La Colonialidad del Saber: Eurocentrismo y Ciencias Sociales: Perspectivas Latinoamericanas. Buenos Aires: Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales (Clacso). ↩︎
- Mohanty, T. C. (2003). op. cit., p. 501. ↩︎