Il container marittimo, una semplice scatola metallica standardizzata, è diventato uno dei simboli più tangibili e al tempo stesso più invisibili del capitalismo globale contemporaneo. La sua introduzione ha radicalmente trasformato le dinamiche del commercio internazionale, creando un sistema intermodale che permette alle merci di viaggiare su navi, camion e treni senza mai dover essere scaricate e ricaricate manualmente. Questa rivoluzione logistica ha abbattuto i costi di trasporto in modo drastico, generando anche una complessa rete di sfruttamento del lavoro che rimane nascosta agli occhi della maggior parte dei consumatori. Oggi esistono oltre 20 milioni di container sparsi per il mondo, con circa 6 milioni in costante movimento attraverso le rotte globali. Eppure, mentre questi contenitori sono ormai onnipresenti nei paesaggi urbani e industriali, i lavoratori che ne garantiscono lo spostamento rimangono figure invisibili, cancellate dalla narrazione dominante che celebra l’efficienza delle supply chain globali senza interrogarsi sui lavoratori alla base di questo successo. Dietro ogni container che attraversa gli oceani c’è una catena di lavoratori sottopagati e spesso esposti a condizioni pericolose. Il processo inizia nelle fabbriche del Sud del mondo, dove operai e operaie assemblano prodotti destinati ai mercati occidentali. Una volta confezionati, questi beni vengono caricati su pallet e poi inseriti nei container che vengono chiusi e sigillati, pronti per essere trasportati da camionisti spesso costretti a turni estenuanti e a sistemi di pagamento che rasentano lo sfruttamento. Arrivati nei porti, i container passano nelle mani dei portuali che con gru gigantesche li sollevano sulle navi cargo, dove altri lavoratori, i marittimi, si occupano del viaggio transoceanico. Questi ultimi, per lo più provenienti da paesi poveri, trascorrono mesi in mare in condizioni di semi-schiavitù, lontani dalle famiglie e senza tutele adeguate. Una volta raggiunto il porto di destinazione, il ciclo si ripete al contrario: i container vengono scaricati, trasferiti su treni o camion, e infine portati in magazzini e centri distributivi, dove altri lavoratori, spesso precari e malpagati, smistano la merce verso i negozi o direttamente alle case dei consumatori, grazie all’ascesa dell’e-commerce. Ogni passaggio di questa catena è caratterizzato da rapporti di lavoro sempre più precarizzati, con aziende che esternalizzano i servizi per risparmiare e sindacati che faticano a organizzare una forza lavoro frammentata e ricattabile. La posizione strategica di questi lavoratori, tuttavia, rappresenta anche un potenziale punto di forza. Operando nei cosiddetti punti di strozzatura della supply chain, cioè i porti, i nodi ferroviari, i grandi magazzini di distribuzione, i lavoratori logistici potrebbero, se organizzati, esercitare un potere di interruzione capace di mettere in crisi l’intero sistema. Storicamente, i portuali sono stati tra i settori più militanti della classe operaia, capaci di paralizzare intere economie con scioperi mirati. Oggi, però, le condizioni sono cambiate: l’avvento della containerizzazione ha ridotto la necessità di manodopera portuale specializzata mentre l’outsourcing e la gig economy hanno reso più difficile l’organizzazione sindacale. A complicare ulteriormente il quadro c’è l’ascesa delle grandi corporation della logistica, come Amazon e Walmart, che hanno sviluppato modelli di business basati su un controllo ferreo della forza lavoro, spesso attraverso tecnologie di sorveglianza e algoritmi che ottimizzano ogni movimento dei dipendenti, negando loro autonomia e diritti. Parallelamente, il mondo accademico e formativo ha abbracciato acriticamente la retorica del supply chain management, creando corsi e programmi finanziati dalle stesse aziende che sfruttano i lavoratori, senza mai mettere in discussione l’etica di un sistema che privilegia l’efficienza a discapito della dignità umana. Nonostante queste sfide, resistenze e lotte continuano a emergere in tutto il mondo. Dai portuali della West Coast americana che scioperano contro l’automazione, ai magazzinieri di Amazon in Europa che lottano contro i ritmi disumani imposti dagli algoritmi, fino ai camionisti indiani che bloccano le autostrade per protestare contro il caro-carburante, i lavoratori logistici stanno dimostrando che la globalizzazione non ha cancellato il conflitto di classe ma lo ha semplicemente spostato in nuovi territori. Il compito ora è connettere queste lotte, spesso isolate e frammentate, in una visione comune che riconosca il potere potenziale di chi muove le merci del mondo. Perché se il container è il simbolo del capitalismo globale, i lavoratori che lo fanno viaggiare potrebbero diventare i protagonisti della sua crisi. Per fare ciò analizzeremo alcuni saggi contenuti nel volume Choke points.
1. Potere operaio e logistica globale
Secondo Elizabeth A. Sowers, Paul S. Ciccantell, e David A. Smith in Labor and Social Movements’ Strategic Usage of the Global Commodity Chain Structure il supply chain management (SCM) e l’approccio delle global commodity chains (GCC) o world-system analysis condividono un interesse comune per le reti transnazionali di produzione e distribuzione ma divergono radicalmente negli obiettivi, nelle premesse teoriche e nelle implicazioni politiche. La SCM, sviluppata principalmente in ambito manageriale, concepisce le catene di approvvigionamento come reti di attori, per lo più imprese, ma occasionalmente anche consumatori, il cui scopo principale è garantire il flusso ininterrotto di merci e massimizzare l’efficienza nell’uso del capitale. Questo approccio, come evidenziato da testi specialistici, mira a ridurre i costi operativi, eliminare inefficienze e ottimizzare la logistica, spesso trattando il lavoro come una semplice variabile da controllare o minimizzare. In questa prospettiva qualsiasi forma di resistenza operaia o di interruzione del processo produttivo, come scioperi, proteste, rivendicazioni sindacali, viene interpretata come un fattore di disturbo da neutralizzare poiché compromette la fluidità e la redditività della catena. Al contrario, la tradizione delle GCC, originariamente elaborata da Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein e successivamente sviluppata da Gary Gereffi e altri, adotta una prospettiva strutturale e storica, analizzando come le catene globali generino disuguaglianze e asimmetrie di potere tra regioni centrali e periferiche del sistema-mondo. A partire dagli anni ‘90, alcuni studiosi come Gereffi hanno progressivamente adottato un linguaggio più vicino alla SCM, parlando di “value chains” anziché di “commodity chains”, spostando l’attenzione verso dinamiche aziendali e governance d’impresa. Questo slittamento concettuale ha suscitato critiche da parte di chi intende recuperare la radicalità originaria dell’approccio GCC, riportando al centro dell’analisi i conflitti di classe, le lotte sindacali e il potenziale trasformativo dei movimenti sociali. Un elemento chiave di questa rilettura è il concetto di potere posizionale che si riferisce alla capacità dei lavoratori di interrompere le catene produttive grazie alla loro collocazione strategica all’interno di reti economiche interdipendenti. A differenza del potere contrattuale tradizionale, legato alla forza numerica o alla capacità di negoziazione, il potere posizionale deriva dalla vulnerabilità intrinseca delle catene globali, dove ogni anello dipende dal funzionamento degli altri. Ad esempio, scioperi in porti cruciali, blocchi di snodi logistici o proteste nei siti di estrazione delle materie prime possono paralizzare intere filiere, costringendo le imprese a concedere miglioramenti salariali o delle condizioni di lavoro. Esempi storici, come le lotte dei portuali statunitensi o le mobilitazioni nelle miniere di minerali strategici, dimostrano che i lavoratori non devono necessariamente essere numericamente dominanti per esercitare un’influenza decisiva: basta che occupino posizioni critiche nella geografia del capitale globale. Questo approccio, ispirato al materialismo storico, evidenzia come l’ascesa economica delle potenze egemoniche (dall’Olanda del Seicento alla Cina contemporanea) sia sempre dipesa dal controllo di risorse materiali e reti di approvvigionamento globali. La Cina, ad esempio, ha ereditato e riadattato il sistema di approvvigionamento creato dal Giappone nel dopoguerra, basato su innovazioni tecnologiche nel trasporto marittimo e accordi geopolitici per l’accesso a minerali e idrocarburi. Questa stessa interdipendenza crea vulnerabilità: pipeline, porti e corridoi ferroviari diventano punti di strozzatura dove movimenti sociali, comunità indigene o sindacati possono esercitare pressione. La differenza tra i due approcci emerge chiaramente nell’analisi delle crisi delle supply chain. Mentre la letteratura manageriale le interpreta come problemi tecnici da risolvere con migliore pianificazione o tecnologie digitali, la prospettiva GCC le legge come sintomi di contraddizioni sistemiche. Ad esempio, la crescente finanziarizzazione delle catene globali, con aziende che dipendono da fornitori just-in-time e da catene del valore iper-frammentate, le rende più esposte a shock politici o conflitti sindacali. Un caso emblematico è quello delle proteste ambientaliste contro l’oleodotto Keystone XL, dove la mobilitazione transnazionale ha ritardato per anni il progetto, dimostrando che le lotte territoriali possono influenzare strategie corporate multimiliardarie. Allo stesso modo, i sindacati portuali, sfruttando la centralità logistica dei loro nodi, hanno ottenuto concessioni salariali minacciando scioperi coordinati in più paesi.
Infine, l’approccio GCC offre un quadro analitico per valutare sistematicamente le vulnerabilità delle catene globali, classificandole in cinque dimensioni: materiale (stato fisico delle merci, difficoltà di stoccaggio), economica (costi fissi, struttura proprietaria delle imprese), politica (contesto geopolitico, leggi nazionali e sovranazionali), sociale (consenso locale, alleanze tra movimenti) e sindacale (grado di organizzazione, tipologia dei contratti). Questa griglia permette di identificare i punti deboli del capitale globale, mostrando come le lotte operaie e ambientali non siano mere reazioni passive allo sfruttamento ma strategie attive che sfruttano le frizioni del sistema. La prospettiva GCC diventa una mappa per l’azione collettiva, rivelando come le stesse reti che alimentano l’accumulazione capitalistica possano diventare terreni di resistenza e trasformazione. Un caso emblematico è quello delle filiere legate all’acciaio, dove la combinazione di alti investimenti, intensità di capitale e tecnologie complesse di estrazione e trasformazione rende l’intera catena particolarmente sensibile a interruzioni nei nodi a monte, come le miniere di carbone e ferro, le infrastrutture ferroviarie e portuali e gli stabilimenti siderurgici. Proprio per questa ragione, in molti paesi questi settori hanno storicamente sviluppato sindacati forti, capaci di sfruttare la loro posizione strategica per negoziare migliori condizioni di lavoro. Le aziende, di fronte alla prospettiva di blocchi produttivi con perdite economiche rilevanti, hanno spesso preferito scendere a patti con i lavoratori organizzati piuttosto che rischiare paralisi operative. Questa dinamica ha spinto le multinazionali dell’acciaio, spesso in collaborazione con i governi dei paesi centrali, a diversificare le fonti di approvvigionamento verso aree con minore sindacalizzazione, come le miniere di carbone del Canada occidentale o quelle di ferro nell’Amazzonia brasiliana. Si tratta di una strategia che, se da un lato riduce il rischio di interruzioni sindacali, dall’altro può compromettere l’efficienza complessiva della filiera, aumentando i costi di trasporto e di estrazione. Un altro settore storicamente segnato da forti tensioni lavorative è quello della logistica dei beni containerizzati, dove gli scioperi portuali hanno dimostrato ripetutamente la capacità dei lavoratori di interrompere intere filiere globali. Tra gli esempi più significativi vi è lo sciopero degli scaricatori della West Coast nel 1934 che durò 83 giorni e portò a una diffusa sindacalizzazione del settore e i blocchi portuali di New York nel 1907 e 1919 che paralizzarono per settimane il principale hub commerciale statunitense. La filiera del petrolio, essenziale per il funzionamento dell’economia globale, presenta invece dinamiche più complesse. Esistono tre principali modelli di produzione: il petrolio convenzionale, quello estratto dalle sabbie bituminose e il cosiddetto tight oil ricavato tramite fracking. Il primo è il meno costoso e il meno tecnologico mentre le sabbie bituminose richiedono investimenti enormi e processi ad alta intensità di capitale. La volatilità dei prezzi del greggio, con i suoi cicli di boom e crisi, rappresenta una sfida costante per le aziende del settore. Nel caso del petrolio convenzionale, estratto soprattutto in Medio Oriente e Africa, il trasporto marittimo è il collegamento principale con i mercati globali ma la quasi assenza di sindacalizzazione nei paesi produttori e nel settore navale limita fortemente la capacità dei lavoratori di esercitare pressioni. Al contrario, nelle filiere delle sabbie bituminose e del fracking, dove il trasporto avviene principalmente tramite oleodotti e ferrovie, la maggiore sindacalizzazione in Nord America creerebbe potenziali punti di vulnerabilità. Tuttavia le divisioni politiche, come quelle emerse durante il dibattito sull’oleodotto Keystone XL, e i contrasti tra sindacati e movimenti ambientalisti hanno di fatto neutralizzato questa possibilità. Di conseguenza l’unico fattore che ha realmente rallentato lo sviluppo delle sabbie bituminose è stato il calo dei prezzi del petrolio mentre le potenziali leve di pressione operaia sono rimaste in larga parte inutilizzate. Questi esempi mostrano come la struttura delle Global Commodity Chains crei sia opportunità che limiti per l’azione collettiva dei lavoratori e dei movimenti sociali. Mentre in alcuni settori, come l’acciaio e la logistica portuale, il potere posizionale ha permesso conquiste significative, in altri, come il petrolio, fattori geopolitici e divisioni interne hanno impedito un’azione efficace. La sfida per i sindacati è quindi quella di sviluppare strategie transnazionali in grado di sfruttare i punti deboli delle filiere globali, superando al tempo stesso le frammentazioni politiche e organizzative che ne limitano l’efficacia.
2. Come resistono i lavoratori della logistica
L’analisi di Reese e Struna nel saggio “Work Hard, Make History”: Oppression and Resistance in Inland Southern California’s Warehouse and Distribution ci conduce nel cuore dell’industria logistica dell’Inland Southern California, una regione che negli ultimi decenni è diventata il fulcro della distribuzione merci su scala globale. Questo sviluppo è strettamente legato alla vicinanza con il complesso portuale di Los Angeles-Long Beach, il più grande degli Stati Uniti, che da solo movimenta circa il 25% di tutte le merci che transitano attraverso i magazzini della zona. La superficie complessiva dedicata alla logistica nella regione raggiunge l’incredibile cifra di quasi un miliardo di piedi quadrati. La rivoluzione dell’e-commerce, in particolare l’ascesa di Amazon con il suo cosiddetto “Amazon effect”, ha radicalmente trasformato il settore. L’azienda di Bezos da sola gestisce sei dei suoi nove centri di distribuzione californiani proprio in questa regione, come nel caso del gigantesco magazzino di Eastvale che impiega centinaia di lavoratori. Questo cambiamento epocale ha portato a una crescente automazione dei processi e a un’intensificazione dei ritmi lavorativi, mascherata dallo slogan aziendale “Work hard, make history” che cerca di dipingere queste strutture come avanguardie tecnologiche piuttosto che come luoghi di sfruttamento. Il profilo della forza lavoro che popola questi magazzini è emblematico delle disuguaglianze strutturali del sistema economico contemporaneo. I dati del 2009-2013 dell’American Community Survey rivelano che il 77% dei lavoratori è latino, con il 40% composto da immigrati, principalmente messicani e centroamericani. Si tratta perlopiù di giovani adulti: il 33% ha tra i 17 e i 25 anni mentre un altro 38% è nella fascia 26-40 anni. Il 76% possiede al massimo un diploma di scuola superiore, fattore che li rende particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Le condizioni di lavoro sono al limite della sopportazione umana. Le ricerche dell’Università della California a Riverside mostrano che il salario medio si attesta a soli $10.05 l’ora, ben al di sotto della soglia di $11.59 necessaria per un single e dei $23.90 richiesti per chi ha figli a carico. La situazione è particolarmente drammatica per i lavoratori temporanei che rappresentano tra il 46% e il 63% della forza lavoro: guadagnano in media $9.42 l’ora (contro gli $11.33 dei dipendenti diretti) e solo il 20% ha accesso all’assicurazione sanitaria, rispetto al 54% degli assunti direttamente. L’instabilità occupazionale è cronica. Juan De Lara ha documentato come il 70% dei lavoratori temporanei sia impiegato per meno di 10 mesi all’anno. D’altro canto, i dati mostrano che nei rari casi di magazzini sindacalizzati (come quelli gestiti dai Teamsters), i salari possono arrivare fino a $31.93 l’ora, dimostrando che alternative migliori sono possibili. Il lato più oscuro di questo sistema emerge quando si analizzano le condizioni lavorative concrete. Un’indagine condotta dall’UCLA su 103 lavoratori ha rivelato che il 65% ha subito almeno un infortunio nell’ultimo anno mentre l’83% ne ha testimoniato almeno uno tra i colleghi. Le cause principali includono macchinari pericolosi, esposizione a polveri e sostanze chimiche e soprattutto la pressione manageriale a lavorare più velocemente. Alcuni magazzini, consapevoli di questa emergenza, hanno addirittura assunto personale medico permanente per gestire le frequenti emergenze. Il sistema di controllo digitale implementato in molti magazzini aggrava ulteriormente la situazione. I lavoratori sono costantemente monitorati attraverso computer indossabili che tracciano ogni loro movimento, imponendo ritmi disumani attraverso sistemi a punti che possono portare al licenziamento se non si raggiungono le quote prestabilite. Questo regime di sorveglianza costante, combinato con le pratiche di “management by stress”, dove i dirigenti deliberatamente sottodimensionano il personale per spremere al massimo la produttività, crea un ambiente lavorativo tossico e pericoloso. Nonostante questo quadro desolante, il saggio documenta anche le forme di resistenza che stanno emergendo. Organizzazioni come Warehouse Workers United (WWU) e il Warehouse Workers Resource Center (WWRC) hanno ottenuto importanti vittorie, tra cui risarcimenti milionari per salari non pagati e nuove tutele legislative. La storia dell’organizzazione dei lavoratori dei magazzini nell’Inland Southern California, a partire dal 2008, rappresenta un caso emblematico delle sfide e delle strategie innovative adottate per migliorare le condizioni di lavoro in un settore caratterizzato da precarietà, sfruttamento e resistenza da parte delle grandi corporations. La WWU, fondata dalla federazione sindacale Change to Win, nacque con l’obiettivo di organizzare i lavoratori logistici, in gran parte immigrati e impiegati attraverso agenzie di lavoro temporaneo, per contrastare i bassi salari, le violazioni delle norme sulla sicurezza e il sistematico wage theft. Data la complessità del settore, dove i lavoratori temporanei sono particolarmente esposti a ritorsioni e dove gli immigrati privi di documenti rischiano la deportazione, la WWU optò per una strategia diversa dalla tradizionale sindacalizzazione, puntando invece su azioni collettive, pressione legale e costruzione di coalizioni. Nel 2011, per rafforzare il sostegno legale e organizzativo, venne creato il Warehouse Worker Resource Center (WWRC), un centro senza fini di lucro che aiutava i lavoratori a denunciare le violazioni delle leggi sul lavoro. Una delle scelte strategiche più significative fu quella di prendere di mira non tanto i datori di lavoro diretti, le agenzie interinali o i gestori dei magazzini, quanto i grandi retailer che dominano la catena di approvvigionamento, in particolare Walmart. Questa multinazionale, nota per le sue pratiche anti-sindacali e lo sfruttamento della manodopera lungo tutta la sua supply chain globale, divenne il bersaglio principale di una campagna transnazionale chiamata “Making Change at Walmart”, coordinata da Change to Win e da altre organizzazioni come UniGlobal e la United Food and Commercial Workers Union (UFCW). L’obiettivo era colpire Walmart in tutti i nodi della sua rete logistica, dai magazzini statunitensi ai produttori in Bangladesh e Cile, sfruttando il potere della coalizione per contrastare la capacità dell’azienda di eludere le rivendicazioni dei lavoratori spostando la produzione o i contratti. La WWU e il WWRC ottennero una serie di importanti vittorie legali e normative. Nel 2013, ad esempio, 600 lavoratori impiegati presso Schneider Logistics, un subappaltatore di Walmart, vinsero un accordo da 4,7 milioni di dollari per risarcimenti salariali. In un altro caso, Walmart fu coinvolto direttamente come coimputato, una decisione significativa perché stabiliva il principio che i grandi retailer potessero essere ritenuti responsabili delle condizioni di lavoro nelle strutture dei loro subappaltatori. Nel 2014, una class action si concluse con un accordo da 21 milioni di dollari, dimostrando l’efficacia della strategia legale abbinata alla mobilitazione collettiva. Per amplificare la pressione pubblica e politica, nel 2012 la WWU organizzò una marcia di 50 miglia, ribattezzata “Walmarch”, ispirata alle storiche proteste dei braccianti agricoli degli anni ’60. La marcia, che partì da Ontario e raggiunse il municipio di Los Angeles, fu accompagnata da uno sciopero di 15 giorni contro Swift Transportation e Warestaff, un’agenzia interinale che riforniva manodopera a un enorme magazzino Walmart. Le condizioni disumane nel magazzino, tra cui la mancanza di acqua potabile, con i lavoratori costretti a bere da un tubo da giardino vicino a trappole per topi, scatenarono proteste e attirarono l’attenzione dei media. La mobilitazione ebbe un impatto concreto: poco dopo, l’amministrazione del governatore Jerry Brown annunciò l’approvazione di una legge proposta dalla WWU che obbligava le aziende e le agenzie interinali a garantire fondi sufficienti per pagare i salari e rispettare le norme sul lavoro. Anche Walmart, sotto pressione, promise di effettuare ispezioni a sorpresa nei magazzini dei suoi subappaltatori.
Nonostante questi successi la campagna non riuscì a sindacalizzare stabilmente i lavoratori e nel 2014 la UFCW, principale finanziatrice della WWU, ritirò gran parte dei fondi. Da allora, il WWRC ha continuato il lavoro di assistenza legale e organizzativa attraverso donazioni e sovvenzioni, ottenendo ulteriori vittorie, come il risarcimento di 80.000 dollari per 10 lavoratori di Waitex a cui erano stati negati straordinari e pause. Un altro caso significativo riguardò Domingo Blancas, un operaio ricoverato per un colpo di calore in un magazzino nel 2011, che contribuì all’approvazione della legge SB1167, la quale impone nuove norme per proteggere i lavoratori indoor dalle malattie legate al calore. La lotta dei lavoratori dei magazzini dell’Inland Southern California dimostra che, nonostante le enormi difficoltà, strategie innovative, combinando azione legale, mobilitazione collettiva e alleanze transnazionali, possono ottenere risultati significativi. La sfida futura sarà adattare queste strategie a un contesto in rapida trasformazione, dove il potere del capitale globale e il progresso tecnologico rischiano di erodere ulteriormente i diritti dei lavoratori. Per quanto riguarda l’Europa, invece, il libro ci offre il saggio collettivo Stop Treating Us Like Dogs! Workers Organizing Resistance at Amazon in Poland che si sofferma sull’arrivo di Amazon in Polonia. L’impresa di Bezos ha una rete di oltre 400 magazzini di distribuzione, smistamento e consegna sparsi tra Americhe, Europa e Asia e una forza lavoro che nel 2017 superava i 340.000 dipendenti. Non stupisce che l’azienda abbia consolidato la sua presenza anche in Polonia, dove ha iniziato a stabilire operazioni logistiche a partire dal 2014, con i primi magazzini aperti nei pressi di Poznań e Wrocław. Questi centri logistici non servono il mercato polacco, bensì quello tedesco, sfruttando i vantaggi competitivi offerti dall’Europa orientale: manodopera a basso costo, normative lavorative favorevoli alle imprese, terreni a prezzi accessibili e generosi incentivi fiscali offerti dal governo. Inoltre, la posizione geografica della Polonia, con la sua crescente rete autostradale e aeroportuale, la rende un hub ideale per raggiungere rapidamente i ricchi mercati consumer dell’Europa occidentale. Non a caso Amazon ha esteso la sua rete logistica anche in Repubblica Ceca e Slovacchia, confermando una strategia regionale ben precisa. All’interno di questi magazzini Amazon applica una strategia di doppio impiego, combinando lavoratori assunti direttamente con un elevato numero di dipendenti temporanei reclutati attraverso agenzie interinali come Adecco e Randstad. A maggio 2017, su un totale di circa 10.800 dipendenti nei magazzini polacchi, ben 4.000 erano lavoratori temporanei, una cifra che poteva lievitare ulteriormente durante i picchi stagionali, come nel periodo pre-natalizio del 2016, quando l’azienda annunciò l’assunzione di ulteriori 16.000 lavoratori interinali. Questa flessibilità permette ad Amazon di adattarsi alle fluttuazioni della domanda e di mantenere un controllo ferreo sui costi del lavoro, potendo licenziare facilmente il personale non più necessario. Le condizioni di lavoro, però, sono tutt’altro che invidiabili. Nelle città dove sorgono magazzini, come Poznań e Wrocław, il tasso di disoccupazione è basso e per molti lavoratori urbani, i quali hanno alternative occupazionali più vantaggiose in termini di salari e prospettive di carriera, Amazon non rappresenta una scelta attraente. Di conseguenza l’azienda si affida in larga parte a una manodopera proveniente dalle zone rurali circostanti, spesso situate entro un raggio di 120 chilometri dai magazzini, organizzando persino servizi di trasporto su bus per facilitarne gli spostamenti. Per questi lavoratori, però, ciò significa giornate estenuanti: tra viaggio di andata e ritorno e turni di lavoro, molti trascorrono fino a 12-17 ore lontani da casa. All’interno dei magazzini il lavoro è suddiviso in due macroaree: l’inbound, che comprende lo scarico dei camion, la registrazione della merce e lo stoccaggio, e l’outbound, più ampio che include il prelievo dagli scaffali, l’imballaggio, il controllo qualità e la spedizione. Sebbene alcune attività siano supportate da nastri trasportatori e, in misura minore, da robot, la maggior parte del lavoro rimane manuale e fisicamente impegnativo. I dipendenti passano intere giornate in piedi, camminando per chilometri, sollevando pesi o spingendo carrelli carichi di merce, spesso sotto la pressione di ritmi serrati. I turni, della durata di 10 ore ciascuno, si alternano mensilmente tra giorno (dalle 6:30 alle 17:00) e notte (dalle 18:00 alle 4:30), con una pausa non retribuita di 30 minuti. Questo sistema di rotazione, oltre a rendere difficile conciliare vita privata e lavoro, sconvolge i ritmi circadiani, contribuendo a problemi di salute a lungo termine. A peggiorare le cose c’è il sistema di monitoraggio digitale delle prestazioni che registra ogni movimento dei dipendenti attraverso scanner e terminali collegati alla rete globale di Amazon. Se un lavoratore non sta svolgendo un’attività registrabile dal sistema, come la scansione di un prodotto, viene automaticamente segnato come “in pausa”, anche se in realtà sta svolgendo compiti accessori. Questi periodi vengono sommati e, se superano una certa soglia, possono portare a richiami verbali, avvertimenti scritti e, in casi estremi, al licenziamento. La pressione per raggiungere gli obiettivi di produttività è costante ma diventa ancora più intensa durante le cosiddette “giornate record”, in cui i magazzini gareggiano per processare il maggior numero di ordini possibile in 24 ore. In queste occasioni gli straordinari diventano obbligatori, le pause vengono cancellate e i dipendenti sono spinti al limite delle loro forze. Se l’obiettivo viene raggiunto, i manager ricevono bonus, mentre ai lavoratori non resta che una maglietta commemorativa. Uno dei reparti più duri è l’AFE (Amazon Fulfillment Engine), una sezione altamente automatizzata del reparto imballaggio dove la merce viene scansionata, smistata e posizionata su scaffali illuminati da luci che indicano la priorità di lavorazione. Se le luci rosse, segnale di ritardo, si accumulano, i lavoratori iniziano a correre per recuperare, creando un clima di tensione e competizione, esacerbato dagli ordini urlati dei supervisori. Il risultato è un ambiente di lavoro stressante, rumoroso e logorante, che lascia poco spazio al recupero fisico tra un turno e l’altro. Nel tardo 2014, pochi mesi dopo l’apertura del magazzino Amazon a Poznań, in Polonia, un gruppo di lavoratori fondò una sezione locale del sindacato di base Inicjatywa Pracownicza (IP), un’organizzazione senza funzionari stipendiati, basata sull’auto-organizzazione e l’auto-mobilitazione dei lavoratori. All’inizio vi aderivano sia operai comuni che capisquadra ma col tempo il sindacato si concentrò soprattutto sui lavoratori di base, arrivando a contare circa 400 iscritti. Le loro rivendicazioni includevano salari più alti, bonus migliori, pause più lunghe, turni fissi e altri benefit. Per far pressione, distribuirono volantini e organizzarono petizioni, raccogliendo centinaia di firme. Nonostante la legge polacca obbligasse Amazon a riconoscere il sindacato, la direzione cercò di limitarne le attività, ignorando le richieste e ostacolando l’organizzazione interna.
In quel periodo i lavoratori polacchi iniziarono a stabilire contatti con i colleghi tedeschi di Amazon, organizzando incontri transfrontalieri per confrontarsi su salari, condizioni di lavoro e strategie di lotta. Fu così che vennero a conoscenza delle iniziative di Ver.di, il principale sindacato tedesco del settore, che dal 2013 organizzava scioperi brevi e localizzati per costringere Amazon a firmare un contratto collettivo. Questi scambi rafforzarono la solidarietà tra i lavoratori dei due paesi e accrebbero la consapevolezza delle lotte comuni.
La tensione salì nel giugno 2015, quando, in previsione di uno sciopero in Germania, Amazon Poznań impose un’ora di straordinario, utilizzando di fatto i lavoratori polacchi per aggirare l’astensione dal lavoro oltre confine. In risposta, durante il turno di notte tra il 24 e il 25 giugno, un gruppo di operai organizzò un slowdown (rallentamento deliberato), sfruttando un collo di bottiglia nel flusso degli ordini per bloccare parzialmente le operazioni. Questo gesto dimostrò non solo solidarietà verso i colleghi tedeschi ma anche una precisa conoscenza delle dinamiche logistiche del magazzino. La direzione reagì con interrogatori, sospensioni e licenziamenti (alcuni casi finirono poi in tribunale) ma poco dopo aumentò i salari di 1 złoty all’ora (circa l’8%), pur negando ogni legame con le proteste. Un altro rallentamento spontaneo avvenne nel dicembre 2016, quando alcuni lavoratori del reparto AFE ridussero intenzionalmente la velocità di imballaggio, invocando norme di sicurezza.
Dopo queste azioni l’IP avviò un vero e proprio processo di contrattazione collettiva, chiedendo un aumento del 20-25% (portando la paga oraria a 16 złoty) e un nuovo calcolo delle pause, poiché i lavoratori perdevano molto tempo a raggiungere le mense (il magazzino di Poznań è grande quanto 13 campi da calcio). Falliti i negoziati e la mediazione obbligatoria, il sindacato indisse un voto per lo sciopero: il 97% dei partecipanti votò a favore, ma la legge polacca, una delle più restrittive d’Europa, richiedeva un’affluenza del 50% di tutto il personale. Alla fine, solo il 30% dei lavoratori votò, ma oltre 2.000 (tra dipendenti diretti e interinali) sostennero lo sciopero, segnale chiaro del malcontento diffuso. Nonostante la sconfitta, Amazon aumentò nuovamente i salari (portandoli a 15 złoty l’ora, più 1 in più per i senior) e introdusse bonus più alti, probabilmente per calmare le proteste e fronteggiare la carenza di manodopera. Nell’aprile-maggio 2017, l’IP condusse un sondaggio tra i lavoratori per ridefinire le priorità. Il 70% chiedeva un aumento del 30% del salario base mentre oltre il 40% voleva stipendi pari a quelli di Francia e Germania. Altri punti includevano turni fissi a lungo termine (anziché mensili), fine ai trasferimenti arbitrari tra reparti e pause più effettive. Quanto alle forme di lotta, oltre il 40% preferiva petizioni e proteste pubbliche, mentre altri chiedevano una maggiore visibilità dei delegati sindacali. Queste richieste si scontravano con la strategia di Amazon di isolare e reprimere ogni forma di dissenso, trasferendo gli attivisti verso una specie di reparto confino o licenziando i lavoratori più anziani e sostituendoli con interinali, più vulnerabili e meno inclini a organizzarsi. La resistenza quotidiana, però, non si fermò: piccole disobbedienze, pause prolungate, ritmi rallentati, rifiuto di compiti, simulazione di incidenti, continuarono a minare il controllo aziendale. Ma le sfide per il sindacato rimasero enormi. L’alto turnover (dovuto sia ai contratti precari sia alla fuga di lavoratori esausti), la repressione degli attivisti e la difficoltà di coinvolgere gli interinali indebolivano l’organizzazione. L’IP cercò di espandersi ad altri settori logistici della regione ma con risultati limitati. L’esperienza di Amazon in Polonia mostrò sia le potenzialità della lotta sindacale, con azioni informali come gli slowdown e la solidarietà transnazionale, sia i limiti imposti da leggi restrittive e strategie aziendali aggressive. La battaglia non riguardava solo i salari ma la dignità, l’autonomia e il diritto di resistere a un sistema che tratta i lavoratori come ingranaggi intercambiabili. Non sorprende, quindi, che il tasso di assenza per malattia tra i dipendenti permanenti sia elevato. Per molti lavoratori il congedo medico è l’unico modo per riprendersi dallo stress e dagli infortuni legati al lavoro ma Amazon vede queste assenze come un costo da contenere. Nel 2017, l’azienda ha persino assunto un’agenzia esterna per verificare che i dipendenti in malattia fossero effettivamente a casa, un’ulteriore misura repressiva in un ambiente già opprimente. Il saggio analizza anche le divergenze tra IP e Solidarność, il principale sindacato polacco, storicamente legato alla destra conservatrice e al governo del partito PiS. Mentre IP cerca di costruire una resistenza operaia attraverso azioni dirette e mobilitazioni, Solidarność adotta una strategia collaborativa con Amazon, presentandosi come un interlocutore “ragionevole” e attaccando IP per il suo presunto radicalismo. Solidarność ha una base più ampia in Polonia, tuttavia la sua presenza nei magazzini Amazon è debole, soprattutto rispetto a IP che invece è riuscita a organizzare un numero maggiore di lavoratori, specialmente a Poznań. Solidarność, inoltre, sembra più interessata a indebolire IP che a contrastare Amazon, minando così la coesione operaia. Questo atteggiamento è aggravato dal fatto che questa organizzazione, oltre alle questioni sindacali, si concentra su temi conservatori e religiosi, allineandosi alle politiche del governo PiS. Nonostante ciò, alcuni sindacati europei di sinistra continuano a collaborare con Solidarność, incluso il coinvolgimento in iniziative transnazionali come quelle promosse da UNI Global Union. Per contrastare l’inefficacia del sindacalismo burocratico, i lavoratori di Amazon in Polonia, insieme a colleghi tedeschi e francesi, hanno avviato una serie di incontri transfrontalieri autogestiti volti a favorire la condivisione di informazioni e strategie di resistenza. Finora si sono tenuti cinque incontri (in Polonia, Germania e Francia), con la partecipazione di alcune decine di lavoratori. Questi incontri, organizzati al di fuori delle strutture sindacali tradizionali, hanno permesso di scambiare dati su salari, bonus, contratti e vertenze legali, informazioni poi utilizzate in volantinaggi e discussioni nei luoghi di lavoro.
Concludiamo questa panoramica sulle lotte nel settore della logistica riprendendo alcuni lavori di Sergio Fontegher Bologna contenuti nel libro Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019 per poter analizzare la situazione in Italia. Partiamo dal saggio Per un breve panorama della logistica dagli anni 70 ad oggi che ricostruisce la storia della logistica dagli anni ‘70 a oggi. Si tratta di un percorso di trasformazioni radicali che hanno ridefinito il ruolo e l’impatto di questa funzione all’interno delle economie globali. Secondo la visione dell’Associazione Tedesca di Logistica (BVL) l’evoluzione del settore può essere suddivisa in diverse fasi, ciascuna caratterizzata da innovazioni tecnologiche, cambiamenti organizzativi e mutamenti nelle dinamiche di mercato. Negli anni ‘70 la logistica era ancora una disciplina relativamente semplice, concentrata sull’ottimizzazione delle operazioni di materials handling e sulla gestione del rifornimento delle linee di produzione. In un contesto di alta inflazione il problema principale era quello delle scorte: le aziende perdevano ingenti somme di denaro a causa di giacenze eccessive e la logistica si affermò come strumento per ridurle, sviluppando teorie come lo stock zero e il just-in-time. Quest’ultimo rimase a lungo una pratica limitata a segmenti specifici della produzione, senza diventare un modello dominante. Con gli anni ‘80 la logistica iniziò a cambiare volto, assumendo un ruolo più strategico. Oltre all’ottimizzazione interna, il servizio al cliente divenne la parola d’ordine. Si passò da una logica push (in cui l’azienda produceva in base alle proprie capacità) a una pull (in cui era la domanda del mercato a guidare la produzione e la distribuzione). La logistica divenne così una funzione trasversale che coinvolgeva più reparti aziendali e si concentrava sull’efficienza nella gestione degli ordini, con il cliente posto al centro del processo. Furono, però, gli anni ‘90 a segnare la vera rivoluzione. Con l’avvento di Internet e la diffusione delle tecnologie digitali la logistica si trasformò in un sistema integrato, capace di creare valore oltre che ridurre costi. In questo periodo emersero anche i grandi operatori globali del trasporto espresso, come FedEx, UPS, DHL, TNT, che cambiarono per sempre le regole del gioco. Abbandonando il tradizionale sistema tariffario basato su peso e distanza, queste aziende introdussero un modello basato sui tempi di consegna (12, 24, 48 ore), trasformando il tempo stesso in un prodotto vendibile. La loro forza risiedeva nella rapidità e nella potenza dei sistemi informatici, nell’automazione avanzata e nella stabilità finanziaria che permisero alle grandi aziende manifatturiere di esternalizzare con fiducia parti sempre più ampie della supply chain. In Europa Germania e Olanda seppero cogliere l’importanza strategica di questi cambiamenti con operazioni di acquisizione fondamentali: le Poste Olandesi rilevarono TNT mentre Deutsche Post acquisì DHL, creando colossi in grado di dominare il mercato globale. Contemporaneamente i tradizionali spedizionieri, come Kühne+Nagel, Panalpina e DSV, si trasformarono in operatori logistici a tutto tondo, segnando l’inizio dell’era moderna della logistica, caratterizzata da outsourcing, reti globali e integrazione delle catene del valore. Mentre in Germania il fulcro della logistica rimaneva saldamente ancorato al settore manifatturiero, in Italia il panorama era profondamente diverso. Qui la logistica assunse fin da subito un carattere prevalentemente distributivo, legato alle esigenze della piccola e media impresa che tradizionalmente vendeva franco fabbrica, lasciando ad altri la gestione del trasporto e dello stoccaggio. La frammentazione del settore è ancora oggi impressionante: secondo i dati dell’Osservatorio sulla Contract Logistics “Gino Marchet” del Politecnico di Milano, in Italia, nel 2018, operavano 13.519 autotrasportatori societari e ben 73.017 non societari, a cui si aggiungono 2.372 spedizionieri, 1.058 operatori logistici, 4.426 gestori di magazzino, 631 corrieri e appena 84 gestori di interporti. Una galassia di microimprese con poche eccezioni rappresentate dai grandi corrieri che dominano il mercato in termini di fatturato. Questa frammentazione riflette una debolezza strutturale resa ancora più evidente dall’avvento dell’e-commerce che ha stravolto gli equilibri preesistenti. Piattaforme come Amazon hanno imposto nuovi standard di velocità e flessibilità, destabilizzando le city logistics e rendendo obsolete molte delle soluzioni di razionalizzazione del traffico urbano sviluppate negli anni precedenti. L’Interporto di Padova, ad esempio, aveva cercato di ottimizzare le consegne in città affidandole a un unico operatore ma l’esplosione delle spedizioni e-commerce ha reso il sistema ingestibile, con una moltitudine di furgoni che circolano senza coordinamento. A peggiorare le cose ci ha pensato la deregulation nel settore dei trasporti, iniziata con l’ingresso dei Paesi dell’Est nell’UE e proseguita con la concorrenza al ribasso di autisti rumeni, polacchi e bulgari, che si è estesa al trasporto urbano e a corto raggio. Il risultato è un mercato del lavoro sempre più precario, con casi estremi di sfruttamento che in alcuni casi hanno spinto la magistratura a ipotizzare il reato di riduzione in schiavitù. Dall’altra parte dello spettro, però, le aziende più avanzate stanno implementando sistemi di controllo iper-tecnologici, come i camion Mercedes dotati di 400 sensori in grado di monitorare ogni componente e persino lo stile di guida degli autisti. Questo livello di sorveglianza, teoricamente vietato dallo Statuto dei Lavoratori, rappresenta una delle sfide più delicate del prossimo futuro, in un’epoca in cui l’Internet of Things e la cloud connectivity stanno ridefinendo i confini tra efficienza e privacy.
Il saggio Relazioni industriali e servizi di logistica: un’analisi preliminare scritto da Bologna con Sergio Curi approfondisce alcuni di questi aspetti, soprattutto legati alla conflittualità operaia nella logistica e alla forte illegalità presente nel settore. La logistica in Italia sta vivendo un periodo di forte attenzione a causa delle tensioni sociali e sindacali che hanno investito i magazzini e i centri di distribuzione, luoghi cruciali per lo stoccaggio, la manipolazione e lo smistamento delle merci. Questo settore, spesso considerato uno dei pilastri della circolazione globale delle merci, rimane però ancora poco definito nei suoi contorni, sia dal punto di vista economico che giuridico. Nonostante negli ultimi anni si siano moltiplicate le iniziative di studio e dibattito sulle problematiche legate alla conflittualità nel settore, l’approfondimento risulta ancora insufficiente rispetto all’enorme rilevanza che la logistica riveste per il sistema produttivo italiano, soprattutto se confrontato con l’interesse suscitato da fenomeni più circoscritti, come quello del lavoro dei rider. Per comprendere appieno il fenomeno, dicono Bologna e Curi, è necessario partire da una definizione chiara di logistica. Secondo l’Ailog (Associazione Italiana di Logistica), essa rappresenta l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano i flussi di materiali e delle relative informazioni, a partire dai fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti, includendo anche i servizi post-vendita. In altre parole, la logistica ha l’obiettivo di ottimizzare tempi e costi nella movimentazione fisica delle merci, coordinando al contempo i flussi informativi e finanziari tra i diversi attori coinvolti nella catena di approvvigionamento.
L’evoluzione tecnologica, in particolare nei trasporti (con l’introduzione di innovazioni come il container) e nei sistemi di gestione dati, ha radicalmente trasformato il settore. L’avvento dell’informatica e di Internet ha reso la produzione più flessibile e ha accresciuto l’importanza strategica della distribuzione, tanto che, con l’esplosione dell’e-commerce, la logistica ha assunto un peso sproporzionato rispetto al suo effettivo ruolo nella catena del valore. Questo ha portato a una progressiva frammentazione dei processi produttivi e distributivi, accompagnata da un massiccio ricorso all’esternalizzazione (outsourcing) e da un fenomeno crescente di disintermediazione che elimina gli intermediari tradizionali, compresi grandi attori della distribuzione come le catene di supermercati. Negli Stati Uniti, ad esempio, si parla ormai di Apocalypse retail per descrivere la crisi dei grandi retailer di fronte all’avanzata del commercio online. Tuttavia non esiste un unico modello di logistica, ma tanti quanti sono i settori merceologici. La logistica dell’automotive, ad esempio, è completamente diversa da quella del farmaco o della cosiddetta “catena del freddo”, necessaria per i prodotti surgelati. Allo stesso modo, la gestione della supply chain in un’azienda che produce macchinari industriali di grandi dimensioni (come forni per ceramiche lunghi oltre 150 metri) sarà molto diversa da quella di un’azienda di piastrelle o di un cantiere navale. Ogni filiera ha le sue specificità organizzative e strutture di costo che influenzano direttamente le scelte di esternalizzazione: quali fasi delegare, a chi affidarle e con quale grado di controllo. L’esternalizzazione è stata una risposta fondamentale alle trasformazioni del mercato, spingendo le imprese manifatturiere verso strategie di bottom-up marketing, in cui la produzione viene attivata solo dopo l’ordine del cliente (logica del just-in-time), e verso modelli di lean production (produzione snella), finalizzati a ridurre al minimo gli sprechi, sul modello del sistema Toyota. Oggi questi concetti trovano una sintesi in approcci come il World Class Manufacturing (WCM). Parallelamente, le aziende hanno spostato l’attenzione dal prodotto al servizio, con un’offerta sempre più personalizzata che include assistenza post-vendita, formazione e modifiche tecniche su misura. La logistica, allora, rappresenta uno dei pilastri della connettività moderna, affiancando alle reti digitali una rete fisica di movimentazione delle merci (il cosiddetto “physical Internet”). L’Italia ha seguito un percorso peculiare, influenzato dallo sviluppo dei distretti industriali a partire dagli anni ’70. Questo modello, basato su reti di piccole e medie imprese (PMI) operanti in contesti territoriali omogenei, ha favorito il decentramento produttivo e l’outsourcing, spesso trasformando ex operai in piccoli imprenditori fornitori. Il loro mercato rappresenta un comparto dinamico e in crescita, nonostante abbia subito negli ultimi anni un significativo processo di razionalizzazione che ha portato a una riduzione del numero di imprese attive. Secondo i dati del Politecnico di Milano, il settore coinvolge, nel momento di scrittura del saggio, complessivamente circa 97.000 aziende, di cui 22.000 sono imprese strutturate e le restanti 75.000 sono piccole realtà dell’autotrasporto, i cosiddetti “padroncini”, spesso gestite da singoli proprietari con mezzi propri. Tra le imprese più organizzate, il 60% è costituito da società di autotrasporto con forma giuridica di società di capitali mentre il restante 40% è composto da gestori di magazzini in conto terzi e spedizionieri specializzati nell’organizzazione di trasporti internazionali. Tra il 2009 e il 2016 il settore ha vissuto un’importante contrazione, con una diminuzione del 15,3% delle aziende di autotrasporto, passate da 104.436 a 88.407 unità. Questo calo ha colpito soprattutto i “padroncini”, il cui numero è sceso da quasi 90.000 a 74.800 (-16,8%), principalmente a causa della concorrenza aggressiva da parte delle aziende dell’Europa orientale e della difficoltà nel ricambio generazionale, con molti piccoli imprenditori che hanno chiuso l’attività senza successori. Nonostante questa riduzione il settore ha mostrato una crescita economica significativa: il fatturato complessivo è passato da 71,2 miliardi di euro nel 2009 a 80,7 miliardi nel 2017, con un incremento medio annuo dell’1,5%, superiore alla crescita del PIL italiano nello stesso periodo (che si è attestata allo 0,2%). Anche il valore aggiunto, depurato dalle duplicazioni legate al subappalto e all’affidamento a terzi dei servizi, ha registrato un aumento sostanziale, passando da 38,7 a 46,4 miliardi di euro, con una crescita media annua del 2,3%. Questo dato indica non solo un’espansione del settore ma anche un miglioramento della sua efficienza produttiva. Le attività di movimentazione in magazzino e il trasporto su gomma rappresentano da sole circa il 50% dei costi logistici totali mentre la forte pressione esercitata dalle aziende committenti sui fornitori di servizi si ripercuote spesso sui lavoratori, con condizioni salariali e contrattuali sempre più precarie. Dal punto di vista occupazionale, il settore della logistica impiega una forza lavoro ampia ma caratterizzata da bassi livelli retributivi e qualificazione. Secondo un’indagine della Fondazione Brodolini, condotta su dati INPS, nel 2016 gli occupati nel settore logistico in senso ampio erano 884.677, di cui il 70,7% classificato come “operai”. Nel solo comparto del magazzinaggio su 337.972 lavoratori il 64,3% rientrava nella stessa categoria. I salari medi giornalieri risultavano particolarmente bassi: 80,7 euro per la logistica generale e 75,3 euro per il magazzinaggio, con redditi che negli ultimi anni sono rimasti sostanzialmente stagnanti. Si tratta dunque di un settore ad alta intensità di manodopera ma con una forte incidenza di lavoro poco qualificato e scarsamente retribuito, nonostante generi complessivamente circa 21 miliardi di euro all’anno in salari. È importante sottolineare, tuttavia, che i dati INPS non includono le forme di lavoro non subordinato (come collaborazioni coordinate, prestazioni occasionali o lavoro autonomo) né il lavoro somministrato o irregolare, il che suggerisce che l’occupazione reale nel settore sia più ampia di quanto emerge dalle statistiche ufficiali. Inoltre fenomeni come il mancato pagamento degli straordinari o l’uso improprio delle trasferte contribuiscono a una sottostima delle ore effettivamente lavorate, aggravando le condizioni dei dipendenti. Oltre alle imprese tradizionali di trasporto e magazzinaggio l’ecosistema della logistica italiana comprende una vasta gamma di operatori, tra cui gestori di terminal ferroviari, interporti, porti e aeroporti, compagnie marittime, agenti di handling e operatori del trasporto combinato strada-rotaia. Queste realtà, pur essendo parte integrante della filiera, sono regolate da contratti collettivi specifici, come il CCNL dei lavoratori portuali, e contribuiscono a rendere il settore ancora più articolato e complesso. La continua pressione al ribasso sui costi, unita alla frammentazione delle imprese e alla debolezza contrattuale dei lavoratori, rischia però di compromettere ulteriormente la qualità del servizio e le condizioni di lavoro, in un comparto che, nonostante le criticità, rappresenta un pilastro fondamentale dell’economia italiana.
La “via italiana alla logistica” rappresenta un caso peculiare nel panorama europeo, caratterizzato da un’evoluzione complessa e da paradossi ancora irrisolti. Le radici di questo modello affondano negli anni ’70 e ’80, quando il settore dei trasporti e della logistica rifletteva la frammentazione tipica del tessuto manifatturiero italiano. Questa struttura disarticolata, anziché essere un limite, favoriva l’esternalizzazione dei servizi, con una domanda di trasporto e spedizione vivace quantitativamente ma sempre più dominata da operatori stranieri nel segmento internazionale. Le imprese italiane, spesso di piccole dimensioni, operavano in un contesto dove gli acquirenti dei prodotti nazionali venduti “franco fabbrica” si rivolgevano direttamente a vettori esteri più strutturati. A un certo punto queste multinazionali straniere, più solide e capitalizzate delle controparti italiane, decisero di entrare direttamente nel mercato italiano acquisendo le migliori società di spedizione locali, in particolare quelle dotate di asset tangibili come magazzini propri e flotte di camion. Un caso emblematico è quello di Saima Avandero, una delle maggiori imprese italiane del settore, rilevata nel 1999 dal gruppo belga ABX e poi assorbita nel 2016 dal colosso danese DSV. Questo processo di concentrazione non si è mai arrestato e ha conosciuto un’accelerazione impressionante negli ultimi anni: secondo uno studio di PwC riportato in LOG Mail BVL del 18 gennaio 2019, nel 2017 si sono registrate 283 operazioni di fusione e acquisizione nel settore per un valore complessivo di 134,2 miliardi di dollari mentre nel 2018 le operazioni sono state 219 per un valore di 115,3 miliardi. Parallelamente l’offerta di servizi logistici subì un netto miglioramento, tanto che anche grandi gruppi industriali italiani che tradizionalmente gestivano in proprio la supply chain, come il Gruppo Benetton già dagli anni ’80, iniziarono ad affidarsi a operatori globali. Una svolta ulteriore si ebbe con l’arrivo in Italia dei cosiddetti “specialisti dell’espresso” che rivoluzionarono il settore introducendo modelli di business innovativi, come la tariffazione basata sui tempi di consegna anziché sul tradizionale rapporto peso-distanza. Queste multinazionali, specializzate nel trasporto di piccoli pacchi (parcels) e nei servizi postali, disponevano di flotte aeree cargo dedicate, a differenza degli spedizionieri tradizionali che caricavano la merce sugli aerei passeggeri di linea. Paesi come Olanda e Germania, all’avanguardia nella logistica, compresero subito che queste grandi compagnie rappresentavano una sfida alla sovranità logistica nazionale e, anziché ostacolarle, le integrarono nel proprio sistema. In Italia, invece, l’ingresso di questi operatori ha contribuito a creare un mercato dominato da multinazionali tecnologicamente avanzate, dotate di sistemi informatici sofisticati e parchi veicolari imponenti ma senza che si sviluppasse un corrispondente innalzamento degli standard occupazionali. Un ulteriore tassello si aggiunse alle soglie del nuovo millennio, con l’arrivo delle grandi società specializzate nell’immobiliare logistico, che individuavano aree strategiche per costruire magazzini all’avanguardia, ottimizzati per l’accesso alle infrastrutture stradali e ferroviarie. Nacquero così poli logistici ad alta densità, come quello di Piacenza, affiancati agli interporti pubblici tradizionali, come quello di Bologna, dove operano oltre cento aziende. Eppure, nonostante un mercato ormai maturo e la presenza di operatori globali, il modello italiano presenta un paradosso inspiegabile: la mancanza di un segmento “alto”, dove qualità degli impianti e competenza della forza lavoro si distacchino nettamente dalla logica del basso costo. Al contrario, una parte significativa del settore si è strutturata come un mercato a basso profilo, dove anche aziende internazionali adottano pratiche tipiche delle imprese marginali, basate su rapporti di lavoro precari e su un ricorso massiccio a cooperative di manodopera, spesso composte da immigrati extracomunitari facilmente controllabili e ricattabili. Le attività di magazzino, pur essendo tecnicamente semplici grazie all’uso di dispositivi come i lettori di codici a barre (le cosiddette “pistole”) e di carrelli sempre più automatizzati, sono gravate da ritmi frenetici, orari discontinui e condizioni ambientali spesso proibitive, specialmente nei magazzini frigoriferi. La flessibilità richiesta dal settore, con picchi di lavoro nei weekend o in prossimità delle festività, ma anche variazioni repentine nell’arco della stessa giornata, ha portato a pratiche al limite dello sfruttamento, come convocare i lavoratori davanti ai magazzini per poi farli entrare solo per poche ore, retribuendo esclusivamente il tempo effettivamente lavorato. Nonostante i progressi tecnologici e la disponibilità di soluzioni sempre più avanzate, molti operatori lamentano marginalità troppo esigue per investire in automazione, preferendo ricorrere a manodopera a basso costo. Inoltre l’automazione spinta non è sempre la scelta più efficiente in un’attività caratterizzata da una volatilità estrema, dove la capacità di adattarsi rapidamente alle fluttuazioni della domanda è spesso più importante dell’ottimizzazione dei costi. Il vero enigma, quindi, è capire perché in un contesto ormai globalizzato e tecnologicamente avanzato, il mercato logistico italiano non sia riuscito a sviluppare un modello più equilibrato, in cui efficienza e innovazione vadano di pari passo con condizioni di lavoro dignitose e prospettive di carriera per i lavoratori. La risposta potrebbe risiedere in una combinazione di fattori: la pressione competitiva, la corsa al ribasso sui prezzi e una regolamentazione del lavoro che, di fatto, ha favorito il proliferare di forme di impiego precarie e scarsamente sindacalizzate. Il risultato è un settore che, nonostante le sue potenzialità, fatica a emanciparsi da un modello basato sullo sfruttamento della manodopera più debole.
Tuttavia, In Italia, il settore logistico è stato attraversato negli ultimi anni da un’ondata di conflittualità che ha colpito in modo particolare alcune categorie di aziende, rivelando dinamiche complesse e spesso critiche nelle relazioni tra committenti, fornitori e forza lavoro. Tra gli attori più coinvolti spicca la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), un comparto che gestisce migliaia di articoli, molti dei quali deperibili, con ritmi di magazzino frenetici e picchi di lavoro legati a campagne promozionali. La GDO basa i suoi profitti più sulla gestione del cash flow che sul reddito operativo, il che la spinge a una costante ricerca di condizioni vantaggiose sui prezzi, esercitando una forte pressione sui fornitori. Questo modello, se da un lato garantisce efficienza, dall’altro alimenta tensioni lungo tutta la filiera, soprattutto quando i margini di guadagno si assottigliano e le condizioni lavorative diventano più precarie. Accanto alla GDO un altro segmento particolarmente esposto alla conflittualità è quello degli operatori specializzati nelle consegne espresso e nei servizi postali. Queste aziende, che devono necessariamente disporre di hub logistici nazionali dotati di sofisticati sistemi di automazione (come i sorter per la gestione dei pacchi), basano il loro core business sulla velocità di consegna, trovandosi però sempre più in competizione con i giganti dell’e-commerce. La loro operatività, che include anche spedizioni internazionali via container marittimi o aerei, dipende fortemente dall’efficienza del trasporto, un anello della catena logistica particolarmente soggetto a interruzioni e inefficienze. Questo contesto, unito alla necessità di mantenere standard elevati in termini di tempistiche, genera spesso frizioni con i lavoratori, soprattutto quando gli appalti vengono frammentati tra più intermediari, ciascuno dei quali riduce ulteriormente i margini economici disponibili per salari e condizioni dignitose. Un terzo attore chiave è rappresentato dagli specialisti della contract logistics, ovvero quelle aziende che gestiscono magazzini per conto di grandi clienti industriali o istituzionali, operando su filiere diversificate come quella editoriale o biomedicale. Queste realtà, spesso all’avanguardia nell’adozione di soluzioni innovative come i magazzini multicliente, devono bilanciare flessibilità ed efficienza, trovandosi a negoziare contratti di servizio che definiscono le modalità operative, i margini di guadagno e la ripartizione dei costi tra committenti e fornitori. Come evidenziato dall’Osservatorio sulla contract logistics del Politecnico di Milano, negli ultimi anni si è assistito a un miglioramento nei rapporti tra le parti, con un passaggio da semplici rapporti di fornitura a veri e propri accordi di partnership. Tuttavia molte aziende del settore segnalano che questa evoluzione positiva è parziale: i contratti, anche quelli di lunga durata, prevedono spesso clausole di rinegoziazione periodica che possono rivelarsi svantaggiose per i fornitori mentre la prassi dei contratti annuali con rinnovo a discrezione del committente mantiene un clima di incertezza e precarietà. A complicare ulteriormente il quadro c’è il ruolo delle cooperative di produzione e lavoro, un modello nato storicamente come alternativa solidaristica all’impresa capitalistica ma che, soprattutto nel settore logistico, ha vissuto una deriva verso forme di autosfruttamento. La legge 142/2001 e la successiva riforma del diritto societario (D.Lgs. 6/2003) hanno cercato di regolamentare il settore, distinguendo tra cooperative a mutualità prevalente e non prevalente ma molte cooperative di facchinaggio, per rimanere competitive, hanno fatto ricorso a deroghe contrattuali (come l’applicazione graduale di tredicesima, ferie e TFR) e, in alcuni casi, persino agli ammortizzatori sociali in stato di crisi. Questo ha creato una frattura tra cooperative più strutturate che investono in know-how e competenze specializzate, e realtà “spurie” che operano al limite della legalità, sfruttando contratti meno onerosi come quello del Multiservizi (originariamente pensato per le imprese di pulizia) per aggirare i costi più elevati previsti dal CCNL della logistica. Questa mancanza di uniformità contrattuale crea un mercato del lavoro a due velocità, dove le aziende più virtuose faticano a competere con quelle che tagliano i costi aggirando gli standard salariali. Il risultato è un sistema in cui, nonostante gli sforzi di alcune realtà per innovare e garantire condizioni migliori, la conflittualità resta alta, alimentata da pratiche di subappalto opache e da un’eccessiva pressione al ribasso sui prezzi che finisce per ricadere inevitabilmente sui lavoratori. Abbiamo già detto che negli ultimi anni il settore della logistica in Italia è stato teatro di un’inedita e intensa ondata di lotte sindacali che hanno assunto caratteristiche peculiari rispetto ai tradizionali conflitti industriali degli ultimi decenni. Si tratta della prima volta, dalla fine degli anni ’70 e ’80, in cui un’intera categoria lavorativa, quella dei facchini e degli addetti alla movimentazione delle merci, ha preso l’iniziativa di contrapporsi al sistema produttivo con rivendicazioni che vanno oltre la mera difesa del posto di lavoro (come le lotte per evitare chiusure di fabbriche in crisi) o la lotta di tipo corporativa (legate a categorie già forti che cercano di preservare i propri vantaggi). Questi lavoratori non chiedono semplicemente di lavorare ma di farlo in condizioni dignitose, rifiutando un sistema basato sullo sfruttamento e sull’illegalità diffusa. Le tariffe orarie nel settore si attestano tra i 16,50 e i 17 euro però molte cooperative, soprattutto quelle spurie, cioè quelle create con il solo scopo di aggirare le normative sul lavoro, applicano retribuzioni più basse, intorno ai 15 euro l’ora per i facchini generici, negando al contempo diritti fondamentali come ferie, tredicesima, Tfr e contributi previdenziali. Il sistema della logistica, in particolare nei grandi hub come l’Interporto di Bologna, si basa su una fitta rete di appalti e subappalti gestiti da cooperative spesso fittizie che operano al ribasso per vincere le gare d’appalto. Queste realtà, in molti casi, utilizzano figure simili a quelle del caporale nell’agricoltura che reclutano manodopera prevalentemente extracomunitaria, la organizzano in strutture formalmente legali ma di fatto illegittime, e sfruttano i lavoratori attraverso buste paga falsificate, mancati versamenti contributivi e licenziamenti arbitrari ad ogni cambio d’appalto. I lavoratori, spesso costretti a pagare quote esorbitanti (fino a 5.000-6.000 euro) pur di essere assunti, si trovano in una condizione di precarietà estrema, con salari netti inferiori ai mille euro al mese e nessuna garanzia di continuità lavorativa. Dopo la crisi del 2008 il fenomeno ha subito un’ulteriore recrudescenza, estendendosi anche a grandi cooperative un tempo considerate più trasparenti. Per anni questa situazione è rimasta nell’ombra, fino a quando l’intervento dei sindacati di base, come il SI Cobas in Emilia-Romagna e l’AdL Cobas nel Veneto, non ha portato alla luce lo sfruttamento sistematico di migliaia di lavoratori. Grazie alla loro azione, spesso sostenuta da militanti dei centri sociali, i facchini hanno preso coscienza del loro potere contrattuale: essendo figure chiave nella catena logistica, bastano poche ore di sciopero per bloccare interi magazzini e generare danni economici rilevanti alle aziende.
Le prime rivendicazioni sono state semplici: applicazione dei contratti nazionali, pagamento delle ore lavorate, riconoscimento di ferie e tredicesima. Ma con il tempo le richieste si sono ampliate, includendo ticket meal, passaggi automatici di categoria, sicurezza sul lavoro e riconoscimento dei delegati sindacali. Le aziende, inizialmente ostili e pronte a chiamare le forze dell’ordine per reprimere i picchetti, hanno dovuto cedere di fronte alla determinazione dei lavoratori, soprattutto quando i sindacati di base hanno dimostrato di rappresentare la maggioranza della forza lavoro. Parallelamente lo Stato ha cominciato a intervenire con indagini che hanno portato alla luce un sistema di illegalità diffusa, con frodi fiscali per milioni di euro, bancarotte fraudolente e infiltrazioni mafiose nel settore dei trasporti. Le inchieste hanno rivelato che, in molti casi, solo attraverso pratiche illecite alcune aziende riuscivano a sopravvivere in un mercato sempre più competitivo, mentre altre operavano in regime di vera e propria criminalità organizzata. Un esempio di tutto ciò viene offerto da un articolo di Mauro Sarrecchia dal titolo Logistica: scandali, sequestri e contratto collettivo nazionale uscito sul sito Mentinfuga. Dal 2021 a oggi, dice Sarrecchia, il settore della logistica italiana è stato scosso da una serie di inchieste giudiziarie condotte dalla Procura di Milano, in particolare dal pool guidato dal Pubblico Ministero Paolo Storari, affiancato dal nucleo PEF della Guardia di Finanza milanese. Queste indagini hanno portato alla luce un sistema strutturato di irregolarità, basato sullo sfruttamento del lavoro, l’evasione fiscale e il ricorso a una fitta rete di cooperative spurie, spesso costituite solo formalmente per aggirare gli obblighi contributivi e fiscali. La svolta investigativa è stata cruciale: invece di limitarsi a inseguire le singole cooperative o i prestanome, quasi sempre inafferrabili, la Procura ha deciso di risalire direttamente alle grandi aziende committenti, quelle che traggono il vero vantaggio economico da questo sistema distorto. Le indagini hanno dimostrato che, dietro l’apparente normalità del settore, si nascondeva un meccanismo ben oliato di elusione delle regole. Le cooperative, spesso create per durare meno di due anni, il tempo necessario per incassare i profitti e svanire prima dei controlli, assumevano lavoratori, soprattutto extracomunitari, con contratti precari, salari sotto minimo e condizioni di lavoro spesso ai limiti della legalità. Questi lavoratori, privi di tutele e soggetti a ricatti, venivano gestiti attraverso un sistema di controllo che in alcuni casi prevedeva persino figure assimilabili ai “kapò”, connazionali incaricati di imporre disciplina con metodi coercitivi. Le grandi aziende della logistica e della grande distribuzione, da Amazon a DHL, da Esselunga a UPS, approfittavano di questa manodopera a basso costo mantenendo le distanze legali grazie a una catena di subappalti e consorzi fittizi, spesso ridotti a poco più di “due uomini e un telefono” ma capaci di emettere fatture per milioni di euro. L’approccio della Procura di Milano ha permesso di colpire direttamente i vertici di questo sistema, recuperando oltre 600 milioni di euro evasi al fisco e ottenendo la regolarizzazione di circa 15.000 lavoratori, oltre a un adeguamento salariale per altri 70.000. Tra i sequestri più eclatanti ci sono i 20 milioni a DHL nel 2021, i 44 milioni a BRT e i 37 a Geodis nel 2022, i 48 milioni a Esselunga nel 2023, fino agli 83,9 milioni confiscati a GXO Logistics nel luglio 2024. L’ultimo maxi-sequestro, a febbraio 2025, ha colpito ancora il gruppo DHL con un prelievo di 46 milioni. Nonostante le pressioni investigative il problema di fondo rimane la mancanza di un’effettiva responsabilizzazione delle grandi committenti che continuano a negare ogni coinvolgimento, rifiutandosi persino di partecipare ai tavoli di crisi istituiti per risolvere le vertenze sui licenziamenti. Questo atteggiamento ha alimentato un sindacalismo sempre più radicale, spesso estraneo ai tradizionali circuiti negoziali, che risponde con blocchi e proteste violente, ottenendo al massimo risarcimenti una tantum senza intaccare il sistema.
Nel tentativo di porre un argine a queste pratiche il rinnovo del CCNL per la logistica, siglato a dicembre 2024, ha introdotto nuovi requisiti per gli appaltisti, tra cui certificazioni antimafia, verifiche contributive e garanzie di stabilità occupazionale in caso di cambio di gestione. Il CCNL copre solo una parte dei lavoratori, 531.762 su oltre 1,4 milioni di addetti, e la frammentazione contrattuale resta un problema enorme, con decine di accordi diversi che permettono alle aziende di scegliere il contratto più conveniente, spesso a discapito dei diritti dei lavoratori. La vera sfida, dunque, non è solo repressiva ma culturale: finché le grandi aziende potranno nascondersi dietro una filiera opaca, scaricando le responsabilità su cooperative fantasma, il sistema continuerà a riprodursi. Le inchieste di Storari hanno squarciato il velo ma senza un intervento normativo più incisivo e una reale volontà di cambiamento da parte delle committenze, il rischio è che lo sfruttamento e l’illegalità rimangano una componente strutturale della logistica italiana.
3. Come si resiste nei porti
Il saggio Across the Chain: Labor and Conflicts in the European Maritime Logistics Sector di Andrea Bottalico offre un’analisi approfondita e articolata delle complesse dinamiche che caratterizzano il settore logistico-marittimo europeo, esaminando in particolare le condizioni di lavoro, i conflitti sociali e le trasformazioni strutturali che stanno ridisegnando l’intera filiera. Attraverso una prospettiva che combina l’osservazione empirica con l’analisi teorica, l’autore ricostruisce un quadro dettagliato delle pressioni economiche, delle strategie aziendali e delle risposte sindacali che plasmano questo settore cruciale per l’economia globale mettendo in luce come la crescente integrazione delle catene logistiche si intrecci con processi di precarizzazione del lavoro e con nuove forme di resistenza operaia. Tuttavia prende le mosse da un caso estraneo al mondo portuale, cioè la morte di Abd Elsalam Eldanf, lavoratore egiziano di 50 anni travolto da un camion nel 2016 durante una protesta davanti a un magazzino GLS a Piacenza. Questo tragico episodio, avvenuto nel contesto di una mobilitazione di lavoratori migranti contro le condizioni di lavoro precarie, rappresenta un punto di partenza significativo per comprendere le contraddizioni del sistema logistico italiano. I manifestanti, molti dei quali facenti parte di quella forza lavoro migrante attiva dal 2008 in diverse regioni del Nord Italia (Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte) in collaborazione con sindacati di base, protestavano contro le pratiche di subappalto della ditta Seam Srl, parte del consorzio Natana Doc, fornitore di servizi per GLS. Bottalico sottolinea come questo caso sia esemplare di un settore, quello della terza parte logistica, che in Italia nel 2016 raggiungeva un fatturato di 80 miliardi di euro e che si basa su un modello di business fondato sullo sfruttamento di manodopera precaria e su catene di appalto sempre più frammentate. Il quadro si complica ulteriormente se si considerano le politiche dell’Unione Europea in materia di trasporti e logistica. Bottalico cita la proposta della Commissione Europea, avanzata nel 2017, di introdurre un pacchetto di norme per ridurre il divario tra paesi come la Polonia, che beneficiano di bassi costi del trasporto su gomma, e nazioni come Francia e Germania, dove invece si cercava di implementare misure protettive per i lavoratori, come il divieto per gli autisti di effettuare le pause settimanali all’interno delle cabine dei camion o l’obbligo di adeguare i salari dei conducenti stranieri ai minimi nazionali. Queste misure, però, sono state contrastate dall’UE stessa, accusata dai sindacati italiani di favorire il dumping sociale. Le proteste dei lavoratori non si sono limitate all’Italia: nel marzo 2017, ad esempio, i porti spagnoli sono diventati teatro di un aspro confronto tra governo, UE e sindacati, quando la Commissione Europea ha avviato una procedura d’infrazione contro la Spagna per il suo sistema di lavoro portuale, giudicato incompatibile con i principi di libera concorrenza. La minaccia di multe pesantissime, 15 milioni di euro più una penalità giornaliera di 150.000 euro fino all’approvazione delle riforme, ha spinto il governo spagnolo a presentare una proposta di riforma senza consultare i sindacati, provocando una forte reazione che ha portato a scioperi e a gesti di solidarietà internazionale, come il rifiuto dei portuali francesi di scaricare navi dirottate da Barcellona a Marsiglia o le proteste dei dockworker belgi ad Anversa contro l’arrivo della Maersk Madrid.
Anche il Belgio, del resto, ha vissuto tensioni simili: dal 2014 era sotto procedura d’infrazione per il suo sistema di organizzazione del lavoro portuale, in vigore dal 1973 e considerato contrario ai principi del trattato UE sulla libera prestazione di servizi. Dopo anni di trattative, nel 2016 si è raggiunto un compromesso che ha evitato scioperi in porti cruciali come Anversa, secondo hub europeo per volume di merci movimentate, dove un blocco avrebbe avuto ripercussioni enormi non solo sulle compagnie di navigazione e sui terminalisti ma anche sull’intero indotto logistico e sul cluster petrolchimico della zona. La soluzione trovata, sebbene abbia portato al ritiro della procedura d’infrazione nel maggio 2017, ha segnato l’inizio di una nuova fase per i porti europei, caratterizzata da un crescente squilibrio di potere a favore delle grandi compagnie di navigazione e degli operatori terminalistici.
Proprio il tema del potere di mercato e della concentrazione industriale nel settore marittimo è un altro nodo cruciale affrontato da Bottalico. Il 2016 è stato un anno record per fusioni e acquisizioni nello shipping, con la creazione di tre grandi alleanze strategiche che controllano una fetta significativa della capacità mondiale di trasporto container. L’autore cita il fallimento della Hanjin, il più grande nella storia del settore marittimo, come esempio emblematico delle pressioni competitive che spingono le compagnie a cercare economie di scala sempre maggiori, spesso a scapito delle condizioni di lavoro. Questa corsa all’efficienza si traduce in pratiche sempre più rischiose, come il self-handling, ovvero l’obbligo per i marinai di eseguire operazioni di fissaggio dei container (lashing e unlashing), tradizionalmente svolte da portuali specializzati. L’incidente mortale del marinaio filippino Glenn Cuevas, schiacciato da un container da 8 tonnellate a Rotterdam nel 2007 mentre eseguiva proprio queste operazioni, è solo uno dei tanti casi che hanno spinto l’ITF e l’ETF a lanciare campagne contro questa pratica, culminate in proteste come quella del dicembre 2016 davanti agli uffici della Unifeeder in Danimarca, accusata di far eseguire il lashing direttamente agli equipaggi senza ricorrere a manodopera portuale specializzata, in violazione degli accordi collettivi internazionali. Bottalico colloca queste storie all’interno di un’analisi più ampia della catena logistica marittima, la cui struttura è sempre più dominata da pochi attori globali, armatori, terminalisti, grandi operatori logistici, che dettano le regole del gioco in un mercato ipercompetitivo. La containerizzazione e l’intermodalità hanno rivoluzionato i processi produttivi e distributivi, trasformando i porti da semplici snodi di transito a elementi chiave di catene del valore globali. Questo cambiamento di paradigma, iniziato negli anni ’90, ha portato a una progressiva erosione dei tradizionali assetti istituzionali che regolavano il lavoro portuale, sostituiti da modelli più flessibili e precari senza intaccare la conflittualità dei lavoratori. Queste infrastrutture, infatti, continuano a rappresentare un punto critico di catene logistiche sempre più integrate ma anche sempre più vulnerabili a interruzioni e conflitti. Il saggio analizza in profondità le trasformazioni del lavoro e le dinamiche conflittuali all’interno delle catene logistiche globali, con particolare attenzione al settore marittimo-portuale europeo. Partendo dalla necessità di arricchire l’analisi tradizionale della supply chain con elementi che permettano di comprendere l’organizzazione del lavoro e i conflitti che vi sorgono, l’autore propone un framework analitico che integra variabili esogene (fattori globali e regolamentazioni europee) ed endogene (lavoro, conflitti e normative nazionali). Questo approccio consente di illuminare la complessa articolazione del lavoro lungo la catena logistica, caratterizzata da una forza lavoro eterogenea con condizioni contrattuali, status giuridici e posizioni nei diversi segmenti estremamente diversificati. La logistica, intesa come sistema di gestione volto a ridurre i costi di stoccaggio e distribuzione delle merci, appare sempre più strettamente interconnessa con l’economia digitale attraverso l’uso pervasivo delle tecnologie dell’informazione. Nonostante la centralità della logistica come punto di osservazione privilegiato per analizzare le trasformazioni del capitalismo contemporaneo, Bottalico lamenta una certa trascuratezza da parte della sociologia economica verso questo settore. Per comprenderne appieno la complessità non basta adottare un semplice “sguardo logistico” ma è necessario sviluppare ricerche empiriche approfondite che esplorino il lavoro in tutta la sua articolazione lungo la catena. Uno degli aspetti cruciali emersi dall’analisi è il potere strutturale dei lavoratori, derivante dalla crescente fragilità delle catene di trasporto globali. L’esempio paradigmatico è il sistema di transhipment (trasbordo) nel segmento marittimo: la globalizzazione economica e il gigantismo navale hanno imposto un’organizzazione basata su porti hub per il trasbordo delle merci, rendendo l’intera catena più rigida e quindi più vulnerabile. Si sono sviluppati diversi sistemi di trasbordo: l'”hub and spoke” (dalle navi madre ai feeder), il “relay” (dalle rotte est-ovest a quelle nord-sud) e l'”interlining” (tra diverse linee di navigazione). Questa rivoluzione nel trasporto containerizzato ha aumentato significativamente la fragilità sistemica della catena logistica marittima. Il concetto di “disruption” (interruzione) assume particolare rilevanza in questo contesto. Nella letteratura sulla supply chain management con questo termine si indicano eventi che causano gravi interruzioni nei nodi produttivi o distributivi, con impatti particolarmente negativi sulle reti di trasporto. Porti e terminal, in quanto infrastrutture critiche, sono particolarmente esposti a tali rischi, come dimostrano i casi di conflitti sindacali che hanno paralizzato interi snodi logistici. Le relazioni tra lavoratori e multinazionali del trasporto devono essere lette alla luce di questa vulnerabilità strutturale che conferisce alla forza lavoro, pur frammentata ed eterogenea, un potenziale potere contrattuale. La globalizzazione ha determinato una drastica riduzione dei costi del trasporto internazionale, al punto che è più economico spedire il pesce pescato sulla costa occidentale degli Stati Uniti in Cina per la lavorazione e poi reimportarlo piuttosto che pagare i costi del lavoro secondo le normative statunitensi. Questa riduzione dei costi non si è tradotta in una maggiore redditività per il segmento marittimo. Le compagnie di navigazione, operando in un mercato sempre più concentrato (si pensi alle alleanze tra giganti come Maersk, MSC e CMA CGM), esercitano forti pressioni su porti e terminal, costringendoli a continui investimenti in infrastrutture per accogliere navi sempre più grandi. L’analisi del caso del porto di Genova offre un esempio concreto di come le strategie globali delle compagnie di navigazione si ripercuotano sull’organizzazione del lavoro a livello locale. Le pressioni sistemiche sui terminal container stanno determinando una progressiva flessibilizzazione della forza lavoro, con un crescente ricorso a società interinali e un’erosione delle tutele tradizionali del lavoro portuale. Questo processo è alimentato da un quadro normativo in transizione, dove le regolamentazioni europee interagiscono, e spesso entrano in tensione, con le normative nazionali sul lavoro. Le politiche neoliberiste dell’Unione Europea, in particolare nei settori del trasporto su gomma e del lavoro portuale, stanno accelerando una transizione da istituzioni di tipo durkheimiano (che esercitano un’autorità pubblica regolatrice) a istituzioni di tipo williamsoniano (orientate all’efficienza del mercato e alla riduzione dei costi di transazione). Un simile passaggio è particolarmente evidente nel settore portuale, dove le tradizionali forme di protezione del lavoro portuale sono sempre più viste come “restrizioni” al libero mercato da rimuovere. Nonostante la crescente concentrazione oligopolistica nel settore shipping/logistico e lo squilibrio nei rapporti di forza contrattuali, Bottalico identifica margini di azione per i lavoratori. La stessa fragilità delle catene logistiche globali, unita alla loro rigidità strutturale, rappresenta un punto di vulnerabilità che la forza lavoro può sfruttare. Per trasformare questo potenziale in potere effettivo sarà cruciale superare le frammentazioni tra i diversi segmenti della forza lavoro logistica, promuovendo forme di cooperazione transnazionale e scambio di pratiche tra lavoratori geograficamente dispersi. Con questo spirito analizziamo gli altri saggi sul tema contenuti nel libro Choke points. Johnson Abhishek Minz in Decoding the Transition in the Ports of Mumbai parla del porto di Mumbai, anticamente conosciuto come Bombay. Esso rappresenta una delle infrastrutture portuali più antiche e storicamente significative dell’India, situata lungo la costa occidentale del paese e gestita dal Mumbai Port Trust (MbPT), un ente autonomo istituito nel 1963 sotto il Major Port Trust Act. Le sue origini risalgono al XVII secolo ma fu solo nel 1873 che assunse una struttura organizzativa simile a quella attuale. Durante il periodo coloniale il porto di Bombay svolse un ruolo cruciale come principale snodo commerciale, fungendo da porta d’accesso per l’India britannica e facilitando il trasporto di merci pregiate come pepe, pietre preziose, tessuti di cotone e seta. La Compagnia delle Indie Orientali lo elesse come suo scalo primario, contribuendo al suo sviluppo commerciale e alla crescita delle infrastrutture portuali, come dimostra la costruzione del primo bacino di carenaggio tra il 1748 e il 1750, seguito da altri nei decenni successivi. L’organizzazione del lavoro nel porto di Bombay era inizialmente caotica e basata sul cosiddetto tolli system, un meccanismo in cui intermediari, noti come serang o tolliwallas, reclutavano manodopera per le compagnie di stevedoring incaricate del carico e dello scarico delle navi. Questo sistema era caratterizzato da un elevato grado di sfruttamento, con i lavoratori spesso privati di una parte consistente del loro salario a vantaggio degli intermediari. Le condizioni di lavoro erano estremamente precarie, con scarsa attenzione alla sicurezza e un diffuso ricorso al lavoro minorile per alcune mansioni. La mancanza di contratti scritti e la natura intermittente del lavoro, influenzata da fattori come il traffico marittimo e le condizioni meteorologiche (in particolare durante i monsoni), rendevano l’occupazione instabile e poco remunerativa. A partire dagli anni ’20 del Novecento, tuttavia, i lavoratori del porto iniziarono a organizzarsi in sindacati, guidati da figure come F. J. Ginwalla, N. M. Joshi e altri attivisti, dando vita a una serie di organizzazioni tra cui la Bombay Port Trust Dock Staff Union e la Bombay Dock Workers’ Union. Questi movimenti sindacali giocarono un ruolo fondamentale nella lotta per i diritti dei lavoratori arrivando ad ottenere l’abolizione del tolli system e l’approvazione del Dock Workers (Regulation of Employment) Act nel 1948. Questa legge istituì il Bombay Dock Labour Board (BDLB), un organismo tripartito composto da rappresentanti del governo, dei datori di lavoro e dei lavoratori, con l’obiettivo di regolarizzare l’occupazione, garantire condizioni di lavoro più eque e assicurare una forma di protezione sociale durante i periodi di scarsa attività. A partire dagli anni ’80 il panorama del lavoro portuale subì un’ulteriore trasformazione, influenzata dal declino del modello fordista di welfare state e dall’avvento della containerizzazione che ridusse drasticamente la necessità di manodopera tradizionale. La creazione del Jawaharlal Nehru Port (JNPT) nel 1989, specializzato nel traffico container, segnò un punto di svolta, spostando gradualmente il fulcro delle operazioni portuali verso un modello più automatizzato e meno dipendente dalla forza lavoro umana. Nonostante ciò, i dati mostrano che l’MbPT ha continuato a gestire un volume di carico significativo, raggiungendo 61,11 milioni di tonnellate nel 2015-16, a fronte dei 64,03 milioni del JNPT nello stesso periodo. Tuttavia l’MbPT, spesso definito il “gigante malato” a causa della sua inefficienza rispetto ai moderni standard portuali, registrava tempi di turnaround più lunghi (2,9 giorni contro 1,6 del JNPT) e un tasso di utilizzo della capacità superiore al 120%, indicando una pressione operativa insostenibile. Parallelamente il governo indiano ha avviato una serie di riforme strutturali per modernizzare il settore portuale, tra cui il Sagarmala Project e l’approvazione del New Major Ports Authority Bill nel 2017 che mira a decentralizzare la governance dei porti, ridurre gli ostacoli burocratici e incentivare gli investimenti privati attraverso partnership pubblico-privato. Queste riforme hanno spesso trascurato le ricadute sociali, in particolare il drammatico calo dell’occupazione nell’MbPT, passata da circa 20.000 dipendenti nel 2001 a poco più di 10.000 nel 2016. La progressiva transizione verso un modello landlord port, in cui l’autorità portuale si limita a gestire le infrastrutture mentre le operazioni sono affidate a privati, rischia di aggravare ulteriormente questa tendenza, lasciando irrisolte questioni cruciali come la riconversione professionale dei lavoratori e la tutela dei loro diritti in un mercato del lavoro sempre più precarizzato.
Minz analizza le resistenze alle riforme portuali in India, focalizzandosi sul ruolo centrale dei sindacati nel contrastare i cambiamenti proposti dal governo. Le sei principali federazioni sindacali nazionali, HMS, CITU, AITUC, BMS e INTUC, rappresentano l’intero spettro politico e hanno ripetutamente espresso opposizione alle riforme, temendo un impatto negativo sui lavoratori. I dati mostrano un drastico calo dell’occupazione nei porti principali tra il 2012 e il 2016, con una riduzione significativa in tutte le classi lavorative (Class I, II, III e IV), evidenziando una trasformazione strutturale che minaccia la stabilità socioeconomica in un paese con un’elevata offerta di lavoro. La resistenza si concentra su due aspetti chiave delle riforme: il cambiamento del modello di governance e la containerizzazione. Il passaggio da un modello ibrido (“service port”) a un sistema “landlord port” riduce il ruolo delle autorità portuali pubbliche a meri regolatori, affidando le operazioni a privati. Questo spostamento è giustificato dal governo come necessario per migliorare l’efficienza e competere a livello globale ma i sindacati lo interpretano come una mossa per privatizzare i porti e cedere terreni pubblici a multinazionali. Ad esempio, il MbPT possiede circa 1.800 acri di terreno e le voci su possibili conversioni in ospedali, hotel e ristoranti alimentano il sospetto che l’obiettivo reale sia la speculazione immobiliare più che il miglioramento delle infrastrutture. Un altro punto critico è l’invecchiamento della forza lavoro. Il blocco delle assunzioni dal 1992 ha lasciato il MbPT con dipendenti per lo più ultracinquantenni che il governo considera difficili da riqualificare. I sindacati, tuttavia, denunciano che questa narrazione nasconde l’intenzione di indebolire il potere contrattuale dei lavoratori, come dimostrato dalla proposta iniziale di ridurre i rappresentanti sindacali nel consiglio portuale da due a uno. Sebbene le proteste abbiano ottenuto il mantenimento di due seggi, la condizione che questi non siano occupati da “esterni” limita comunque l’autonomia sindacale. Nonostante le critiche all’inefficienza del MbPT, tra cui congestione, carenza di gru e ispezioni doganali ridondanti, i dati rivelano paradossi interessanti. Il porto di Mumbai registra ancora un tasso di utilizzo della capacità superiore a quello del più moderno JNPT, specializzato nella containerizzazione. Ciò solleva dubbi sull’effettiva necessità delle riforme, suggerendo che i problemi operativi potrebbero essere risolti con investimenti mirati anziché con la privatizzazione. Inoltre, mentre la containerizzazione riduce la domanda di manodopera, in un paese con abbondante forza lavoro come l’India questa transizione rischia di aggravare la disoccupazione senza una strategia di riconversione professionale.
I sindacati, pur non opponendosi alla modernizzazione, chiedono politiche inclusive, come una “national maritime policy” che tuteli i lavoratori durante la transizione. La mancanza di alternative concrete da parte loro e il silenzio del governo sulle tutele lavorative lasciano irrisolto il conflitto. La risposta unitaria delle federazioni, al di là delle divisioni politiche, è un segnale positivo ma la sfida sarà tradurre questa coesione in proposte efficaci. Intanto, l’ingresso di operatori privati, come già avviene nel JNPT con contratti precari, rischia di erodere ulteriormente i diritti dei lavoratori, rendendo urgente un dibattito più equilibrato tra efficienza economica e giustizia sociale. Back to Piraeus: Precarity for All! di Dimitris Parsanoglou e Carolin Philipp si focalizza sulla situazione del lavoro nei porti in Grecia. Il paese, a partire dal 2010, è diventato il simbolo di una crisi economica e sociale senza precedenti, scatenata dalla richiesta di aiuti finanziari al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla successiva imposizione di durissimi programmi di austerità da parte della cosiddetta Troika, composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e lo stesso FMI. Questo periodo, caratterizzato da una lunga serie di memorandum d’intesa (MoU), ha trasformato il paese in un vero e proprio laboratorio di politiche neoliberali estreme, con conseguenze devastanti per l’economia e la società. Il PIL greco, che nel 2008 ammontava a 356,140 miliardi di dollari, è crollato a 194,248 miliardi nel 2016, una contrazione del 45% che non ha eguali nella storia dei paesi occidentali in tempo di pace. Parallelamente il debito pubblico, invece di ridursi come promesso, è esploso passando dal 109,4% al 179% del PIL nello stesso arco temporale, dimostrando il fallimento delle politiche di austerity nel risolvere la crisi che pretendevano di affrontare. Questa spirale recessiva ha avuto effetti drammatici sulla vita delle persone: tagli salariali sia nel settore pubblico che in quello privato, smantellamento del welfare state e dei diritti dei lavoratori, disoccupazione alle stelle. In questo clima di sfiducia generale, partiti prima marginali hanno guadagnato consenso, come il neonazista Alba Dorata, entrato in parlamento nel 2012, o Syriza, il partito di sinistra radicale che nel 2015 è arrivato al governo promettendo di opporsi all’austerità, salvo poi essere costretto a piegarsi alle richieste dei creditori. La Grecia, insomma, è stata travolta da una crisi che, pur inserendosi nel più ampio contesto della crisi del debito europeo che ha colpito anche Portogallo, Irlanda, Spagna e Cipro, ha assunto caratteristiche peculiari per intensità e violenza delle misure imposte. Uno degli aspetti più controversi delle condizioni poste dalla Troika è stata la privatizzazione massiccia di asset pubblici, gestita dal Fondo per lo Sviluppo delle Attività della Repubblica Ellenica (HRDF/TAIPED). Queste privatizzazioni, presentate come necessarie per risanare i conti pubblici, si sono spesso tradotte in veri e propri svendite di beni strategici a prezzi ben al di sotto del loro valore di mercato, con l’aggravante che le aziende redditizie sono state cedute a cifre irrisorie, mentre quelle in perdita sono state privatizzate senza i loro debiti, lasciando allo Stato il compito di ripianare i buchi finanziari. L’ex aeroporto di Elliniko, valutato 1,25 miliardi di euro, è stato venduto per appena 915 milioni, con un prezzo al metro quadrato di 75 euro contro i 1.100 euro dei terreni vicini, finendo nelle mani della potente famiglia di armatori Latsis. La quota statale del 33% dell’OPAP, uno dei più grandi operatori europei nel settore delle scommesse con un fatturato annuo di 4 miliardi, è stata ceduta per soli 652 milioni. Quattordici aeroporti regionali che generavano un utile annuo di 150 milioni sono stati svenduti per 1,23 miliardi, in un’operazione opaca che ha visto la tedesca Fraport, consigliata dalla controllata Lufthansa Consulting (che aveva un conflitto di interessi essendo coinvolta nell’acquisto), aggiudicarsi l’appalto. Il caso più eclatante è senza dubbio quello del Pireo, il principale porto greco e uno dei più importanti del Mediterraneo, ceduto alla cinese COSCO per una cifra irrisoria rispetto al suo valore reale. Nonostante una stima di 1,63 miliardi di euro, il porto è stato privatizzato per soli 280,5 milioni, con un’operazione che garantisce a COSCO il controllo fino al 2051. Le giustificazioni ufficiali parlavano di investimenti futuri e creazione di posti di lavoro ma i dati mostrano come il Pireo, già terzo porto container del Mediterraneo e primo per traffico passeggeri con 18 milioni di utenti l’anno, fosse un asset strategico e redditizio che lo Stato ha perso a vantaggio di interessi privati. La trasformazione del Pireo in un hub logistico globale per il commercio cinese verso l’Europa è stata accompagnata da un peggioramento delle condizioni di lavoro, con un aumento della precarietà e un indebolimento delle tutele sindacali. Storicamente il porto era un centro di lavoro fortemente organizzato, inserito in un tessuto economico che includeva cantieri navali, acciaierie e una rete di trasporti strettamente connessa. Le privatizzazioni hanno spezzato questo equilibrio, frammentando il mercato del lavoro e creando nuove forme di sfruttamento. Nonostante le proteste popolari, le mobilitazioni di piazza, gli scioperi e le reti di solidarietà dal basso, le politiche imposte dall’alto hanno proceduto senza sostanziali correzioni di rotta. Anzi, come dimostra il caso del TAIPED, i funzionari del fondo di privatizzazione godono di un’immunità voluta dai creditori che ha reso impossibile perseguire eventuali irregolarità nelle svendite. Quando nel 2016 il ministro delle finanze greco Euclid Tsakalotos ha provato a chiedere conto delle operazioni sottocosto, si è scontrato con il muro di gomma delle istituzioni europee che hanno aggiunto una clausola ad hoc per proteggere i membri del TAIPED.
La Grecia rappresenta un caso emblematico delle contraddizioni insite nelle politiche di deregolamentazione e privatizzazione, dove le resistenze operaie hanno tentato di opporsi a un processo percepito come una minaccia ai diritti conquistati in decenni di lotte. Tra il 1980 e il 2008 il Paese ha ospitato il 44% degli scioperi generali europei, segno di una tradizione di conflittualità sociale particolarmente vivace. Nel porto del Pireo i lavoratori portuali hanno ripetutamente incrociato le braccia, arrivando a uno sciopero di un intero mese nel 2016. Tuttavia, come ha ammesso un operaio intervistato dagli autori, il risultato più tangibile di queste mobilitazioni è stato soltanto un rinvio temporaneo delle privatizzazioni mentre il processo di smantellamento delle tutele è proseguito inesorabile. Questa impotenza non è casuale: i sindacati tradizionali, secondo le critiche di molti attivisti di base, hanno fallito nel rinnovare le proprie strategie e nel costruire narrazioni alternative. Alcuni di essi sono diventati “burocratici e consensuali”, perdendo la capacità di rappresentare davvero gli interessi dei lavoratori. A peggiorare la situazione le istituzioni pubbliche preposte alla tutela dei diritti sono spesso inattive o corrotte. Un avvocato del lavoro ha denunciato il fallimento del Labour Inspectorate Body (SEPE) che dovrebbe garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro e il rispetto dei contratti ma che in realtà non interviene efficacemente. Allo stesso modo l’IKA, l’istituto di previdenza sociale, è stato coinvolto in scandali di corruzione, con casi di ispettori che avrebbero accettato tangenti per chiudere un occhio sulle violazioni dei datori di lavoro. Accanto a questo declino delle forme tradizionali di rappresentanza sono emerse nuove forme di organizzazione. Le rivolte del dicembre 2008 che hanno infiammato le città greche hanno dato impulso a una nuova ondata di sindacalismo di base: tra il 2008 e il 2011 sono nati 35 nuovi sindacati, spesso radicati in settori ad alta precarietà, come i corrieri, i lavoratori dei call center, gli ingegneri in falsa partita IVA e il personale del turismo. Queste realtà, organizzate in modo orizzontale e fondate sulla democrazia diretta, si distinguono per la capacità di coinvolgere attivamente i lavoratori in ogni fase decisionale. Non hanno rappresentanti fissi o membri professionali, ha spiegato un’avvocata intervistata, sottolineando come queste strutture offrano un sostegno più efficace rispetto ai sindacati tradizionali. La precarietà, del resto, è diventata il tratto distintivo del mercato del lavoro greco, soprattutto dopo la crisi del 2008 e l’imposizione delle politiche di austerity da parte della Troika. Alcuni studiosi, come Lefteris Kretsos, hanno collegato la rinascita del sindacalismo ai cicli di protesta dei movimenti sociali, evidenziando come le mobilitazioni di piazza abbiano alimentato nuove forme di organizzazione operaia. La precarietà, però, non è un’esperienza omogenea. Infatti mentre per molti significa insicurezza, povertà e sfruttamento, per altri, come un ricercatore intervistato che alterna l’attività accademica alla raccolta di rottami, può assumere connotati ambivalenti, persino di libertà. Questo lavoratore afferma: “non ho un capo, lavoro quando voglio”, rivelando come la flessibilità possa essere interpretata in modi diametralmente opposti. Proprio questa ambivalenza rende difficile la costruzione di un soggetto unitario, un precariato che possa ereditare il ruolo storico del proletariato. Come hanno osservato alcuni teorici, la precarietà esiste solo al plurale: è una condizione frammentata che assume forme diverse a seconda del settore, del territorio e delle soggettività individuali. Le lotte che ne emergono, quindi, non sempre si concentrano sul posto di lavoro tradizionale e si espandono in reti di solidarietà più ampie, come le cliniche sociali autogestite o gli squat che ospitano migranti. Un attivista di una clinica sociale di Atene ha spiegato che : “siamo un’organizzazione non gerarchica, tutti sono uguali, che siano medici o volontari. Non si tratta di carità, ma di attivismo politico”. Al Pireo, intanto, la trasformazione del porto sotto la gestione di Cosco ha segnato il passaggio da un modello fordista a uno basato sulla flessibilità estrema. I lavoratori assunti attraverso subappaltatori descrivono condizioni di lavoro durissime: turni annunciati con SMS all’ultimo minuto, nessuna possibilità di organizzazione sindacale e un clima di paura. “Per nove mesi non ho mai avuto un orario fisso”, ha raccontato un operaio licenziato dopo aver tentato di fondare un sindacato. La privatizzazione, però, non è stata imposta solo dalla Cina. Le stesse istituzioni europee hanno spinto per un indebolimento delle tutele, in linea con le richieste della Troika. Non a caso, quando la Commissione Europea ha criticato la vendita del Pireo a Cosco, lo ha fatto più per proteggere gli interessi delle compagnie portuali tedesche e olandesi che per difendere i diritti dei lavoratori greci. In questo contesto, le resistenze assumono forme ibride che vanno oltre le tradizionali rivendicazioni salariali. I nuovi sindacati di base, ad esempio, non si limitano a lottare per migliori condizioni lavorative ma affrontano anche questioni come le disuguaglianze urbane, la repressione poliziesca e le discriminazioni di genere. Eppure, nonostante queste innovazioni, la sfida principale rimane quella di costruire un’alternativa credibile a un sistema che continua a produrre precarietà e disuguaglianze. Çağatay Edgücan Şahin e Pekin Bengisu Tepe in Logistics Workers’ Struggles in Turkey: Neoliberalism and Counterstrategies, invece, offrono un’analisi approfondita delle condizioni dei lavoratori logistici in Turchia, inserendole nel più ampio contesto delle trasformazioni neoliberiste che hanno plasmato il mercato del lavoro turco a partire dal colpo di stato militare del 1980. Questo evento segnò una svolta decisiva nelle relazioni industriali del paese, con la repressione del sindacalismo di classe e la messa al bando di organizzazioni storiche come la Disk, riammessa solo nel 1992 dopo dodici anni di clandestinità. Le parole di Halit Narin, rappresentante della principale associazione datoriali turca, “Ora tocca a noi ridere”, rivelano chiaramente la natura classista del golpe che inaugurò un’era di ristrutturazione capitalistica caratterizzata da privatizzazioni, flessibilizzazione del lavoro e progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori. I dati mostrano l’impatto devastante di queste politiche. Nel 2017 la disoccupazione nazionale raggiungeva l’11,7%, con punte del 21,4% tra i giovani, mentre il lavoro informale interessava il 33,1% della forza lavoro. Parallelamente si assisteva a un crollo verticale della sindacalizzazione nel settore privato: dai 5,7 milioni di lavoratori organizzati nel 1980 si passava a appena 1,6 milioni nel 2017, pari a un misero 11,97% del totale. Questo declino non fu uniforme perché mentre i sindacati pubblici di impostazione corporativista come Memur-Sen registravano un incremento stratosferico del 2.129% tra il 2002 e il 2016 (da 41.871 a 956.032 iscritti), organizzazioni più combattive come Kesk perdevano il 16% dei propri membri nello stesso periodo. La differenza risiede nelle strategie sindacali: da un lato il sindacalismo accomodante col potere, dall’altro il sindacalismo di classe che cerca di opporsi alle logiche neoliberiste. Il quadro giuridico ha ulteriormente aggravato questa situazione. A partire dal 2012 il governo ha vietato gli scioperi nel settore dei trasporti, misura estesa nel 2016 a tutto il trasporto pubblico urbano attraverso decreti d’emergenza che violavano palesemente sia le norme nazionali che gli standard internazionali del lavoro. Inoltre il Consiglio dei Ministri ha acquisito il potere di sospendere i conflitti lavorativi e di estendere unilateralmente i contratti collettivi, privando i sindacati di uno strumento fondamentale di pressione. Queste misure hanno creato un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, con un massiccio ricorso al subappalto (sistema detto taşeron) che ha frammentato la forza lavoro e reso più difficile l’organizzazione sindacale. In questo contesto il settore logistico assume un’importanza strategica per la posizione geografica della Turchia, crocevia di rotte commerciali tra Europa, Asia e Medio Oriente. Con un giro d’affari di 100 miliardi di dollari (pari al 12% del PIL nazionale nel 2016), l’industria della logistica attira investimenti multimilionari da multinazionali come DHL. L’interesse di queste aziende straniere è legato anche alla disponibilità di manodopera a basso costo e poco sindacalizzata favorita dalle privatizzazioni che hanno avuto effetti devastanti. Nel settore ferroviario l’occupazione è crollata del 65% tra il 1975 e il 2015, passando da 67.642 a 24.000 addetti, con un parallelo aumento degli incidenti sul lavoro dovuti al sottodimensionamento degli organici. La Legge sui Sindacati n. 6356 del 2012 ha introdotto ulteriori ostacoli all’azione sindacale attraverso una complessa regolamentazione delle soglie di rappresentatività. Per poter contrattare un sindacato deve ora superare una doppia soglia: rappresentare almeno l’1% dei lavoratori a livello settoriale (soglia abbassata dal 10% al 3% e poi all’1% nel 2015) e contemporaneamente il 50% dei dipendenti in un singolo luogo di lavoro. Questa riforma, apparentemente favorevole, ha in realtà reso più difficile l’organizzazione, soprattutto dopo l’accorpamento di settori diversi (trasporti terrestri, aerei e marittimi) in un’unica macro-categoria. Così, un sindacato come Nakliyat-Iş, che rappresenta il 10% dei lavoratori del trasporto su strada, si trova a non raggiungere l’1% sul totale del comparto trasporti, perdendo il diritto alla contrattazione collettiva. Nonostante queste difficoltà il tasso di sindacalizzazione nel settore logistico (18,8%, escludendo i tassisti) supera la media nazionale (12,2%). Tra le organizzazioni più attive spiccano Tümtis, impegnata in complesse battaglie per organizzare i lavoratori di aziende come UPS, dove il ricorso a sei subappaltatori e 256 agenzie esterne frammenta la forza lavoro, e Hava-Iş che rappresenta il settore aeroportuale. Come emerge dalle interviste effettuate dagli autori, la sfida principale per questi sindacati è migliorare salari, condizioni di lavoro e soprattutto costruire una coscienza di classe capace di affrontare le strategie del capitale nel XXI secolo. I lavoratori logistici, spesso non specializzati e sottoposti a ritmi estenuanti (con l’eccezione dei portuali che godono di maggiore forza contrattuale), rischiano altrimenti di trovarsi in una lotta impari tra “lavoratori ottocenteschi e capitale 4.0”, come metaforicamente descritto da un intervistato. Şahin e Tepe analizzano anche le dinamiche conflittuali tra lavoratori, sindacati e capitale nel settore logistico turco a partire dagli anni ’80 fino agli anni 2010, evidenziando come le trasformazioni neoliberali abbiano plasmato le strategie di resistenza operaia e le contromisure padronali, spesso sostenute da un apparato statale sempre più repressivo. Negli anni ’80 il settore dei magazzini e del trasporto merci visse una prima ondata di sindacalizzazione, con il Tümtis che riuscì a organizzare 37 dei 110 magazzini attivi a Topkapı-Istanbul, nonostante le tattiche dilatorie delle aziende, come l’assunzione di lavoratori informali (spesso familiari dei datori di lavoro) per ridurre la percentuale di adesioni sindacali. Un momento cruciale fu lo sciopero nel centro logistico di Istanbul che ebbe un effetto a catena: le aziende di altre città furono costrette a trattare con il sindacato per evitare squilibri competitivi. Già negli anni ’90 il capitale reagì riorganizzando le reti logistiche attraverso l’outsourcing e la frammentazione aziendale, favorendo la nascita di grandi compagnie di trasporto come Yurtiçi Kargo e Aras Kargo, dove i tentativi di sindacalizzazione furono contrastati con licenziamenti di massa e vere e proprie operazioni di union busting. Le resistenze operaie, come quella di Yurtiçi Kargo nel 1992, durata sette mesi, videro lavoratori accamparsi davanti alle sedi aziendali, affrontando guardie armate e interventi della polizia ma riuscirono comunque a ottenere qualche conquista, come l’inserimento di militanti nelle strutture sindacali. Con gli anni 2000 il settore fu travolto da deregolamentazione e precarizzazione. Come sottolineato da un dirigente del Tümtis, il lavoro nero e il subappalto divennero sistematici, con turni di 12-13 ore, salari minimi e nessun benefit. Le aziende, inoltre, sfruttavano le ambiguità della Legge sul Lavoro n. 4857, che permetteva di lasciare indefinito l’orario di uscita, lasciando ai padroni un potere discrezionale assoluto. Quando un sindacato cercava di organizzarsi la risposta immediata era il licenziamento degli attivisti, reso ancor più efficace dall’uso distorto delle leggi. Un caso emblematico fu quello del porto di Mersin, dove il Tümtis riuscì a organizzare i lavoratori subappaltati, costringendo l’azienda a renderli dipendenti diretti pur di evitare il riconoscimento sindacale. Nonostante la sconfitta formale del sindacato, i lavoratori ottennero contratti più stabili, dimostrando che anche nelle sconfitte potevano nascondersi piccole vittorie. La legislazione successiva, in particolare la TUCLA n. 6356 del 2012, peggiorò ulteriormente le cose, ridefinendo arbitrariamente i settori per impedire l’aggregazione dei lavoratori. Ad esempio, il trasporto marittimo fu separato da quello terrestre mentre attività chiaramente connesse alla logistica furono classificate sotto voci disparate come “commercio” o “cantieristica navale”. Questa frammentazione legale divenne un’arma potentissima per i padroni che potevano cambiare settore da un giorno all’altro, vanificando mesi di organizzazione sindacale. Un caso scandaloso fu quello di LC Waikiki che riclassificò i propri magazzini come “vendita al dettaglio”, facendo schizzare il numero di dipendenti da 3.500 a 25.000 e rendendo impossibile al Liman-Iş raggiungere la maggioranza necessaria per la contrattazione. La repressione non si limitò alle strategie legali. Nel 2007 14 dirigenti del Tümtis furono arrestati con l’accusa di “ostacolo alla libertà del lavoro” per aver organizzato picchetti e condannati a sei anni di carcere nonostante le prove fossero inconsistenti. Questo dimostra come lo Stato turco, in collaborazione con il capitale, abbia criminalizzato l’attivismo sindacale, usando il codice penale (art. 117) contro i lavoratori anziché contro i padroni che violavano sistematicamente i diritti sindacali. Nonostante questo scenario ostile i lavoratori hanno sviluppato forme di lotta creative. A Borusan Logistics, ad esempio, il sindacato Nakliyat-Iş occupò il centro culturale dell’azienda e organizzò proteste durante i concerti della filarmonica, costringendo alla fine la direzione a trattare. Altre volte la pressione internazionale si rivelò decisiva, come nel caso di UPS, dove il sostegno del sindacato americano Teamsters aiutò a far riassumere 151 lavoratori licenziati. Non sempre la solidarietà funzionò. Grandi clienti come Volkswagen e Toshiba preferirono appoggiare l’azienda anziché i dipendenti in lotta. Guardando al futuro gli autori evidenziano due tendenze contraddittorie. Da un lato, le privatizzazioni (ferrovie, porti) e l’espansione del subappalto rischiano di approfondire la precarietà mentre il governo cerca di contenere il conflitto con divieti di sciopero e leggi ad hoc. Dall’altro, però, la crescente miseria potrebbe spingere a nuove mobilitazioni, come dimostra lo sciopero del TDS (Turkish sailors union) dopo 66 anni di inattività. La vera sfida sarà unire lavoratori permanenti, subappaltati e migranti, superando le divisioni imposte dal sistema e riaffermando il conflitto di classe come motore del cambiamento.
4. Nuove strategie organizzative
L’industria petrolifera e del gas naturale rappresenta da oltre un secolo una componente vitale per l’economia indonesiana, con una storia che affonda le sue radici nel lontano 1885, quando nel nord di Sumatra ci fu il primo ritrovamento di un potenziale pozzo di petrolio. Oggi l’Indonesia mantiene un ruolo di primo piano nello scenario energetico globale, attestandosi tra i primi 20 produttori mondiali di greggio e vantando riserve accertate pari a 3,7 miliardi di barili. Nonostante questa rilevanza strategica, gli ultimi decenni hanno visto un progressivo declino del contributo del settore alle casse dello Stato: se nel 2006 gli introiti derivanti dal petrolio rappresentavano il 24,84% del gettito fiscale, nel 2016 questa percentuale è crollata al 3,44%, un dato che riflette sia le fluttuazioni dei mercati energetici globali sia le trasformazioni strutturali dell’economia nazionale. Al centro di questo settore si erge PT Pertamina, l’azienda di stato che dal 1968 detiene il monopolio delle attività petrolifere nel vasto arcipelago indonesiano. Nata come Perusahaan Tambang Minyak Negara, Pertamina ha vissuto il suo periodo d’oro durante gli anni del regime di Suharto (1967-1998), quando il boom dei prezzi del petrolio seguito alla crisi energetica del 1973 le permise di accumulare ricchezze immense. Questa prosperità nascondeva gravi problematiche gestionali: già un’inchiesta del 1970 aveva denunciato pratiche contabili opache, il mancato trasferimento degli utili all’erario e uno stile di vita eccessivamente lussuoso dei vertici aziendali. Negli anni ’90 le perdite dovute a inefficienze e corruzione raggiunsero la cifra astronomica di 5 miliardi di dollari in soli due anni, un sintomo della stretta simbiosi tra l’azienda, il regime autoritario e gli interessi militari che controllavano molte delle principali società statali. Con la caduta di Suharto nel 1998 e l’avvento della democrazia, Pertamina ha subito una radicale trasformazione. Sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale il governo indonesiano ha avviato un processo di liberalizzazione del settore energetico culminato nell’approvazione della Legge n. 22/2001 sul petrolio e gas. Questa normativa ha segnato la fine del monopolio statale, costringendo Pertamina a trasformarsi in un’impresa commerciale e aprendo il mercato downstream (raffinazione, distribuzione e vendita) ai capitali privati e stranieri. Le prime licenze per la vendita al dettaglio di prodotti petroliferi furono assegnate nel 2004 alla multinazionale Shell e alla malese Petronas mentre il governo ha progressivamente ridotto i generosi sussidi ai carburanti che gravavano sul bilancio pubblico, una misura particolarmente accentuata durante la presidenza di Joko Widodo. Nonostante queste riforme Pertamina continua a dominare il settore, soprattutto nel cruciale ambito della distribuzione. Un esempio emblematico di questa persistente centralità è il deposito di Plumpang, situato nella zona nord di Giacarta, a soli 1 km dal porto internazionale di Tanjung Priok. Costruito nel 1972 e entrato in funzione due anni dopo, questo impianto rappresenta il più grande terminale di stoccaggio carburanti non industriale al mondo, con 27 serbatoi in grado di contenere complessivamente 18 milioni di litri di combustibile. Ogni giorno da Plumpang partono i rifornimenti per le stazioni di servizio della capitale e delle città satellite (Bogor, Depok, Tangerang e Bekasi), un’area metropolitana dove circolano ben 17,5 milioni di veicoli e che consuma quotidianamente circa 9 milioni di litri di carburante. La gestione di questo snodo logistico fondamentale coinvolge tre diversi attori: Pertamina, che si occupa dell’aspetto tecnico-operativo; la sua consociata PT Pertamina Patra Niaga (PPN), responsabile della gestione delle cisterne e della distribuzione e una serie di società in outsourcing che forniscono manodopera attraverso contratti di appalto. Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta uno dei nodi più controversi del sistema e di questo si occupa il saggio “The Drivers Who Move This Country Can Also Stop It”: The Struggle of Tanker Drivers in Indonesia di Abu Mufakhir, Alfian Al’ayubby Pelu e Fahmi Panimbang. I circa 1.200 autisti che operano a Plumpang, infatti, lavorano in condizioni di estrema precarietà: contratti annuali rinnovabili, salari spesso inferiori al minimo legale e turni massacranti che superano regolarmente le 12 ore giornaliere, senza contare i tempi di carico e scarico. Questa forza lavoro, pur essendo essenziale per garantire il regolare approvvigionamento energetico della capitale, dove ogni stazione di servizio ha una riserva sufficiente per appena due giorni, opera in un limbo giuridico. Sebbene la Legge sul Lavoro n. 13/2003 vieti espressamente l’outsourcing per le attività core aziendali (come appunto la distribuzione carburanti), PPN continua ad appaltare il servizio a società terze che cambiano con frequenza. Le conseguenze di questo sistema ricadono pesantemente sui lavoratori: in caso di incidenti, non rari considerando le condizioni di traffico caotiche di Giacarta, sono gli autisti a doversi assumere la responsabilità per i danni alle cisterne mentre l’azienda spesso si sottrae agli obblighi assicurativi, come dimostra il caso del 2016 quando due lavoratori rimasti gravemente ustionati in un’esplosione non ricevettero nemmeno la retribuzione durante il periodo di convalescenza. Questa situazione riflette le contraddizioni del mercato del lavoro indonesiano nell’era post-Suharto: formalmente democratizzato ma sempre più soggetto a logiche neoliberali che hanno favorito la precarizzazione. Oggi una tipica azienda indonesiana presenta una forza lavoro composta per il 20% da dipendenti permanenti, per il 30% da contrattisti temporanei e per il rimanente 50% da lavoratori in outsourcing, una suddivisione che crea disparità salariali e di diritti anche a parità di mansioni svolte. Nel settore della logistica e dei trasporti, dove la distribuzione just-in-time richiede precisione e tempismo, questa flessibilità si traduce troppo spesso in sfruttamento, come dimostrano le proteste dei camionisti di Plumpang che, nonostante contribuiscano agli utili record di Pertamina (nel 2015 PPN ha registrato il massimo storico di profitti), continuano a lottare per un salario dignitoso e condizioni di lavoro più sicure. Le origini dell’organizzazione dei camionisti indonesiani che trasportano le cisterne risalgono al 2008, quando i lavoratori del deposito di Plumpang, uno dei principali centri di stoccaggio e distribuzione di carburante nel Paese, fondarono il sindacato Indonesian Tank Transport Workers’ Union (SBTTI). Questa mossa nacque come risposta ai cambiamenti nella gestione aziendale che minacciavano le già precarie condizioni lavorative dei guidatori, costretti a trasportare materiali pericolosi in turni estenuanti e senza adeguate tutele. Per due anni il SBTTI organizzò proteste e mobilitazioni ma la sua influenza rimase limitata, soprattutto a causa della frammentazione della forza lavoro e delle pressioni delle aziende. La svolta avvenne nel 2010, quando alcuni degli organizzatori più attivi del sindacato furono licenziati o trasferiti dalla PPN, la società che gestiva i depositi per conto della statale Pertamina, verso altri centri distributivi sparsi per l’Indonesia, come Surabaya (Giava Orientale), Yogyakarta (Giava Centrale) e altre città. Sebbene il SBTTI cessasse ufficialmente di esistere a Plumpang, questi attivisti continuarono clandestinamente a organizzare i lavoratori nei nuovi depositi, tessendo una rete di contatti e solidarietà tra i camionisti di diverse regioni. Questo lavoro sotterraneo, basato su riunioni informali e comunicazioni riservate, gettò le basi per una nuova forma di resistenza. Nel 2011 i frutti di questo impegno si concretizzarono nella nascita dell’Association for the Solidarity of Indonesia Fuel Tanker Drivers, un’organizzazione informale (paguyuban) che, a differenza del SBTTI, non si limitava a un solo deposito ma riuniva guidatori a livello nazionale, soprattutto nelle principali strutture dell’isola di Giava. Quest’isola, la più popolosa dell’Indonesia con i suoi 132 milioni di abitanti (pari al 58,3% della popolazione nazionale secondo i dati del 2007), rappresentava un terreno cruciale per la lotta, sia per la densità abitativa che per l’importanza strategica dei suoi depositi di carburante. I camionisti di altre regioni iniziarono ad aderire al movimento, consapevoli che solo un’azione coordinata avrebbe potuto contrastare lo sfruttamento sistematico. Il primo vero sciopero nazionale arrivò nel 2012, quando il paguyuban riuscì a paralizzare quasi tutti i depositi Pertamina a Giava, rivendicando salari minimi dignitosi e il riconoscimento di un contratto regolare, visto che molti lavoratori erano impiegati con accordi precari o addirittura privi di qualsiasi forma di tutela. La protesta fu repressa: la gestione rispose con licenziamenti di massa e minacce, costringendo i lavoratori a ripiegare su battaglie legali che, però, non portarono a risultati concreti. La svolta successiva avvenne nel 2015, quando i camionisti di Plumpang aderirono al Transport and Seaport Workers Union (SBTPI), un sindacato più strutturato affiliato alla Federation of Transport and Seaport Workers Union (FBTPI). Inizialmente solo 92 guidatori su 1.200 si iscrissero ma l’organizzazione iniziò a guadagnare terreno grazie a una strategia astuta: invece di attaccare frontalmente la PPN su temi salariali, il sindacato denunciò irregolarità nella cooperativa dei lavoratori, ottenendo nuove elezioni e inserendo propri rappresentanti nel comitato direttivo. Questo successo incrementò la fiducia nei confronti del sindacato che in pochi mesi arrivò a contare 300 iscritti. A marzo 2016 il SBTPI passò all’offensiva, presentando una serie di richieste precise: risarcimento per un collega morto in un incidente sul lavoro, accesso effettivo alla copertura sanitaria BPJS (molti lavoratori possedevano la tessera ma non erano registrati nel sistema) e l’adeguamento dei salari al minimo legale visto che per anni erano stati pagati al di sotto degli standard. La risposta della PPN e della sua subappaltatrice PT GUN fu immediata: quattro leader sindacali furono licenziati. La reazione del sindacato fu altrettanto rapida, infatti venne indetto uno sciopero per il 24 marzo ma, in una vittoria senza precedenti, i quattro attivisti furono reintegrati prima ancora che la protesta iniziasse. L’ondata di mobilitazioni continuò nei mesi successivi. A giugno 2016 il sindacato presentò un esposto all’ufficio del lavoro di Jakarta Nord, elencando 12 violazioni fondamentali dei diritti dei lavoratori, tra cui turni di 8 ore, assicurazione pensionistica e sanitaria e il diritto alla contrattazione collettiva. Dopo settimane di proteste le autorità emisero un memorandum d’intesa che obbligava la PPN a rispettare queste richieste ma la società si rifiutò, scaricando la responsabilità sulla subappaltatrice GUN. La risposta dei lavoratori fu una serie di scioperi tra novembre e dicembre 2016, con oltre 800 camionisti in protesta per 18 giorni. Bloccarono strade, organizzarono picchetti e presidiarono la sede della Pertamina, ottenendo persino un incontro con un rappresentante del Palazzo Presidenziale. Le richieste erano chiare: fine delle intimidazioni, pagamento degli straordinari, assunzioni a tempo indeterminato e un piano pensionistico. Nonostante le trattative la PPN mantenne una posizione dura, limitandosi a promesse vaghe. La repressione si intensificò nel 2017 con licenziamenti mirati contro gli attivisti più esposti. A febbraio 32 guidatori furono licenziati e 64 sospesi con la scusa dell’età avanzata (oltre 55 anni) ma il sindacato riuscì a farli reintegrare. A giugno altri 350 lavoratori persero il lavoro a Plumpang e Merak, scatenando un nuovo sciopero di 8 giorni durante il Ramadan, un periodo critico per la distribuzione di carburante. L’impatto della lotta fu limitato perché la PPN assoldò guidatori sostitutivi da altre regioni e intensificò l’attività logistica. Il movimento ha comunque dimostrato una crescente capacità organizzativa, riuscendo a collegare diverse realtà regionali e a coinvolgere nuovi depositi. La lotta dei camionisti di cisterna indonesiani rappresenta oggi un caso emblematico di resistenza operaia in un settore strategico, dove la posta in gioco non è solo il miglioramento delle condizioni lavorative ma anche il diritto fondamentale a organizzarsi in un contesto dominato da pratiche di precarizzazione e repressione. La sfida futura sarà consolidare queste conquiste e trasformarle in riforme strutturali, evitando che le vittorie temporanee vengano erose dalle contromisure delle grandi aziende e del governo. Infine analizziamo il saggio Beyond the Waterfront: Maintaining and Expanding Worker Power in the Maritime Supply Chain di Peter Olney dove si parla del concetto di choke points, ovvero i punti critici nella catena logistica in cui i lavoratori, grazie alla loro posizione strategica, possono danneggiare l’economia globale. Questa idea non è nuova: fin dalle origini del movimento operaio, sindacalisti e teorici hanno dibattuto su quali categorie fossero più efficaci nel mobilitarsi e influenzare il sistema produttivo. Olney sottolinea che questi snodi di potere non sono statici ma si trasformano nel tempo a causa dell’evoluzione tecnologica, dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e delle dinamiche politiche. Un caso emblematico è quello dei lavoratori portuali, in particolare quelli organizzati nell’International Longshore and Warehouse Union (ILWU) che controllano porti cruciali come Los Angeles e Long Beach, attraverso i quali transita il 40% delle importazioni statunitensi dal Pacifico. La loro capacità di interrompere il flusso delle merci ha conseguenze immediate sull’economia, come dimostrato nel 2002, quando un lockout degli armatori paralizzò i porti della West Coast, costringendo l’amministrazione Bush a intervenire con il Taft-Hartley Act per riaprirli, data l’enorme ricaduta negativa su settori come l’automotive (ad esempio, la fabbrica NUMMI in California fermò la produzione in una settimana per mancanza di pezzi). Questo episodio conferma che, sebbene la delocalizzazione industriale abbia indebolito il potere operaio in molti settori, la logistica rimane un ambito in cui i lavoratori possono ancora esercitare un’influenza decisiva. Olney avverte che il potere dei portuali non è eterno. L’automazione e le nuove tecnologie, come i sistemi OCR (optical character recognition), i robot nei terminal e i software di gestione da remoto, stanno riducendo la dipendenza dal lavoro umano sulle banchine. Se un tempo erano i marine clerks con i loro clipboard a controllare il flusso delle merci, oggi questa funzione è svolta da algoritmi e sensori. Ciò sposta il potenziale potere verso nuove figure, come i programmatori delle macchine automatizzate o i tecnici che gestiscono i sistemi da migliaia di chilometri di distanza. La sfida per i sindacati è individuare questi nuovi choke points e organizzare i lavoratori che li presidiano, prima che il capitale trovi il modo di neutralizzarli. La storia dell’ILWU dimostra che i portuali hanno saputo usare il loro potere non solo per rivendicazioni salariali ma anche per obiettivi politici. Già nel 1937 rifiutarono di caricare rottami metallici destinati al Giappone imperialista e negli anni ’80 boicottarono le navi dirette in Sudafrica durante l’apartheid. Più recentemente, durante le proteste di Occupy Oakland nel 2011, i dockers si rifiutarono di attraversare i picchetti, bloccando temporaneamente il porto. Olney critica l’entusiasmo di alcuni attivisti che attribuiscono tali successi alla sola azione diretta dei manifestanti, ignorando il ruolo cruciale delle clausole contrattuali dell’ILWU che riconoscono il diritto di rispettare i picchetti. Senza un’organizzazione sindacale solida, semplici proteste non avrebbero lo stesso impatto. Un altro esempio di potenziale choke point è il sistema ferroviario statunitense che trasporta il 40% del PIL nazionale. Snodi come lo scalo di North Platte, in Nebraska, potrebbero essere punti di enorme influenza ma i lavoratori sono ostacolati dal Railway Labor Act del 1926 che limita il diritto di sciopero e dalla frammentazione in 13 sindacati di mestiere. Olney a questo punto cita il sociologo Erik Olin Wright che distingue tra potere strutturale (derivante dalla posizione strategica nel sistema economico) e potere associativo (dipendente dall’organizzazione e dalla coscienza di classe): senza una solida organizzazione anche i lavoratori più strategici faticano a tradurre il loro potenziale in azione efficace. Le sfide per l’ILWU e altri sindacati portuali sono immense. Oltre all’automazione, devono affrontare leggi repressive (come quelle che permettono ai governatori di bloccare gli scioperi portuali), l’ostilità dell’opinione pubblica verso i loro alti salari (mentre i lavoratori logistici “classici” sono sottopagati) e le proteste ambientaliste contro l’inquinamento portuale. La domanda cruciale è come espandere il potere sindacale oltre le banchine, organizzando i lavoratori della supply chain che guadagnano salari da fame e come conciliare la difesa dei posti di lavoro con le esigenze ecologiche. Se l’ILWU vuole mantenere la sua rilevanza dovrà reinventarsi, passando da una logica difensiva a una visione più ampia di solidarietà di classe, prima che il capitale renda obsoleti i suoi tradizionali punti di forza. La storia dell’ILWU è un esempio emblematico di come il potere sindacale non possa limitarsi a un singolo anello della catena produttiva ma debba necessariamente espandersi a tutta la filiera logistica per garantire una tutela efficace e duratura dei lavoratori. Fin dalle sue origini il sindacato ha compreso che la forza dei portuali sarebbe stata vulnerabile se non avesse incluso anche i lavoratori impiegati nei magazzini, nelle fabbriche e in tutti i settori connessi al movimento delle merci. Questo approccio strategico, noto come March Inland, ha segnato la crescita dell’ILWU in California e nelle Hawaii negli anni ’30 e ’40, trasformandola in un attore politico e sociale di primaria importanza. Negli anni ’30, dopo lo sciopero marittimo del 1934 che portò alla nascita dell’ILWU, i leader sindacali si resero conto che i lavoratori dei magazzini portuali, spesso sottopagati e non sindacalizzati, rappresentavano una minaccia concreta: potevano essere usati come manodopera a basso costo per erodere i diritti conquistati dai dockworkers. Per questo il sindacato decise di organizzare anche loro, creando una solida alleanza tra chi scaricava le merci e chi le gestiva nei depositi. Questa strategia si rivelò vincente: in California la divisione magazzinieri dell’ILWU arrivò a superare numericamente quella dei portuali, ampliando notevolmente l’influenza politica del sindacato in città come San Francisco e Seattle. Alle Hawaii l’approccio fu ancora più radicale. Lou Goldblatt, uno dei principali strateghi dell’ILWU, capì che per consolidare il potere dei portuali era necessario organizzare i lavoratori delle piantagioni di zucchero e ananas, controllate dalle potenti Big Five, le multinazionali che dominavano l’economia dell’arcipelago. Tra il 1943 e il 1945, l’ILWU riuscì a sindacalizzare migliaia di braccianti agricoli, diventando la forza sindacale e politica più influente delle Hawaii. Tanto che, quando nel 1959 si discusse l’annessione delle Hawaii come 50° stato degli USA, alcuni membri del Congresso misero in dubbio la lealtà degli abitanti proprio per la forte presenza dell’ILWU, guidata da figure come Jack Hall, un comunista che aveva lavorato a stretto contatto con Goldblatt. A partire dagli anni ’70 la delocalizzazione industriale e l’ascesa della logistica globalizzata hanno eroso questa base sindacale. Le fabbriche e i magazzini chiusero o si spostarono lontano dai porti, sfuggendo al controllo dell’ILWU. In California, ad esempio, la Local 6, che negli anni ’50 contava 20.000 iscritti tra i magazzinieri, oggi ne ha meno di 1.000. Alle Hawaii le piantagioni di zucchero e ananas sono scomparse ma l’ILWU ha saputo riconvertirsi, organizzando i lavoratori del settore alberghiero e turistico, diventando così il più grande sindacato privato dell’arcipelago. Oggi l’ILWU si trova di fronte a una nuova sfida: il divario crescente tra l’occupazione portuale e l’esplosione del lavoro logistico nell’entroterra. Tra il 1980 e il 2010 il volume di container movimentati sulla West Coast è aumentato del 620%, passando da 2,1 a 14,9 milioni di TEU mentre il numero di portuali è cresciuto solo del 35%, da 10.245 a 13.829 lavoratori. Al contrario, in altri settori della supply chain l’aumento è stato vertiginoso: +581% nei magazzini (da 12.738 a 86.737 lavoratori), +274% nei servizi informativi logistici (da 12.816 a 47.890) e +64% nel trasporto su gomma (da 156.808 a 257.673). Questi dati, elaborati da Peter V. Hall, mostrano chiaramente che il futuro del lavoro non è più solo sui moli ma in tutta la catena logistica, spesso gestita da lavoratori precari, immigrati e senza diritti. Negli ultimi anni, ci sono stati tentativi di organizzare questi lavoratori, come il progetto Warehouse Workers United (WWU) in California, sostenuto dalla federazione Change to Win, o le campagne per i diritti degli autotrasportatori portuali (drayage drivers), molti dei quali sono classificati come independent contractors e pagati a cottimo. Queste iniziative hanno spesso fallito perché mancava il sostegno attivo dei portuali. L’ILWU, invece, potrebbe sfruttare il suo potere contrattuale con i principali operatori portuali, come la Pacific Maritime Association (PMA), per organizzare anche i lavoratori dei magazzini e degli uffici logistici collegati alle stesse aziende. Un altro fronte cruciale è quello tecnologico. L’automazione e la robotica stanno trasformando il lavoro portuale ma invece di opporsi al cambiamento l’ILWU dovrebbe formare i propri membri per gestire queste nuove tecnologie, creando corsi professionali in collaborazione con scuole e università. Come disse Harry Bridges, storico leader dell’ILWU, non ha senso combattere contro le macchine: meglio adattarsi e trovare nuovi spazi di potere. Infine, la questione ambientale è sempre più centrale. L’inquinamento causato da navi e camion nei porti sta scatenando proteste delle comunità locali e l’ILWU deve schierarsi dalla loro parte, promuovendo soluzioni sostenibili come il “short sea shipping” (trasporto costiero via nave) per ridurre il traffico su gomma.
L’ILWU deve ripensare se stessa non più come un sindacato di portuali ma come un’organizzazione della supply chain capace di unire tutti i lavoratori della logistica, dai magazzinieri ai camionisti, dagli informatici ai tecnici della robotica. Solo così potrà mantenere il suo potere in un’economia sempre più globalizzata e automatizzata. La lezione della March Inland è più attuale che mai: isolarsi significa indebolirsi mentre l’unione fa la forza.