Per l’ottantesimo anniversario della liberazione del nostro paese intendiamo analizzare il capolavoro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza con l’intento di offrire una lettura scientificamente accurata di quegli eventi così importanti per la nascita della nostra Repubblica.
1. Le radici della Resistenza
Il 23 agosto 1943, Vittorio Foa, uscendo dal carcere di Castelfranco Emilia, lasciò al compagno di cella Bruno Corbi una copia della Scienza Nuova di Giambattista Vico con una dedica emblematica: “per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità”. Queste parole, tratte dallo stesso Vico, riflettevano non solo il crollo del fascismo ma anche l’incertezza del futuro. Ciò che appariva come una sconfitta poteva trasformarsi in un’occasione di rinascita. Foa si riferiva agli ultimi penosi anni del fascismo ma quella frase si rivelò profetica per l’immediato futuro, anticipando l’ampliamento del campo del possibile che l’8 settembre e la Resistenza avrebbero aperto. Come lo stesso Foa avrebbe scritto in seguito, “Durante la Resistenza e, per un breve momento, all’atto della liberazione, tutto ci era parso possibile”. L’8 settembre 1943, con l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, segnò una frattura drammatica. La guerra, già impopolare e logorante, era stata vissuta dalla maggior parte degli italiani come un peso insostenibile. Il desiderio di pace era diffuso tra i soldati, stanchi di combattere una guerra mal gestita e senza motivazioni condivise, e tra la popolazione civile, stremata dai bombardamenti, dalla fame e dalle privazioni. Quando, il 25 luglio, Mussolini fu deposto, molti credettero che la guerra fosse finita ma la speranza si infranse con la continuazione delle ostilità sotto Badoglio. L’armistizio dell’8 settembre fu inizialmente accolto con gioia, come la fine del conflitto, tuttavia la realtà si rivelò ben più amara: l’esercito italiano, lasciato senza ordini chiari, si disgregò, i tedeschi occuparono il paese e la monarchia fuggì, lasciando l’Italia nel caos. Le reazioni furono immediate e contrastanti. A Cuneo, Nuto Revelli descrisse soldati che “si abbracciano, bustine che volano”, convinti che la guerra fosse davvero finita. A Venezia, Franco Calamandrei annotò nel suo diario “esclamazioni festose, canti giulivi”, seguiti però da un improvviso “annichilimento, silenzio, confusione”. Molti militari, abbandonati dai loro ufficiali, si trovarono smarriti: “ci hanno traditi, gli ufficiali sono scappati, anche il re ci ha abbandonati!” gridavano i soldati a Padova. Un geniere torinese ricordò che, dopo due giorni senza ordini, “abbiamo ritenuto opportuno tagliare la corda, perché in quelle condizioni l’unica cosa che ci poteva capitare era di essere presi in trappola come tanti topi”. La dissoluzione dell’esercito fu totale: depositi saccheggiati, armi abbandonate, uniformi strappate per assumere abiti civili. Un cannoniere di marina descrisse la scena su un’isola istriana: “allora lì se sfasciò tutto; la caserma completamente distrutta, li cannoni a mare, tutto; se sfasciò tutto”. Ma se per molti l’8 settembre fu un crollo, per altri divenne l’inizio di una resistenza. I partiti antifascisti, ricostituitisi dopo il 25 luglio, cercarono di organizzare una risposta. Già nell’aprile 1943, Ricostruzione, organo del fronte antifascista, aveva chiesto il “passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace”. Dopo l’armistizio, i comunisti, gli azionisti e i socialisti spinsero per una lotta attiva contro i tedeschi. L’Unità del 4 agosto titolava: “I comunisti lottano in unione con gli italiani di tutte le tendenze sulla via della pace e della libertà per salvare la patria dalla rovina”. Il 12 agosto, lo stesso giornale incitava: “Soldati! Non sparate sugli operai. Essi lottano per farvi tornare a casa”. Duccio Galimberti, a Cuneo e Torino, lanciò appelli alla guerra contro i tedeschi, mentre il Partito d’Azione, in un convegno semiclandestino a Firenze (2-7 settembre), discusse la necessità di una lotta armata. Tuttavia la risposta popolare non fu immediata. La delusione per il tradimento percepito delle istituzioni (la fuga del re, l’abbandono dell’esercito) creò un vuoto di potere. La gente si sentì “completamente isolata e abbandonata proprio nel momento della crisi maggiore”, come avrebbe scritto il CLN toscano. A Roma, i giornali minimizzarono la situazione: Il Messaggero del 12 settembre titolava “Calma e fiducia”, mentre Il Piccolo parlava di “collaborazione per il mantenimento dell’ordine” anche se quest’ultimo era ormai un’illusione. In questo caos emerse però una solidarietà spontanea. I civili aiutarono i soldati sbandati: macchinisti rallentarono i treni per permettere loro di fuggire, contadini offrirono cibo e vestiti. A Torino, donne incitarono i militari a ribellarsi, mentre ad Acqui una folla liberò i soldati imprigionati dai tedeschi. La classe operaia, soprattutto nelle grandi fabbriche del Nord, mostrò una reazione più organizzata. A Torino, dopo l’annuncio dell’armistizio, operai assaltarono le caserme chiedendo armi: “Torino come Stalingrado” fu uno degli slogan. Un operaio ternano, anni dopo, ricordò con rabbia: “l’8 settembre a li tedeschi potevamo levàgli anche li pili del sedere… tutto potevamo fà”. Ma la Resistenza non nacque subito compatta. Molti, disillusi, cercarono solo di sopravvivere; altri aderirono alla Repubblica Sociale Italiana (RSI), credendo in una riscossa fascista. Per quelli che scelsero la lotta, però, l’8 settembre divenne un momento fondante. Come scrisse Giaime Pintor, i soldati che vagavano per l’Italia “erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti”. L’8 settembre fu dunque una tragedia nazionale e allo stesso tempo l’inizio di una rinascita. La caduta dello Stato fascista lasciò gli italiani smarriti e in quel vuoto si formò la Resistenza che avrebbe ridato al paese una nuova identità. Come scrisse Italo Calvino, riflettendo su quegli eventi, l’Odissea, il mito del ritorno a casa, era anche “la storia degli otto settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici”. E in quel difficile ritorno molti italiani scoprirono che la vera casa non era più quella di prima bensì una da costruire insieme, attraverso la lotta e la riconquista della libertà. Questo momento di rottura rivelò verità che prima erano rimaste nascoste o accessibili solo a pochi, costringendo tutti a prendere coscienza della realtà politica e morale del Paese. La caduta dello Stato fascista e la mancanza di un’autorità riconosciuta misero in discussione il tradizionale rapporto tra cittadini e potere. Come osservava Hobbes, l’obbedienza allo Stato cessa quando questo non è più in grado di proteggere i suoi cittadini. Gli italiani si trovarono così in una condizione di estrema libertà e di estrema vulnerabilità, in cui ogni scelta individuale assumeva un peso decisivo. Alcuni, soprattutto nelle prime settimane dopo l’armistizio, vissero questo vuoto come un’occasione di solidarietà spontanea, come testimoniato da un colonnello inglese che descrisse comunità rurali dove, in assenza di autorità, la gente si aiutava reciprocamente senza violenza. Questa armonia effimera si dissolse rapidamente con il riemergere di divisioni e conflitti una volta ripristinati i meccanismi del potere. La scelta di unirsi alla Resistenza fu spesso vissuta come un atto di disobbedienza radicale, non solo contro un governo illegittimo ma contro il principio stesso del dominio dell’uomo sull’uomo. Al contrario, molti fascisti della RSI giustificarono le loro azioni con l’obbedienza agli ordini, rivelando una mentalità opposta a quella dei partigiani. La Resistenza rappresentò così la prima esperienza di disobbedienza di massa nella storia dell’Italia unita, un fatto di enorme rilevanza educativa per una generazione cresciuta sotto il regime, dove l’obbedienza era stata elevata a virtù suprema. Le motivazioni che spinsero gli italiani a schierarsi furono molteplici: antifascismo preesistente, desiderio di riscatto dopo anni di oppressione, rabbia per le violenze nazifasciste, spirito di avventura o semplice istinto di sopravvivenza. Al di là delle ragioni individuali, la scelta resistenziale fu spesso accompagnata da un senso di rinascita morale, descritto da molti testimoni come un momento di straordinaria intensità umana e politica. Scrittori come Italo Calvino, Natalia Ginzburg e Cesare Pavese hanno raccontato questa esperienza come un periodo di eccezionale vitalità, nonostante i pericoli e le sofferenze. Partigiani come Franco Venturi e Roberto Battaglia parlarono di una “gioia sfrenata” nel combattere per la libertà, mentre altri, come il gappista Rosario Bentivegna, ricordarono la sensazione di essere “vicini a tutti” in una lotta condivisa. Le scelte non furono sempre immediate o facili. Molti vissero momenti di incertezza, influenzati da circostanze contingenti o da incontri determinanti. Alcuni militari, ad esempio, inizialmente esitarono prima di unirsi alla Resistenza mentre altri, come il futuro comandante partigiano Davide Lajolo, passarono attraverso un travaglio interiore prima di abbandonare il fascismo. Allo stesso modo, tra i sostenitori della RSI vi furono diverse motivazioni: alcuni agirono per fedeltà ideologica, altri per paura o opportunismo, altri ancora per un senso distorto di patriottismo. Un aspetto peculiare della Resistenza italiana fu la consapevolezza che la vittoria alleata era ormai inevitabile, grazie alle sconfitte subite dalla Germania su tutti i fronti. Questo, però, non sminuì il coraggio di chi scelse di combattere, anzi, rese ancora più significativo il loro sacrificio, poiché molti sapevano di rischiare la vita senza la certezza di vedere la liberazione. Come scrisse il partigiano ebreo Emanuele Artom, “mi pare amarissimo vedere la vittoria sicura, ma sembra di non poterla afferrare e godere perché la morte ci strappa via”. La Resistenza non fu solo una lotta militare ma anche un momento di rifondazione morale e politica dell’Italia. Antifascisti come Vittorio Foa e Ferruccio Parri videro nell’occupazione tedesca un’occasione per riscattare il Paese dalla complicità con il fascismo mentre il Partito d’Azione sottolineò la necessità di una “rivoluzione” che andasse oltre la semplice liberazione. La scelta resistenziale divenne così un atto di riscatto collettivo, un modo per riconquistare dignità dopo vent’anni di dittatura.
Il problema del tradimento, dice Pavone, emerse in tutta la sua drammaticità nell’Italia del 1943-45, diventando una lente attraverso cui tutte le parti in conflitto, fascisti, antifascisti, monarchici, tedeschi, legittimavano le proprie scelte e delegittimavano quelle avversarie. Dopo l’8 settembre 1943, il crollo del regime fascista e l’armistizio con gli Alleati scatenarono una guerra civile in cui ognuno si sentiva tradito e, al tempo stesso, accusava gli altri di tradimento. I tedeschi, ad esempio, considerarono il re Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio dei felloni per aver spezzato l’alleanza dell’Asse senza preavviso, abbandonando la guerra al loro fianco. Goebbels, nel suo diario del 10 settembre 1943, scrisse che gli italiani, con la loro infedeltà, avevano perso ogni diritto a uno Stato nazionale moderno e meritavano una punizione esemplare. Dall’altra parte, i fascisti della RSI condannarono il re e Badoglio come voltagabbana, colpevoli di aver consegnato l’Italia al nemico. Un manifesto fascista dell’epoca incitava i soldati a disertare il regio esercito, sostenendo che il tradimento del re li aveva sciolti da ogni obbligo di fedeltà. Ma anche molti antifascisti, come Gaetano Salvemini, pur odiando Hitler, definirono l’armistizio un atto di slealtà, temendo che l’Italia sarebbe passata alla storia come una nazione infida, capace di tradire prima i suoi alleati nel 1915 e poi la Germania nel 1943. Al centro del dibattito morale e giuridico c’era il nodo del giuramento di fedeltà, prestato sia al re che a Mussolini. Per i militari e i funzionari pubblici questo creava un dramma di coscienza: obbedire al governo Badoglio significava rinnegare il giuramento al Duce mentre aderire alla RSI voleva dire ribellarsi alla monarchia. Molti ufficiali, specialmente quelli più anziani, rimasero fedeli al re, ritenendo che il giuramento alla Corona avesse un valore superiore a quello prestato al regime. Ad esempio, 245 sottotenenti della scuola di cavalleria di Pinerolo, internati in un campo tedesco a Przemyśl, celebrarono una cerimonia per giurare nuovamente fedeltà al re, nonostante non fossero obbligati a farlo. Un ufficiale fucilato dai tedeschi in Grecia scrisse prima di morire: “Sono sempre stato fedele ai giuramenti fatti e per il giuramento di fedeltà al Re d’Italia do la mia vita”. La Chiesa cattolica cercò di mediare la questione, ricordando che Pio XI, nell’enciclica Non abbiamo bisogno del 1931 aveva già messo in dubbio la validità morale del giuramento al fascismo, suggerendo ai credenti di aggiungere mentalmente una riserva (“salvi i doveri del buon cristiano”). Il giornale democristiano Il Popolo sostenne che il giuramento al re era libero e sacro mentre quello a Mussolini era stato estorto con la coercizione. Questa distinzione non risolveva il dilemma: se il re poteva tradire la Germania, perché i cittadini non potevano tradire il re? Nella Resistenza il tradimento assunse un significato diverso: non più una questione di lealtà istituzionale bensì di rottura con un passato oppressivo. I partigiani vedevano nel fascismo il vero tradimento verso il popolo italiano e molti rifiutarono qualsiasi giuramento formale, considerandolo un retaggio del regime. Alcune formazioni partigiane, soprattutto quelle di ispirazione comunista, introdussero nuovi giuramenti per rafforzare la coesione. Le Brigate Garibaldi, ad esempio, adottarono una formula in cui si prometteva di “lottare con ogni mezzo, fino al sacrificio supremo, per la distruzione del nazifascismo e per un’Italia libera e democratica”, minacciando la morte per chi avesse disertato. Dall’altra parte, i fascisti della RSI vissero l’8 settembre come un trauma collettivo, un tradimento che richiedeva una risposta brutale. Per loro la fedeltà alla Germania e ai caduti della guerra era un imperativo morale. Un milite della Guardia Nazionale Repubblicana scrisse alla madre: “Se avessi tra le mani quelli che ci hanno tradito, ne farei spezzatino”. Altri, come il maggiore Rizzatti, giustificarono la loro scelta con l’onore militare, citando il regolamento che obbligava a disobbedire solo se l’ordine era “contrario alla Patria”. Non mancavano voci più disperate, come quella di un giovane fascista che, prima di essere fucilato, gridò: “Guardami, mamma, sono tuo figlio… non sono un traditore!”. La guerra civile trasformò il tradimento in un’ossessione paranoica. I fascisti temevano i “traditori” nelle loro stesse file, gli opportunisti del vecchio regime, mentre i partigiani sospettavano delle spie e degli infiltrati. In questo clima, la violenza divenne spesso una forma di purificazione. Il maggiore Carità, noto per la sua crudeltà, rifiutò a un condannato la fucilazione al petto, gridandogli: “Devi morire come muoiono i traditori!”. Alla fine, la questione del tradimento riflesse la frattura profonda di un’Italia divisa tra due visioni inconciliabili: da una parte chi vedeva nella Resistenza la redenzione da un ventennio di dittatura; dall’altra, chi considerava la RSI l’ultimo baluardo dell’onore nazionale. La storia avrebbe dato ragione ai vincitori e le ferite di quel periodo, il sospetto, la vendetta, il dilemma della fedeltà, rimasero aperte per decenni, dimostrando che, in tempo di guerra civile, la linea tra eroe e traditore è sempre più sottile di quanto sembri. Pavone esplora anche in profondità il tormentato rapporto tra antifascismo, patriottismo e desiderio di sconfitta dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, un nodo cruciale che segnò la coscienza politica e morale di intere generazioni. Fin dall’inizio del conflitto gli antifascisti si trovarono divisi tra la ferma opposizione al regime e il legame emotivo con la patria, combattendo l’infamante accusa di essere il “partito dello straniero”, un’etichetta che il fascismo sfruttò abilmente per delegittimare ogni dissenso. Già nel novembre 1941 un gruppo di giovani antifascisti scriveva con amarezza di essere “ridotti a disperare dell’Italia e degli Italiani, a pensare agli aiuti esterni come a quelli che soli possono liberarci dalla tirannia”, una posizione estrema ma comprensibile in un contesto di oppressione totalitaria. Questa contraddizione non era nuova nella storia, infatti già nel 1858, Fustel de Coulanges aveva osservato come, in certe circostanze eccezionali, un cittadino potesse vedere nella sconfitta del proprio paese non un tradimento ma quasi una forma di patriottismo. In Italia, espressioni come quella dello studente Artom, “l’interesse dell’Italia è di restare sconfitta”, o del filosofo Pietro Chiodi, “chi non è libero non ha Patria, chi non ha Patria non ha doveri militari”, riflettevano un sentimento diffuso tra gli oppositori del regime. Persino un acuto osservatore come il capo della polizia Bocchini aveva intuito che “in Italia i soli che hanno motivi per desiderare la guerra sono gli antifascisti, perché soltanto con la guerra potranno liberarsi dell’odiato regime”. Il fascismo, identificandosi completamente con la nazione, aveva reso la vittoria militare inseparabile dalla sopravvivenza del regime, trasformando ogni speranza di liberazione in un augurio di sconfitta. Come notato da uno studio dell’epoca, il regime aveva “proposto alla nazione come posta decisiva della lotta la conservazione o meno del fascismo”, generando una “ripugnanza invincibile” verso una vittoria che avrebbe significato la perpetuazione della dittatura. Di fronte a questa prospettiva, molti italiani vissero i primi anni di guerra in un clima di rassegnata attesa, divisi tra la speranza che la sconfitta portasse alla caduta del fascismo e l’angoscia per le conseguenze che ciò avrebbe comportato per il paese. Le diverse correnti antifasciste affrontarono questo dilemma in modi contrastanti. Carlo Rosselli, leader di Giustizia e Libertà, già nel 1933 aveva legato esplicitamente la lotta antifascista alla sconfitta dell’Italia fascista, scrivendo che “Mussolini può lanciare fin d’ora il suo anatema contro i traditori della patria fascista”. Al contrario, socialisti come Pietro Nenni, memori del “tradimento” del 1914, inizialmente rifiutarono l’idea di una guerra antifascista, temendo che si risolvesse in un nuovo intervento imperialista. Il Partito Comunista Italiano, dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, oscillò tra la condanna della guerra come “conflitto imperialista” e il pieno sostegno alla Resistenza dopo l’attacco tedesco all’URSS nel 1941. Figure come Altiero Spinelli e Vittorio Foa espressero con lucidità il paradosso di un patriottismo che auspicava la sconfitta: Spinelli ricordò anni dopo di aver sperato nella disfatta dell’Italia mentre Foa, dal carcere di Regina Coeli, scriveva ai genitori che “contro questa tensione spirituale le divisioni corazzate germaniche hanno scarsa influenza”. Anche il Partito d’Azione rivendicò con fierezza questa posizione, scrivendo su La Libertà che “non abbiamo esitato un solo istante a desiderare la sconfitta del nostro Paese, infestato dal fascismo, per il trionfo dell’ideale di giustizia e di libertà”. Tra i cattolici le reazioni furono altrettanto complesse. Se da un lato molti sostenevano la guerra in nome della patria e dell’ordine costituito, figure come don Primo Mazzolari misero radicalmente in discussione la moralità della violenza bellica, arrivando a chiedersi se la condanna della Chiesa riguardasse solo le guerre “inutili” o anche quelle “ingiuste”. Altri interpretarono il conflitto come un castigo divino per la scristianizzazione della società, un tema che emerge con forza nelle lettere di soldati e civili: “questo è un castigo di Dio perché siamo troppo cattivi”, scriveva un anonimo corrispondente. La maggior parte della popolazione, inizialmente passiva e rassegnata, visse la guerra in una sorta di “drôle de guerre” all’italiana, sperando di limitare al minimo i sacrifici e lasciando che fossero i tedeschi a combattere. Come notò un informatore fascista, molti credevano che l’Italia potesse “raccogliere i frutti del nostro appoggio politico e militare” senza pagare un prezzo troppo alto. Solo dopo le disfatte militari e l’occupazione tedesca questa apatia si ruppe, trasformandosi in una partecipazione attiva alla Resistenza, vista come lotta di liberazione e tentativo di riconquistare un’identità nazionale svincolata dal fascismo. La percezione del nemico era spesso confusa: i tedeschi, alleati ma visti come militarmente superiori, apparivano come figure quasi mitiche, capaci di ritirarsi in automobile mentre gli italiani erano costretti a fuggire a piedi, un’immagine che, al di là della sua veridicità, simboleggiava l’arretratezza e l’impreparazione italiana. Allo stesso modo, i soldati inglesi, sovietici e americani sembravano appartenere a un’altra epoca, più avanzata e determinata. Tranne una minoranza di combattenti ideologicamente schierati, pochi fascisti convinti e ancor meno antifascisti consapevoli, la maggior parte dei soldati italiani non era del tutto priva di motivazioni ma queste erano fragili, oscillanti tra un vago senso del dovere, la rassegnazione e lo “spirito di corpo” che teneva uniti i reparti ma non forniva una solida base ideologica. Un tema centrale affrontato da Pavone è quello dell’espiazione, vissuta da molti come un sacrificio inevitabile, quasi religioso, privo però di una prospettiva futura. Diversamente dai partigiani della Resistenza, che vedevano nella loro lotta un riscatto verso un futuro migliore, i soldati al fronte spesso interpretavano la sofferenza come una sorta di espiazione fine a se stessa, un olocausto personale in nome di una causa oscura. Testimonianze come quella di un caporale caduto in Marmarica, che scriveva di morire “per la grande infinita patria italiana” come atto di clemenza divina, o di un cattolico antifascista che affermava di compiere il proprio dovere “di fronte a Dio” ma rifiutando ogni idealità fascista, mostrano come la dimensione religiosa si intrecciasse con quella patriottica in modo ambiguo. La mancanza di un nemico chiaramente identificato contribuiva alla passività dei soldati italiani che spesso si sentivano inferiori rispetto a avversari più motivati e organizzati. Un ispettore del PNF in Albania notò come i reparti italiani fossero pervasi da un “fatalismo melanconico e rassegnato” mentre i nemici apparivano animati da una “mania religiosa” che li spingeva a combattere fino alla morte. Anche la censura militare registrava nelle lettere dal fronte un tono di depressione, persino quando venivano espresse frasi di incoraggiamento. Giorgio Rochat ha osservato che il basso numero di fucilazioni per diserzione rispetto alla Prima Guerra Mondiale era un indicatore della scarsa convinzione con cui i soldati affrontavano il conflitto: solo una forte fede nella causa poteva spingere i comandi a reprimere duramente. Le reazioni alla guerra furono contraddittorie. Alcuni cercarono nell’avventura bellica una fuga dalla monotonia della vita civile, come dimostrano le parole di un universitario sardo che vedeva nella guerra l’unica cosa capace di scuotere il suo “spirito inquieto”, o di giovani salernitani che si arruolarono nei paracadutisti perché “qui non si può più vivere”. Altri caddero in un fatalismo rassegnato, mentre l’impatto con la realtà del fronte portò alcuni a negare la sconfitta, altri a sentirsi traditi, altri ancora a sviluppare una coscienza antifascista. La ritirata di Russia rappresentò una svolta cruciale, un trauma collettivo che segnò il fallimento psicologico della guerra fascista e spinse molti, come Nuto Revelli, a un drastico ripensamento. Revelli, che aveva inizialmente creduto nei valori militari, giunse a convertirli nella lotta partigiana, trasformando il desiderio di vendetta per i caduti in Russia in un impegno attivo nella Resistenza. La lapide di Boves, la quale commemorava i morti in Russia e quelli nella Resistenza, simboleggiava questa continuità. Tuttavia non tutti i reduci reagirono allo stesso modo, infatti alcuni conservarono un rancore verso i comandi e lo Stato, altri svilupparono un “complesso di colpa” che li spinse a cercare un riscatto. L’incontro con i partigiani jugoslavi e la repressione antipartigiana nei Balcani lasciarono un’impronta ambivalente. Una parte degli ufficiali italiani impararono da quella guerriglia, adattandone le tattiche alla Resistenza italiana mentre altri si abituarono a una violenza che avrebbe influenzato la RSI. La “bontà degli italiani”, spesso celebrata come contrappunto alla brutalità tedesca, era in realtà un atteggiamento prepolitico che in guerra si traduceva in vulnerabilità agli ordini più crudeli. Il fallimento del fascismo nel creare un “uomo nuovo” fu evidente: nonostante l’ambizione di fondere il cittadino e il soldato in un unico ideale guerriero, la guerra rivelò l’incapacità del regime di politicizzare veramente le forze armate. Un maggiore del regio esercito scrisse al figlio che il fascismo “non si è saputo creare una nuova gioventù”, condannandosi così all’obsolescenza. I reduci svilupparono un forte risentimento verso gli imboscati e i privilegiati, un sentimento che in alcuni casi si trasformò in adesione alla Resistenza. Questo “antifascismo reducistico” emerse come reazione alle disillusioni della guerra, con molti ex combattenti che cercarono un riscatto nella lotta partigiana. Figure come Giaime Pintor o lo stesso Revelli incarnarono questo passaggio dalla disciplina militare all’impegno resistenziale, trasformando l’esperienza bellica in una lezione di libertà. Il ripudio del regio esercito da parte dei partigiani rappresentò uno degli aspetti più radicali e significativi della Resistenza italiana, un rifiuto che andava ben oltre la semplice condanna politica per il collasso dell’8 settembre ma che investiva l’intera istituzione militare, il suo stile di vita, la sua cultura gerarchica e persino i suoi simboli. Questo distacco non fu solo una reazione immediata al tradimento percepito dopo l’armistizio ma un vero e proprio rigetto etico di un sistema considerato corrotto, incapace e moralmente compromesso con il fascismo. Fin dai primi giorni della lotta partigiana i documenti ufficiali delle formazioni resistenziali, come quelli del CLNAI o del Corpo Volontari della Libertà (CVL), parlarono esplicitamente del regio esercito come di un organismo “disciolto”, sottolineando che i combattenti della Resistenza non erano suoi eredi ma soldati di un esercito nuovo, rivoluzionario, nato dalla volontà popolare. Ugo La Malfa, in una frase lapidaria, scrisse che “il grande esercito di Badoglio fu e morì in Italia l’8 settembre 1943”, sintetizzando così il senso di una frattura irreparabile. Le motivazioni di questa condanna erano molteplici e profondamente radicate nell’esperienza diretta dei resistenti. In primo luogo c’era l’accusa di tradimento: molti partigiani, soprattutto ex militari sbandati dopo l’armistizio, si sentirono abbandonati dai loro superiori, consegnati ai tedeschi senza alcuna resistenza organizzata. Un superstite ricordò con amarezza: “non ci fu più dubbio. Eravamo stati ignobilmente traditi [dagli alti comandi] e consegnati ai tedeschi”. Questo senso di abbandono alimentò un risentimento duraturo che si trasformò in disprezzo per l’intera casta militare, vista come inetta e codarda. Il rifiuto non riguardava solo il comportamento degli ufficiali durante il caos dell’8 settembre visto che investiva l’intera struttura dell’esercito, considerato un’istituzione corrotta, basata su privilegi ingiustificati e su una gerarchia oppressiva. Nei documenti partigiani si leggevano accuse durissime contro la “disparità sociale e di conseguenza di trattamento fra ufficiali e truppa”, indicata come una delle ragioni fondamentali del crollo del regio esercito. Al contrario, nelle formazioni partigiane si esaltava l’uguaglianza, la condivisione delle sofferenze, l’assenza di privilegi: “l’ufficiale garibaldino divide il pane col soldato e col soldato il giaciglio e il fuoco”, scriveva un manifesto delle brigate Garibaldi. Questa contrapposizione tra lo stile di vita del vecchio esercito e quello delle bande partigiane era un tema ricorrente nelle testimonianze. Dante Livio Bianco, comandante giellista, raccontò di un tenente degli alpini che, diventato partigiano, propose addirittura di fucilare il colonnello del suo ex reggimento, ritenendolo un traditore. Altri ricordavano con orgoglio che nei reparti della Resistenza non esistevano i formalismi della disciplina militare: i comandanti erano scelti per le loro capacità, non per i gradi, e le decisioni spesso si prendevano collettivamente. “Lì non c’era chi comanda e chi obbedisce”, ricordava un partigiano, sottolineando la differenza radicale con la rigida suddivisione di ruoli del regio esercito. Anche quando alcuni ufficiali cercarono di unirsi alla lotta partigiana, spesso incontrarono diffidenza. In molti casi vennero visti con sospetto, accusati di voler imporre la vecchia mentalità militarista o di cercare semplicemente un rifugio sicuro. Un rapporto garibaldino osservava con ironia che alcuni ufficiali, appena arrivati nelle formazioni, pretendevano di essere chiamati “signor tenente” e rifiutavano il saluto col pugno chiuso. Altri documenti raccontano di scontri fisici tra partigiani e ex militari che cercavano di ripristinare le gerarchie tradizionali. Non tutti gli ufficiali furono respinti. Quelli che accettarono di integrarsi nello spirito della guerriglia guadagnarono rispetto e posizioni di comando ma anche in questi casi il loro passato nell’esercito regio non era un titolo di merito, anzi, spesso era visto come un ostacolo da superare. Come scrisse il commissario politico della divisione Garibaldi Natisone, “i gradi ricoperti nel regio esercito non contavano, anzi, talvolta potevano essere una remora”. Un discorso a parte meritano gli alpini, l’unico corpo che godette di una certa considerazione tra i partigiani, soprattutto per il loro comportamento in Russia. Tuttavia, anche questo mito fu messo in discussione quando alcuni reparti alpini aderirono alla RSI, come la divisione Monterosa, macchiandosi di repressione antipartigiana. Nuto Revelli, reduce dalla campagna di Russia e poi comandante partigiano, raccontò con dolore l’incontro con gli alpini in grigioverde repubblichino: “li ho visti uscire ammucchiati, come un branco di pecore. Ho tentato di riconoscerne almeno uno dei miei, ma erano tutti uguali”. Dall’altra parte, l’esercito della RSI, pur proclamandosi “nuovo” e fascista, ereditò molti dei vizi del regio esercito: corruzione, inefficienza, scarso morale tra le truppe. I volontari fascisti più fanatici disprezzavano i coscritti, considerandoli poco affidabili, mentre molti soldati obbligati a servire sotto Salò cercavano solo di sopravvivere o disertavano. Un rapporto della Guardia Nazionale Repubblicana ammetteva che gli ufficiali badogliani infiltrati diffondevano “disfattismo” e un soldato scriveva in una lettera censurata: “siamo stanchi di fare i militari”. Anche al Sud, dove il governo Badoglio cercò di ricostituire un esercito regolare, l’ostilità verso i vertici militari rimase forte. Molti soldati si sentivano traditi dall’8 settembre e rifiutavano di obbedire agli stessi ufficiali che li avevano abbandonati. Un carabiniere, in una lettera, esprimeva tutto il suo disprezzo: “quando vedo ufficiali gli sputerei in faccia”. Per quanto riguarda la militarizzazione delle bande partigiane, rappresentò un processo complesso e contraddittorio segnato da un continuo dialogo tra spontaneità e organizzazione, tra l’originario slancio rivoluzionario e la necessità di strutture militari efficaci. Nata come risposta all’8 settembre e al crollo dello Stato, la Resistenza si trasformò gradualmente da movimento di rivolta in una forza organizzata, capace di confrontarsi con un nemico ben più strutturato. Questo passaggio non fu né lineare né uniforme e si sviluppò attraverso tensioni, compromessi e adattamenti, riflettendo le diverse anime del movimento partigiano. Fin dalle prime settimane emerse la necessità di regole e gerarchie per garantire coesione e operatività. Roberto Battaglia, commentando l’evoluzione della divisione Lunense, osservò come gli uomini sentissero il bisogno di “riacquistare l’espressione scritta dei loro pensieri, atti o sentenze o ordini”, quasi a voler ricostruire un tessuto normativo dopo il caos dell’armistizio. Questa spinta all’istituzionalizzazione non fu accolta senza resistenze. C’era chi temeva che la militarizzazione tradisse lo spirito originario della lotta, trasformando i partigiani in un esercito tradizionale ma allo stesso tempo si avvertiva il rischio opposto, quello di una dispersione anarchica, incapace di resistere alla repressione nazifascista. Le formazioni autonome, spesso guidate da ex-ufficiali del Regio Esercito, tendevano a riprodurre modelli gerarchici classici, con gradi, uniformi e una disciplina formale. Fenoglio, nelle sue opere, descrisse con ironia questa tendenza, come nel caso degli “azzurri” di Mauri, mentre i garibaldini cercavano di distaccarsene radicalmente. Le Osoppo, pur mantenendo una struttura militare, rifiutarono le stellette e i gradi tradizionali, optando per un sistema più sobrio, mentre le Fiamme Verdi bilanciavano gerarchia e fratellanza, affermando che “se riconoscono necessarie differenze gerarchiche, sono tutte affratellate dall’uguaglianza di uomini liberi”. Le formazioni politiche, in particolare le brigate Garibaldi e Giustizia e Libertà, cercarono di conciliare organizzazione militare e coscienza politica, evitando il ritorno a un autoritarismo di stampo prefascista. Nuto Revelli, ad esempio, inizialmente diffidente verso i “politici”, finì per apprezzare un modello di comando basato sul dialogo e sulla condivisione, lontano dalla rigidità della vecchia naja. Non mancarono frizioni. Per esempio il vicecomandante garibaldino Agostino Piol abbandonò la sua formazione con un centinaio di uomini per protesta contro l’introduzione dei gradi e dei commissari politici, ritenuti un tradimento dello spirito originario della lotta. Un altro nodo cruciale fu il reclutamento. Nelle prime fasi i partigiani erano volontari mossi da ideali politici o patriottici ma con i bandi di reclutamento fascisti (come quelli di Graziani) e le deportazioni in Germania, affluirono nelle bande migliaia di giovani in cerca di salvezza. Questo pose un dilemma: accettarli, rischiando di indebolire la combattività, o respingerli, perdendo un potenziale serbatoio di forze? Alcuni comandanti, come Moscatelli, criticarono aspramente i nuovi arrivati, definendoli “partigiani del burro e marmellata”, privi di vera coscienza politica. Altri, invece, li videro come una risorsa da educare e integrare, come dimostra la posizione del Comando generale delle Garibaldi che respinse le critiche ai disarmati sostenendo che “l’unica condizione che si deve porre a chi chiede di arruolarsi è quella di essere animato da una ferma volontà di lotta”. La questione del “soldo” rifletteva ulteriori tensioni. Molti partigiani rifiutavano l’idea di essere pagati, considerandola contraria allo spirito volontaristico della Resistenza. Dante Livio Bianco, ad esempio, nelle formazioni GL del Cuneese, escluse qualsiasi forma di compenso mentre il rappresentante comunista nel CLN di Torino nel novembre 1943 propose un simbolico “soldo” di cinque lire, giusto per le spese minime. Col tempo emerse la necessità di un sostentamento, specialmente per le famiglie dei combattenti. Le Fiamme Verdi istituirono indennità differenziate (mille lire per i comandanti, cinquecento per la “truppa”), suscitando polemiche tra chi le giustificava come incentivo all’emulazione e chi le condannava come tradimento dell’uguaglianza partigiana. Infine, il localismo delle bande, con il loro radicamento territoriale e i legami comunitari, si scontrò con la spinta all’unificazione nazionale. In molte zone, come l’Appennino modenese o le valli piemontesi, i partigiani combattevano prima di tutto per difendere la propria terra, con motivazioni più immediate di quelle politiche. Questo garantiva coesione e conoscenza del territorio ma rischiava anche di frammentare la Resistenza in microcosmi isolati, poco propensi a operare fuori dalla propria area. Il comandante Retico, in Valtellina, arrivò a proporre una formazione composta solo da valtellinesi, scatenando aspre critiche perché “non vi è peggiore politica, peggiore azione di quella di dividere un italiano da un altro”. Pavone analizza anche il rapporto tra i partigiani e i partiti politici durante la Resistenza italiana. Esso fu un elemento fondamentale che contribuì a tenere unito un movimento composito, caratterizzato da una forte autonomia locale e da differenze ideologiche, sociali e organizzative. Sebbene la struttura militare delle formazioni partigiane fosse un punto di riferimento essenziale, da sola non sarebbe bastata a garantire coesione e disciplina. Fu proprio l’influenza dei partiti del CLN a fungere da collante, contrastando sia le spinte localistiche che le derive personalistiche di alcuni capi carismatici, i quali avrebbero potuto trasformarsi in figure autoritarie, quasi dei “ras” regionali. I partiti antifascisti, in particolare il Partito Comunista Italiano (PCI) e il Partito d’Azione (Pd’A), svolsero un ruolo cruciale nel dare un indirizzo politico alle formazioni partigiane, fornendo linee ideologiche e un supporto logistico, finanziamenti e accesso ai rifornimenti alleati. Questo processo di politicizzazione non fu né lineare né uniforme. In alcuni casi l’adesione a un partito avvenne quasi per caso, determinata dalla prima organizzazione che riuscì a stabilire un legame con una banda. Come osservò Anna Bravo a proposito dell’Alto Monferrato, molti partigiani erano inizialmente “politicamente amorfi” e chi per primo li aiutò o li organizzò finì per orientarli verso le proprie posizioni. Questo meccanismo fece sì che alcune formazioni assumessero un’identità politica più per convenienza pratica che per reale convinzione, come nel caso di alcune brigate GL che, secondo documenti azionisti, cercavano di apparire apolitiche nella speranza di ottenere più rifornimenti dagli Alleati. Al contrario, altre bande, soprattutto quelle autonome, rifiutavano esplicitamente ogni influenza partitica, sostenendo di combattere per la patria e non per ideologie politiche. Questa presunta neutralità, però, non sempre era genuina: spesso nascondeva simpatie liberali o democristiane, come denunciato da fonti garibaldine che accusavano i cappellani militari di fare propaganda anticomunista tra le file partigiane. Il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL) condannava questa apoliticità, ribadendo che la Resistenza era una lotta “squisitamente politica” e che ogni formazione doveva sviluppare una coscienza antifascista ben definita. Una figura chiave nel rapporto tra partiti e partigiani fu quella del commissario politico, introdotto per garantire che i combattenti comprendessero le ragioni ideali della lotta e per bilanciare l’autorità dei comandanti militari. Ispirati al modello sovietico, i commissari ebbero funzioni diverse a seconda delle formazioni. In alcune furono veri e propri educatori politici, in altre si limitarono a compiti amministrativi o assistenziali, assumendo quasi il ruolo di “cappellani laici”. In brigate come le Osoppo i cappellani stessi svolgevano funzioni politiche, diffondendo un messaggio anticomunista e antislavo. Questo paradosso, la convivenza di commissari politici e cappellani nelle stesse formazioni, fu una peculiarità della Resistenza italiana e rifletteva le tensioni tra diverse visioni della lotta di liberazione. L’unificazione delle formazioni partigiane nel CVL, decisa dal CLNAI nel marzo 1945, rappresentò un altro momento cruciale in cui emersero le contraddizioni tra unità militare e identità politica. Se da un lato l’obiettivo era creare un comando centralizzato per rendere più efficace la lotta, dall’altro molti partigiani guardarono con scetticismo a questa operazione, temendo che servisse più a preparare gli equilibri del dopoguerra che a vincere la guerra. Le formazioni più politicizzate, come le Garibaldi e le GL, mantennero un forte spirito di corpo e alcuni reparti minacciarono persino di sciogliersi piuttosto che rinunciare ai propri simboli e alla propria autonomia. Anche la stampa clandestina giocò un ruolo fondamentale nel diffondere idee e mantenere vivo il dibattito politico tra i partigiani. Giornali murali, opuscoli e discussioni collettive furono strumenti di educazione e democrazia diretta, anche se non sempre raggiunsero efficacemente la base. Spesso i fogli di propaganda venivano letti ad alta voce e commentati in gruppo perché molti combattenti non avevano l’abitudine alla lettura. Tuttavia alcuni tentativi di educazione politica risultarono troppo astratti o didascalici, come nel caso di un ciclo di conferenze sulla Rivoluzione francese che, dopo due lezioni affollate, venne disertato in massa alla terza, costringendo il commissario a sospenderlo.
2. La Resistenza fu una guerra patriottica
La Resistenza comporta un complesso e doloroso processo di ridefinizione dell’identità nazionale italiana dopo l’8 settembre 1943, un momento in cui la sconfitta militare, il crollo del regime fascista e l’occupazione tedesca avevano lasciato il paese diviso e smarrito. La domanda centrale che emerge è chi fosse stato davvero sconfitto nella guerra fascista combattuta tra il 1940 e il 1943: solo il fascismo, lo Stato italiano con cui il regime si era identificato o addirittura l’Italia stessa come entità storica? Per i fascisti, la risposta era chiara: la caduta del regime coincideva con la fine dell’Italia ed era questa convinzione che li spingeva a negare la realtà e a continuare una lotta ormai senza speranza. Un ufficiale tedesco, rivolgendosi a giovani romani che dopo l’armistizio volevano ancora combattere al fianco della Germania, sintetizzò crudamente la situazione: “L’Italia non c’era più; non c’era più governo, esercito”. Gli antifascisti, al contrario, distinguevano tra fascismo e nazione ma tra i più riflessivi c’era la consapevolezza che un semplice cambio di alleanze non bastasse a cancellare le macchie lasciate dal ventennio mussoliniano. La guerra dichiarata alla Germania dal governo Badoglio il 13 ottobre 1943 poteva apparire come una mera continuazione del conflitto precedente però dalla parte giusta. Tuttavia per molti partigiani e persino per i soldati dell’esercito regolare del Sud questa motivazione risultava insufficiente. Era necessario fare i conti con la sconfitta subita prima dagli angloamericani e dai sovietici, poi dai tedeschi e al tempo stesso rompere con la tradizione nazionalista esasperata dal fascismo. Alcune posizioni, come quella espressa da Giorgio Diena e Vittorio Foa, erano radicali: per loro l’Italia come soggetto statale autonomo aveva cessato di esistere e solo le forze antifasciste, costituendosi in una nuova autorità, potevano ridarle vita. Ugo La Malfa scrisse che tra il 1922 e il 1943 lo Stato nazionale ereditato dal Risorgimento era stato distrutto. Anche voci mazziniane, come quella del Bollettino Popolo e Libertà, sostennero che non vi era più una patria per gli italiani e proprio da questa consapevolezza poteva nascere un nuovo riscatto nazionale. La Resistenza non fu solo una guerra di liberazione ma anche un tentativo di riconquistare un’idea di patria svincolata dalla retorica fascista. Testimonianze come quella di Pietro Chiodi, che il 27 luglio 1943 scoprì con emozione il senso di appartenenza a un’Italia da difendere, o di Natalia Ginzburg, che descrisse come le parole “patria” e “Italia” avessero finalmente acquisito un significato autentico dopo anni di vuota propaganda, mostrano questa ricerca di un’identità nuova. Un marinaio ricordò con amarezza come, prima dell’8 settembre, gli italiani fossero ovunque disprezzati: “Dovunque andavamo, non ci poteva vedere nessuno. Italiani? Per carità!”. Dopo l’armistizio, la situazione peggiorò: gli italiani furono considerati traditori dagli ex alleati tedeschi e dagli angloamericani, finendo nei Lager in una posizione infima, superiore solo a quella degli ebrei. Questa umiliazione collettiva poteva trasformarsi in riscoperta. Emanuele Artom, nel suo diario, scrisse il 9 settembre 1943: “Mezza Italia è tedesca, mezza inglese e non c’è più un’Italia italiana”, poi, il 16 dicembre, confessò di non osare parlare delle sue motivazioni ideali nella lotta partigiana, quasi vergognandosi di un patriottismo contaminato dalla retorica fascista. La Resistenza fu dunque anche un modo per riconquistare una dignità nazionale perduta, come dimostrò un anziano generale che, pur riconoscendosi tra i vinti, rifiutò di combattere sotto bandiere straniere, affermando con fierezza la sua italianità. La dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo Badoglio suscitò reazioni contrastanti. Per Ada Gobetti e molti partigiani era un gesto privo di significato: la vera guerra contro i nazisti era già cominciata il 9 settembre, combattuta dal popolo e non da un governo screditato. L’Avanti! e l’Unità sottolinearono che la lotta doveva essere guidata non da chi aveva sostenuto il fascismo bensì dalle forze popolari. Alcuni gruppi arrivarono a considerare immorale la guerra dell’Italia contro la Germania, sostenendo che un popolo ancora contaminato dal servilismo fascista non fosse degno di unirsi alle nazioni libere.
Un altro tema cruciale fu l’equiparazione tra eserciti alleati e tedeschi, vista da alcuni come una doppia occupazione. Radio Londra, in un’occasione, invitò gli italiani a combattere contro “i due eserciti stranieri” mentre alcuni mazziniani denunciarono sia i tedeschi che riportavano il fascismo, sia gli Alleati che imponevano la monarchia. La Voce Repubblicana arrivò a esaltare lo sfogo popolare romano: “Annatevene tutti! Lasciatece piagne soli!”, vedendovi l’espressione di un dolore nazionale autentico. Il Risorgimento fu un riferimento costante, spesso strumentalizzato. Le brigate Garibaldi e il Partito d’Azione si richiamarono alle tradizioni democratiche del XIX secolo mentre i fascisti tentarono di appropriarsi di figure come Mazzini e Garibaldi per legittimare la RSI. Alla fine nei nomi delle formazioni partigiane e nei giornali clandestini prevalse un linguaggio più immediato, legato alla lotta concreta più che alla retorica patriottica. Anche la Grande Guerra del 1915-18 fu evocata come momento di unità nazionale, sebbene con riserve da parte di socialisti e comunisti che ne criticavano l’impronta imperialista. I rapporti tra la Resistenza italiana e gli Alleati anglosassoni, in particolare britannici e americani, durante gli anni cruciali che vanno dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla Liberazione nell’aprile 1945 furono invece molto complessi. Fin dall’inizio emerge una diffidenza radicata da parte degli inglesi verso gli italiani, considerati militarmente inaffidabili e politicamente instabili. Già nel giugno 1940 il governo britannico aveva espressamente evitato di fare appelli alla “tradizionale amicizia” anglo-italiana, ritenendoli inefficaci e persino controproducenti. Questa sfiducia non si attenuò neppure dopo l’8 settembre, quando i nuovi governanti italiani cercarono di presentarsi come alleati naturali degli anglo-americani. Churchill, in particolare, incarnava questo scetticismo. In una conversazione con il suo segretario John Colville aveva ironizzato sulla presunta incapacità degli italiani di combattere, nonostante le loro eccellenze in altri campi. Eden, ministro degli Esteri britannico, arrivò a dichiarare in una nota del gennaio 1943 di preferire un’Italia in rovina, costringendo così i tedeschi a disperdere le loro forze, piuttosto che un’Italia cobelligerante. Anche la propaganda alleata rifletteva questa visione: un volantino lanciato nel Nord Italia nel novembre 1943 accusava gli italiani di inerzia, ammonendoli che chi “sta a casa inattivo non merita il posto a fianco del vincitore”. Radio Londra, attraverso voci come quella del commentatore Candidus, contribuì a rafforzare questa percezione. In una trasmissione dell’ottobre 1943, Candidus fu esplicito nel sottolineare che gli Alleati non erano sbarcati in Italia per amore degli italiani ma per necessità strategica. Col passare dei mesi, soprattutto dopo gli scioperi del marzo 1944, anche gli Alleati dovettero ricredersi parzialmente, riconoscendo una combattività inaspettata tra i partigiani e la popolazione civile. Candidus stesso, in un’altra trasmissione, ammise che gli italiani, pur essendo stati a lungo considerati privi di “virtù militare”, avevano dimostrato di possedere coraggio e determinazione quando si trattava di difendere valori sentiti come fondamentali. Le missioni militari alleate inviate a supporto delle formazioni partigiane furono un altro terreno di scontro e incomprensioni. Gli ufficiali britannici e americani tendevano a considerare i partigiani come semplici ausiliari, utili per operazioni di sabotaggio ma non come veri e propri alleati su un piano paritario. Una lettera inviata dal rappresentante britannico in Svizzera, McCaffery, a Ferruccio Parri nell’agosto 1944 è emblematica di questo approccio: McCaffery criticava apertamente l’ambizione dei partigiani di creare “eserciti” anziché limitarsi a azioni di guerriglia, sostenendo che ciò rispondeva a logiche politiche più che militari. I partigiani, dal canto loro, rivendicarono sempre maggiore autonomia e dignità, rifiutando di essere relegati a un ruolo subalterno. Le formazioni Giustizia e Libertà, ad esempio, emanarono direttive precise per evitare che i loro uomini fossero posti sotto comandi stranieri, accettando solo “direttive tecniche”. Anche i garibaldini denunciarono più volte la disparità di trattamento negli aiuti militari, percepita come una forma di discriminazione politica. In Friuli il rifiuto dei partigiani della divisione Natisone di sottomettersi a un’eventuale missione di paracadutisti inglesi portò al ritiro della proposta stessa da parte del maggiore britannico Tucker. Un altro elemento di forte attrito furono i bombardamenti alleati sulle città italiane che causarono migliaia di vittime civili e suscitarono un’ondata di risentimento nella popolazione. La propaganda fascista e nazista sfruttò abilmente questi episodi, accusando gli antifascisti di averli addirittura sollecitati. I partigiani dovettero così impegnarsi in una difficile opera di controinformazione, sottolineando che la responsabilità ultima ricadeva sul regime fascista che aveva voluto la guerra. Alcuni organi della Resistenza, come il CLNAI, non esitarono a criticare apertamente i bombardamenti “senza chiara utilità militare”, definendoli moralmente e politicamente controproducenti. Tra gli Alleati gli americani furono generalmente percepiti come più aperti e generosi rispetto agli inglesi, spesso accusati di eccessivo conservatorismo. Alcuni partigiani comunisti cercarono di sfruttare queste divergenze, pur mantenendo un atteggiamento ufficialmente corretto verso entrambi. In diverse occasioni si registrarono episodi di sincera collaborazione e rispetto reciproco, soprattutto quando ex prigionieri alleati si unirono alle formazioni partigiane, condividendone rischi e sacrifici. Sul piano politico-diplomatico, Pavone evidenzia come la Resistenza italiana si trovasse a dover conciliare la lotta contro il nazifascismo con la difesa dell’autonomia nazionale, in un contesto internazionale dominato dalle grandi potenze. Emblematiche sono le discussioni sulla sorte delle colonie italiane e sui confini nazionali, dove le posizioni ufficiali del governo (come quelle espresse da Sforza nell’agosto 1944) spesso contrastavano con le aspirazioni più radicali di alcuni settori della Resistenza, favorevoli all’autodeterminazione dei popoli. Durante la Resistenza italiana la figura del tedesco si impose come il “nemico ritrovato”, un avversario che riassumeva in sé secoli di ostilità storiche e culturali. I richiami al Risorgimento e alla Grande Guerra convergevano nella rappresentazione del tedesco come invasore barbaro, questa volta non fermato sul Piave ma giunto fino a Napoli, trasformandosi da alleato tracotante nel “vero nemico”, ben più concreto del francese, dell’inglese, dell’americano o del russo. La tradizione italiana aveva già elaborato un repertorio di qualifiche negative che rischiavano di fare del tedesco un “nemico assoluto”, squalificato moralmente e ridotto a “mostro disumano”. I resistenti, pur motivando la loro lotta con valori universali, tendevano a vedere nei tedeschi l’incarnazione del male, anche se proprio quei valori rappresentavano un antidoto alla disumanizzazione del conflitto. Era, però, la spietatezza stessa dei tedeschi a trascendere la dimensione politica, spingendo i partigiani a combatterli senza però imitarne la brutalità. La propaganda resistenziale riprendeva stereotipi consolidati, come quello del “barbaro invasore” o del “secolare nemico”, espressioni che un opuscolo giellista criticava come retorica patriottica superata, frutto di nostalgie tradizionaliste. Eppure queste formule circolavano ampiamente, alimentate da racconti di efferatezze tedesche, come le voci, già diffuse nella Prima Guerra Mondiale, che attribuivano ai soldati germanici atrocità quali il taglio delle mani ai civili per rubare gli orologi, come annotava Artom nel suo diario il 10 settembre 1943. La memoria delle violenze del 1914-18 riemergeva con forza e figure come Giovanni Preziosi, poi diventato un fanatico filonazista, avevano contribuito a diffondere l’immagine del “polipo germanico” avido e crudele. Durante la Resistenza il termine “tedeschi” tornò a dominare, spesso affiancato da “teutoni”, evocando un’antica ferocia mai domata, come scriveva il giornale democristiano Il Popolo: “la realtà è che i Germani sono rimasti tali quali ebbero già a conoscerli i Romani di Cesare e Tacito”. Alcuni testi insistevano sull’incolmabile distanza tra la civiltà tecnica tedesca e la sua mancanza di umanità, come un giornale comunista friulano che riconosceva i progressi scientifici della Germania ma condannava la sua pretesa di dominare il mondo, proclamando: “Meglio nudi e liberi che imbottiti e schiavi”. Questa contraddizione, un popolo colto ma bestiale, era già emersa durante la Prima Guerra Mondiale, quando la Rivista di patologia nervosa e mentale aveva descritto i tedeschi come “moderni Unni” privi di scrupoli. Ada Gobetti, nel suo diario, raccontava l’impressione sinistra suscitata dai soldati tedeschi, la cui violenza appariva meccanica, priva persino di crudeltà consapevole: “Mentre compivano l’atto brutale, il loro volto non esprimeva neanche brutalità: impassibili, senz’anima”. Allo stesso tempo, però, alcuni resistenti cercavano di distinguere tra nazisti e tedeschi comuni, sperando in una possibile redenzione della Germania. Un manifesto comunista bergamasco esortava il popolo tedesco a ritrovare le sue radici gloriose, quelle di Federico il Grande e della resistenza antinapoleonica, mentre Il Risorgimento Liberale invocava la Germania di Goethe e Kant. Leone Ginzburg, prima di morire in carcere, parlava della necessità di diventare “missionari di civiltà in Germania” dopo la guerra. Questa distinzione era difficile da mantenere di fronte alla ferocia dell’occupazione e molti documenti oscillavano tra l’odio viscerale e la ricerca di una giustizia che non replicasse la disumanità nazista. L’atteggiamento verso i prigionieri tedeschi rifletteva questa ambivalenza: mentre alcuni venivano giustiziati come simboli dell’oppressione, altri, specialmente austriaci o semplici soldati, erano risparmiati, a volte persino arruolati. Un rapporto garibaldino raccontava di due tedeschi che, dichiaratisi antinazisti, furono rilasciati, salvo poi tradire i partigiani. Episodi come questi rendevano difficile conciliare umanità e prudenza. Fenoglio, nei suoi scritti, coglieva bene il complesso rapporto con il nemico. C’era l’ammirazione per la forza e l’aspetto dei soldati tedeschi e anche il bisogno di umiliarli, come quando un partigiano esultava vedendo un prigioniero della Wehrmacht costretto a lavare i piatti: “Non ti sembra già abbastanza che un soldato dell’esercito tedesco che ha domato mezzo mondo sia di là a lavarci i piatti?”. La speranza che l’esercito tedesco potesse sfaldarsi era forte, soprattutto dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, visto come segno di una rivolta interna. L’Unità titolava: “Sotto i colpi dell’Armata Rossa e degli Eserciti Alleati, premuto da tutti i popoli in lotta per la loro libertà, il fronte interno germanico sta crollando”. Ma la realtà era più complessa e se alcuni resistenti sognavano una Germania liberata dal socialismo, altri, come Togliatti, notavano con preoccupazione l’assenza della classe operaia tedesca nella lotta antifascista. Alla fine il nodo irrisolto rimaneva l’odio. Per alcuni, come i sopravvissuti ai campi di sterminio, era un motore di sopravvivenza; per altri un pericolo da controllare. Ad esempio, mentre Radio Bari incitava a insegnare ai bambini a odiare il tedesco, un opuscolo azionista ammoniva: “La guerra di liberazione non è odio inestinguibile verso il popolo tedesco, ma verso la diabolica potenza nazista” e se Pietro Mancuso, prima di essere impiccato, gridava “Viva la Germania libera!”, altri, come il partigiano francese Boris Vildé, lasciavano scritto: “La mia morte non deve alimentare l’odio per la Germania”. La Resistenza si trovò così divisa tra la necessità di combattere un nemico spietato e il tentativo di non perdere la propria umanità, in un equilibrio precario tra vendetta e giustizia, tra odio e speranza di riconciliazione.
3. La Resistenza fu una guerra civile
Pavone affronta anche un’altra delicata questione, ovvero la definizione della Resistenza italiana come guerra civile. Si tratta di un argomento che è stato a lungo oggetto di dibattito e di resistenze da parte degli antifascisti che per decenni hanno preferito evitare questa espressione, lasciandola quasi esclusivamente ai reduci della Repubblica Sociale Italiana, i quali l’hanno utilizzata in modo provocatorio per mettere in discussione la legittimità morale dei vincitori. La diffidenza degli antifascisti nasceva dal timore che riconoscere il carattere di guerra civile potesse portare a una pericolosa equiparazione tra le due parti in lotta, appiattendo le profonde differenze ideologiche e morali che separavano la Resistenza dal fascismo repubblicano. Tuttavia, come osservò Concetto Marchesi, la guerra civile è “la più feroce e sincera di tutte le guerre”, proprio perché le divisioni tra i belligeranti sono radicali e gli odi profondamente radicati. Un vecchio partigiano, anni dopo, avrebbe confermato questa impressione con una frase lapidaria: “Siamo quelli che hanno odiato di più”. Nonostante le reticenze, già durante e immediatamente dopo la Liberazione, diverse personalità della Resistenza avevano utilizzato senza remore l’espressione “guerra civile”. Emilio Sereni, in un discorso tenuto nel 1945 al congresso dei CLN milanesi, parlò apertamente di “due anni di guerra civile”, seppur con l’intento di mettere in guardia contro il rischio di una nuova frattura nel Paese. Allo stesso modo Carlo Galante Garrone nel 1947 definì senza mezzi termini quello scontro come una “sanguinosa guerra civile” mentre Leo Valiani ne sottolineò il carattere particolarmente cruento, legato all’”inferocimento degli animi” tipico di ogni conflitto fratricida. Anche figure come Luigi Meneghello e Aligi Sassu, che nel 1944 dipinse un’opera intitolata La guerra civile, utilizzarono questa espressione senza reticenze. Persino negli anni ‘60, Francesco Scotti e Paolo Spriano continuarono a inserire il concetto di guerra civile all’interno della più ampia cornice della guerra di liberazione, seppur senza farne l’elemento centrale della loro narrazione. Questa franchezza non fu condivisa da tutti. Palmiro Togliatti, ad esempio, evitò sistematicamente di usare l’espressione “guerra civile” nei suoi scritti, in linea con la strategia del Partito Comunista di presentarsi come forza nazionale e non settaria. Questa omissione rifletteva una tendenza più generale a rimuovere l’idea che i fascisti fossero, nonostante tutto, italiani, e che il conflitto avesse avuto una dimensione interna oltre che patriottica. La qualifica di “servi dello straniero” attribuita ai repubblichini serviva proprio a negare la loro appartenenza alla comunità nazionale, quasi che il tradimento li avesse privati della loro stessa italianità. Franco Calamandrei definì “esorcistica” la formula “uomini e no” usata da Elio Vittorini nel suo romanzo sulla Resistenza perché rifletteva questa volontà di escludere i fascisti dall’umanità stessa. Al contrario, Giorgio Bocca, uno dei pochi storici non fascisti ad aver affrontato apertamente la questione, scrisse un libro che fu recensito con il titolo emblematico Anche Salò è storia nostra, a ricordare che quell’esperienza non poteva essere semplicemente cancellata. La rimozione della guerra civile dalla memoria pubblica rispondeva anche a esigenze politiche più ampie. La sostanziale continuità dello Stato tra fascismo e Repubblica, insieme al fallimento dell’epurazione, rendeva più comoda una narrazione della Resistenza levigata e conciliante che ne enfatizzasse l’unità antifascista e ne minimizzasse le lacerazioni interne. In questo quadro riconoscere il carattere di guerra civile avrebbe significato ammettere che la Repubblica si fondava non solo sulla lotta contro i tedeschi ma anche e soprattutto su uno scontro con il fascismo italiano, un’eredità più scomoda da gestire. Questa tendenza a occultare le guerre civili non è un fenomeno solo italiano. In Francia, ad esempio, si è preferito parlare di guerres franco-françaises per attenuare il peso di quelle fratture mentre in Jugoslavia, nonostante la ferocia degli scontri tra partigiani, cetnici e ustascia, la Resistenza fu ufficialmente presentata come un movimento unitario di liberazione anche se proprio la Jugoslavia dimostra come la guerra civile possa essere anche rivoluzionaria, dato che lì la lotta partigiana portò a un radicale cambiamento politico e sociale. In Italia, invece, il nesso tra Resistenza e rivoluzione fu molto più debole e questo contribuì a far sì che la dimensione civile del conflitto venisse ulteriormente marginalizzata. I comunisti, in particolare, si preoccuparono sempre di sottolineare che avevano evitato al Paese la “prospettiva greca”, cioè una guerra civile post-liberazione, mentre il Partito d’Azione, pur parlando di “rivoluzione democratica”, lo fece in termini tali da non evocare i fantasmi di un rivolgimento violento. Possiamo dire che il prevalere della formula “guerra di liberazione nazionale” ha finito per nascondere una realtà più complessa, in cui italiani combatterono contro italiani in uno scontro che, per molti versi, fu ancora più aspro di quello contro l’occupante tedesco. Come scrisse un osservatore americano, “in poco tempo il cittadino medio del Nord Italia arrivò a odiare i fascisti più dei nazisti”. Questo odio, speculare a quello dei fascisti verso gli antifascisti, fu un elemento cruciale della guerra civile anche se spesso rimosso dalla memoria ufficiale. La ricomparsa dei fascisti dopo l’8 settembre 1943 rappresentò un fenomeno complesso, radicato in un profondo senso di frustrazione e tradimento che serpeggiava tra i reduci del regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio aveva lasciato molti militanti sgomenti, incapaci di accettare il crollo di un sistema in cui avevano creduto. Come osservò lo storico Giorgio Bocca, furono gli antifascisti a muoversi per primi, in particolare i comunisti, perché spettava a loro dimostrare che esisteva ancora un’Italia disposta a lottare per la democrazia. Al contrario, i fascisti avevano interesse a mantenere un’apparenza di normalità per far credere che il paese fosse rassegnato o addirittura complice. Questa quiete era solo superficiale: sotto la cenere covava un rancore destinato a esplodere in violenza. La delusione per il tracollo del regime era stata acuita dalla rapidità con cui il Partito Nazionale Fascista si era dissolto, senza opporre resistenza. Carmine Senise, ex capo della polizia, aveva previsto questa débâcle, rassicurando il duca Acquarone che lo scioglimento del PNF non avrebbe incontrato opposizione. Giorgio Pisanò, nella sua Storia della guerra civile, cercò di spiegare perché i fascisti non si fossero mobilitati subito: alcuni erano ancora al fronte, altri avevano creduto alle promesse di fedeltà alla Germania, altri ancora attribuivano la mancata riorganizzazione all’assassinio di Ettore Muti, ex segretario del partito. Alla fine anche Pisanò dovette ammettere che il fascismo era stato travolto dalla stessa crisi che aveva colpito l’intera nazione. La reazione dei fascisti alla caduta del regime fu variegata. Alcuni, soprattutto intellettuali e gerarchi, intrapresero un doloroso esame di coscienza, arrivando a ripudiare il passato. Altri, invece, rimasero aggrappati al mito della “vittoria mutilata”, convinti che il fascismo fosse stato tradito piuttosto che sconfitto. Dopo l’8 settembre molti di loro videro nell’alleanza con i tedeschi l’occasione per riscattarsi, dimostrando di essere ancora capaci di combattere. La rabbia per il “tradimento” divenne un tema dominante della propaganda della RSI. Già nei primi messaggi radiofonici lanciati dalla Germania, Pavolini e Vittorio Mussolini invocarono una punizione esemplare per i “vili traditori”, un concetto ribadito dallo stesso Mussolini dopo la sua liberazione. La cerchia dei colpevoli si allargò ben oltre i membri del Gran Consiglio: per i fascisti più intransigenti, a tradire erano stati tutti coloro che, durante il Ventennio, avevano svenduto gli ideali della rivoluzione. Questa ossessione per il tradimento si intrecciò con un altro sentimento diffuso tra i fascisti: l’idea che l’Italia fosse stata indegna del fascismo, non viceversa. Il filosofo Julius Evola sostenne che il regime era fallito non per sue colpe ma perché il popolo italiano non era stato all’altezza. Anche Hitler, negli ultimi mesi di guerra, sviluppò un simile disprezzo per i tedeschi, arrivando a dichiarare che, se non erano disposti a vincere, meritavano di soccombere. Un aspetto inquietante della RSI fu il risveglio improvviso di fascisti che prima del 25 luglio si erano mantenuti in disparte. Figure come Giovanni Gentile e Renato Ricci tornarono al regime per opportunismo mentre molti altri, maestri, professionisti, piccoli borghesi, aderirono alla RSI con un fervore inedito. Lo scrittore Beppe Fenoglio immortalò questa metamorfosi nel personaggio del tenente X, un ufficiale prima tiepido che dopo l’8 settembre divenne uno dei più spietati repubblichini. Anche tra i prigionieri di guerra italiani in mano alleata si registrarono casi di ex antifascisti che, per ragioni morali, si riscoprirono nostalgici del regime. I fascisti riemersero spontaneamente in diverse regioni, spesso collaborando subito con i tedeschi senza attendere la nascita ufficiale della RSI. Tuttavia molti ufficiali nazisti erano scettici sull’utilità di un governo fantoccio, preferendo un’occupazione diretta. Fu Hitler a imporre la creazione della RSI, per ragioni di propaganda: un’Italia formalmente alleata, anche se sotto controllo, era più presentabile di una semplice colonia tedesca. I fascisti, dal canto loro, sostennero che la RSI aveva mitigato la brutalità dell’occupazione, una tesi paradossalmente ripresa persino da Vittorio Emanuele III in esilio. Nei primi mesi, alcuni fascisti tentarono una politica di pacificazione, soprattutto in Toscana ed Emilia-Romagna, dove la memoria del biennio rosso e dello squadrismo era ancora viva. A Forlì, ad esempio, alcuni gerarchi cercarono un dialogo con gli antifascisti mentre a Venezia esponenti moderati risposero a un appello del federale Montesi per una riconciliazione nazionale. Queste aperture furono presto soffocate dalla volontà di vendetta e dalla necessità di dimostrare lealtà ai tedeschi. Il 15 ottobre 1943 il ministro della Cultura Popolare Fernando Mezzasoma vietò ogni appello alla pacificazione, considerato segno di debolezza. La svolta verso la guerra civile si consumò al congresso di Verona (novembre 1943), dove Pavolini e i suoi accoliti sancirono la linea dura. La strage di Ferrara, in risposta all’uccisione del federale Ghisellini, dimostrò che i fascisti erano pronti a colpire non solo i partigiani ma l’intera popolazione sospettata di connivenza. La creazione delle Brigate Nere nel luglio 1944, su iniziativa di Pavolini, rappresentò il culmine di questa escalation. Ogni iscritto al partito tra i 18 e i 60 anni fu mobilitato, trasformando la RSI in un gigantesco apparato paramilitare. Queste formazioni, spesso composte da elementi poco disciplinati, si rivelarono inefficaci contro la Resistenza. I fascisti faticarono a riconoscere il partigianato come un movimento legittimo, preferendo bollarlo come “banditismo” o attribuirlo a manipolazioni esterne. La loro incapacità di comprendere la determinazione degli antifascisti, unita al disprezzo per l’avversario, li rese impreparati a una vera guerra civile. Figure come Ferruccio Parri, apparentemente fragili ma risolute, li sconcertarono profondamente. Nonostante la retorica violenta la RSI si reggeva su un consenso limitato, basato più sulla paura che su un reale sostegno. La cosiddetta “normalizzazione” fascista era una facciata che nascondeva un caos amministrativo e una frammentazione di poteri. La disobbedienza civile, incoraggiata dai CLN, minò ulteriormente la già precaria stabilità del regime. In molte zone la popolazione rifiutò di pagare le tasse o di collaborare con le autorità repubblichine, costringendo i fascisti a una repressione sempre più feroce. Alla fine la guerra civile non fu combattuta tra il Regno del Sud e la RSI bensì tra fascisti e antifascisti nell’Italia occupata. I primi, isolati e sempre più dipendenti dai tedeschi, persero progressivamente terreno mentre la Resistenza guadagnava consenso. La sconfitta finale del fascismo repubblicano segnò la fine di un’illusione: l’Italia non era più disposta a tollerare la dittatura. La RSI, nata come progetto di riscatto, si era trasformata in un’agonia violenta, lasciando dietro di sé solo macerie e rancori. Nel contesto dell’antifascismo e della Resistenza italiana, la definizione degli eventi tra il 1943 e il 1945 come “guerra civile” fu oggetto di un dibattito complesso e spesso contraddittorio abbiamo detto. Se da un lato alcuni negavano questa caratterizzazione, preferendo vedere il conflitto come una lotta di liberazione nazionale contro l’occupante tedesco e i suoi collaboratori fascisti, dall’altro molti, sia implicitamente che esplicitamente, riconobbero che si trattava di uno scontro fratricida, un’amara resa dei conti tra italiani divisi da vent’anni di dittatura. Il CLN, nel suo ordine del giorno del 16 ottobre 1943, attribuiva interamente ai fascisti la responsabilità della guerra civile, definendola un “estremo tentativo mussoliniano di suscitare dietro la maschera di un sedicente Stato repubblicano gli orrori della guerra civile”. Anche a livello locale, come nel caso del CLN di Modena, si ribadiva con fermezza che i partigiani non erano i responsabili del conflitto interno, bensì i fascisti, colpevoli di averlo scatenato nel disperato tentativo di evitare la sconfitta. Quest’ultimi, accusati di viltà, venivano descritti come pronti a sacrificare giovani italiani e a chiedere l’aiuto dei tedeschi pur di rimandare la loro caduta. La stampa moderata, come Il Risorgimento liberale, non aveva dubbi nell’indicare Mussolini come il principale responsabile del sangue versato, scrivendo che “il sangue che oggi si versa per le strade e nei carceri d’Italia ricade su Mussolini, anche il sangue dei suoi estremi e sciagurati sostenitori”. Tra le file democristiane si osservavano posizioni più caute e oscillanti. Il Popolo in un primo momento (ottobre 1943) riconobbe l’esistenza della guerra civile, addossandone la colpa ai fascisti, ma pochi mesi dopo (gennaio 1944) negò che si stesse combattendo una vera guerra civile, probabilmente per timore che il conflitto interno potesse favorire una svolta rivoluzionaria guidata dalle sinistre. Un documento inviato a De Gasperi dai democristiani torinesi nel gennaio 1945 denunciava infatti come i comunisti stessero strumentalizzando la lotta partigiana per fini politici futuri, trasformando le formazioni armate in un mezzo di sopraffazione piuttosto che di liberazione. Tra le forze di sinistra, sebbene talvolta si adottasse un linguaggio più cauto, prevaleva la consapevolezza che la guerra civile fosse l’ultimo capitolo di un conflitto iniziato vent’anni prima con l’ascesa del fascismo. L’Avanti!, commemorando un giovane militante ucciso dai fascisti, Mario Fioretti, scriveva che il suo assassinio andava inquadrato tra le “avvisaglie di guerra civile”, una guerra che il fascismo aveva voluto e che sarebbe stata combattuta “senza quartiere”. L’Italia libera accettava la sfida con parole nette: “Il fascismo vuole la guerra civile? E sia. Sarà il CLN a condurla fino a che il fascismo non sia sterminato”. Per il Partito d’Azione, in particolare, la guerra civile non era solo uno scontro armato ma l’inizio di una rivoluzione democratica. Figure come Dante Livio Bianco e Vittorio Foa la interpretavano come una “vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant’altra mai”, strettamente legata alla trasformazione radicale della società italiana. Un opuscolo giellista andava ancora oltre, definendo la lotta partigiana come Rivoluzione, l’unica occasione per i lavoratori di affermare i propri diritti. I comunisti, pur riconoscendo la natura civile del conflitto, tendevano a non insistere sull’espressione, preferendo enfatizzare il carattere unitario e nazionale della Resistenza. L’Unità però non esitava a scrivere che “lotta contro i tedeschi e lotta contro i fascisti fanno tutt’uno”, sottolineando come il fascismo repubblicano fosse ormai un mero strumento dell’occupante nazista. Le direttive operative del PCI erano durissime: nelle “Direttive n. 16” per l’insurrezione, redatte da Luigi Longo nell’aprile 1945, si ordinava di “attaccare e abbattere senza pietà” gerarchi fascisti, collaborazionisti e chiunque si opponesse alla liberazione. Un sentimento diffuso tra gli antifascisti era il rimpianto per non aver agito con maggiore decisione dopo il 25 luglio 1943, quando il regime era crollato e molti fascisti erano stati semplicemente derisi o umiliati, senza essere eliminati politicamente o fisicamente. La resurrezione dei fascisti sotto la protezione tedesca, con le loro divise grottesche e i gesti teatrali di ritorno al potere, suscitò un odio ancora più intenso, alimentato dalla consapevolezza che quella era l’ultima occasione per chiudere i conti con vent’anni di oppressione. La guerra civile fu anche una rivalsa storica per molti partigiani, figli di quegli operai e militanti di sinistra sconfitti nel biennio rosso e durante lo squadrismo. La memoria delle lotte del 1919-22 riemerse con forza, e in alcune zone, come la Romagna, si tornò a celebrare la resistenza popolare contro le squadre fasciste di vent’anni prima. I fascisti della RSI, invece, consapevoli di essere ormai alla fine, si aggrappavano al mito delle origini, sognando una “seconda occasione” per completare quella che consideravano un’opera incompiuta. Non mancarono tentativi di distinguere tra i fascisti, offrendo ai gregari pentiti una possibilità di riscatto mentre i gerarchi furono considerati irrecuperabili. Tuttavia nella propaganda resistenziale la parola “fascista” assunse un significato sempre più ampio, diventando sinonimo di tradimento, crudeltà e vigliaccheria. La RSI, con la sua dipendenza dai tedeschi e la sua violenza sempre più disperata, fu vista come l’ultimo atto di un regime ormai morente ma ancora capace di seminare morte e sofferenza. La questione di chi fosse il nemico principale tra i fascisti della Repubblica Sociale Italiana e i tedeschi occupanti rappresenta uno dei nodi più complessi e dolorosi della Resistenza italiana, un dilemma che attraversò le coscienze dei partigiani e che si riflesse nelle scelte operative della lotta armata. Fin dall’inizio la categoria unificante del “nazifascismo” servì a tenere insieme i due avversari in un unico fronte nemico ma questa definizione, per quanto politicamente efficace, non riusciva a cogliere appieno le differenze profonde che i resistenti percepivano tra l’occupante straniero e il connazionale fascista. Uno dei passaggi più significativi per comprendere questa tensione interiore è offerto dalla letteratura resistenziale, in particolare da Beppe Fenoglio, che nel suo I ventitré giorni della città di Alba aveva inizialmente pensato di intitolare l’opera Racconti della guerra civile. In un dialogo tra due partigiani, Sandor e Ivan, emerge con forza il dramma di una lotta che, pur essendo ufficialmente diretta contro l’invasore tedesco, si consumava soprattutto tra italiani. Sandor afferma senza mezzi termini che il suo odio più grande è rivolto ai fascisti, “la causa di tutto”, mentre Ivan riflette amaramente sulla contraddizione di una guerra in cui, pur potendo colpire tutti i nemici, gli italiani finivano per combattersi soprattutto tra loro. Questo scambio non è solo una testimonianza letteraria perché riflette un sentimento diffuso tra molti partigiani: l’idea che i fascisti, in quanto traditori, meritassero un disprezzo ancora più profondo dei tedeschi. La guerra civile, spesso definita “fratricida”, generava un turbamento morale che andava oltre la semplice contrapposizione militare. Famiglie divise, amici di un tempo su fronti opposti, ex compagni d’arme che si ritrovavano a spararsi l’un l’altro: tutto questo rendeva il conflitto particolarmente crudele. Figure come Giancarlo Puecher, fucilato dai fascisti, o i tanti soldati della RSI che rifiutavano di combattere “contro i fratelli”, testimoniano quanto fosse lacerante questa frattura. Lo stesso Umberto Saba, in una riflessione amara, arrivò a definire gli italiani un popolo di “fratricidi”, ripercorrendo la storia nazionale da Romolo e Remo fino alla guerra civile del 1943-45. Nei documenti della Resistenza, soprattutto quelli più spontanei e meno filtrati dalla retorica politica, emerge spesso una maggiore ostilità verso i fascisti rispetto ai tedeschi. Questo sentimento poteva derivare da diversi fattori: la percezione che la repressione fascista fosse più spietata di quella tedesca (come riportato dal Comando piemontese delle formazioni Giustizia e Libertà nel dicembre 1944), il comportamento spesso più brutale delle milizie repubblichine o semplicemente il fatto che i fascisti fossero visti come responsabili diretti del disastro nazionale. Ada Gobetti, ad esempio, osservava come i tedeschi fossero a volte “inverosimilmente stolidi e indifferenti” mentre i fascisti apparivano “assai più curiosi e svegli” nel perseguitare i partigiani. Questa tendenza a vedere nel fascista il nemico principale preoccupava i vertici della Resistenza, in particolare i comunisti, che temevano un offuscamento del carattere nazionale della lotta. Per loro la priorità doveva rimanere la guerra di liberazione contro l’occupante tedesco, in linea con la strategia della coalizione antifascista internazionale. Documenti garibaldini dell’inverno 1944 ammonivano contro la tentazione di concentrarsi solo sui fascisti, insistendo che “la lotta contro il tedesco deve essere la lotta principale” però riconoscevano che l’eliminazione dei “servi fascisti” era un “tonico” morale fondamentale per i partigiani. I tedeschi, dal canto loro, erano ben consapevoli di questa frattura e cercarono più volte di sfruttarla a proprio vantaggio. In diverse occasioni ufficiali germanici proposero ai partigiani una sorta di “non belligeranza” reciproca, lasciando loro mano libera contro i fascisti. In Liguria, nelle Marche, nell’Oltrepò pavese si registrarono tentativi di accordi locali in cui i tedeschi dichiaravano di “lavarsene le mani” se i partigiani avessero limitato i loro attacchi alle milizie della RSI ma queste manovre, per quanto allettanti in alcune situazioni di estrema difficoltà, vennero quasi sempre respinte dai comandi partigiani che le consideravano un pericoloso tradimento. D’altra parte, la guerra partigiana, per sua natura frammentata e decentrata, portò in alcuni casi a compromessi e trattative locali, sia con i fascisti che con i tedeschi. Formazioni autonome o legate agli ambienti militari badogliani furono spesso quelle più inclini a cercare soluzioni di compromesso, suscitando le ire delle brigate garibaldine e azioniste. In Lombardia, in Piemonte, in Veneto, si verificarono episodi di accordi per delimitare “zone neutre” o per evitare rappresaglie ma questi vennero sistematicamente condannati dai vertici del CLN. Il Comando regionale veneto arrivò a dichiarare che “chi scende a patti tradisce la causa e come traditore deve essere trattato”. Nelle fasi finali della guerra, quando il crollo della RSI era ormai imminente, i contatti tra partigiani e autorità fasciste locali si moltiplicarono, spesso con l’obiettivo di garantire un passaggio di poteri meno traumatico. In alcune zone, come nell’Appennino modenese o nel Biellese, si crearono situazioni ambigue in cui podestà e commissari prefettizi fascisti continuarono a operare sotto l’egida dei CLN, in una sorta di doppio regime. A Carrara, addirittura, il CLN arrivò a operare quasi pubblicamente, collaborando persino con le autorità tedesche per la gestione dell’ordine pubblico. L’’approccio generale della Resistenza, soprattutto nelle sue componenti più politicizzate, rimase quello di un rifiuto categorico di qualsiasi compromesso che non fosse una resa incondizionata del nemico. L’insistenza dei comunisti sull’insurrezione generale, contro le cautele di altri gruppi, rispondeva proprio all’esigenza di evitare una conclusione “dall’alto” del conflitto che avrebbe potuto lasciare intatte le strutture del potere fascista. Come scrisse Ferdinando Mautino, capo di stato maggiore della divisione Garibaldi Natisone, il vero problema non erano i tedeschi in quanto tali ma i “traditori locali” che ne permettevano il dominio: senza di loro, “nessuna forza straniera avrebbe potuto reggersi”. La guerra civile italiana, scoppiata dopo l’8 settembre 1943, rappresentò per la Chiesa cattolica una sfida ben più complessa rispetto alla precedente guerra patriottica che rientrava nello schema tradizionale dei conflitti tra Stati perché mentre la guerra fascista del 1940-43 aveva già posto la Chiesa di fronte a dilemmi morali e politici a causa del suo carattere ideologico, presentandosi come crociata antibolscevica, la guerra civile introdusse una frattura ancora più profonda. Non solo perché l’Italia era divisa tra occupazione tedesca e governo collaborazionista della RSI da un lato e la Resistenza alleata e partigiana dall’altro ma soprattutto perché costrinse la Chiesa a confrontarsi con una lotta fratricida, in cui italiani combattevano contro italiani, mettendo in crisi i tradizionali criteri di obbedienza, legittimità e moralità. Dopo l’armistizio il problema principale per la Chiesa non fu tanto il rovesciamento delle alleanze che anzi, al Sud, le permise di allinearsi con il sentimento antitedesco diffuso tra la popolazione, quanto la questione dell’obbedienza alle autorità di fatto, in particolare ai tedeschi e ai fascisti repubblichini, che controllavano gran parte del Nord Italia. Se in tempo di guerra tra nazioni la Chiesa poteva richiamarsi alla dottrina della “guerra giusta” e al dovere di difendere la patria, nella guerra civile ogni scelta diventava drammaticamente più ambigua. Uccidere altri italiani, anche se fascisti o collaborazionisti, era un atto che sfidava il quinto comandamento, “Non uccidere”, e che costringeva molti cattolici a interrogarsi sulla liceità morale della Resistenza armata. La Chiesa come istituzione cercò di mantenere una posizione ufficiale di neutralità, evitando di riconoscere la RSI ma anche di schierarsi apertamente con i partigiani. Il Vaticano, attraverso la Segreteria di Stato, raccomandò un atteggiamento di “superiore imparzialità”, evitando manifestazioni che potessero essere interpretate come sostegno a una delle parti in conflitto. Questa linea di condotta si rivelò spesso ambigua e insufficiente di fronte alla brutalità degli eventi. Monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, allora sostituto alla Segreteria di Stato, suggerì di limitarsi a esortare i fedeli alla “tranquillità e all’obbedienza alle pubbliche autorità”, senza entrare nel merito della legittimità di tali autorità. Una posizione che, di fatto, finiva per avvantaggiare il regime fascista, ancora formalmente al potere nella RSI. Molti esponenti del clero, soprattutto a livello locale, si trovarono coinvolti direttamente nella guerra civile assumendo posizioni molto diverse tra loro. Vi furono sacerdoti che scelsero di collaborare con le autorità fasciste e tedesche, giustificando la loro scelta con la necessità di mantenere l’ordine e di proteggere le comunità parrocchiali. Un caso emblematico fu quello del cappellano militare della divisione alpina Pusteria che rifiutò di seguire i prigionieri antifascisti deportati in Polonia, sostenendo che il suo dovere pastorale era rimanere con i soldati italiani. Ci furono anche numerosi preti e vescovi che si schierarono apertamente con la Resistenza, offrendo rifugio ai partigiani, nascondendo ebrei e prigionieri alleati, e in alcuni casi diventando essi stessi combattenti. Don Aldo Moretti, ad esempio, dopo aver combattuto in Africa come cappellano militare, divenne uno degli organizzatori delle formazioni partigiane cattoliche Osoppo in Friuli. Questa divergenza di atteggiamenti rifletteva una tensione più profonda all’interno della Chiesa tra due visioni: quella istituzionale, rappresentata dalla gerarchia vaticana e da molti vescovi, che privilegiava la stabilità e il mantenimento dell’ordine sociale, e quella più radicale, incarnata da sacerdoti e laici che vedevano nella Resistenza una lotta per la giustizia e la liberazione dall’oppressione nazifascista. Tale frattura era resa ancora più evidente dalle dichiarazioni pubbliche dei vescovi, spesso contraddittorie. Mentre alcuni, come il cardinale Elia Dalla Costa a Firenze, condannavano genericamente “ogni violenza” senza distinguere tra aggressori e vittime, altri, come monsignor Angrisani, vescovo di Casale Monferrato, ammettevano che in alcuni casi la resistenza armata poteva essere giustificata dal principio di “respingere la violenza con la violenza”. Uno dei nodi più controversi fu il rapporto con le autorità della RSI. La Santa Sede evitò sempre un riconoscimento ufficiale della Repubblica di Mussolini ma di fatto mantenne rapporti con essa, soprattutto per garantire la sopravvivenza delle istituzioni ecclesiastiche e il rispetto del Concordato. Questo equilibrio precario generò aspre critiche sia da parte fascista, che accusava la Chiesa di ingratitudine dopo anni di sostegno al regime, sia da parte antifascista, che vedeva nella neutralità vaticana una forma di complicità con l’occupante. Allo stesso tempo la guerra civile mise in luce il ruolo cruciale del clero come mediatore e figura di riferimento per le comunità locali. In molte zone, soprattutto nelle campagne, i parroci divennero l’unica autorità riconosciuta, svolgendo funzioni che andavano dall’assistenza ai profughi alla mediazione tra partigiani e occupanti. In alcuni casi, come a Roma, questa presenza assunse dimensioni eroiche, con conventi e chiese che ospitarono migliaia di perseguitati. Non mancarono ombre: alcuni ecclesiastici collaborarono con i fascisti, altri imposero condizioni umilianti (come il battesimo forzato) per concedere protezione agli ebrei e in diverse occasioni preti invitarono i partigiani a consegnarsi, contribuendo involontariamente alla loro cattura e morte. La fine della guerra lasciò la Chiesa in una posizione ambivalente. La sua partecipazione, diretta o indiretta, alla Resistenza le permise di presentarsi come forza moralmente legittimata nel nuovo ordine democratico ma le ambiguità e le contraddizioni emerse durante il conflitto rimasero una ferita aperta che avrebbe influenzato a lungo il rapporto tra cattolicesimo e politica nell’Italia repubblicana. La scelta di molti cattolici di impegnarsi nella Resistenza, spesso motivata da un’ispirazione religiosa profondamente sentita, dimostrò che la fede poteva essere un potente stimolo alla lotta per la libertà però la prudenza istituzionale della gerarchia ecclesiastica rivelò quanto fosse difficile conciliare le esigenze della morale cristiana con le drammatiche scelte imposte dalla guerra civile.
4. La Resistenza come guerra di classe
Nella Resistenza ci fu anche un rapporto intricato tra classe sociale, nazione e antifascismo che Pavone indaga a partire da una citazione di James Connolly, il rivoluzionario irlandese giustiziato dagli inglesi nel 1916, che identificava il vero popolo irlandese non nei proprietari terrieri o nei capitalisti, ma nella classe operaia, unica base su cui costruire una nazione libera. Questa visione radicale, che associava lo sfruttamento di classe all’oppressione nazionale, riemerse durante la Resistenza, sebbene in forme diverse e con tensioni irrisolte. Per i movimenti socialisti e comunisti il nemico di classe coincideva spesso con il nemico nazionale, come già nel Seicento il leveller Gerrard Winstanley vedeva nei ricchi gli eredi degli invasori normanni, il fascismo rovesciò questa prospettiva, considerando nemici solo i capitalisti stranieri o ebrei mentre difendeva il capitalismo italiano come espressione della patria. Mussolini, in un colloquio con l’ambasciatore tedesco Rahn, presentò la socializzazione come una punizione per gli industriali filo-inglesi, colpevoli del “tradimento” dell’8 settembre 1943, trasformandola così in uno strumento politico più che in una riforma sociale. Durante la Resistenza i partiti di sinistra, in particolare i comunisti, si trovarono a dover conciliare la lotta di classe con la necessità di un fronte unitario interclassista. Essi ribadivano che gli interessi del proletariato coincidevano con la salvezza della nazione: il motto marxiano “I proletari non hanno patria” veniva reinterpretato come una chiamata a conquistarsela poiché la borghesia gliel’aveva “rubata”. Un volantino del PCI rivolto alle mondine bolognesi partiva dalle rivendicazioni salariali, “i nostri padroni non vogliono concederci nulla”, per approdare a uno slogan più ampio: “Viva la nostra libertà! Morte ai tedeschi e ai traditori fascisti!”. Allo stesso modo, in Francia, un giornale comunista univa la sconfitta di Hitler all’aumento dei salari (“Pour la défaite de Hitler. Pour l’augmentation de nos salaires”), mostrando come le lotte sociali e nazionali fossero strettamente connesse. Questa sovrapposizione non era sempre lineare. Il Partito d’Azione, ad esempio, pur riconoscendo gli elementi di conflitto sociale nella Resistenza, insisteva sul fatto che la lotta non fosse semplicemente tra classi ma tra due concezioni opposte della vita: da una parte la “creativa libertà”, dall’altra la “subordinazione gerarchica”. Nella realtà, molti partigiani, soprattutto operai e contadini, univano motivazioni di classe, patriottismo e antifascismo in un unico slancio. Per loro il nemico ideale era il padrone che fosse anche fascista e servo dei tedeschi, dunque un “traditore” della patria oltre che uno sfruttatore. Alcuni morirono gridando “Viva il comunismo, viva l’Italia!”, sintetizzando in poche parole le diverse ragioni della loro scelta. Pavone ricorda che non tutti gli operai aderirono alla Resistenza e non tutti i capitalisti furono collaborazionisti. Anzi, molti industriali, soprattutto dopo il 1944, si avvicinarono al CLN, complicando il quadro. La propaganda comunista oscillò tra la denuncia dei “grandi capitalisti” traditori, come Franco Marinotti della SNIA Viscosa o il senatore Puricelli, accusati di servire i tedeschi, e aperture verso gli industriali “onesti” che sostenevano la lotta partigiana. I CLN emisero diffide contro gli industriali che collaboravano con i nazifascisti, minacciando future punizioni, come fece quello lombardo nel novembre 1944, o quello di Savona, che impose il pagamento di tre mesi di stipendi anticipati. Alcuni dirigenti comunisti, come Pietro Secchia, criticarono i toni troppo concilianti verso i padroni, ribadendo che la lotta di classe non era sospesa. Secchia rimproverò i redattori de La Fabbrica, il giornale della federazione comunista milanese, per aver dedicato troppo spazio a “preghiere” agli industriali, rischiando di far passare l’idea che gli operai lottassero “per salvare le fabbriche” anziché per la rivoluzione. Allo stesso modo Luigi Longo criticò il linguaggio “chiesastico” di alcuni volantini che minacciavano gli industriali con punizioni future anziché con l’azione immediata. La memoria delle lotte operaie del 1920-21, represse dal fascismo, alimentava la diffidenza verso i “riformisti traditori” e spingeva molti partigiani a vedere nella Resistenza, oltre ad una guerra di liberazione, un’occasione di riscatto sociale. In alcune bande, soprattutto quelle a base bracciantile, l’odio di classe prevaleva, portando a requisizioni e violenze contro i proprietari terrieri, spesso ex fascisti. Ad esempio, una formazione partigiana romagnola, guidata da un ex ufficiale di nome Libero (Riccardo Fedel), si concentrò più sull’attaccare agrari e carabinieri che sui tedeschi, finendo per isolarsi dalla popolazione. Questo episodio, condannato dagli stessi comunisti come “deviazione massimalista”, mostrava le tensioni tra guerra di classe e guerra patriottica.
Contemporaneamente l’internazionalismo proletario si scontrava con la realtà di una guerra nazionale. Se alcuni partigiani si chiedevano come poter sparare a un soldato tedesco che magari era “comunista”, la maggioranza vedeva nell’esercito nazista un nemico da combattere senza esitazioni. L’Unità, pur mantenendo fino all’aprile 1945 il sottotitolo “Proletari di tutti i paesi unitevi!”, diede sempre priorità alla lotta contro l’invasore. Durante il periodo che seguì la caduta del fascismo e l’occupazione tedesca, la questione delle rappresentanze operaie nelle fabbriche italiane divenne un nodo cruciale nel conflitto tra resistenza, collaborazionismo e strategie politiche. Le commissioni interne, nate durante i “quarantacinque giorni” del governo Badoglio, furono al centro di un dibattito che rifletteva le diverse visioni dei partiti antifascisti. I comunisti, guidati dall’idea che la lotta operaia dovesse avere un carattere politico generale, vedevano in queste commissioni uno strumento per la “salvezza del paese e per un migliore avvenire dei lavoratori”. Gli azionisti le concepivano come organi di controllo operaio sulla gestione aziendale, in “perfetta parità coi ceti padronali”, con l’obiettivo di garantire la partecipazione agli utili e, al tempo stesso, di “trascendere il campo economico” per incidere sulla vita sociale. Con l’instaurazione della RSI e l’occupazione tedesca le commissioni interne ereditate dal periodo badogliano furono mantenute in vita ma sotto stretta sorveglianza. I tedeschi, interessati soprattutto a garantire la continuità produttiva, le tolleravano purché non ostacolassero la produzione mentre i fascisti repubblicani cercavano di strumentalizzarle per dimostrare una presunta democratizzazione del regime. L’antifascismo operaio si trovò inizialmente diviso su come comportarsi. A Torino, ad esempio, il dirigente comunista Scappini aveva inizialmente sostenuto che le commissioni potessero essere utilizzate per fare propaganda antifascista, sfruttando anche le frizioni tra industriali e occupanti ma già pochi giorni dopo, la linea del Partito Comunista cambiò radicalmente, imponendo il boicottaggio totale di queste strutture, considerate ormai uno strumento del nemico. Le elezioni indette dai fascisti per rinnovare le commissioni interne si rivelarono un fallimento totale, dimostrando il netto rifiuto degli operai verso il regime. A Bergamo, dove le commissioni badogliane erano state promosse soprattutto dal Partito d’Azione, i comunisti denunciarono che i loro compagni, non avendo dato le dimissioni, si erano trovati in una situazione compromettente, costretti a scegliere tra l’abbandono delle commissioni o l’espulsione dal partito. L’ostilità operaia si manifestò con astensioni di massa, schede bianche e scritte di protesta. A Vicenza, in uno stabilimento con oltre mille operai, più di novecento schede riportavano insulti contro fascisti e tedeschi, con scritte come “viva Stalin” e “morte ai fascisti”. Alla Ducati di Bologna, metà degli operai non votò, e un quarto delle schede fu lasciato in bianco mentre molte altre riportavano frasi come “finitela farabutti” e “ritiratevi venduti”. A Como, le astensioni raggiunsero addirittura il 100% in alcune fabbriche. Nonostante questo netto rifiuto, alcune commissioni fasciste riuscirono comunque a sopravvivere, spesso grazie alla presenza di impiegati più che di operai. In alcuni casi lavoratori antifascisti vi parteciparono nella speranza di ottenere vantaggi immediati, come distribuzioni di viveri o legna. A Padova, ad esempio, in una riunione clandestina, alcuni operai comunisti ammisero di aver inizialmente accettato di far parte delle commissioni fasciste nella convinzione che potessero “fare qualcosa per gli operai”. Dopo tentativi di sabotaggio e pressioni del partito, la maggioranza finì per boicottarle apertamente. Alla Stanga, una fabbrica con una forte presenza comunista, gli operai votarono per i fascisti più noti solo per sabotarli mentre continuavano a rivolgersi a una “commissione clandestina operaia” per le vere rivendicazioni. Di fronte al fallimento delle commissioni fasciste, il movimento operaio clandestino promosse la creazione di organismi alternativi, come i comitati di agitazione che divennero il vero punto di riferimento per la lotta nelle fabbriche. Già nel settembre 1943 L’Unità aveva annunciato la formazione di comitati operai illegali e nei mesi successivi il Partito Comunista insistette perché fossero sostituiti alle commissioni fasciste. Dopo gli scioperi del marzo 1944, questi comitati acquisirono maggiore autonomia, diventando strumenti di mobilitazione diretta delle masse. Il loro rapporto con i CLN aziendali non fu sempre chiaro: mentre i primi rappresentavano gli interessi specifici della classe operaia, i secondi miravano a un’unità più ampia, comprendendo anche altre forze antifasciste. La questione dei consigli di fabbrica, che aveva caratterizzato il biennio rosso 1919-20, riemerse in modo marginale durante la Resistenza, sostenuta soprattutto da gruppi libertari e da una minoranza socialista. Come osservò Vittorio Foa, questi organismi non riuscirono a riproporre la carica rivoluzionaria del primo dopoguerra, diventando invece strumenti di mediazione e democratizzazione. Il Partito d’Azione, in particolare, teorizzò un modello di “consiglio di azienda” che unisse autonomia operaia e pianificazione economica senza mai riuscire a imporlo concretamente. Nelle settimane precedenti la Liberazione, i contrasti tra le diverse anime della Resistenza operaia si acuirono. Da una parte, i comunisti insisterono perché i comitati di agitazione mantenessero la loro autonomia, dall’altra i CLN cercarono di coordinare tutte le forze antifasciste, compresi i moderati. A Genova, ad esempio, il PCI cercò di far accettare agli altri partiti l’idea che i CLN aziendali non potessero “difendere gli interessi di tutti”, mettendo sullo stesso piano operai e padroni. Quando si trattò di decidere sugli scioperi, emersero forti tensioni: in Toscana, i comunisti furono accusati di aver agito unilateralmente ordinando uno sciopero dei tramvieri mentre a Gallarate un esponente del PCI dichiarò che il partito avrebbe promosso scioperi “in qualsiasi momento”, pur riconoscendo che un movimento generale avrebbe dovuto essere concordato con il CLNAI. Nelle officine di Torino, Milano, Genova e di altri centri industriali del Nord, gli operai svilupparono forme di protesta che andavano ben oltre la semplice richiesta di miglioramenti salariali o lavorativi. In un contesto in cui il regime fascista aveva abolito ogni diritto sindacale e dove l’occupazione tedesca imponeva condizioni di lavoro durissime, persino lo sciopero, reato punibile con la deportazione o la fucilazione, diventava un atto di sfida politica di enorme portata simbolica. Come osservò Pietro Secchia in una lettera del novembre 1943, “grossolano errore sarebbe quello di chi volesse contrapporre la lotta per le rivendicazioni vitali, immediate, alla lotta insurrezionale”. Gli scioperi del marzo 1944, che coinvolsero oltre 200.000 operai in Piemonte, Lombardia e Liguria, rappresentarono il culmine di questa forma di resistenza operaia. A Torino, alla Fiat Mirafiori, la protesta assunse caratteri particolarmente accesi, con gli operai che non chiedevano solo aumenti salariali ma anche il ritiro dei tedeschi dalle fabbriche e la fine del coprifuoco. La repressione fu feroce: centinaia di lavoratori vennero deportati nei campi di concentramento tedeschi mentre il regime fascista emanò un decreto che prevedeva la pena di morte per gli organizzatori di scioperi. La classe operaia aveva dimostrato una capacità di iniziativa che spesso superava le stesse direttive delle organizzazioni politiche clandestine. Il rapporto con gli industriali costituì un altro nodo cruciale di questo periodo. Figure come Vittorio Valletta della Fiat o i fratelli Falck si trovarono a dover mediare tra le pressioni degli occupanti tedeschi, che minacciavano di trasferire macchinari e manodopera in Germania, e le rivendicazioni sempre più pressanti degli operai. In molti casi, come documentano i rapporti della federazione comunista torinese, i grandi industriali cercarono di mantenere un doppio gioco: da un lato collaborando formalmente con i nazifascisti per garantire la continuità produttiva, dall’altro finanziando in segreto la Resistenza per conquistare un’assicurazione sul futuro. Particolarmente significativo fu il caso della Galileo di Firenze, dove circa l’80% dei lavoratori si rifiutò di seguire i macchinari trasferiti al Nord, preferendo la disoccupazione alla collaborazione con gli occupanti. Questo episodio, come molti altri, dimostrava come la scelta resistenziale degli operai non fosse dettata solo da motivazioni economiche ma da una più profonda coscienza politica. Come scrisse l’operaio comunista Giovanni Roveda, “noi lottiamo oggi per il pane, ma sappiamo che senza la libertà non ci sarà mai pane per nessuno”. All’interno del movimento operaio resistenziale emersero tuttavia tensioni e divergenze significative. Se il PCI, seguendo la linea togliattiana, insisteva sulla priorità della lotta unitaria contro il nazifascismo, rinviando le questioni sociali al dopoguerra, settori più radicali, come i gruppi legati a “Bandiera Rossa” o a “Stella Rossa”, spingevano per una visione della Resistenza come rivoluzione sociale. Queste correnti, pur minoritarie, esprimevano un sentimento diffuso tra molti operai che vedevano nella lotta partigiana l’occasione per costruire un’Italia radicalmente diversa. Le speranze di un cambiamento sociale profondo trovarono espressione anche nelle forme di autogestione che sorsero in alcune fabbriche durante i giorni dell’insurrezione finale. A Milano, ad esempio, gli operai della Pirelli e della Breda costituirono comitati di gestione che andavano ben oltre la semplice difesa degli impianti, sperimentando forme di controllo operaio che anticipavano le rivendicazioni del movimento sindacale del dopoguerra. Con la Liberazione molte di queste speranze si scontrarono con una realtà ben diversa. Il processo di epurazione nelle fabbriche si rivelò in gran parte fallimentare: molti dirigenti compromessi con il fascismo mantennero le loro posizioni mentre le strutture di potere economico uscirono sostanzialmente indenni dalla guerra. Come avrebbe scritto anni dopo l’operaio partigiano Giovanni Pesce, “noi abbiamo fatto la Resistenza pensando di cambiare il mondo, ma il mondo è cambiato solo a metà”.
L’eredità della Resistenza operaia rimase comunque profondamente radicata nella coscienza del movimento sindacale italiano. Le lotte del 1943-45 dimostrarono che era possibile unire rivendicazioni economiche e battaglia politica, che la fabbrica poteva essere non solo luogo di produzione ma anche spazio di elaborazione democratica. Questa lezione avrebbe ispirato generazioni di militanti operai, dal sindacalismo unitario del primo dopoguerra alle grandi battaglie degli anni ’60 e ’70, mantenendo viva la memoria di quando gli operai italiani seppero trasformare la lotta per il pane in una battaglia per la libertà di tutti.
Dice Pavone che nella Resistenza la lotta di classe operaia si fuse con un più ampio movimento di resistenza popolare che travalicò i confini delle fabbriche per investire ogni aspetto della vita quotidiana. Questo fenomeno assunse forme molteplici e spesso contraddittorie, riflettendo le profonde lacerazioni di una società stremata da vent’anni di dittatura e da una guerra sempre più crudele. Al centro di questa mobilitazione generale si collocò la drammatica questione della sopravvivenza fisica di interi strati della popolazione, un problema che andava ben oltre i tradizionali confini della classe operaia per coinvolgere ceti medi impoveriti, intellettuali, impiegati e soprattutto donne che assunsero un ruolo di primo piano nell’organizzazione della resistenza civile. Come evidenziato da diverse fonti, si creò una situazione paradossale in cui “il mercato tornò ad essere la scena del conflitto di classe”, trasformando la ricerca quotidiana di cibo, carbone e riparo in un atto politico di resistenza all’oppressore. Il Partito Comunista Italiano, attraverso formule come la “lotta contro il freddo, la fame e il terrore nazifascista”, tentò di tenere uniti gli obiettivi sociali con quelli patriottici e militari ma questa operazione si rivelò spesso problematica. La rabbia popolare, alimentata dalla disperazione e dall’ingiustizia, tendeva infatti a sfuggire ai quadri politici prestabiliti, manifestandosi in forme spontanee e talvolta violente che preoccupavano gli stessi dirigenti partigiani. L’Unità pubblicò numerosi appelli incitanti all’assalto dei depositi di viveri e all’occupazione delle case vuote, riflesso di un malcontento che nelle grandi città affamate assumeva toni sempre più radicali. A Roma, dove la carestia indotta dall’occupazione nazista raggiunse livelli drammatici, la protesta sociale si mescolò indissolubilmente con la lotta antifascista. Volantini e giornali clandestini denunciavano con linguaggio crudo la “fame nera” causata dal mercato nero e dalle requisizioni tedesche mentre comitati di quartiere organizzavano forme di autodifesa popolare ma come registrò con fastidio l’intellettuale Franco Calamandrei, alcune posizioni estremiste, ad esempio quella di chi proponeva di saccheggiare sistematicamente le case dei ricchi, rischiavano di deviare la lotta in direzioni anarchiche e controproducenti. Il PCI si trovò così a dover mediare costantemente tra la necessità di dare sfogo alla rabbia popolare e l’esigenza di mantenere un controllo politico sul movimento, in un equilibrio sempre precario. Nelle campagne la Resistenza assunse caratteristiche peculiari, legate alla specificità del mondo rurale e alle sue tradizioni di lotta. La sottrazione delle derrate alimentari agli ammassi fascisti e ai razziatori tedeschi divenne un capitolo cruciale della guerriglia partigiana, con episodi significativi di redistribuzione del frumento requisito alla popolazione affamata. Queste azioni si scontrarono spesso con un quadro sociale complesso, dove le antiche diffidenze tra città e campagna riemergevano con forza. Gli operai urbani, stremati dalla fame, accusavano i contadini di egoismo e arricchimento illecito attraverso il mercato nero mentre i fascisti abilmente alimentavano queste divisioni. I documenti interni del PCI dell’epoca rivelano quanto fosse profonda la difficoltà del partito nel comprendere appieno le dinamiche del mondo contadino. In molte zone, come attestano rapporti da Perugia, Terni e Forlì, persistevano tra i militanti operai pregiudizi duri a morire verso i “contadini egoisti” e “conservatori”, considerati poco affidabili dal punto di vista rivoluzionario. Questa incomprensione avrebbe avuto conseguenze durature, contribuendo al successo postbellico della Democrazia Cristiana proprio in quelle aree rurali dove la Resistenza aveva faticato a radicarsi pienamente. Un altro aspetto cruciale fu il rapporto tra Resistenza e religione, terreno di scontro simbolico ma anche di possibili alleanze. Se da un lato alcuni partigiani, soprattutto di area comunista, svilupparono un linguaggio quasi religioso nel descrivere la lotta per la giustizia sociale, arrivando a parlare del comunismo come di una vera e propria fede, dall’altro non mancarono episodi di settarismo anticlericale che alienarono le simpatie di molti cattolici. La Democrazia Cristiana, già durante il conflitto, iniziò a costruire la sua narrazione alternativa, presentandosi come baluardo contro l'”estremismo” comunista e proponendo un’idea di solidarietà nazionale che escludesse derive rivoluzionarie. Pavone afferma che nelle Resistenza la lotta di classe si intrecciò in modo indissolubile con la guerra di liberazione, la sopravvivenza quotidiana e le profonde divisioni sociali ereditate dal ventennio fascista. Il movimento partigiano riuscì a coagulare un fronte antifascista straordinariamente ampio ma le tensioni tra operai e contadini, tra città e campagna, tra spinte rivoluzionarie e istanze moderate rimasero largamente irrisolte, preparando il terreno per le aspre battaglie politiche del dopoguerra. In questa luce, la Resistenza appare non solo come una guerra di liberazione nazionale ma anche come un gigantesco specchio delle contraddizioni della società italiana, un momento in cui le tensioni sociali represse dal fascismo esplosero con forza inattesa. La fame, la rabbia accumulata, la speranza di un mondo più giusto si fusero in un movimento potente ma contraddittorio che avrebbe segnato profondamente la storia successiva del paese. La complessità di questa esperienza, con le sue luci e ombre, le sue conquiste e le occasioni mancate, rimane ancora oggi una chiave fondamentale per comprendere non solo la storia della Liberazione ma l’intera evoluzione dell’Italia repubblicana. Fin dalle prime fasi dell’opposizione armata al nazifascismo, emerse con forza il problema del rapporto tra le istanze autonome del movimento operaio e la direzione politica esercitata principalmente dal Partito Comunista Italiano attraverso le sue formazioni partigiane. I garibaldini, pur formalmente apartitici, tendevano a considerarsi i naturali dirigenti dell’intero movimento resistenziale, come dimostra una significativa direttiva del 1944 che recitava: “Bisogna far comprendere a compagni e non compagni che i partigiani hanno il dovere di fiancheggiare le lotte operaie, ma che queste lotte vengono promosse e dirette dagli appositi organismi: organizzazione di Partito e Comitato di agitazione”. Questo approccio generò non poche tensioni, soprattutto quando gli operai dimostrarono di poter agire autonomamente, come nel caso emblematico di Torino dove, secondo una testimonianza dell’epoca, “Torino l’hanno liberata le SAP e gli operai. Quando sono arrivati i partigiani, Torino era già libera”. La dialettica tra spontaneità operaia e direzione politica si manifestò con particolare evidenza durante gli scioperi del marzo 1944, quando le aspettative di un sostegno armato da parte delle formazioni partigiane rimasero in gran parte deluse. A Milano “le aspettative operaie di interventi armati furono insieme ampie e deluse a causa degli arresti subiti dai GAP” mentre a Torino gli interventi furono comunque limitati. Questo creò un doppio risentimento: da un lato gli operai si sentivano abbandonati dai partigiani, dall’altro questi ultimi accusavano le organizzazioni cittadine di non sostenere adeguatamente la lotta in montagna. Il PCI si trovò così a dover mediare costantemente tra queste due anime del movimento resistenziale, cercando di mantenere unità d’azione senza soffocare lo slancio rivoluzionario delle masse. Già nell’ottobre 1943, le “Direttive di lavoro” del partito avevano stabilito che almeno il 15% degli iscritti dovesse unirsi alle formazioni partigiane ma l’applicazione di questa linea fu disomogenea: a Biella, ad esempio, un rapporto segnalava che “per indurre i compagni provati a entrare nelle formazioni si è dovuto ricorrere alla questione di disciplina” mentre in provincia di Vicenza si temeva che l’eccessivo impegno militare distogliesse energie dal lavoro politico. Dopo gli scioperi del marzo 1944, che segnarono una svolta nella strategia comunista, il PCI intensificò gli sforzi per rafforzare la componente armata della Resistenza. A Modena “in pochissime settimane furono inviati in montagna decine di compagni fra i quali diversi quadri e tre membri dello stesso comitato federale”. Non tutti gli operai erano disposti a lasciare le fabbriche: in Liguria, il CLN aveva proposto che gli industriali pagassero alcune mensilità di salario anticipate affinché i licenziati andassero fra i partigiani ma come riportano le fonti, “prospettiva resa impraticabile dalla deportazione operata dai tedeschi il 16 giugno 1944; d’altra parte gli operai della San Giorgio si mostrarono poco propensi ad abbandonare la fabbrica”. Questo dimostra come la scelta tra lotta in fabbrica e lotta armata non fosse sempre lineare e come spesso dipendesse da condizioni materiali e soggettive difficilmente riconducibili a schemi precostituiti. Nelle città la guerriglia urbana fu principalmente affidata ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e alle SAP (Squadre di Azione Patriottica) che svolgevano ruoli complementari ma distinti. I GAP erano “più selezionati, più agguerriti e dediti ad azioni isolate” mentre le SAP avevano un carattere più popolare e difensivo. A Torino, un documento dell’epoca definiva le SAP come “organizzazioni di massa patriottiche organizzate dal PC, non sono organizzazioni del PC ma da questo sostenute, organizzate e dipendono dal CLN dal quale sono riconosciute”. Questa formale apartiticità spesso non corrispondeva alla realtà: nella provincia di Ravenna, su oltre settemila organizzati, la stragrande maggioranza era comunista, con solo marginali presenze di repubblicani, azionisti e cristiano-sociali. In Emilia, un documento osservava con una punta di sarcasmo che “delle SAP organizzate da elementi di altri partiti non se ne parla più, salvo alcune nella bassa, nei soliti posti”, alludendo probabilmente proprio a Ravenna. Il rapporto tra i partigiani e il mondo operaio si fece particolarmente intenso nella fase finale della guerra, quando le formazioni armate iniziarono a intervenire direttamente nelle fabbriche. Alla Borletti di Milano, il 3 marzo 1945, “garibaldini della 170 brigata non solo tengono un comizio, non solo fanno salutare con il pugno chiuso, ma di fronte a qualche elemento che esitava, un garibaldino lo imponeva con l’arma in pugno”. Episodi simili si verificarono in diverse altre fabbriche, suscitando reazioni contrastanti. Come osservava un rapporto da Milano, “le masse sono elettrizzate perché [sentono] la presenza dei garibaldini” ma in alcuni casi si crearono tensioni, come alla Pavan dove “una fermata di alcune ore per iniziativa dei Gruppi di difesa della donna” fu organizzata per protesta contro azioni giudicate eccessivamente impositive. Uno degli aspetti più significativi e al tempo stesso problematici della Resistenza fu l’uso pervasivo di simboli e linguaggi rivoluzionari da parte delle formazioni partigiane, in particolare quelle garibaldine. Fazzoletti rossi, stelle rosse, falci e martello, canti come Bandiera rossa e L’Internazionale, saluti col pugno chiuso: tutto questo costituiva un potente linguaggio identitario che però entrava spesso in conflitto con la linea ufficiale del PCI, tesa a presentare la Resistenza come movimento unitario e nazionale. Le direttive del partito in materia erano chiare: “Facciamo togliere immediatamente le stelle rosse”, ordinava un documento relativo alla Valtellina mentre in un altro si prescriveva: “Nessun distintivo all’infuori della bella coccarda tricolore deve essere ammesso. Così si dica per le canzoni che non devono essere di partito, ma soltanto di carattere nazionale”. Queste disposizioni venivano spesso disattese, come dimostrano le numerose testimonianze di comandanti e commissari politici che lamentavano la persistenza di simboli e comportamenti “settari”. Nelle Langhe, ad esempio, si segnalavano “fazzoletti rossi, stelle rosse, falci e martello, canti, saluti col pugno chiuso, chiacchiere sulla rivoluzione e contro i preti” mentre in Umbria, dopo la liberazione, una relazione ricordava con rammarico che il movimento aveva “un chiassoso carattere comunista a base di estremismo verbale, di pugno chiuso e di Bandiera rossa”. Questa resistenza ad abbandonare i simboli rivoluzionari non era semplicemente un segno di indisciplina perché rispondeva a profonde esigenze identitarie e psicologiche. Come osservava acutamente un inviato del partito nella zona liberata di Montefiorino, dove molti partigiani insistevano nel portare la camicia rossa: “Se si levasse la camicia rossa a questi giovani, si leverebbe con essa anche lo spirito di lotta di cui questi giovani sono animati”. Allo stesso modo, il commissario politico della divisione Natisone, Vanni, descrivendo l’abbigliamento dei suoi uomini, notava come “il fazzoletto rosso che portavano al collo era di dimensioni enormi, non era un fazzoletto, ma uno scialle che dal collo scendeva giù fino alla cintola e oltre”, con stelle rosse applicate “ovunque, sul petto, sulla giacca, sulle maniche e persino sui pantaloni”. Questi elementi erano veri e propri segni di riconoscimento e di appartenenza che rispondevano a un bisogno profondo di identità e di affermazione politica. Il problema del “rosso” come identità si intrecciava strettamente con la questione della disciplina e dell’organizzazione militare. Il PCI, memore sia delle esperienze della guerra di Spagna sia degli errori del Biennio Rosso, insisteva particolarmente sull’importanza di una ferrea disciplina e sull’adozione di comportamenti “regolari”, come il saluto militare al posto del pugno chiuso. Un documento dell’Alta Lombardia arrivava a prescrivere: “Nessun braccio teso, né a mano aperta né a pugno chiuso”, in una formulazione che, come notano gli storici, rischiava paradossalmente di accomunare il saluto rivoluzionario a quello fascista. Queste direttive incontravano spesso la resistenza dei partigiani che vedevano in esse un tentativo di normalizzare e sminuire il carattere rivoluzionario della loro lotta. In alcuni casi, come nella divisione Nanetti, si cercarono compromessi, adottando ad esempio “un bracciale tricolore sulla camicia rossa” o “la stella tricolore sulla quale verrà applicata la stella rossa” ma spesso questi tentativi di mediazione fallivano, come dimostra l’episodio della bandiera consegnata dal CLN provinciale alla divisione Nanetti che, secondo le fonti, “presto la bandiera fu dimenticata dai partigiani come un oggetto inutile”. Nelle zone liberate, dove i partigiani si trovarono a esercitare funzioni di governo, emerse con particolare chiarezza la tensione tra le aspirazioni rivoluzionarie delle basi e la linea ufficialmente sostenuta dal PCI. Mentre alcuni commissari politici, come il già citato Renato, “volevano socializzare le aziende petrolifere della zona, espropriando i capitalisti”, il partito insisteva sul carattere democratico e non socialista della Resistenza. Nelle campagne, in particolare, si verificarono numerosi casi di espropri spontanei e di redistribuzione delle terre, come nell’Oltrepò pavese: “dove le brigate restavano qualche tempo era un rapido rifiorire di istituzioni democratiche, una serie di provvedimenti anticapitalistici”. Queste iniziative, pur legittimate dalla partecipazione popolare, creavano non poche tensioni con gli altri partiti del CLN e con lo stesso PCI che temeva di compromettere l’unità antifascista. A Torino, un documento osservava amareggiato che “vi è nel Comitato [CLN] la volontà a definire come brigantaggio ogni azione decisa che colpisce gli industriali”. Alla fine della guerra molte delle speranze rivoluzionarie che avevano animato la lotta partigiana si scontrarono con la realtà politica del dopoguerra. Come avrebbe scritto anni dopo un veterano, “con la guerra finiva anche l’autorità delle formazioni militari, che rappresentavano la spinta rivoluzionaria del movimento” e i partigiani “entravano praticamente nel museo di tutti i veterani. Come i garibaldini delle Argonne, gli alpini del Grappa i fanti del Piave”. Il PCI, pur riconoscendo il contributo determinante delle masse popolari alla Liberazione, scelse di incanalare le loro energie nella costruzione della nuova democrazia repubblicana, rinviando a tempi migliori la realizzazione delle più radicali aspirazioni sociali. Questa scelta, per quanto comprensibile nel contesto internazionale del dopoguerra, lasciò in molti ex partigiani e militanti operai un senso di incompiutezza, di rivoluzione tradita che avrebbe segnato profondamente la memoria della Resistenza e il rapporto tra il movimento operaio e le istituzioni della Repubblica. Durante la Resistenza italiana il mito dell’Unione Sovietica e dell’Armata Rossa assunse un ruolo centrale nell’immaginario politico e simbolico di molti partigiani, in particolare quelli legati al PCI ma anche tra coloro che, pur non essendo iscritti al partito, vedevano nell’URSS il faro di una liberazione militare e ideologica. Le vittorie sovietiche sul fronte orientale, a cominciare da Stalingrado, furono percepite come decisive per le sorti della guerra e alimentarono un’ondata di entusiasmo che andava ben oltre la semplice ammirazione strategica. L’avanzata dell’Armata Rossa divenne un simbolo di riscatto, tanto che in alcuni casi, come raccontano testimonianze di deportati nei lager nazisti, i prigionieri rimanevano delusi quando la liberazione arrivava per mano degli anglo-americani anziché dei sovietici. Questo attaccamento emotivo all’URSS non era solo una questione di gratitudine per il suo ruolo nella guerra perché rispondeva anche a un bisogno più profondo: quello di credere in un modello alternativo al fascismo, capace di garantire la fine dell’oppressione nazista e una trasformazione radicale della società. Il PCI, pur mantenendo una linea ufficiale che rimandava la rivoluzione a tempi futuri e cercava di presentarsi come forza democratica e unitaria, alimentò consapevolmente questo mito, presentando l’URSS come la vera artefice della vittoria antifascista e attribuendo alle offensive anglo-americane un ruolo meramente complementare. La retorica comunista esaltava l’Armata Rossa come “esercito dei lavoratori”, guidato da generali figli del popolo, in contrapposizione agli eserciti “potenti” ma privi dello stesso slancio ideologico degli alleati occidentali. La celebrazione del 7 novembre, anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, diventava così un momento di esaltazione collettiva in cui si ribadiva che l’URSS aveva “salvato il mondo dalla barbarie nazifascista” e che Stalin era “il genio della classe operaia”. Questa narrazione, oltre ad esaltare le gesta militari sovietiche, attribuiva all’URSS un valore pedagogico: le sue vittorie dimostravano che un popolo unito sotto la guida del socialismo poteva resistere e vincere contro forze apparentemente invincibili. Il mito dell’URSS non era privo di contraddizioni. Funzionava come collante ideologico, rafforzando la determinazione dei partigiani e offrendo una risposta semplice a domande complesse sul futuro dell’Italia ma creava aspettative che la realtà sovietica non avrebbe potuto soddisfare. Alcuni militanti, ad esempio, arrivarono a credere che l’avanzata dell’Armata Rossa avrebbe portato oltre alla liberazione l’estensione del sistema sovietico in Europa, un’idea che il PCI stesso cercò di smorzare per non allarmare gli alleati. Persino la questione dei prigionieri italiani in URSS, che Togliatti si affrettò a descrivere come ormai antifascisti e pronti a combattere per la patria, nascondeva realtà ben più complicate, legate alle durissime condizioni dei campi di detenzione sovietici.
La figura di Stalin, in particolare, incarnava tutte le ambivalenze di questo mito. Lontano e irraggiungibile, il leader sovietico poteva essere idealizzato senza che le sue scelte concrete ne intaccassero il carisma. Per molti partigiani, il suo nome diventò un grido di battaglia, al punto che in alcuni casi, come raccontano testimonianze, il semplice invocare “Avanti Stalin!” riusciva a galvanizzare i combattenti più dell’appello alla monarchia o ad altre figure simboliche.