Primo Maggio, giorno di festa. “Grazie padrone per queste splendenti catene!”

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Il Primo Maggio, data storica, festa internazionale dei lavoratori.
Una giornata simbolo di lotte, di bandiere, di antiche parate da stelle rosse.
Ora tutti stanno bene.
I politici sorridenti, i ragazzi a casa da scuola, i grandi a casa dal lavoro.
Ora ci sono le Otto Ore, le ferie pagate, l’assistenza medica.
Ora tutti si divertono.
Il televisore, qualche film, il cellulare, la macchina nuova, il frullatore elettrico; la casa, la cucina a induzione, la dispensa sempre piena e niente spettri di code per il pane in questo giorno di festa.
Non tutti stanno bene.
La liquidazione in mano, la causa perduta e il braccio spezzato dalle macchine pure, il mutuo aperto che chiama alla cassa, un conto vuoto, tre figli a scuola e un solo stipendio.
Non tutti si divertono.
Una notizia, la peggiore, il lavoro andato, l’affitto latente. Una stretta di mano, una pacca, un sorriso finto, scatoloni pieni. Un solo stipendio, tre figli a scuola, una pistola in bocca.
Ora tutti sono liberi.
Lo sciopero, il sindacato, il voto, i giornali.
Ora tutti sono liberi.
Le piazze vuote, le strade deserte. Solo ostentazioni di una pallida presenza.
Ora tu sei libero.
Io?
Sì, sei libero.
Libero di avere fame, di essere licenziato, di vendere le mie braccia, di schiacciare qualcuno. Di rischiare la vita, di respirare amianto, di essere venduto a un altro padrone.
Libero di guardare, di indicare una direzione senza percorrerla.
Libero di guardare rassicurato chi sta peggio.
Libero di ascoltare senza aprir bocca.
Libero di chiudere gli occhi mentre voto.
Pensa a quanto avete già ottenuto!
Ricorda i tuoi nonni, ricorda i libri di scuola, le miniere, le cave, i campi!
Pensa al contratto, pensa all’avvocato, guarda la Giustizia!
Pensa, ragazzo, sii ragionevole, tutto è più facile: non ti sembra di ascoltare tutto quello che avresti voluto sentire?
No.
Non mi sembra perché non è giusto.
Non lo è perché è ipocrita.
Par lontano il maggio del ’68, e del 1886.
“Salute! Il nostro silenzio sarà un giorno più forte delle voci che ora strozzate!”
E ora avremmo tanto bisogno di un Grido.
Signor mio, mi scusi, non sono che un ignorante, una canaglia.
E la vostra filosofia proprio non la capisco.
Perché un giovane deve emigrare, dopo anni di studio qui?
Perché mi parla di libertà d’espressione mentre i miei amici mai hanno potuto esprimersi, prima di mettersi in mano a un criminale?
Come fate a parlare di progresso, se il depuratore del nostro impianto ancora avvelena i miei polmoni?
Come potete parlare di giustizia, se un pezzo di carta bollata pesa più di una famiglia?
No, non lo chiedo.
Perché non voglio la stessa risposta, di nuovo.
Non voglio sapere ancora una volta di essere libero in mezzo alla tiepida contentezza del vostro ordine borghese.
Di essere libero di muovermi in mezzo al cemento rappreso.
Ma io le dico, signor mio, che oggi anni addietro si è lottato.
Si sono lanciati cori, ricevute bastonate.
Abbiam fatto case, ponti, veicoli e guerre.
Ma la storia, signore, non si guarda, si ricorda.
E su scrive nel presente.
Perciò mi scusi, signore, se ho frainteso il pacifico senso di questa giornata di festa.
Ma gliel’ho detto signore, io sono un vile, un malfattore.
E io ho imparato solo che il giorno di festa, si ammazza il Porco.
– Compagno Andrea

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