L’imperialismo negli «aiuti economici»

Il Ministro dell’Interno Marco Minniti ha dichiarato stamattina, prima di presenziare alla conferenza europea di Parigi sul tema dell’immigrazione: «I confini dell’Europa sono a sud della Libia». Una frase inquietante, velata di un forse ingiustificato imperialismo pratico, come un ritorno alla cara vecchia pratica colonialista che rese all’Italia un impero modesto quanto poco importante, ma che rovinò per sempre i destini dei popoli africani e arabo. Gli effetti diretti dell’epoca colonialista si hanno ancora tutt’oggi: la Repubblica Centrafricana dilaniata da una guerra civile che coinvolge le principali risorse minerarie del paese, oro e diamanti, lo sfruttamento delle quali e dei lavoratori impiegati però non è mai stato fermato dallo scontro delle due minoranze musulmana e cristiana, il Darfur, che dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Sudan si trova coinvolto in una situazione simile, o la Repubblica Democratica del Congo, il Burkina Faso, il Niger, gli scontri tra etiopi ed eritrei, l’anarcocapitalismo pratico in Somalia, le guerre per l’acqua in Chad e Niger, i raid tra villaggi di etnie diverse in Ghana. In somma, l’intera totalità del continente africano, nonostante la ricchezza delle foreste, delle risorse e delle bellezze naturali, escluse pochissime situazioni, come l’Angola, il Sudafrica e il Marocco, è tuttora in crisi postcoloniale, proprio perché, in fondo, il colonialismo non è mai finito. Saranno cambiati nomi degli Stati, le amministrazioni, talvolta i confini, ma la base dello sfruttamento coloniale, ossia le industrie, per lo più europee o statunitensi, sono rimaste, grazie al bassissimo costo di manodopera in quei Paesi. Anzi, la questione va inasprendosi con gli investimenti cinesi o degli Stati del Golfo, attirati dalla curiosa contraddizione che avvolge l’Africa; ricca, ma inefficiente.

La questione immigrativa sorge proprio dall’inefficienza dei governi africani di almeno celare di non fare gli interessi del popolo, la povertà dello sfruttamento regna sovrana, e con essa la fame e la disorganizzazione. Da una situazione così disastrata, molti non pensano che a una cosa: fuggire, «fare i soldi» in un’ottica piccoloborghese, e tornare a casa. Una situazione non molto dissimile da quella italiana di un secolo fa, sebbene le cause fossero nominalmente diverse. La soluzione che Minniti ha portato stasera alla conferenza di Parigi è incentrata a torto sulla creazione dal nulla di un governo stabile amichevole in Libia, poiché, secondo i suoi piani, farebbe da stato cuscinetto come durante l’epoca di Gaddafi, ma creando così un potenziale nuovo Erdogan sui confini dell’Europa, capace di tenere giustamente in scacco le polverose burocrazie del Vecchio Continente, ma, non essendo protetto dalla NATO, verrà senza dubbio rovesciato ritornando alla situazione odierna, a discapito del proletariato libico. Si ritorna alla situazione di partenza, in un circolo vizioso. Riconoscendo l’enorme complicatezza, ma non la parzialità di questa soluzione, si prosegue nella politica d’accoglienza, abbassando ancora il costo del lavoro, anche se in ambiente liberale inizia a prender piede l’idea di “aiutarli a casa loro”, in formula più “populista” e comunista, ma con una pratica differente. Invece di aiutare economicamente investendo nei governi per le strutture e nelle aziende locali per i posti di lavoro, tentando di migliorare occidentalmente lo stile di vita, si pensa di far intervenire le multinazionali per creare nuovi posti di lavoro, favorendo lo sfruttamento imperialista neocoloniale e di fatto aumentando la gravosità del problema.

È una situazione complessa quella africana, non è la supposizione malata di un piano Kalergi a spiegare le cose, bensì la disastrazione dei popoli d’Africa al giogo dell’imperialismo.

– Compagno Emanuele

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