Alfano espelle Kim Jong-hyok, e la Cina diventa un’alternativa al dominio statunitense

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Nello stesso giorno del fatidico e discutibile referendum in Catalogna, 1° ottobre, in Italia avveniva un’aperta mossa aggressiva nei confronti di un Paese storicamente amico, quale la Corea del Nord considera la nostra Repubblica. Il ministro degli esteri Angelino Alfano espulse infatti l’ambasciata nordcoreana, esiliando l’ambasciatore Kim Jong-hyok dal nostro Paese, preferendo seguire la linea adottata da tutti gli stati della NATO, in primis gli Stati Uniti.

Il segretario agli affari esteri Rex Tillerson ha evidentemente esortato i paesi “alleati” nell’espulsione delle rappresentanze nordcoreane, così da isolare la Repubblica Democratica Popolare a livello internazionale, almeno in Occidente. Un’aggressione che mira ad essere sempre più aperta, così da evitare il possibile dissenso in un previsto intervento militare contro le istituzioni di Phyŏngyang, come trapelano alcune fughe di notizie dalle intenzioni del Pentagono, per schiacciare dapprima diplomaticamente, e poi militarmente, la Corea del Nord, nonostante venga apertamente aiutata, oltre che dalla Cina, che già organizza esercitazioni ai bombardamenti nelle vastissime città della costa, prima fra tutte Shanghai, anche da Mosca. Proprio dalla Russia viene l’apertura di un nuovo collegamento Internet, come già organizza un’azienda pubblica, così da incentivare il reciproco supporto alla Corea, riuscendo questa ad allineare, almeno in politica estera, le due superpotenze antistatunitensi in chiave difensiva.

La stessa Cina, inoltre, offre per la prima volta un alternativa al petroldollaro con lo yuan (¥), adottato dal Venezuela, primo produttore mondiale di greggio, per la valutazione delle riserve; di conseguenza si attacca direttamente il primato statunitense nella gestione del mercato petrolifero, fulcro della sua ripresa dalla crisi del 2007, anche perché ora oltre un terzo viene valutato secondo la valuta cinese. A questa azione consegue il raggiungimento di Pechino come alternativa realistica al dominio di Washington, imperante da quasi trent’anni, e si profila un ritorno alla contrapposizione di due superpotenze, di cui la guerra, economica, è già iniziata, e l’affair coréen promette di esserne lo sfogo militare. L’acquisto di 56 missili anti-balistici nordamericani da parte del Giappone, oltre all’integrazione nell’esercito nipponico di diversi prodotti delle grandi aziende manifatturiere d’armi degli Stati Uniti, rende chiaro lo scopo odierno della diplomazia americana degli screzi con la Corea del Nord: si vendono armi e apparecchiature belliche agli alleati, così da incrementare i guadagni per queste aziende. Le stesse, minacciando l’apparato statale americano di trasferirsi altrove, potendo provocare una vasta disoccupazione, e quindi un ritorno nel profondo degli anni di crisi socio-economica, tengono sotto perenne scacco lo stesso governo che le ha incentivate fin dalla Seconda Guerra Mondiale, come allarmò Eisenhower nel suo discorso d’addio nel 1961.

Un apparato statale che quindi fa inequivocabilmente gli interessi della classe dominante, ivi compresi i manager di tali manifatture.

— Compagno Emanuele

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