Sull’Alternanza Scuola-Lavoro

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Durante la formazione preparatoria all’Alternanza Scuola-Lavoro, illustrata come opportunità di scoprire ciò che piace dalle più disparate ma concordi autorità, sono emerse diverse contraddizioni. La visione del “mondo del lavoro” come un’entità lontana ed astratta viene miracolosamente risolta da quest’innovazione del fantomatico Ministero, sentita come geniale quanto versatile, mentre le cause di questo distacco sono ovviamente ricadute sugli stessi studenti, esseri privi d’ogni interesse a parere di questi professori-istruttori. Nonostante i licei siano delle scuole generaliste, si preme comunque, da parte di ogni autorità che ha esposto l’idea dell’opportunità nostra, che ciò venga fatta ed eseguita nel migliore dei modi, tanto da arrivare a parlare di un mondo della scuola ovattato rispetto alle esigenze delle aziende. In questo modo, tale incentro sulle particolarità dell’economia locale induce a far rimanere questi iniziati al lavoro nel loro territorio, anche se povero di grandi disponibilità di lavoro specializzato, e invece ricco di possibilità lavorative meno qualificate.

Gli studenti vengono a ragione sentiti come le gemme di una nuova società, ma è stato esposto, dopo una domanda specifica, che anche modificando esteriormente l’aspetto del lavoro con la robotica e le biotecnologie, nel sistema economico odierno, quello capitalista, la natura del lavoro rimane sempre racchiusa nel binomio padroni-salariati, o, se si ritiene questa terminologia obsoleta, classe dominante & classi subalterne. La sostanza non cambia comunque, se si cambiano i termini: si ha un soggetto, il padrone (membro della classe dominante) che decide cosa fare seguendo le “leggi del mercato”, e i salariati (appartenenti quindi alle classi subalterne), che concretizzano tale desiderio padronale in oggetti, servizi, comunque prodotti di qualsiasi tipo. Nelle industrie più avanzate (per industrie sono comprese le aziende circa i servizi), l’idea non nasce più dal padrone, bensì costui si identifica solo in colui che ha la possibilità di metterci del denaro, e l’inventore a sua volta diventa un salariato del padrone, in quanto viene pagato per l’idea. La vera domanda di tutto questo sistema, che è quello attuale, è la seguente: i salariati sono pagati il giusto per il loro lavoro nell’attuare i prodotti? A rigor di logica, il giusto pagamento sarebbe l’esatto valore delle merci prodotte per il lavoro svolto, e dunque a parità di tempo, intensità, velocità di lavoro, una retribuzione per quel lavoro. Ma allora il padrone potrebbe guadagnare solo pagando di meno il lavoratore rispetto al valore delle merci prodotte per il lavoro svolto. A quel pluslavoro, ossia lavoro svolto in più dal lavoratore rispetto alla paga effettiva, corrisponde il plusvalore, ossia il valore del prodotto rubato dal padrone al proprio dipendente. Il capitalista diventa, di conseguenza, una figura superflua, e anzi, dannosa rispetto al lavoro dei salariati, sfruttati in quanto pagati meno rispetto al loro lavoro, e il capitalismo un sistema votato a fallire, essendo caratterizzato da crisi cicliche sempre più pesanti per il suo stesso mantenimento.

Tornando a noi, è ovvio come le persone intervistate, assolutamente non lavoratori «del basso della catena alimentare», bensì come appartenenti alla classe dominante locale,  quindi scivolando nelle classi subalterne se rapportati ai padroni sul piano nazionale e internazionale, sono assolutamente in buonafede quando affermano che non deve seguire la nostra tendenza peculiare, ma che questa elargizione di lavoro gratuito serve come mera esperienza. Ciononostante noi tutti abbiamo l’assoluto dovere di concretizzare tutti i discorsi idealisti al riguardo per offrire, sia ai compagni studenti che a questi piccoloborghesi, una visione realistica, dimostrata e razionale di un mondo sempre più caotico e confuso, dove chi si perde nel vortice illusorio della propaganda e del suo movimento vorticoso, ne rimane ipnotizzato, finendo per ripetere gli stessi slogan senza senso.

Tra questi megafoni involontari della dittatura di una minoranza esigua sulla maggioranza, sia al lavoro che, di riflesso, nell’economia e nella società capitalista, emergono ossimori già confutati in precedenza quali la predominanza delle idee sul lavoro materiale, con l’inevitabile rimando a Steve Jobs. Quest’industriale è osannato come un “uomo fatto da sé”, ignorando totalmente la realtà dei fatti, di truffe, sfruttamento, furti di proprietà intellettuali, e ignorando al contempo il sorpasso in profitti e qualità della Apple Inc., il modello di azienda capitalista, con l’autogestita Huawei, un’azienda di proprietà dei lavoratori cinesi. I lavoratori della Huawei dunque si riappropriano del plusvalore, che altrimenti sarebbe estorto da un ipotetico padrone, ma la loro organizzazione viene definita addirittura “nella parte ingiusta del mondo”, ovvero nella Cina socialistizzante.

Un’altra evidenza data per scontato, e proprio per questo sbagliata, è che l’innovazione crei dal nulla “posti di lavoro”, e che in questo l’Italia sia un paese lento. Lo sviluppo della robotica e della tecnologia, al contrario, sostituisce le macchine ai lavoratori umani, relegati in un secondo piano come pezzi di carne al servizio di un automa. Con questo non si vuole affatto sconfessare la prodigiosa forza del progresso scientifico e tecnologico, tanto avanzato persino in un sistema socioeconomico parassitario quale l’odierno capitalista, al contrario: un’organizzazione razionale, ponderata e statistica delle enormi potenzialità del progresso tecno-scientifico, lo porta a vette ancora maggiori. Un’organizzazione simile sarebbe l’ideale, se applicata, specie confrontata oggi col rimettere tutte le responsabilità ad una teoria inesistente della mano invisibile del mercato (ossia il fatto che secondo certi economisti la domanda supplisca all’offerta, in una sorta di compensazione), la cui stessa inesistenza si è dimostrata in ogni crisi dal 1750 ai nostri giorni, compresa quella che dura tutt’oggi dal 2007. A ciò consegue il pensiero secondo cui alla spaccatura fra una scuola fossilizzata e un mercato del lavoro sempre più dinamico interviene la genialità del Ministero con l’Alternanza Scuola-Lavoro. Si accetta quindi l’intervento dello Stato negli affari economici, da cui era stato estromesso violentemente dagli stessi uomini  “di Stato”, dunque essi seguono gli interessi della classe dominante: si inseriscono nel mercato del lavoro dei lavoratori non qualificati a costo nullo, ancora meno rispetto agli immigrati. Costoro hanno assolto proprio a questo: abbassare il costo del lavoro, tramite un ricatto che il padrone dirige ai propri dipendenti minacciando di licenziarli e di sostituirli con altri, che hanno bisogno di stipendi minori. Perciò il padrone si trova in una posizione di preminenza, a cui l’Alternanza assolve in modo straordinario, offrendo dei mezzi di ricatto perenni e gratuiti ai lavoratori con pseudo-lavoratori assolutamente non qualificati. Si alimenta così facendo il conflitto tra due classi subalterne, cioè i salariati e gli studenti, in una sorta di guerra tra poveri simile alle ostilità nei confronti degli immigrati.

Si viene così a confutare l’affermazione secondo la quale le aziende ricerchino solo lavoratori qualificati e competenti, capaci di lavorare in squadra. Come si è sovra-affermato, le aziende hanno bisogno sia di salariati non qualificati, sostituibili con delle macchine e a cui faranno da supporto, che di salariati qualificati e flessibili, così da creare il lavoratore-modello. Egli è un essere non specializzato approfonditamente, ma capace di essere competente, nel duplice significato che può competere contro gli altri lavoratori, e può di riflesso far competere l’azienda per la quale lavora senza un grande ritorno economico, che invece fluisce nelle tasche di chi, quell’azienda, la possiede. Nello stesso “mercato del lavoro” sono mutevoli diversi indici, dal punto di vista sociale, produttivo, organizzativo e legislativo. L’accondiscendenza dello Stato nell’agevolare quanto più possibile le direzioni d’azienda si riscontra nelle varie riforme e nelle leggi sul lavoro, ad esempio nel renziano Jobs Act, che lungi dal crearne, riducono i diritti dei lavoratori e ne aumentano la soggezione nei confronti dei padroni, uniti nella classe dominante organizzata nello Stato. Compaiono così termini come la mobilità del lavoro, da congiungersi alle competenze, e addirittura si inizia ad accusare gli studenti e i lavoratori di essere sovra-istruiti, ossia che le loro conoscenze eccedono la necessità, non solo locale, di manodopera a basso costo. Insomma, si vogliono dei lavoratori ignoranti e incapaci di comprendere le proprie esigenze, e in questo senso si formano gli studenti nelle scuole. Tra le mura scolastiche, infatti, si elogiano le competenze trasversali, le stesse che permettono al lavoratore di essere facilmente interscambiabile e non specializzato, dunque sostituibile con uno che costa meno.

Al contempo, nelle varie visioni idealizzate dell’esperienza dell’Alternanza Scuola-Lavoro, ne è stato evocato un edulcorato tratteggio della realtà: l’Alternanza ha anche lo scopo di comprendere le gerarchie sia all’interno del luogo di lavoro che, di riflesso, nella società. Sta solo alla volontà del soggetto coinvolto decidere se accettarle passivamente o iniziare a unirsi con altri individui nella stessa condizione, per edificare una nuova società, senza sfruttamento, disoccupazione e incertezza di vita.

«Studieren, Propagandieren, Organisieren»

 

Compagno Emanuele

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