Parte II su III
4. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il comunismo italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’URSS, alla truffaldina operazione Mani pulite, ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori DC (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.
Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della DC italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente ambienti statunitensi che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.
Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua ufficialità: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su Rinascita) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…
Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di realpolitik, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa svolta di Salerno del 1944, necessitata dai patti di Jalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.
Berlinguer, con “buonsenso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la NATO, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte abbozzare e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il PCI, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.
S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra PCI e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del PCI negli USA; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del PCI non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la DC, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-USA), nella sostanza meno ambiguo di DC e PSI verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.
In ogni caso, non mi sembra che la DC sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo Mani pulite, sembrò prendere negli anni ’90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo Mani pulite, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.
5. Tornando indietro agli anni ’70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da Mani pulite in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.
Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!
Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: et pour cause?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con Repubblica, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di Giustizia e Libertà (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al Gran Consiglio diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).
Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. È veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.
6. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’URSS. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il Watergate (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’URSS, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.
Con la liquidazione di Chruščëv (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi Kombinat, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.
In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso strategico. L’URSS, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia rivoluzionaria e andò incontro a rendimenti decrescenti con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.
Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’URSS. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Brežnev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Brežnev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbačëv che restò fino alla dissoluzione dell’URSS (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con El’cin che dissolse l’Unione Sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.
— pubblicazione gentilmente offerta dal compagno Gianfranco La Grassa
1 Reply to “La Grassa: Un po’ di storia recente per gli ignari 2/3”