Appunti su “la Distruzione della Ragione”, di György Lukács

— Sigma

Indice

  1. Introduzione e breve riassunto
    1. Il motivo gnoseologico – l’inconoscibilità del mondo oggettivo
      1. La potenza
      2. L’elitismo
      3. La pseudoscienza
    2. Il motivo etico – il solipsismo etico
    3. Il motivo logico – dialettica contro logica formale
    4. Il motivo storico – la disarticolazione della storia e del progresso
  2. L’indissolubile nesso tra teoria e prassi
  3. Ragione e irrazionalità: questione di funzione?
    1. La questione religiosa
  4. L’apologetica e la critica
    1. Apologetica diretta
    2. Apologetica indiretta
    3. La critica comunista
      1. La questione pratica
  5. Il modo di produzione capitalistico e la funzione dell’ideologia borghese
  6. Considerazioni finali e una domanda
    1. Che fare?
  7. Bibliografia, fonti e approfondimenti
    1. Prima sezione: Introduzione e breve riassunto
    2. Seconda sezione: L’indissolubile nesso tra teoria e prassi
    3. Terza sezione: Ragione e irrazionalità: questione di funzione?
    4. Quarta sezione: l’apologetica e la critica
    5. Quinta sezione: Il modo di produzione capitalistico e la funzione dell’ideologia borghese
    6. Sesta sezione: Considerazioni finali e una domanda

Una lettura significativa degli ultimi tempi è stata “La distruzione della ragione”, pubblicata nel 1954 e scritta da György Lukács.

In questo libro, l’autore sostiene che le filosofie irrazionalistiche sono una parte molto importante (seppur non l’unica) del fondamento ideologico delle politiche reazionarie. Nel seguente articolo proveremo a riassumere quanto osservato dall’autore, espandendo poi il discorso al fine di trarre qualche conclusione iniziale, che ci sarà estremamente utile per il futuro.

Introduzione e breve riassunto

Il libro è stato completato nel 1954, durante il primo periodo “caldo” della Guerra Fredda. In questo periodo, Lukács era un intellettuale emarginato e dissidente a causa del suo forte marxismo hegeliano, contrapposto al “piatto” ed economicistico “marxismo” staliniano. Egli, come altri intellettuali del tempo (ad esempio Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt) dovette rendere conto di come fosse stata possibile la barbarie nazista. Allora la sua ricerca si orientò verso il fondamento ideologico-filosofico del nazismo: l’irrazionalità.

I pensatori affrontati sono soprattutto tedeschi per motivi storici e sociali, ma l’autore fa notare a più riprese come il movimento irrazionalistico (ad esempio quello della “filosofia della vita” di Bergson, Dilthey e James) assuma portata internazionale, riflettendo una vera e propria epoca storica che coincise con le difficoltà di accumulazione del capitale, poco prima del suo “scatenamento imperialistico” nella Prima Guerra Mondiale e successiva “ricaduta” della Seconda Guerra Mondiale.

La tradizione irrazionalistica ha origini relativamente lontane, formandosi in modo coerente a partire dagli “idealisti soggettivi” del primo 1800 (l’autore definisce così gli irrazionalisti in generale), in primis Schelling. A partire dalla filosofia irrazionalistica “feudale” di Schelling, seguiamo l’evoluzione, le differenze e talvolta i contrasti tra pensatori irrazionalisti, pur accomunati dalla sfiducia verso la ragione. Lukács si occupa di pensatori di grande importanza (e attualità) come Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Simmel, Weber, Heidegger e Schmitt, oltre ad altri autori dei loro ambiti. Come è evidente, l’autore non si occupa esclusivamente di filosofi, bensì considera anche il campo della sociologia (dedicando anche un paio di capitoli alla “teoria della razza”), per evidenziare la portata multidisciplinare e la pervasività sociale del fenomeno irrazionalistico.

Essendo l’ideologia la forma politica della coscienza, e non semplice “astrazione” o “formalizzazione” dei rapporti sociali, essa influisce sulla società, attecchendo in modo più o meno fecondo nella coscienza delle persone e, di conseguenza, influenzandone i comportamenti come la prassi politica. Esaminiamo ora gli aspetti principali per cui l’irrazionalismo sarebbe, secondo Lukács, reazionario.

Il motivo gnoseologico – l’inconoscibilità del mondo oggettivo

L’irrazionalismo elaborato in tutte le salse finisce sempre per sostenere l’inconoscibilità del mondo oggettivo, esterno. Questo perché, ad esempio, la conoscenza “vera”, del “noumeno”, è possibile soltanto attraverso la sensazione fisica (Schopenhauer), oppure perché non possiamo azzardare ipotesi sul futuro avendo come unica certezza l’empiria, l’esperienza (per cui Hume sostiene che “Il sole può benissimo non sorgere domani”, siccome possiamo conoscere soltanto il momento presente), oppure perché non esiste un mondo oggettivo, trattandosi tutto di “proiezioni della coscienza” come sostengono i filosofi della vita, ecc.

La Potenza

Questa rottura tra oggetto e soggetto porta al soggettivismo e, di conseguenza, all’illusione del soggetto in senso di assoluta impotenza (Schopenhauer e tutte le correnti pessimistiche) o di assoluta potenza (Nietzsche e la filosofia della vita). La prima ha una funzione reazionaria perché sostenere la “cosmicità” della sofferenza giustifica l’ordine esistente, poiché “qualsiasi cosa tu voglia o possa fare, le cose andranno sempre male”, come se ciò non fosse dovuto a rapporti sociali che, tra l’altro, sono migliorabili come ha dimostrato la storia delle lotte operaie, motivo per cui oggi lavoriamo 8 ore al giorno e non 13.

La seconda è reazionaria perché l’individuo si illude di avere il mondo in mano, quando semplicemente non è così: questo danneggia l’ampliamento dell’iniziativa individuale a livello sociale e di classe, anzi, è ragionevole affermare che la libertà “assoluta” (da ab + solutus, sciolto da; già Hegel polemizzava con queste illusioni, perché non comprendono la mediatezza e la concretezza dell’essere) sia dannosa per l’individuo oltre che per le persone che gli stanno intorno. E naturalmente non c’è nulla di più antiproletario di una persona autoreferenziale, al contrario è l’ideale paradigma di esaltato reazionario o di adulato consumatore. È tra l’altro importante notare che Nietzsche correla alla “volontà di potenza” un “eterno ritorno”, una paralizzante condizione di ineluttabilità del presente, di nuovo paralizzante. Cosa, come Lukács non manca mai di evidenziare, in funzione anticomunista.

L’Elitismo

L’inconoscibilità del mondo oggettivo è un fondamento della religione, dove per accedere alla “vera verità” bisogna avere fede in Dio, o negli Dèi, e pertanto nei loro profeti o nelle persone “illuminate”. Tali condizioni fanno sì che venga giustificata la normatività e il potere di caste sacerdotali, come nel cattolicesimo o nella fede ortodossa, oppure nelle antiche religioni politeistiche. A riguardo possiamo osservare che il ruolo “progressivo” e “democratico” della Riforma protestante è stato di grande importanza, in quanto una forma di “controcondotta” contrapposta alla “condotta” della Chiesa cattolica, sostenendo la libera interpretazione dei testi (sia teologicamente, sia dal punto di vista linguistico con la traduzione in tedesco della Bibbia dall’astruso ed elitario latino), seppur tale “libera interpretazione” sia poi degenerata, in linea con gli avvenimenti del 1800 e della successiva decadenza imperialistica, in un radicale soggettivismo à-là-Kierkegaard, Heidegger ecc.

Ma se ciò vale per la religione classica, vale anche per il cosiddetto “ateismo religioso”, ovvero la rimasticazione della “fede” religiosa in altri termini, come il positivismo di Auguste Comte, oppure l’arte per Wagner e Schopenhauer e casi simili, contro cui giustamente polemizzò Nietzsche. Questo significa che ci saranno sempre gli “illuminati” di turno, siano essi geni artistici (Schopenhauer, Wagner, Nietzsche del primo periodo), scienziati sociali (Comte), oppure i burocrati nell’ambito dell’ideologia ufficiale prussiana.

Tale elitismo ha evidentemente la funzione di giustificare il governo di alcune persone (le élite, combacianti per “coincidenza” con la classe sociale dominante) su altre (il proletariato, gli schiavi, i servi della gleba ecc). Questa giustificazione a livello ideologico è un evidente riflesso ed amplificazione della concreta necessità del capitale di governare la forza lavoro (oppure della classe patrizio-latifondista, feudale…), consegnando a delle fantomatiche persone “illuminate” (saldamente legate alla borghesia o aristocrazia di turno) l’arbitrio e l’autorità sulle strutture statali, ecclesiastiche (ecc) che influenzano in modo profondo e pervasivo la vita di tutti, ovvero del proletariato.

Ciò può valere a scala macroscopica, con delle persone che sono punti di riferimento per la società (oggi tendenzialmente sono gli economisti, i “tecnici” o gli scienziati), oppure microscopico con il caporeparto, oppure un commerciante del paese ecc. Il punto è riconoscere la parzialità del sapere e della prassi: perché le riforme di un governo tecnico non fanno “bene per tutti”, anzi spesso la neutralità politica è una facciata per una parzialità non dichiarata o implicita; ciò significa che aiuta una classe o l’altra, una area geografica o l’altra.

La Pseudoscienza

Naturalmente, non potendo conoscere la realtà oggettiva non può crearsi nessun sapere scientifico. Per Simmel, siccome in certe epoche il sapere astrologico e alchemico era ritenuto vero, allora in altre epoche la nostra scienza sarà reputata come una baggianata o, ancor peggio, come “ugualmente vera” a tutto il resto. È ovvio che questo radicale relativismo manca di qualsiasi standard qualitativo del sapere, ma tale posizione non è casuale perché svolge la precisa funzione di invalidare le “pretese” conoscenze oggettive della realtà (scientifiche, e nel nostro caso lo studio della realtà sociale), in favore della creazione di “miti” e di distorsioni della realtà che hanno portato, in ultima istanza, al fertile terreno sul quale si è eretta la mitologia nazi-fascista.

I paladini della pseudoscienza vengono sconfitti dalla realtà scientifica, come ha dimostrato la “sconfitta” di Bergson nel suo dibattito con Einstein su un aspetto della relatività speciale. Non per nulla, al giorno d’oggi Bergson è sepolto nella storia, pur riaffiorando raramente qua e là, ed Einstein è una delle figure più iconiche del mondo scientifico. Ma è altrettanto importante che al giorno d’oggi il ruolo dello scienziato sia scaduto nella figura del “genio”, di cui Einstein è naturalmente l’esponente di punta. Tale situazione è percepita in modo molto distinto dalla popolazione, che dalle osservazioni di incredulità e complimenti nei confronti delle scelte di vita di ragazzi che vogliono dedicarsi a materie scientifiche (che sicuramente sono dei geni) rincula anche nella pseudoscienza, spesso complottistica, nel tentativo di “riprendersi” la scienza oppure di lottare contro questa élite chiusa.

Ma, altrettanto spesso, è manifestazione di un’insoddisfazione, di una paura, di una sfiducia così profondamente penetrata nelle masse che non si crede più alla scienza, alla politica, all’economia; di conseguenza il primo fantico che sappia cavalcare questi sentimenti, se ben sostenuto economicamente, può realizzare “sovraprofitti” elettorali (M5S, Lega, come pure Trump, Le Pen, Morawiecki in Polonia, Orbán in Ungheria ecc.). Le paure dei diversi strati sociali si distinguono nelle differenze tra M5S (rappresentante di classi lavoratrici precarie-disoccupate) e Lega (piccola e media imprenditoria), seppur ci sia un certo rimescolamento tra gli “emettitori” e i recettori concreti delle politiche di questi partiti, ad esempio la Lega riesce ad attecchire spesso anche in strati operai e svantaggiati.

A tal proposito, Lukács fa notare che nel periodo pre-estremistico dell’irrazionalismo la scienza veniva, seppur intaccata nella sua importanza, mantenuta ad un livello di verità parallelo a quello degli altri saperi. Nel periodo estremistico, specialmente del primo dopoguerra, l’attacco alla scienza (come ben dimostra il dibattito Bergson-Einstein, in cui Bergson godeva di una influenza generalizzata e quasi mondiale) si rese esplicito, venendo poi sviluppato ulteriormente da Spengler e tirato fino alla fine dall’ideologia nazista. Ciò però non si può dissociare dal ruolo fondamentale della scienza per il modo di produzione capitalistico, perché essa permette l’ottimizzazione del tempo, dell’energia meccanica e umana (e, di conseguenza, l’ottimizzazione dei costi e perciò dei profitti), pertanto le varie ideologie irrazionaliste in alcuni casi consentiranno comunque l’attività scientifica (come osservato nel caso di Simmel, o di Wilhelm Dilthey), oppure la attaccheranno pubblicamente pur senza corroderne le basi reali necessarie per lo sviluppo tecnologico, in un certo senso relegandola agli addetti ai lavori.

L’autore non manca di ironizzare come con la radicale critica alla conoscenza (scientifica) vada a braccetto la credenza in tutte le possibili pseudoscienze, come ad esempio la divinazione, il chakra, la telepatia, o i fantasmi.

Il motivo etico – il solipsismo etico

Il secondo aspetto “deleterio” dell’irrazionalismo è il ripiegamento antisociale dell’etica, ad esempio sostenendo che l’unica vera etica è quella della sfera privata della vita (Kierkegaard), oppure separando i giudizi etici dalla prassi etica (Schopenhauer), per cui venga consentita la critica al comportamento di qualcun altro pur cadendo anche noi nel comportamento sbagliato. La motivazione di Schopenhauer è sensata, in quanto è costruttivo far osservare agli altri i loro errori, ma nella pratica delle cose questo aspetto, quando messo in relazione al pensiero di Schopenhauer, si traduce in libertà di ipocrisia, in esenza dalla rettitudine e in lasciapassare per infastidire gli altri.

Per Schopenhauer, inoltre, un modo per liberarsi dal dolore esistenziale è quello di provare pietà (non solidarietà, orizzontale, ma pietà, dall’alto verso il basso) per la sofferenza altrui, pur prendendo atto dell’impossibilità di sfuggire al male e per cui rifugiandosi, in ultima istanza, nell’arte e nella imperturbabilità (atarassia) di stampo stoico-buddistico, evitando con cura che la sofferenza porti ad un reale desiderio di cambiamento sociale.

Lukács osserva che l’etica non può avere contenuto esclusivamente individuale, bensì debba essere necessariamente portata a livello sociale, in quanto è per definizione il modo e le norme con cui noi ci comportiamo nei confronti di altri. Kierkegaard, parlando degli “stadi” attraverso cui passa e cresce l’uomo, sostiene che dopo lo stadio estetico (di puro godimento sensuale) venga uno stadio etico, determinato dalla scelta esistenziale del matrimonio e attraverso la connessione dell’aspetto umano individuale a quello universale, dando perciò un’apparente apertura etica come responsabilità e regolamento delle relazioni con la società. Il terzo stadio, che è quello a cui punta realmente Kierkegaard, non contiene però alcuna indicazione né aspetto etico, anzi è quello più “atomico” e involuto di tutti: lo stadio religioso. In esso il filosofo danese elimina i risultati dello stadio precedente e fa ripiegare l’individuo in una sfera esclusivamente personale di fede religiosa (perdendo allora l’aspetto familiare/privato dell’etica).

Le conseguenze più direttamente politiche risulterebbero difficili da scorgere senza aver opportunamente menzionato l’amicizia di Kierkegaard con il sovrano danese Cristiano VIII e le sue tendenze apertamente conservatrici e antidemocratiche. Non è nemmeno casuale la sua partecipazione al movimento anti-hegeliano, apertamente sostenuto da Federico Guglielmo IV e alla cui testa venne esplicitamente chiamato, nel 1841, il vecchio Friedrich Schelling, in gioventù compagno di studi di Hegel ma poi diventato conservatore e suo avversario. Qui potete leggere un resoconto completo della vicenda e delle sue conseguenze. Non ci soffermiamo sugli aspetti più ampi dell’antihegelismo trattati nel libro di Lukács, ma è fondamentale notare come gli aspetti progressivi di Hegel (la dialettica, il superamento e l’influenza del mondo oggettivo sul soggetto) furono aspramente combattuti, mentre gli aspetti conservatori di Hegel (che dovette scendere a compromessi con la monarchia prussiana, dopo la sconfitta dell’espansione della borghese Rivoluzione Francese incarnata in Napoleone) furono riesumati senza esitazione, dando vita ai movimenti “neohegeliani” di fine 1800 e inizio 1900 di cui facevano parte anche Benedetto Croce e Giovanni Gentile, entrambi radicalmente antidialettici e intuizionisti. Ne parleremo nella prossima sezione.

Il solipsismo etico che si smaschera diventa l’etica apertamente capitalistica, fondamentalmente individualistica, che non solo ritiene la competizione un elemento predominante e definitivo dell’”essenza umana”, bensì la reputa anche positiva e motore di sviluppo; giustificata con la sua stessa esistenza. Possiamo affermare che il neoliberalismo, in particolare, si sbilancia “a favore” del mercato (aggiungiamo noi, finanziario) e della forza alla sua base, la competizione. Questo punto di vista viene spesso associato alle considerazioni di Darwin riguardo l’evoluzione. Già Lukács, dedicandoci un capitoletto, smaschera la superficialità del “darwinismo sociale” come ideologia antistorica e antiscientifica, oltre che “biologistica”, perché assolutizza una delle tante leggi biologiche e naturali (non si è mai sentito di un fisico che assolutizzasse la famosa legge E = mc2: come se essa servisse a spiegare la termodinamica delle macchine, o il moto di un pendolo!) a somma legge del cosmo, oltretutto rifiutando una sua eventuale revisione e consegnando lo scettro ai “più forti” (che, per motivi di organizzazione sociale e potere del capitale privato sul lavoratore, sono i capitalisti e i loro relativi sgherri che si fanno chiamare “capi”), evidentemente parte di una setta biologicamente o socialmente “migliore”. Per qualsiasi pensiero almeno remotamente democratico, questo aristocratismo biologico e sociale è da buttare nel cestino.

A riguardo, è positivo osservare un sincero approccio alla teoria di Darwin negli stessi Marx ed Engels: venne presa come un contributo storicamente importante alla scienza (a loro servì per interessarsi alla biologia, come pure a storicizzare lo sviluppo logico del capitale ed elaborare in modo più raffinato la concezione materialistica della storia), ma con la sua importanza ben definita e limitata ad alcuni ambiti. L’anarchico e comunista Pëtr Alekseevič Kropotkin, per formazione zoologo e geografo, fece molti studi rintracciando nella cooperazione (e non nella competizione) la base della ricchezza e dello sviluppo delle civiltà umane, costruite sulle spalle di miliardi di uomini, spesso sconosciuti, che hanno lastricato le strade, costruito le case, studiato la natura, e inventato e raffinato la tecnica e il pensiero. Tale studio ha anche seri limiti, perché ad esempio trascura il fatto che la complessità e la dimensione dei sistemi ne cambia anche il comportamento, per cui è comunque troppo generico proiettare su «tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali» la stessa identica legge, che Kropotkin si limita semplicemente a declinare in modo diverso.

Il motivo logico – dialettica contro logica formale

In tutti i pensatori irrazionalisti Lukács rintraccia il persistente uso della logica formale (aristotelica), anche quando camuffata da dialettica (come nel caso di Kierkegaard). L’importanza dell’uso di un determinato tipo di logica è chiaro quando nella vita e nel tentativo di comprendere un fenomeno si incappa in una contraddizione tra il pensiero e la realtà, oppure tra realtà e realtà, oppure tra volontà e potenza, oppure tra spazio e tempo ecc; Kant, nella Critica della Ragion Pura, imposta le cosiddette “antinomie”, ovvero dei concetti opposti che si contraddicono, che si scontrano nella realtà.

A questo punto, una volta trovata una antinomia, si può avere due tipi di approccio: il primo è progressista, è razionale, punta al superamento del problema (pur mantenendone la caratterizzazione) cercando la sua soluzione in una forma più evoluta del sapere oppure in un concetto che lo racchiuda; il secondo invece è arrendevole, è retrogrado, perché rimane paralizzato dall’esistenza della contraddizione (la logica formale non la tollera) e scade in una ritirata.

Riprendiamo l’esempio della “dialettica qualitativa” di Kierkegaard, perché essa non riesce ad affrontare le contraddizioni di ogni stadio in quello successivo, bensì semplicemente le elimina parlando di qualcos’altro. In un certo senso è come se lo stadio etico (intermedio tra quello estetico e quello religioso) potesse anche non verificarsi nella “progressione” kierkegaardiana perché nessun elemento di esso viene mantenuto nell’ultimo stadio. Esso non è componente necessaria (perché non è componente) dello stadio ultimo a cui punta il pensatore danese.

Alla opposizione antinomica tra il noumeno (ciò che si manifesta) e il fenomeno (ovvero come conosciamo il noumeno, ciò che ci appare), dove la contraddizione risiede nello scarto tra il contenuto della nostra conoscenza e l’oggetto esterno, i neokantiani e gli irrazionalisti non danno una soluzione dialettica di progressiva conoscenza e miglior approssimazione del noumeno che nel suo manifestarsi ci rivela la sua essenza, bensì cancellano direttamente l’esistenza di una realtà oggettiva, sostenendo che le sensazioni siano una proiezione della nostra coscienza (da cui l’idealismo soggettivo), o che l’unico sapere valido sia quello a priori, ovvero una conoscenza dell’oggetto senza l’oggetto. Il progresso di Hegel viene così negato, e si abbandona la pretesa della ragione di comprendere il mondo, che è stata di fondamentale importanza per l’approccio marxista, in favore di una soluzione “di fede”, oppure astratta, oppure soggettivistica. Non per nulla la scuola neohegeliana ha recuperato il più possibile gli aspetti conservatori dell’anziano Hegel solo dopo una depurazione dell’intero sistema dalla dialettica.

Richard Kroner scrive, riguardo la visione di Hegel:

In modo geniale essa rende giustizia agli eterni motivi fondamentali del pensiero in quanto ordina la realtà intera in una serie di gradi, ove ciascuna cosa si viene a trovare al suo posto. Mediante questa struttura architettonica essa riesce ad unire anche ciò che è opposto, a stabilire un accomodamento tra fatti antitetici.

Richard Kroner in György Lukács, La Distruzione della ragione, pag. 565

È chiaro come la contraddizione dialettica venga privata delle sue opportunità creative e distruttive, della lotta e dello scarto tipico della contraddizione, che crea l’apertura per uno stato più elevato della conoscenza e della lotta stessa; la dialettica, anzi, viene resa un «accomodamento tra fatti antitetici»: i neohegeliani sterilizzano la dialettica dal fattore della lotta, restituendo una pseudo-dialettica fondata nella logica formale, ben distante da quella di Hegel, semplicemente accostando i due opposti. Ciò è evidente anche, ad esempio, nel loro “progetto culturale”, infatti:

[Kierkegaard, Heidegger ecc.] sono fra loro in disaccordo solo perché non comprendono il loro bisogno di reciproca integrazione, perché non si compenetrano reciprocamente e non si uniscono fra loro. E sono d’accordo come avversari di Hegel solo in quanto nella loro unilateralità non solo si escludono l’un l’altro, ma appunto per questo escludono anche il tutto di cui vengono ad essere soltanto elementi.

Richard Kroner in György Lukács, La Distruzione della ragione, pag. 566

Come abbiamo già anticipato anche nella sezione sulla pseudoscienza, non viene proposto uno standard qualitativo e scientifico di costruzione del sapere, come non viene nemmeno fornito nessun elemento per capire l’origine sociale e la funzione politica di ogni pensiero. È invece una “sintesi somma” delle idee, una gita al supermercato filosofico per collezionare i barattoli di tutte le marche. Non viene dato alcun criterio filosofico-ideologico specifico per “accettare” o “respingere” un pensiero da questa sintesi pacifista della filosofia, oltre a quello del pacifismo stesso: per questo motivo, il marxismo venne escluso dall’Olimpo. Le richieste di pace sociale da parte del ceto borghese progressista e moderato, che produsse il neohegelismo, furono coerentemente sublimate e in un certo senso “trasposte” anche nella filosofia; come pure la lotta politica e sociale al marxismo venne “sublimata” in esclusione del marxismo da questa sintesi filosofica della totalità, da loro propugnata.

Il neohegelismo, in particolare, annulla ogni differenza tra sistemi filosofici diversi e in contrasto, assumendo inoltre la posizione tipica dell’idealismo soggettivo per cui possa esistere uno sviluppo “puro” e immanente delle idee, indipendente dalla realtà oggettiva esteriore:

L’idealismo tedesco da Kant a Hegel deve essere inteso nel suo sviluppo come un tutto: come una linea che descrive una grande curva secondo una legge ad essa immanente e che solo in essa si manifesta… si deve descrivere in che modo dalla kantiana critica alla ragione derivi l’hegeliana filosofia dello spirito.

Richard Kroner in György Lukács, La Distruzione della ragione, pag. 569

Come se Fichte non avesse polemizzato con Kant, o come se Schelling non avesse fatto degli avanzamenti in senso naturalistico ed oggettivo della dialettica, adottati e sviluppati da Hegel, per poi condannare le sue opere giovanili e partire nella sua parabola reazionaria, irrazionalistica ed antihegeliana! L’idealismo tedesco è stato una corrente filosofica composta anche da posizioni antagoniste, lotte, sviluppi e separazioni: ben altro che «una grande curva» dalla legge immanente! Gli strati sociali prussiani dell’epoca avevano ereditato un impianto filosofico dal passato (Kant, Illuminismo); di tale base “unica” fecero uso ideologico e politico diverso, ognuno per la propria strada, da cui le scissioni e i contrasti.

Secondo Kroner, Kant avrebbe fatto una critica alla ragione (Non era una critica della Ragione, una critique piuttosto che un criticism?) senza dare gli spunti pre-dialettici, come le antinomie, oppure la base oggettiva della conoscenza (il noumeno), che diedero una sponda allo sviluppo del seguente idealismo oggettivo della natura (Schelling) e della società (Hegel), base dell’analisi materialistica del sistema socioeconomico-produttivo (Marx); qui tale progresso viene eliminato. Viene restituita una versione distorta dell’idealismo tedesco, perché le sue più dirette conseguenze furono esattamente gli studi razionali della contraddizione, del mondo naturale e della società che il neohegelismo si propose di combattere.

Infatti, Kroner continua:

Si trattava di riparare al male che era stato fatto con la parola “panlogismo” coniata da J. E. Erdmann; ciò si poteva ottenere soltanto quando fosse messo decisamente in evidenza, anziché il carattere razionalistico, il carattere irrazionalistico della dialettica…

Hegel è senza dubbio il più grande irrazionalista che la storia della filosofia conosca. Nessun pensatore prima di lui ha saputo chiarire il concetto come lui… Hegel è irrazionalista perché fa valere l’irrazionale nel pensiero, perché rende irrazionale il pensiero stesso… È irrazionalista perché è dialettico, perché la dialettica è l’irrazionalismo stesso reso metodo, reso razionale, perché il pensiero dialettico è un pensiero razionale-irrazionale.

Richard Kroner in György Lukács, La Distruzione della ragione, pagg. 574-575

In questi travisamenti si leggono gli influssi della filosofia della vita, per cui si può dire che l’irrazionalità cosmica si fosse resa razionale in Hegel; ma anche la volontà di elevare Hegel a baluardo conservatore, tanto da far affermare a Friedrich Meinecke: «Per cui osiamo ormai chiamare come i tre grandi liberatori dello Stato: Hegel, Ranke e Bismarck». Come giustamente osserva Lukács, viene nascosta la lotta di Hegel alla scuola storica e a Ranke in particolare.

Se la logica formale è ad uso e consumo di pretesi successori di Hegel, lo è ancora di più per gli altri pensatori irrazionalisti (Kierkegaard con la sua dialettica “qualitativa”, oppure Heidegger che non problematizza l’organizzazione sociale ma semplicemente lotta contro “la società”, oppure Schopenhauer che non comprende il nesso dialettico che lega conoscenza sensibile ed elaborazione razionale ecc). Ciò, però, rientra in un progetto ancora più ampio, che si manifesta anche nella distruzione della storia.

Il motivo storico – la disarticolazione della storia e del progresso

Tutte le filosofie irrazionalistiche attaccano la nozione di progresso, avvenga ciò in modo diretto (negando il progresso tramite un pessimismo cosmico, o una teoria della decadenza) o in modo indiretto (combattendo la nozione di storia).

Facendo qualche esempio particolare, Schopenhauer e Nietzsche “abolirono” la storia dandole una natura immobile, di “eterno ritorno” o di “eterna sofferenza”. Heidegger sosteneva che la vera storicità fosse quella esistenziale, la fatticità del soggetto, limitata ad esso e di conseguenza disintegrando la storia dei popoli e delle civiltà, come dell’umanità in generale. Oswald Spengler, tramite uno studio “analogico” e non tramite uno studio delle cause e delle peculiarità di ogni periodo storico, sosteneva l’assolutezza del ciclo di nascita, crescita, decadenza e morte della civiltà. In un certo senso, Robespierre fu simile a Giulio Cesare, ucciso dalla reazione su cui poi ha poi trionfato il suo “successore” imperiale Napoleone-Ottaviano Augusto, diffondendo nel mondo la sua civiltà.

Considerare la natura schiavile della società romana e quella borghese della rivoluzione francese è irrilevante per uno studio che vuole conoscere la storia in modo distorto, semplicistico e depistante, che si limita a trovare la “profonda” quanto vuota corrispondenza tra epoche distanti secoli e organizzate in modo completamente diverso, con le loro peculiarità e problemi storici specifici. Questa apparente ingenuità svolge un ruolo sociale importante, ovvero annullare i presupposti stessi del progresso, come quelli del cambiamento in generale.

Eppure è indicativo constatare come nel 1600 e nel 1700 (come pure nel primo 1800, prima delle lotte operaie), fosse stata proprio la borghesia a industriarsi con dei grandi esponenti intellettuali (Vico, Rousseau, Comte, Beccaria) a dimostrare la possibilità del cambiamento storico a livello universale, e non quello infranto soggettivamente di Heidegger, o quello paralitico di Nietzsche. Il tono è evidentemente cambiato con la fine dell’illuminismo e del positivismo, dopo che le classi ormai dominanti, avendo esaurito il loro ruolo di agenti pratici di cambiamento della struttura sociale su cui tutt’ora siedono in cima, si sono riconvertite a protettrici e conservatrici.

La corsa all’annullamento e alla distruzione della storia presuppone la distruzione del mondo oggettivo, perché altrimenti è impossibile prescindere dal mutamento del mondo esterno, tecnologico, sociale, culturale, che naturalmente ci influenza e ci cambia costantemente, con il suo ristagnare come con il suo cambiare. Sostenere che l’uomo primitivo sia uguale a quello di oggi, come la civiltà romana fosse uguale (ma per clemenza diciamo pure simile) a quella della Francia napoleonica è frutto non di stupidità ma di un trascuramento metodico e intenzionale della realtà oggettiva ed esterna agli individui singoli, ovvero l’economia ma anche la società, la cultura…

E questo è chiaro come il sole nello studio storico borghese: la storia della filosofia viene ridotta a “filastrocca di opinioni”, come se esse nascessero dal nulla e avessero conseguenze reali nulle, invece che comprendere il ruolo sociale del pensiero e del suo effetto apologetico o critico, della sua funzione agitatrice o soppressiva; oppure la storia stessa come una disciplina che si studia «per capire come mai siamo qui», senza andare mai oltre alla ricerca di leggi storiche oggettive, come invece fa dichiaratamente la concezione materialistica della storia e la scienza politica e storica marxista (Perry Anderson, Ellen Meiksins Wood, Giovanni Arrighi, Karl Marx stesso…). Oppure basta constatare come la storia borghese della cultura si limiti ad osservare le cose prese di per loro, in una sorta di radicale empirismo (come se da Hume non si fosse “risvegliato” Kant!) che non può e “non pretende” di scoprire le cause oggettive delle trasformazioni culturali. E un esempio, tra i tanti, di tale inutilità e superficialità della metodologia di studio della realtà è il movimento delle Sardine.

A parte le più che ragionevoli critiche di stampo politico fatte dal mio collega e amico di L’Ordine Nuovo, non si può prescindere da una critica culturale a tale movimento, che si limita a “lottare” contro il movimento populista-sovranista di Salvini tacciando i propri avversari di irrazionalità e ignoranza. Ho già brevemente parlato del fenomeno più generale dei populismi nella sotto-sezione della pseudoscienza, la quale tra l’altro miete molti consensi tra il “popolo salviniano”, radicandosi nella pesante insicurezza economica di grandi strati della popolazione, che la rende particolarmente prona a soluzioni “di pancia”, ad oggi egemonizzate dalla Lega dopo l’entrata in secondo piano del Movimento 5 Stelle.

La lotta sovranista e l’euroscetticismo sono dei temi tipici della piccola borghesia nazionale che vuole essere protetta dal grande Mercato Unico Europeo, ma riscuote molti consensi anche tra le persone che a causa dell’austerità imposta dall’Unione Europea ha perso il lavoro o è attualmente precarizzata, o si dovrà pensionare più tardi, o non ha più accesso alle strutture sanitarie pubbliche a causa del loro taglio. Sostenere che il corteo di Salvini sia composto da dea Ignoranza e dea Irrazionalità è pura fantasia e classismo, incomprensione delle esigenze di strati profondi della popolazione (di cui il 27% nemmeno vota alle elezioni parlamentari, e sistematicamente nelle amministrative del 2017 una persona su tre con diritto di voto non ha votato), oltre che disonestà intellettuale nei confronti di persone che genuinamente vogliono creare un cambiamento positivo nella società ma che sono ingannate da retoriche semplici ed efficaci. Il risultato della scienza storica borghese che compartimentalizza la storia e la sfascia in frammenti sconnessi è l’incapacità di comprendere (non di conoscere: comprendere!) il passato e anche il presente, figurarsi la capacità di previsione del futuro!

Le crisi sono costantemente una sorpresa, il razzismo è puramente un fenomeno culturale di ignoranza e la storia è un insieme sparso di eventi e persone: una impostazione del genere è completamente inservibile per chi vuole cambiare il mondo, il meglio che può fare (e lo fa) è ingannare le persone facendogli credere che la realtà stessa sia inconoscibile e immodificabile, quando è il metodo conoscitivo ad essere fallato e inutile proprio per assolvere alla sua funzione apologetica.

L’indissolubile nesso fra Teoria e Prassi

Riassumendo, le filosofie orientate all’annullamento della storia e del progresso, all’aristocratismo della conoscenza, al solipsismo etico e alla logica formale, incapace di cogliere l’apertura creata dalle contraddizioni, pongono numerosi ostacoli alla ragione e al cambiamento della società. Non per nulla, i nomi degli autori finora citati hanno permeato coerentemente quasi tutte le sezioni (e se non lo hanno fatto è più per mia incompletezza e sintesi che per loro estraneità a tali idee), mostrando come questi temi si intersechino per costruire un pensiero organico e coerente in quanto a logica sociale e in quanto a funzione, non per forza in quanto ad esposizione o coesione delle idee (è il caso degli aforismi di Nietzsche, o delle ambiguità del giovane Schelling, che hanno poi rivelato il loro senso al suo diventare un artefice e ideologo della reazione prussiana).

L’illuminismo è stato un movimento progressista e razionalista, e si è fatto portatore di molti valori a cui oggi è vicino il movimento comunista. Primo fra tutti, la fiducia nell’universalità della ragione, nella sua potenza emancipatoria e nella diffusione del sapere, per gli Illuministi incarnata nell’Encyclopédie, tentativo di raccogliere nel modo più completo e fruibile i saperi dell’epoca.

Riprendendo Kant,

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.

Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, pag. 1

Non tutti possono essere intellettuali (come del resto non tutti possono essere manovali) ma tutti, in quanto dotati di ragione, possono essere liberi e indipendenti. A livello sociale, questo non significa che il pensiero sia assolutamente libero (ovvero indipendente da tutto), perché i problemi posti dall’epoca storica (oggi una di esse è l’ecologia) e dal vivere sociale sono determinanti e peculiari, sono l’humus sul quale poi crescono le riflessioni individuali, le speranze, e gli obiettivi.

L’indipendenza del pensiero è stata uno dei valori fondamentali con il quale l’illuminismo voleva creare un movimento progressista indipendente dal prete, dall’ufficiale dell’esercito e dall’uomo di finanza, al fine di poter prescindere dal vincolo ideologico con le classi dominanti dell’epoca  e per creare così il proprio pensiero, pratica, politica. Ma se la borghesia voleva degli intellettuali propri, perché non li dovrebbe volere il proletariato ? È questa la questione che si pose Antonio Gramsci parlando della necessità di “intellettuali organici alla classe”; perché la borghesia progressista può dare una mano alla classe rivoluzionaria del proletariato fino ad un certo punto , ma dopo il quale le loro strade si dividono (come ha dimostrato con chiarezza il 1848 e il 1917), e così deve avvenire politicamente, ideologicamente e praticamente.

Ciò significa che possiamo guardare con la massima ammirazione gli intellettuali illuministi, la Rivoluzione Francese e il famosissimo principio di «Liberté, Égalité, Fraternité», ma anche che dobbiamo comprendere le necessarie differenze che il movimento di emancipazione del proletariato deve avere dal movimento di emancipazione della borghesia, e le ragioni di queste differenze. Il proletariato è l’unica forza realmente progressista di tutta l’epoca successiva al 1700 e, per sua sfortuna e fortuna, può e deve rendersi portatore di una nuova etica universale. Per fare un esempio, Kant nel brano citato dice che:

In alcune attività che riguardano l’interesse della cosa comune è necessario un meccanismo tale per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo, così che il governo, tramite un’armonia artefatta, diriga costoro verso pubblici scopi, o almeno li induca a non contrastare tali scopi. Qui non è certamente consentito ragionare; al contrario, si deve obbedire. Ma nella misura in cui queste parti della macchina si considerano, allo stesso tempo, membri dell’intera cosa comune, e anzi persino della società cosmopolitica, e assolvono quindi la funzione dello studioso nel senso proprio della parola il quale, attraverso i suoi scritti, si rivolge a un pubblico, essi possono certamente ragionare, senza perciò danneggiare le attività che svolgono in quanto membri passivi.

Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, pag. 3

Tale concezione della obbedienza con libertà di discussione non considera come, una volta “illuminate” le masse, si dovrebbe creare cambiamento (colpevole è anche il fatto che Kant era prussiano e non francese!). Questo punto di vista manca della concezione materialistica della storia, e non possiamo incolpare Kant per aver definito una libertà di tipo borghese: ovvero una libertà formale, che può avere espressione in un parlamento o anche, come scritto dall’autore stesso, in una monarchia “illuminata” come quella di Federico II di Prussia o di Maria Teresa d’Austria. Quello che bisogna fare, però, al di là di ogni disputa e opinione, è obbedire. Il proletariato si trova nella condizione economico sociale di dover obbedire (in modo più o meno attutito dalle sue lotte sindacali) al potere economico-sociale del capitale in primis e dei suoi possessori e conseguenti messi in secundis, finché il modo di produzione non cambierà e finché non si strapperanno i mezzi di produzione e di riproduzione sociale alla classe possidente per utilizzarli in modo socializzato.

È evidente allora che la libertà borghese per noi è insufficiente, e il proletariato necessita a livello pratico di vivere, e a livello ideologico di pensare, ad una libertà adatta a lui, ovvero alla classe universale. Ciò presuppone un agire concreto del proletariato e dei suoi intellettuali per esprimere ciò che si mostra in nuce nella lotta sindacale, ovvero l’antagonismo tra coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che sono costretti a vendere la propria forza-lavoro. Quella sindacale è azione semicosciente perché reattiva al modo di produzione capitalistico, e non ancora attiva perché non ha ancora concettualizzato il problema più generale, ovvero tale modo di produzione, da superare con una rivoluzione violenta abolendo il concetto di obbedienza e appropriandosi dei mezzi della riproduzione sociale.

Questo significa che il proletariato, per avere la libertà che gli spetta, non può accettare le seguenti parole di Kant:

Solo chi, illuminato egli stesso, non teme le ombre e dispone, al contempo, di un esercito numeroso e ben disciplinato a garanzia della pubblica pace, può affermare quello che invece una repubblica non può arrischiarsi a dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!

Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, pag. 7

È il momento di affrontare il problema della ragione.

Ragione e irrazionalità: questione di funzione?

Se finora abbiamo in modo più o meno preciso seguito il percorso di Lukács, è il momento di porsi una domanda più generale: la ragione è adatta e utile in ogni situazione? Si può forse dire che, nella storia, si tratta esclusivamente di forze progressiste razionali e di forze reazionarie irrazionali? La mia, temporanea, risposta è: No.

L’autore del libro, nella prefazione, lascia latente la pista di studio delle filosofie reazionarie razionaliste. Al momento a me non vengono in mente nomi, o concetti, che possano essere esemplari. La costruzione binomica “Razionalità progressista ed emancipatrice/ Irrazionalità reazionaria e conservatrice” verrebbe, però, invalidata. Lukács critica Georges Sorel per il suo confuso militantismo sindacalista che, influenzato da Bergson e da altri ambienti della filosofia della vita, affidava al mito dello “sciopero generale” e all’“esercizio rivoluzionario” dello sciopero il ruolo centrale per l’educazione del proletariato alla lotta; la scarsa chiarezza e pronezza del suo pensiero alla libera “interpretazione mitica” avrebbe permesso a Mussolini di appoggiarsi sul suo pensiero, tanto da definirlo un maestro.

Molto spesso Lukács mette in evidenza come i pensatori “precursori” del nazismo sarebbero rimasti inorriditi di fronte a cosa avrebbe portato il secolo XX, ma ci tiene anche a mettere bene in chiaro come, alla fine dei conti, la prassi filosofica irrazionalistica avesse permesso la rielaborazione di concetti “adatti” da parte di posteri un po’ peggio intenzionati. Non vogliamo fare qui un’analisi dell’appropriazione filosofica e politica; ma è comunque significativo che negli ambiti conservatori e reazionari certi nomi vengano visti spesso (e insieme), oppure che una tendenza politico-filosofica come il “comunismo ermeneutico” che vuole leggere Marx sotto la lente di Heidegger abbia ben poco di rivoluzionario e sembri più un oppio dei popoli che una filosofia della prassi.

Comunque, la tesi di questa sezione è che il razionalismo non sia esclusivamente progressivo, e viceversa che l’irrazionalismo non sia esclusivamente reazionario. Come Lukács ha già alluso parlando di filosofie reazionarie razionalistiche (a cui al momento non riesco ad associare nulla di specifico, e mi fiderei dell’autore che di ricerche in merito ne avrà fatte), il nesso tra progressismo e razionalismo ne esce indebolito, o meglio lo è il nesso tra irrazionalismo e reazione.

Non è forse possibile, allora, che la “sostanza” di un pensiero possa essere neutrale alla sua veste? Il determinismo in epoche di grossa difficoltà e di repressione del movimento operaio è un metodo per sperare in un futuro diverso, tramite un lento logoramento del presente che, un giorno, darà la vittoria agli oppressi, facendo elaborare una prassi, per dirla con Gramsci, da “guerra di posizione”; al contrario, in momenti propizi all’azione diretta il determinismo diventa stretto al proletariato che si muove, che si sente sicuro delle sue possibilità e della sua volontà, sentendosi demiurgo del mondo e di conseguenza mettendosi metafisicamente al centro del mondo asserendo la potenza del libero arbitrio contro la «meccanicità deterministica e paralizzante di causa-effetto», spesso usata dall’“ultrarealismo” liberale: è il momento della “guerra di movimento”. Perché ciò non può valere anche per la questione della ragione?

La questione religiosa

Per questo motivo non nutro particolari diffidenze nei confronti delle sintesi marxiste-cristiane (non perché il cristianesimo abbia qualcosa di speciale, ma perché tali unioni sono le più frequenti); perché per gli oppressi, se la religione può essere un oppio, talvolta può diventare anche un elemento rivoluzionario; quando essa è un sistema di potere (come nel caso della Chiesa Cattolica nel Medioevo, o in America Latina), l’ambito della religione è anche un ambito politico, e come c’era l’apparato repressivo e di controllo della Chiesa Cattolica c’erano movimenti di “controcondotta” dei già menzionati Lutero e Thomas Müntzer o la Teologia della Liberazione. Che tali movimenti siano radicali è vero, d’altronde è complicato stimare quanto in fondo possano effettivamente permettersi di andare sia in quanto ad analisi sociale, sia in quanto a spinta rivoluzionaria.

Emerge allora un problema quasi sostanziale nella nostra ricerca: gli ambiti sono forse neutrali ? È una questione che ci siamo già posti, seppur in modo diverso, che continua a ripresentarsi per l’interesse che abbiamo ad un esame critico della cultura e della sua funzione. Se la tecnica e l’organizzazione sociale non sono neutrali, non è chiaro perché debba esserlo la religione o ambiti simili. Costanzo Preve ad esempio riscontra come il Cristianesimo delle origini fosse fortemente radicale ed egalitario: si volgeva infatti contro il sistema del tempio e del Sinedrio, oltre che proporre in modo seppur primitivo la comunanza dei beni; Preve, in particolare, associa Gesù ad un esseno, altri in senso ancor più “estremistico” ad uno zelota, ovvero ad una sorta di indipendentista e integralista israeliano, contrapposto al dominio della casta sacerdortale collaborazionista con i romani che usavano Israele come riserva di schiavi e terre da coltivare. Sicuramente, però, vi era un certo interesse romano-sinedrico alla crocefissione di Gesù, etichettato come “Re dei Giudei” (all’epoca il titolo che si davano i leader zeloti), con conseguente processo e giudizio di Ponzio Pilato (e la relativa vaghezza dei Vangeli lascia aperta la possibilità di un Gesù zelota o esseno). Gesù, dopo le tentazioni del deserto, tornò in Galilea e fece un discorso in una sinagoga:

Si recò a Nàzaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo, trovò il passo dove era scritto:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore»

Luca, 4, 16-19 [per la versione completa 16-30], tratto dalla Bibbia di Gerusalemme, 1995, pag. 2205

L’edizione TOB restituisce una lettura ancora più “politica”, in quanto l’unzione/elezione divina e il ruolo politico sono conseguenti e non contingenti:

Nota (a): La TOB considera possibile la traduzione qui adottata [identica a quella riportata sopra, ndR], però costruisce diversamente: «[Lo Spirito del Signore è sopra di me,] perché mi ha consacrato con l’unzione per annunziare la buona novella ai poveri. Mi ha inviato a proclamare ai prigionieri la liberazione […]»

Nota (b): La citazione d’Isaia è troncata prima della fine minacciosa: un giorno di vendetta per il nostro Dio.

Luca, 4, 18, tratto da TOB, la Bibbia da studio, edizione Elle Di Ci, 1998, pag. 2334

Aggiungo, inoltre, che nel brano originale di Isaia, viene proclamata «la libertà degli schiavi» e «la scarcerazione dei prigionieri» (Isaia, 61, 1-2), che è decisamente meno ambigua di una “liberazione”, prona ad interpretazioni più religiose che politiche. Non si tratta di libertà “interiore”, bensì della vera e propria scarcerazione ed emancipazione di schiavi e prigionieri, oltre che dei poveri.

Sebbene le opinioni siano le più disparate, e noi non abbiamo per nulla le competenze adatte a fare filologia biblica, possiamo limitarci ad osservare come la tesi di un Gesù politico sia verosimile non solo per quanto scritto nei Vangeli ma anche per quanto riguarda la prassi comunitaria ed egalitaria delle prime comunità cristiane, come pure per la loro intensa persecuzione che, per la sua furia, è difficile dissociarla da una repressione politica. Del resto, gli zeloti diedero molti problemi ai Romani (in ben tre guerre, di cui la prima causò la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito), e Gesù è vissuto in un periodo nel quale le tensioni erano forti e la corruzione era evidente. Il Tempio, gestito dal Sinedrio, era una sorta di centrale amministrativa, perché i magistrati-sacerdoti regolavano il calendario delle semine e dei raccolti (ovvero, l’economia) ed esercitavano potere giudiziario (a parte la pena di morte, per cui Gesù dovette essere giudicato da Pilato).

Ciò che noi, con le nostre conoscenze, possiamo concludere, è che la religione probabilmente è un Kampfplatz, un campo di battaglia politico-ideologico neutrale e utilizzabile finché la religione di per sé è il mezzo e la giustificazione dell’autorità e del dominio di una classe su un’altra, da cui i movimenti radicali di Lutero, Müntzer, Gesù… Foucault esaminò il potere “pastorale”, un potere “pre-governativo”, caratteristico di tutta la tradizione cristiana, a cui si sono opposte le “controcondotte” talvolta ascetiche (rifiuto dell’autorità religiosa e “corporale” di altri sul sé), o comunitarie (Jan Hus e Wyclif, che sosteneva «Nessun signore civile, ma anche nessun vescovo e nessuna autorità religiosa, se versa in stato di peccato mortale», ovvero tutti, siccome siamo tutti più o meno peccatori), o mistiche (esperienze religiose al di là di quelle collettive e controllate dal sacerdote), di libera interpretazione e lettura delle Scritture (Lutero…), o escatologiche (Gioacchino da Fiore, con la venuta della “Terza Epoca” nella quale sarebbe tornato Dio e il suo gregge non avrebbe avuto bisogno di pastori).

L’apologetica e la critica

Un ambito di sapere e di potere quindi è anche ambito di lotte. L’importanza che ha rintracciare l’esercizio di potere nel sapere è l’opportunità di portare ovunque la lotta cosciente del proletariato. come avvenne in passato per la religione, oppure per la filosofia nell’antica Grecia (ne abbiamo già parlato). Una volta che il proletariato si rende cosciente del “mondo” ideologico che lo circonda e lo attraversa, si può anche rendere conto dei “partiti” del capitalismo e quelli del comunismo che vi lottano. I primi hanno due modi, ben classificati da Lukács, di giustificare l’esistenza del modo di produzione capitalistico e di frustrare la prassi rivoluzionaria.

Apologetica diretta

L’apologetica diretta è la giustificazione dell’esistente in quanto positivo, oppure in quanto «il migliore possibile». È il classico tipo di apologetica dei “virtuosi” del libero mercato, come pure del neoliberalismo più in generale, e degli economisti e dell’élite finanziaria, che sicuramente non hanno nulla da ridire su ciò che c’è adesso; anzi, vogliono “ancora più” capitalismo, tramite le privatizzazioni, tramite la flessibilizzazione del lavoro, tramite la neutralizzazione o l’eliminazione dei sindacati, delle manifestazioni… L’apologetica diretta giustifica e promuove la lotta di classe del capitale contro il lavoro, spacciandola ai lavoratori come positiva, in quanto la competizione spinge allo sviluppo, la privatizzazione all’efficienza, e lo Stato deve essere un “amico” delle aziende e aiutando loro aiuta l’economia (sia mai che sia possibile aiutarla partendo dai lavoratori!). Ma quando le cose si fanno serie, e il proletariato si risveglia ed è in condizione di dare filo da torcere al potere del capitale organizzato (facciamo l’esempio delle lotte operaie alla fine del 1800, oppure dopo la prima guerra mondiale, oppure dopo la crisi del ’29, oppure nel ’68) la maschera benevola dell’apologetica diretta cade e viene mostrata con la massima potenza la violenza della classe dominante che chiama ad una difesa militante e aggressiva del capitale.

Di questa sorta di apologetica si dovette vestire l’impero USA, dovendosi contrapporre sia all’ideologia degli imperialismi europei “pretendenti” (fascismo e nazismo), sia all’incombente minaccia comunista. Lukács dedica un capitolo alle sorti dell’irrazionalismo dopo la Seconda Guerra Mondiale, dove analizza quanto detto dai “virtuosi” del mercato (vale anche per quelli che vogliono ancora “più” mercato, ovvero degli utopisti capitalisti, come Friedman o Rothbard) e le giustificazioni del dominio imperialistico USA sul mondo per «proteggere la libertà e il capitalismo dei paesi occidentali». L’apologetica diretta deve allora elogiare il modo di produzione capitalistico, e talvolta (sempre per quella militante) rendere evidente la contrapposizione tra classe possidente e classe proletaria, al fine di giustificare la propria lotta.

Di un ruolo apologetico diretto si investì Nietzsche, che fu forse il filosofo più ardentemente antisocialista del secolo XIX:

Chi odio più di tutti fra la plebaglia di oggi ? La plebaglia socialista, gli apostoli dei chandala, che seppelliscono l’istinto, la gioia, il senso di sobrietà dell’operaio, – che lo rendono invidioso, gli insegnano la vendetta… L’ingiustizia non consiste mai nella disuguaglianza di diritti, ma nel pretendere diritti “uguali”…

Friedrich Nietzsche, Anticristo, citato in Lukács, La Distruzione della Ragione vol. 1, pag. 337

Ma anche

La stoltezza, e in fondo la degenerazione dell’istinto che oggi è alla base di tutte le stoltezze, consiste nel fatto che esiste una questione operaia. Su certe cose non si fanno questioni: primo imperativo dell’istinto. – Io non riesco a vedere che cosa si vuol fare dell’operaio europeo una volta che ne è stata fatta una questione. Egli si trova troppo bene per non porre gradualmente sempre maggiori problemi e con sempre minor modestia. E poi egli ha dalla sua parte la forza del numero [!!!]. È completamente svanita la speranza che ne risulti un tipo umano modesto e sobrio sul genere del cinese: e questa sarebbe una cosa ragionevole, sarebbe addirittura una necessità. Che cosa si è fatto? Tutto per distruggere in germe ogni possibilità di questo genere. Sono stati distrutti completamente, con la più irresponsabile leggerezza, gli istinti in virtù dei quali è possibile un operaio come ceto, o diventa possibile a sé stesso come tale. L’operaio è stato ammesso nell’esercito, gli sono stati concessi il diritto di associazione e il diritto di voto: qual meraviglia se già oggi sente la propria esistenza come uno stato di necessità, e, in termini morali, come un’ingiustizia? Ma che cosa si vuol fare?

Friedrich Nietzsche, Il Crepuscolo degli Idoli, citato in Lukács, La Distruzione della Ragione vol.1, pag. 337

L’aperta polemica con il movimento operaio diventa un incitamento all’azione tirannica:

“Nulla è vero, tutto è permesso”. Zarathustra: “Io vi ho preso tutto, la Divinità, il dovere; ora voi dovete dare il più alto saggio di un’azione nobile. Qui infatti si apre la via degli scellerati; guardate!” La lotta per il dominio e alla fine il gregge più gregge e il tiranno più tiranno che mai. Nessuna lega segreta! Le conseguenze della vostra dottrina devono infierire in modo tremendo: ma innumerevoli periranno per essa. – Noi facciamo un tentativo con la verità! Forse per questo l’umanità andrà in rovina. Coraggio!

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, citato in Lukács, La distruzione della Ragione vol.1, pag. 349

Le citazioni finora riportate sono lunghe per il nostro articolo, ma sicuramente insufficienti per dare una convincente immagine di Nietzsche; a tal riguardo c’è il capitolo apposito nell’opera di Lukács che può permettersi di essere più completo a riguardo. Ciò che ci interessa è mettere in evidenza che l’apologetica di Nietzsche non è “molle” e “soft”, oppure “ipocrita” come quella di Schopenhauer, oppure di Heidegger, ad esempio. Si tratta di una presa di posizione coerente ed aperta, un grigno a 32 denti che vuole soffocare con la violenza le richieste del proletariato di un mondo migliore.  Per farlo, però, deve prendere atto della lotta di classe prima di poter incitare i suoi ad essa; e da questo derivano le lucidissime prese di coscienza del potere del proletariato, della sua minacciosità: egli constata infatti che «i deboli hanno più spirito» e che «sono il maggior numero e sono anche i più accorti» (Crepuscolo degli Idoli).

Apologetica indiretta

La giustificazione diretta e positiva del modo di produzione capitalistico, come pure la sua estremizzazione “militante”, non è l’unica ad esistere; ci sono infatti sistemi di pensiero (filosofici ma anche religiosi, sociologici…) che non “elogiano” il capitalismo, anzi lo criticano. È il caso delle analisi di Max Weber, o di Simmel, o ancora di Heidegger, che sostengono “l’inautenticità” della vita capitalistica (per motivi sociali, o economici, o politici). Esse però non forniscono strumenti per avere una prospettiva di cambiamento, come nel caso di Heidegger, che si limita a lamentare la condizione dell’uomo (di classe media) travolto nel turbine della “massa”, pur senza problematizzare le cause di questa condizione, ovvero il modo di produzione capitalistico, condannando anzi la socialità in generale. Altri ancora, come Weber, criticano il capitalismo ma lo qualificano come “gabbia d’acciaio”, dalla quale ovviamente non teorizzano l’uscita; Weber, compiendo anch’egli un errore metodologico, considera come sostanziali per le trasformazioni sociali degli elementi parziali come l’etica e la religione, e più in generale le idee e le Weltanschauungen (immagini che si hanno del mondo).

Weber, che è indubbiamente uno dei sociologi più importanti in generale e per la classe borghese in particolare, non può spiegarsi con il suo metodo storico-analitico l’evoluzione, né la causa, del modo di produzione capitalistico e della sua nascita in Europa, né tantomeno dell’evoluzione in generale delle civiltà: per il capitalismo ricorre infatti all’etica calvinista, ma ammettiamo che ha molto più senso (anche per studiare la diffusione di alcune ideologie) considerare il colonialismo come pietra fondante dell’accumulazione originaria del capitale che fece da spola tra feudalesimo e capitalismo. E allora lo sviluppo capitalistico della Cina, o del Giappone a cosa sarebbe dovuto, ad un “trapianto” di etica calvinistica in quelle terre lontane? Le lotte di classe sono dovute ad una «etica dei lavoratori» contrapposta ad una «etica del capitale», e non all’antagonismo socio-economico?

Tale metodo è assolutamente insufficiente per studiare la storia passata e presente, come pure è insufficiente per dare prospettive pratiche e di azione: e questo è esattamente l’obiettivo sociale di questo modello sociologico, che finisce per equiparare il carisma di uno sciamano e quello di un capo socialdemocratico di allora, Kurt Eisner; oppure ad equiparare la burocrazia imperiale egizia (???) e il socialismo. La sostituzione della causalità con la chance restituisce approssimazioni “cattive” perché vaghe, di natura polarmente opposta alle approssimazioni delle leggi sociali ottenute con un metodo marxista, secondo cui vi sono “logiche peculiari ad oggetti peculiari” con ben precise tendenze di lungo periodo. Le conseguenze di questo metodo probabilistico (già Lenin ha polemizzato con prospettive simili nella disputa con gli empiriocriticisti) sono evidenti appunto nell’inutile e superficiale metodo analogico, capace di accatastare dati ma incapace di spiegare gli avvenimenti storici; abbiamo già trattato di tale metodo in una sezione precedente.

Tutti i partiti socialdemocratici fanno apologetica indiretta, perché l’obiettivo è quello di “raddolcire” il capitalismo dopo una adeguata “critica” per poi far credere di aver risolto la cosa. Anch’essi sono coinvolti nella giustificazione dell’esistenza delle classi, spesso in modo ancora più subdolo impugnando l’“armonia” contro l’“uguaglianza”. Quelli più onesti prendono apertamente atto della lotta di classe, ma finiscono per etichettarla come “sana” e non come sintomo di disagio di larghissimi strati della popolazione che viene sfruttata e messa in costante situazione di precarietà e paura del domani, al semplice fine di attuare un “compromesso”. E tale apologetica indiretta mostra, di nuovo, l’inservibilità rivoluzionaria di tali critiche “soft”, perché tempo che arriva la prossima crisi e si è punto e a capo. La sociologia, l’economia e la scienza storica borghese non riescono a capacitarsi del fatto, e rimangono spiazzate di fronte ad ogni crisi. Qual è la giustificazione della socialdemocrazia di fronte all’insostanzialità e alla fragilità delle proprie soluzioni?

Inoltre, l’apologetica indiretta è la “critica da divano”, è insoddisfazione debole seguita da azione debole. La sua efficacia è quella che ha guardare un film che critica il consumismo, il capitalismo, la mercificazione, e poi uscire dalla sala compiaciuti della propria superiorità morale, dormirci sopra e cominciare tutto come al solito.

La critica comunista

La differenza tra l’apologetica borghese e piccolo-borghese e la critica comunista è che la critica comunista ha l’obiettivo fondamentale di trasformare la realtà. A tale scopo, deve naturalmente comprendere nel modo più completo e pratico possibile la società, la storia, l’economia e la cultura. Dovendo trasformare la realtà, deve anche capire quali sono le forze che le si oppongono: siano esse sociali, o economiche, o culturali. Qual è allora, in estrema sintesi, l’approccio marxista alla realtà?

Esso consiste nella fondamentale importanza della prassi, del primato della prassi sulla teoria. Ciò è stato formulato in modo chiaro da Gramsci, quando disse che «un’idea non può nascere da un’idea». Ciò non è da intendere letteralmente, ma serve a ricordare che lo sviluppo puramente immanente della teoria e delle idee non esiste: ciò che pensiamo, ma anche il come lo pensiamo (la forma di coscienza) è profondamente influenzato dalla nostra vita vissuta. A differenza della visione heideggeriana, che dà vita a storicità soggettive e ad una critica della socialità, l’approccio marxista problematizza l’assetto sociale nel quale l’individuo si trova, e riconosce che ci sono determinati tipi di esperienze condivise. L’unità di base per tale esperienza condivisa è la classe, ovvero l’insieme delle persone che condivide uno stesso ruolo all’interno dei rapporti socio-economici di proprietà dei mezzi di produzione. Questo perché, per la concezione materialistica della storia di influenza dialettica hegeliana, materialistica illuminista ed evolutiva darwiniana (essendo ben più di una semplice somma: ne è un superamento), la vita individuale è condizionata da precisi meccanismi sociali. Non si tratta di determinismo, o di essere schiavi tra le maglie della “massa”, bensì di essere parte di gruppi con esperienze più o meno condivise e con interessi più o meno simili.

La questione pratica

A partire dalla presenza di differenze, ci si può però paralizzare di fronte ad esse sostenendo l’unicità dell’individuo e pertanto la radicale incomprensibilità “totale” della persona da parte di un’altra. Da questo discende l’utilitarismo di stampo Humiano, nel quale l’unità minima e massima è l’individuo perché egli soltanto può percepire ciò che percepisce. Ma una filosofia pratica, essendo tale, non può stare dietro ai dettagli infinitesimali:

Una delle conquiste fondamentali del materialismo è l’accettazione del fatto che ci siano domande che non hanno senso. Nella domanda sull’origine radicale delle cose, i materialisti, e Kant stesso, dovevano vedere una semplice impostura teorica, ispirata dalla religione, un’impostura di cui la filosofia doveva sbarazzarsi, né più né meno […]

[Parlando della questione del fine e della fine del mondo presente nella religione] A ciò il materialismo risponde: e perché non ammettere che il mondo è pieno di cose che “non servono a niente”? E ancora: perché non ammettere che né il mondo né l’esistenza umana, né la storia umana hanno un Senso (un fine/scopo fissato in anticipo)? Questo sarebbe scoraggiante? Suvvia, perché non riconoscere, in tutta franchezza, che la condizione più sicura per poter agire nel mondo, per poterne influenzare il corso, per potervi introdurre del senso tramite il lavoro, la conoscenza e la lotta, è ammettere che il Mondo non ha un Senso prestabilito, fissato da un Essere onnipotente, il quale è una pura invenzione?

Louis Althusser, Filosofia per non filosofi, Dedalo, 2015, pagg. 26, 29-30 [originale]

Althusser ci dice qualcosa di estremamente importante: una filosofia pratica deve chiedersi se abbia senso chiedersi qualcosa; e che spesso bisogna distinguere tra qualcosa di sostanziale, di essenziale, e qualcosa di secondario. Gli ingegneri e i fisici, in particolare, prendono perfettamente atto del fatto che non è la realtà a ricalcare le equazioni, ma le equazioni a ricalcare la realtà (la questione dell’a-priori!). Galileo fece i suoi studi senza costruire sistemi logici e matematici complessissimi, ma cercando di schematizzare e di ripetere gli esperimenti in modo da riuscire a comprendere il fenomeno nel modo migliore possibile. A parte l’errore, che è inevitabile commettere per motivi strumentali, è anche fondamentale distinguere cosa sia inessenziale e cosa no, perché trascurare l’attrito dell’aria nel moto di un sasso lanciato o l’imperfetta sfericità della terra nel caso del moto degli astri nel sistema solare è chiave per avere una situazione gestibile e semplice, che sia comunque una ottima approssimazione del fenomeno.

E come si fa, allora, a sapere se qualcosa è essenziale o meno ? Se qualcosa si può trascurare o se è invece centrale ? Siccome non possiamo sapere le cose a priori, l’unico modo è esperirle. E l’unico modo di esperirle è farle/applicarle. Facendo, agendo, si capisce come funzioni la cosa che abbiamo davanti, capiamo cosa siamo noi, che capacità abbiamo e quali sono le regole (naturali, sociali) che regolano e danno proporzione alle cause e agli effetti; con le parole di Vico, verum factum: «siccome l’avevano fatto […] potevano conseguire la scienza del mondo» (Principi della scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni).

Il modo di produzione capitalistico e la funzione dell’Ideologia borghese

Questa è la differenza metodologica tra una filosofia pratica e una che non lo è: la distinzione tra essenziale e inessenziale, cosa abbia senso chiedersi e cosa no. Finora abbiamo analizzato filosofie o sistemi di pensiero che o si ponevano domande senza senso (come «quale è la natura del mondo? Sofferenza o gioia o …», «che origine ha il mondo? Chi l’ha creato? Dio, sé stesso, …») oppure che, una volta posti di fronte a problematiche serie e pratiche, come il caso della critica al modo di produzione capitalistico, si fermano alla superficie, semplicemente constatando il problema e non cercandone le cause.

Una scorretta comprensione delle cause porta sì a disguidi teorici ma anche a problemi pratici, perché si rischia di remare contro lo scopo che ci si è posti a causa di valutazioni sbagliate. Ma l’esistenza del marxismo e della sua effettiva capacità esplicativa della realtà dovrebbe permettere a queste persone di adottare un impianto teorico migliore, giusto? Sbagliato, perché l’incapacità di sostituire queste forme di pensiero e contenuti teorici inefficaci non è dovuta ad un qualche problema intellettuale delle persone che lo pensano, ma alla loro stessa funzione che è proprio rendere inefficace il desiderio di cambiamento, dando un contentino a coloro che non vi partecipano (superiorità morale, superiorità di coscienza [ahi, i complottisti “illuminati”!], riforme inessenziali ecc).

Talvolta l’ideologia borghese deve fare delle concessioni al marxismo, come nel caso di Weber, o di Simmel, o di Heidegger, per quanto riguarda la critica della società (pertanto abbandonando l’apologetica diretta e ingaggiando in una indiretta), perché alle volte la realtà bussa troppo forte per non aprire la porta. Sono determinate classi ad essere più prone a “produrre” queste apologie critiche, in particolare la classe piccolo-medio borghese che si sente minacciata dall’espansione del grande capitale e ripiega su soluzioni sovraniste e nazionaliste prima, a favore della piccola-media impresa poi. La “critica al capitalismo” allora diventa una “critica a questo capitalismo”, una volta che abbiamo scavato fino in fondo. Tra l’altro, cosa molto importante, nelle bocche di questi critici non si sente mai “modo di produzione capitalistico”, bensì solo “capitalismo” (quando ciò avviene), sia perché non possono o non vogliono capire che cosa sia e quale sia la differenza, sia perché il capitalismo è multiforme, il modo di produzione è il corpo dell’Idra e i “capitalismi” sono le sue teste.

Questo è fondamentale anche per comprendere come dal punto di vista di un borghese il fascismo possa sembrare un sistema diverso da quello liberale, in quanto il focus culturale è nazionale, si mira ad una intensa collaborazione tra aziende e stato, spesso si ha fare militaristico ed imperialistico; per un comunista, però, il fascismo non differisce dal capitalismo in modo essenziale, perché poggiano entrambi sullo stesso modo di produzione e sulla protezione della proprietà privata, il che genera il principio di autorità, la spinta economica alla guerra imperialistica, alla lotta tra classe lavoratrice e possessori del capitale (per questo fu importante per il PNF l’eliminazione dei sindacati e la loro sostituzione con quello di partito). A tal proposito, la Seconda Guerra Mondiale vide Germania, Italia e Giappone contrapposte ad USA, Gran Bretagna e Francia non per differenze ideologiche (anche se quello fu un importante fattore che servì a mobilitare le masse), ma per uno scatenamento aggressivo degli imperialismi dell’Asse, che chiamò alle armi gli imperialismi Alleati spaventati e che volevano proteggere la loro egemonia; una regolazione di conti tra concorrenti, in altre parole. La Guerra Fredda, invece, fu una lotta contro il Nemico, perché il comunismo era un pericolo di stazza internazionale per il capitale di tutti i paesi.

Andando un po’ più nel dettaglio, la lotta al fascismo e al nazismo nel dopoguerra fu essenzialmente una lotta culturale da parte degli USA, della Gran Bretagna e della Francia, ovvero un antifascismo nonviolento che serviva semplicemente a far tacere le pretese imperialistiche e nazionalistiche degli stati appena sconfitti, al fine di renderli inoffensivi e anzi collaborativi nei confronti della nuova egemonia economica, militare e poi appunto culturale. Ho compilato una lista di materiali di approfondimento a riguardo in bibliografia, comprese le massicce amnistie di personale nazista e talvolta addirittura SS in Germania e idem per l’Italia. La morbidezza verso i nazifascisti fu l’immagine speculare della durissima lotta nei confronti dei comunisti, ovunque combattuti con furia, emarginati politicamente, talvolta pure arrestati.

Quando si tratta di questioni minori (più o meno mercato? più o meno welfare? federalismo sì o federalismo no? unione europea?) sinistra e destra sono sempre con le unghie nella carne, a suon di dichiarazioni nel Parlamento, uscite mediatiche, interviste di critica e litigi tra TV e Twitter. Quando, però, si tratta dell’abolizione della proprietà privata, si fa fronte comune, alcuni dicono che ciò che c’è oggi va bene, altri sostengono invece che «si è abusato di capitalismo e bisogna tornare ad un capitalismo più vero, più onesto», in linea con Pierre Joseph Proudhon e molti “riformisti” che in realtà spesso sono soltanto piccolo-borghesi che vogliono che l’equilibrio di forze torni a loro favore, invece che del grande capitale. Talvolta sbucano fuori dai loro antri anche personaggi con posizioni come “l’anarco-capitalismo” (cui evidentemente l’ingerenza sociale nei profitti è particolarmente invisa), oppure “l’anarco-primitivismo” (che imposta il problema della società contemporanea sulla tecnica e non sul modo in cui è usata e ripartita) e pseudoideologie simili.

Considerazioni finali e una domanda

Abbiamo uno spettro di ideologie che difendono in modo più o meno diretto la proprietà privata, il cui Iperuranio è popolato da filosofie irrazionalistiche o comunque antisociali, antiegalitarie e reazionarie. Un fattore importante che determina la diffusione di queste idee è la loro strapresenza sia sui social network, sia nei libri, sia nei romanzi, sia in televisione. Anche i meno interessati di politica sono probabilmente entrati in contatto con dei Fusaro o ha avuto modo di guardare uno spezzone di conferenza di Galimberti. Ciò naturalmente riguarda solo strati un po’ più privilegiati, che hanno accesso a internet, un qualche dispositivo del genere e le capacità e conoscenze culturali e linguistiche (oltre che tempo ed energie) per poter fruire di contenuti del genere.

Ma alcuni strati sono protetti da tali ideologie non solo perché non raggiunti, bensì in virtù di ciò che vivono ogni giorno sulla loro pelle, si tratti di discriminazioni razziali, o di lavoro precario o di sfratti, che rinnovano quell’humus che produce necessità e volontà di progresso, desiderio di cambiamento, solidarietà, fratellanza. Altri ne sono più suscettibili, ma soltanto perché temporaneamente si trovano in una situazione di privilegio e di relativa sicurezza, per cui nonostante la criticità della loro situazione subordinata è per loro vantaggioso mantenere, in una certa misura, il loro stato, seppur con qualche esigenza di miglioramento. Rimane però la consapevolezza della loro situazione, che vivono ogni giorno e che vedono ogni giorno.

Che Fare?

Siamo arrivati alla domanda finale. Che fare? Abbiamo finora esaminato molti aspetti, spaziando tra la filosofia irrazionalistica e reazionaria alla politica “reale”, dal passato al presente. Al momento, stiamo vivendo una crisi sanitaria (che per noi probabilmente si sta placando, ma così non è per gli USA), che sicuramente è preambolo di una crisi economica, e di conseguenza politica, sociale, e culturale senza precedenti. Sappiamo dalle ricerche del CISE che circa il 55% (tabella 7) delle classi più disagiate (operai, commercianti e disoccupati) percepisce delle conseguenze negative dalla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea, inoltre il 79% (fondo tabella 1) delle persone sostiene che serva ridurre il divario tra ricchi e poveri. Inoltre, come abbiamo già osservato, quasi una persona su tre non vota.

Quello che ci troveremo davanti nei prossimi tempi sarà sicuramente un periodo di polarizzazione e rafforzamento delle lotte, per cui per noi comunisti sicuramente ci sarà terreno fertile nelle classi meno abbienti perché sentiranno sulla loro pelle come il capitale, che così spesso viene lisciato e giustificato in un modo o nell’altro da ideologie politiche, rivela in modo ancor più manifesto la sua spietatezza con precarizzazioni, licenziamenti, risparmi in termini di sicurezza, riaperture selvagge e talvolta anche chiusure delle attività, lasciando le persone al loro destino e talvolta addirittura alla malattia.

Il sentimento antieuropeo si rafforzerà, anche a causa delle risposte da parte dell’UE, che non hanno mancato di lasciare perplessi, e delle difficoltà dei lavoratori e dei piccoli-medio borghesi, svantaggiati rispetto alle grandi aziende di cui l’UE fa gli interessi per vocazione. Questo si traduce in un problema classico della prassi rivoluzionaria, ovvero il parziale allineamento tra piccola-media borghesia e proletariato, sia in termini economici sia dal punto di vista dell’ideologia. Spesso, e oggi è il caso, lo schieramento piccolo-medio borghese riesce ad egemonizzare bene le esigenze del proletariato proponendo una antipolitica, le esigenze di lavoro (la Lega, FDI e Italia Viva propongono la riapertura delle aziende, e attaccano la CGIL facendola sembrare un nemico del lavoro), l’antieuropeismo e la critica al “capitalismo” di cui abbiamo parlato nella sezione precedente.

Ma come nel 1848, non possiamo contare sull’alleanza con la piccola borghesia: essa, quando potrà, ci pugnalerà nella schiena senza esitazione, pertanto in quanto movimento comunista bisogna schierarsi con chiarezza a favore dell’abolizione della proprietà privata, come pure non mischiarsi con tali organizzazioni che rischiano di egemonizzare la lotta post-crisi. A tale scopo è fondamentale avere una composizione saldamente proletaria (ovvero: non fare “entrismo” o “massa”) perché solo essa è l’humus per una politica proletaria; e di conseguenza è ancor più fondamentale avere un’organizzazione e un metodo di educazione e di informazione delle persone a cui ci riferiamo, che così spesso hanno anche solo difficoltà a capire l’italiano, figurarsi costruzioni concettuali complesse. Se finora i comunisti hanno avuto difficoltà a farsi capire, in un periodo pre-critico è ancora più importante darsi una svegliata e comunicare con efficacia, oltre che unirsi con altre organizzazioni proletarie ed organizzarne di nuove, perché il futuro ingrosserà fortemente le nostre file e dovremo essere capaci di orientarle, di imparare da loro, e infine di combattere la lunga guerra contro il modo di produzione capitalistico.

Ma il modo di produzione capitalistico, seppur impersonale, si incarna in coloro che ne fanno le veci e ne beneficiano: il punto, allora, è saper vincere l’egemonia della grande borghesia e dello schieramento piccolo-borghese a livello economico, politico e infine culturale, sul quale Lukács, con la sua opera “La Distruzione della Ragione”, ha dato un impulso fondamentale.

Grazie della lettura.

Bibliografia, fonti e approfondimenti

I Sezione: Introduzione e breve riassunto

Il libro di riferimento dell’articolo è La Distruzione della Ragione, di György Lukács, in edizione Mimesis, 2011. Lettura consigliata al di là dell’articolo perché in quanto a contenuti, a dettagli e ad approfondimento del discorso non vi è modo di competere. È inoltre una buona introduzione indiretta a Hegel, in quanto Lukács spesso lo usa come contrasto ai pensatori irrazionalisti, oltre che allo stesso Marx. Se vi interessa il discorso che abbiamo fatto, è sicuramente da leggere (peccato per il costo…)

Un altro libro da leggere è l’Ideologia Tedesca; io mi sono trovato bene con quella di Editori Riuniti del 2018, anche se non è sicuramente completa o filologicamente accurata come le edizioni della Mega2. La lettura consigliata è la parte su Feuerbach, ma vederne l’applicazione contro Stirner e Bauer sicuramente può essere interessante (occhio che la parte su Stirner è molto, molto lunga). In essa viene data la prima vera base della concezione materialistica della storia, poi ritrovabile più o meno ovunque come elemento “sotterraneo” (ma sempre presente) in tutti gli altri scritti di Marx ed Engels.

II Sezione: L’indissolubile nesso fra Teoria e Prassi

L’edizione del testo di Kant da cui ho tratto gli spezzoni di testo è questa, che mi è sembrata la migliore dopo una rapida ricerca su Internet. Le traduzioni variano leggermente in quanto a struttura delle frasi, ma il significato rimane sempre pressoché quello. Ho scelto questo testo perché di altre sintesi dell’Illuminismo scritte all’epoca non ho particolari notizie (a parte l’introduzione di Diderot alla Encyclopédie, che però non sono riuscito a reperire), e inoltre Kant è pur sempre uno degli intellettuali simbolo dell’epoca a livello filosofico, seppur il pamphlet rifletta chiaramente la passività della borghesia prussiana che era decisamente meno forte di quella francese, che infatti riuscì (anche per condizioni congiunturali, ovvero la crisi post-guerra di indipendenza degli USA) a insorgere. Ciononostante, la libertà formalistica in senso borghese è identica, per cui ai nostri scopi la questione non è un problema.

III Sezione: Ragione e irrazionalità: questione di funzione?

Una lettura che consiglierei per espandere le questioni di questa sezione è sicuramente la lettura dei Quaderni del Carcere di Gramsci. C’è una edizione antologica che mi è piaciuta molto di Editori Riuniti curata da Guido Liguori, uno dei massimi studiosi di Gramsci a livello internazionale, che contiene sia degli articoli sia estratti dai Quaderni. Per quanto riguarda l’analisi di Preve consiglio a piene mani la lettura di “Una nuova storia alternativa della Filosofia” edita da Petite Plaisance, sia per la meravigliosa seppur sintetica disamina della storia della filosofia (seppur trovi un po’ superficiali le analisi delle filosofie contemporanee), sia per l’utilizzo della contestualizzazione sociale dei filosofi, che manca nella storia della filosofia borghese di carattere “dossografico” (la “filastrocca di opinioni”, appunto) che viene insegnata a scuola e nelle università e restituisce una visione puramente idealistica e quasi da “supermercato filosofico”. Non manca nemmeno la straordinaria ironia satirica di Preve che riesce ad impepare anche le disamine più teoriche.

IV Sezione: L’apologetica e la critica

Oltre al testo di Lukács, consiglio la lettura del Capitale, perché è essenzialmente una critica alle categorie dell’economia politica classica che assolutizzava le categorie della realtà economica capitalistica a tutta la Storia (tanto che Adam Smith sostenne che tra i selvaggi vi fosse un’economia di scambio: da cui il termine ironico di Marx “Robinsonata”). Tale apologetica indiretta è stata affrontata da Marx con la questione dei modi di produzione, di cui ha trattato estensivamente anche nel Capitale, appunto. Inoltre, nel 2° Libro Marx fornisce alcuni strumenti per la critica al “libero mercato”, con gli schemi di riproduzione (introduzione) e la caduta tendenziale del tasso di profitto (introduzione).

L’edizione che consiglio, perciò, del Capitale è quella UTET del 2017; una via di mezzo tra l’ottima edizione filologica curata da Roberto Fineschi e pubblicata da Città del Sole e la “vulgata” della Newton Compton, che seppur ottima come rapporto qualità-prezzo, per uno studio accurato di Marx è assolutamente da scartare per via di traduzioni imprecise diffuse un po’ ovunque.

Un altro libro consigliato è Filosofia per non filosofi di Louis Althusser, di cui ho l’edizione Dedalo del 2015; è un’introduzione molto semplice e carina per un approccio pratico alla filosofia. Ecco la citazione originale:

Una delle conquiste fondamentali del materialismo è l’accettazione del fatto che ci siano domande che non hanno senso. Nella domanda sull’origine radicale delle cose, i materialisti, e Kant stesso, dovevano vedere una semplice impostura teorica, ispirata dalla religione, un’impostura di cui la filosofia doveva sbarazzarsi, né più né meno […]

[Parlando della questione del fine e della fine del mondo presente nella religione] A ciò il materialismo risponde: e perché non ammettere che il mondo è pieno di cose che “non servono a niente”? E ancora: perché non ammettere che né il mondo, né l’esistenza umana, né la storia umana hanno un Senso (un fine, uno scopo fissato in anticipo)? Questo sarebbe scoraggiante? Suvvia, perché non riconoscere, in tutta franchezza, che la condizione più sicura per poter agire nel mondo, per poterne influenzare il corso, per potervi introdurre del senso, tramite il lavoro, la conoscenza e la lotta, è ammettere che il Mondo non ha un Senso (prestabilito, fissato da un Essere onnipotente, il quale è una pura invenzione)?

Infine consiglierei la lettura di un testo qualsiasi, oppure un’introduzione, di un autore apologetico indiretto per familiarizzare con l’atmosfera, con l’approccio che permea i testi di un certo tipo. Nel mio caso ho letto una guida ad Heidegger della Laterza, che compila delle guide interessanti e ben fatte, ma consiglio anche le guide della Carocci che probabilmente sono anche migliori. Sicuro è che la verità di un pensatore la si vede nella sua vita fattuale, per cui accoppiare una guida filosofica alla biografia è sicuramente una ottima scelta.

V Sezione : Il modo di produzione capitalistico e la funzione dell’Ideologia borghese

Per quanto riguarda le collusioni tra capitale e regimi fascisti un semplice manuale di storia (che non sia troppo elementare) basta e avanza; ci sono anche dei documentari molto belli su Youtube, che possono aiutare a farsi un’infarinatura. Altrimenti, è comunque comodo leggersi un libro come Il Secolo Breve di Hobsbawm che, seppur sommario, dà una prospettiva abbastanza buona per studiare l’argomento. Ho anche scritto un articolo sul fascismo, che però è da ampliare e rivedere dopo i dovuti ulteriori studi.

Ecco inoltre alcune voci interessanti come quella dell’Amnistia Togliatti e la scandalosa “mancata denazificazione” di Adenauer, in cui persino una delle SS che liberò Mussolini fu amnistiata, e in generale rimase una rete nazista sotterranea chiamata “Il Ragno” sostenuta dall’industriale Krupp, che durante il regime nazista controllava anche 138 campi di concentramento. Similmente continuava tranquillamente la sua vita la Spagna Franchista e il Portogallo di Salazar. In funzione anticomunista, invece, vi furono embarghi (come quello contro Cuba, tutt’ora in vigore), persecuzioni come quella Maccartista che bersagliarono persino Charlie Chaplin, oltre all’installazione di una rete di controllo fascista in Italia e Germania con l’operazione Gladio. Per non parlare dell’esistenza di una Paura Rossa, e non di una Paura Nera.

Consiglio inoltre la lettura dell’Antidühring di Engels o la Critica al Programma di Gotha di Marx, nella quale i due combattono la visione socialista “soft” oppure con buchi teorici comuni. Un testo, invece, che Marx scrisse contro la concezione del “vero capitalismo” di Proudhon è La Miseria della Filosofia.

Per quanto riguarda la critica al “capitalismo”, basta guardare qualche canale piccolo-borghese; a me è venuto in particolare in mente questo video di Byoblu, ma quel canale è in generale una miniera di critiche piccolo-borghesi, pseudoscienza e talvolta direttamente idiozie che è facile ritrovare gli elementi di cui abbiamo parlato nell’articolo. Ci sono anche interventi interessanti, ma d’altronde come nelle leggende c’è sempre un fondo di verità allo stesso modo in mezzo al fango ogni tanto si trova una pepita d’oro. È da prendere con assoluta serietà, però, non tanto la qualità delle argomentazioni o dei temi politici di per loro quanto la presa che hanno sulla popolazione in virtù di alcuni temi di cui i media nazionali mainstream (RAI, Sky, Mediaset…) effettivamente non parlano, come ad esempio l’esercitazione Defender Europe di cui era prevista la mobilitazione di 20.000 soldati americani dagli USA in modo congiunto a 9.000 altri soldati americani già stanziati in Europa e 8.000 soldati di cui anche dei parà italiani e spagnoli. Tale notizia è stata infarcita di complottismo da queste fonti di informazione “alternative” come se si trattasse di un’invasione, quando si tratta semplicemente di un’esercitazione delle forze NATO per verificare l’infrastruttura dei trasporti e testare la mobilità e gli aeroporti. Classico esempio di una visione per la quale lo stato attuale dello sfruttamento del lavoro nelle PMI è normale e buono e invece il grande capitale è cattivo, per cui per orientare le paure della gente si punta a complotti internazionali.

VI Sezione: Considerazioni finali e una domanda

Quello che posso consigliare è darsi una bella letta alla storia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, a Stato e Rivoluzione e al libro di Lenin intitolato proprio come la nostra domanda: Che Fare? Ma l’obiettivo di questa sezione non è quello di invogliare a leggere, bensì ad organizzarsi, ad agire.

Che fate ancora qui? Via, compagni, al lavoro!

1 Reply to “Appunti su “la Distruzione della Ragione”, di György Lukács”

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