Intervista al sociologo Walden Bello

Walden Bello, nato a Manila l’11 novembre del 1945, consegue nel 1966 una Bachelor Degree of Arts in discipline umanistiche all’Università di Manila. Dopo aver insegnato per alcuni anni nel suo paese, nel 1969 prosegue i propri studi a Princeton, dove ottiene nel 1972 un Master of Arts in sociologia. In questo periodo, coinvolto nelle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, inizia a sviluppare una propria coscienza politica. Nello stesso anno visita il Cile di Allende per studiare da vicino la via cilena al socialismo, da cui si sentiva molto attratto.
Nel 1975 ottiene, sempre a Princeton, il PhD in sociologia mentre nel suo paese Marcos instaura la legge marziale, sciogliendo parlamento e partiti. Gli eventi filippini lo porteranno ad aderire al Partito Comunista delle Filippine di Sison e Buscayno, fatto che lo renderà per molto tempo apolide.
Durante questo periodo studia il modo in cui Banca Mondiale e FMI sostenevano Marcos, pubblicando il libro “Development Debacle: the World Bank in the Philippines” nel 1982, contribuendo al rafforzamento del movimento di opposizione alla dittatura.
Negli anni ’90 sviluppa una forte coscienza ambientalista, aderendo anche al movimento no-global. Fu tra i protagonisti dei dibattiti a margine della manifestazione di Seattle del 1999, durante la quale venne picchiato dalla polizia statunitense. Era presente alla manifestazione di Genova del 2001.
Critico dei processi della globalizzazione, a lui si deve il termine deglobalizzazione, dello sviluppo impetuoso del capitalismo dai valori asiatici e dell’imperialismo americano.
Fa parte del partito Laban ng Masa, ispirato dalla marea rossa latinoamericana di inizio millennio.
Tra i suoi libri più importanti ricordiamo:
Il futuro incerto. Globalizzazione e nuova resistenza (2002); Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale (2004); Capitalism’s Last Stand?: Deglobalization in the Age of Austerity (2014); Paper Dragons: China and the Next Crash (2019)

1. “Deglobalizzazione” è un termine da lei coniato all’inizio del XXI secolo nell’apogeo del movimento No Global. Questo è concetto che lei usava per descrivere i rapporti di dipendenza tra Nord e Sud globale, in relazione alle istituzioni su cui gli USA hanno cercato di costruire i processi della globalizzazione. Lo intende come un processo di ridiscussione della globalizzazione mettendo al centro gli interessi dei popoli e non delle multinazionali. Vorrei sapere che relazione sussiste tra questo suo concetto e quello della disconnessione di Samir Amin, per certi aspetti molto simile.

La deglobalizzazione assume la subordinazione del commercio al bene sociale comune e la reintegrazione del mercato nella società. È, nel profondo, una prospettiva etica. Rende prioritari i valori sugli interessi, la cooperazione sulla competizione, e la comunità sull’interesse individuale. Trasportato in termini economici, il fine del paradigma della globalizzazione è di oltrepassare l’economia della semplice efficienza, in cui il criterio chiave nella produzione è la riduzione dei costi unitari, senza riguardi alla destabilizzazione socio-economica che ciò comporta. Al contrario, la deglobalizzazione cerca di promuovere un’economia efficace, che rafforza la solidarietà sociale subordinando le operazioni di mercato ai valori di uguaglianza, giustizia, di comunità e ampliando lo spazio dei processi decisionali democratici nella sfera economica. Per usare il linguaggio del grande pensatore ungherese Karl Polanyi nel suo La Grande Trasformazione, la deglobalizzazione riguarda il “ricollocamento” dell’economia e del mercato nella società, invece di avere una società guidata dall’economia e dal mercato.

Al contrario del concetto di sganciamento (delinking) di Samir Amin, la deglobalizzazione non promuove mai la separazione dell’economia nazionale dall’economia internazionale. Ciò che auspicava era di rendere di nuovo il mercato interno al centro di gravità dell’economia, con un rinnovato ruolo mediatore dello stato attraverso l’uso di dazi e altri meccanismi.

Crowd reaching for globe

2. La fine del “progetto di Bandung” non ha prodotto un tentativo ulteriore di rompere la dipendenza con il centro dei paesi a capitalismo periferico. Prendono come esempio il suo paese, ha prodotto l’ascesa di un personaggio molto pericoloso come Duterte.

Come spiega questo stallo nei paesi a capitalismo periferico?

La decolonizzazione del Sud del mondo è stata affiancata dall’emersione di economie socialiste o in via di sviluppo capitalista, dove lo stato aveva un ruolo centrale come mediatore delle relazioni tra l’economia globale e quella locale. I paesi di maggior successo di queste economie guidate dallo stato sono stati in Asia orientale, col Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, la Malesia, la Thailandia, l’Indonesia, e Singapore, dando l’esempio fino agli anni Novanta, seguite dalla Cina a partire dagli anni Novanta. I sistemi politici di sviluppo statalista soffrirono per molti problemi in molte parti del Sud del mondo, ma questi erano prevedibili sin dai primi stadi di quando si imposta un nuovo approccio economico. I paesi dominanti del Nord, tuttavia, approfittarono di queste difficoltà e, usando come arma il debito che possedevano dei paesi del Sud, forzarono quest’ultimi a smantellare le istituzioni del capitalismo in via di sviluppo e del socialismo attraverso programmi di aggiustamento strutturale che privilegiavano i meccanismi di mercato e spostarono la produzione ai fini dell’esportazione ai mercati del Nord come obiettivo predominante dell’economia. L’aggiustamento strutturale o le riforme neoliberiste non portarono alcuna crescita e aumentarono sia la povertà sia la diseguaglianza per tutto il Sud del mondo.

1955, sala della Conferenza di Bandung

Il neoliberismo divenne l’orientamento economico dei paesi che adottarono la liberaldemocrazia dopo la caduta delle dittature in tutto il Sud fin dai primi anni Ottanta. Non sorprendentemente, il neoliberismo contraffece e sviò le promesse di responsabilizzazione economica e politica che aveva offerto con la liberaldemocrazia e finì per screditarla. Ciò è lo screditamento della democrazia da parte dell’economia neoliberista che è stata una delle ragioni principali per le quali abbiamo visto l’ascesa di pericolosi controrivoluzionari di destra come Duterte nelle Filippine e Modi in India, che hanno approfittato della persistente e palese disuguaglianza e povertà per convincere le persone che la democrazia non funzionava e promuovere la loro agenda autoritaria.

3. Sono stati questi anche gli anni del socialismo del XXI secolo in America Latina che ha sostenuto. Si tratta di un’esperienza molto importante per le nazioni a capitalismo periferico ma questi governi non sono stati in grado di mettere in discussione un modello estrattivista e dipendente, non avviando un processo di disconnessione per industrializzare le proprie nazioni. Emblematico il Venezuela e la sua dipendenza dal petrolio. Che giudizio si sente di dare e che possibilità di avanzamento verso il socialismo intravede in queste nazioni?

L’ascesa di governi filo-socialisti, populisti di sinistra o di sinistra moderata in America Latina nei primi anni 2000 era uno sviluppo promettente. Tuttavia, alcuni di questi governi, come in Venezuela, Bolivia ed Ecuador, scelsero di focalizzarsi sull’industria estrattiva per produrre ricavi da redistribuire alla popolazione nel suo insieme e da usare per programmi sociali. Questo è stato un caso di avere buone intenzioni ma metodi sbagliati.

Il problema è che l’industria estrattiva destabilizza molto ecologicamente e perseguire alcune estrazioni significa violare i diritti delle comunità indigene che possiedono le risorse estratte. Questo portò i governi in conflitto con alcune di queste comunità, con conseguenze tragiche per entrambi, come abbiamo visto nel caso della Bolivia.

Un approccio estrattivista porta inoltre alla compiacenza da parte di alcuni governi, come in Venezuela, che decise di dipendere solamente dal petrolio e di non diversificare l’economia. Il collasso del prezzo del petrolio portò al tracollo catastrofico dei ricavi, a stenti e al caos economico.

Nel caso dei governi di sinistra moderata, i problemi erano diversi. Il governo del Partito dei Lavoratori in Brasile non promulgò persino la riforma più vaga della struttura del capitalismo oligarchico per paura di provocare l’opposizione della classe dominante, e scelse invece di focalizzarsi sul versamento di parte dei ricavi governativi attraverso programmi anti-povertà, che era un successo limitato.

Sfortunatamente, provò inoltre a promuovere la sua agenda sociale corrompendo alcuni membri di altri partiti, e la vicenda si concluse nell’accalappiamento nella cultura della corruzione di cui la politica brasiliana è tristemente nota. In Cile, i governi della Concertacion costruiti su un’alleanza tra il Partito Socialista e il Partito Cristiano-democratico non cambiarono l’orientamento neoliberista alla radice dello stato ereditato da Pinochet, ma tentarono di ammorbidirlo con programmi compensativi per i poveri. Questo esercizio di equilibrismo alla fine collassò, col fatto che le recenti proteste di massa in Cile sono il ripudio di oltre quarant’anni di governo sostanzialmente neoliberista. Ma queste esperienze non sono vane. Sono utili come lezioni positive e negative di cosa fare e cosa non fare per i movimenti progressisti futuri, quando la sinistra ritornerà al governo.

4. Anche in Africa la situazione non sembra eccezionale. La Cina sta investendo in questo continente da molti anni. Giudica un pericolo o un’opportunità per gli africani la sempre crescente presenza cinese?

In materia di finanziamento allo sviluppo, la Cina è stata straordinariamente un vantaggio per i paesi in sviluppo. Nell’indispensabile campo della costruzione delle infrastrutture, dove si stima ci sia gravemente una necessità di circa tremila miliardi, la Cina si definisce praticamente come la sola risorsa di finanziamenti per molti paesi, da quando i finanziamenti occidentali per lo sviluppo sono stati stagnanti per anni finora, e le agenzie occidentali come la Banca Mondiale e il FMI impongono condizioni neoliberiste che impediscono lo sviluppo.

Tuttavia, il ruolo positivo che alla fine svolge l’espansione della Cina nel Sud del mondo è stato oscurato da critiche sugli investimenti da imprese statali cinesi, che sono spesso connesse ai finanziamenti per lo sviluppo cinesi. Si dice che i prestiti cinesi per lo sviluppo portino a maggiori tassi d’interesse rispetto ai prestiti dal Giappone o da banche multilaterali per lo sviluppo dominate dall’Occidente. Molti progetti sono stati biasimati per aver aiutato dei regimi dittatoriali, cedendo benefici solo per le élites locali, trascurando i diritti dei lavoratori e provocando danni ambientali.

Non c’è alcun dubbio che molte di queste critiche siano valide. I prestiti cinesi recano un maggiore onere per interessi.

I cinesi hanno fatto prestiti a regimi dittatoriali. La Diga Myitsone, finanziata dalla Cina, in Birmania avrebbe destabilizzato comunità della minoranza etnica Kachin e non è stata fermata dal governo birmano. Organizzazioni Non-Governative hanno inoltre mostrato come in Cambogia la Diga Kamchay, finanziata dalla Cina, e progetti di infrastrutture energetiche in Ghana abbiano portato vantaggi sostanzialmente alle élites dominanti. E in Zimbabwe, Zambia, nella Repubblica Democratica del Congo, e in Sudafrica, le aziende cinesi, sia private che pubbliche, sono state associate con abusi nei confronti dei lavoratori locali e una preferenza per impiegare lavoratori cinesi immigrati.

Queste critiche, comunque, devono essere collocate in un quadro più ampio.

Pechino, Cina, 4 settembre 2015. Il Presidente cinese Xi Jinping stringe la mano col Presidente sudafricano Jacob Zuma, alla Grande Sala del Popolo.

In primis, sulla questione dell’onere per interesse dei prestiti cinesi, mentre è vero che i prestiti cinesi recano un tasso di interesse superiore a quello che è portato dai prestiti della Banca Mondiale, di banche regionali per lo sviluppo e donatori bilaterali come il Giappone, la Cina si impegna anche in molti atti di condono o cancellazione del debito. Quest’anno, 2019, ha annullato $ 78 milioni [€ 70 milioni] di debito al Camerun; nel 2018, cancellò $ 72 milioni [€ 63 milioni] dovuti dal Botswana e 10,6 milioni [€ 9,3 milioni] dovuti dal Lesotho; e nel 2017, $ 160 milioni [€ 133 milioni] di valore del debito dovuti dal Sudan.

Il gruppo di ricerca Rhodium ha trovato 40 istanze di rinegoziazione del debito alla Cina, per un ammontare di 50 miliardi di dollari [44,7 miliardi di euro] su 24 paesi dal 2000. Nel suo discorso del 2010 per la Millennium Challenge dell’ONU, l’allora primo ministro Wen Jiabao rivelò che la Cina aveva cancellato il debito dovutole da 50 paesi poveri altamente indebitati (HIPCs) e dai paesi meno sviluppati (LDCs) per un ammontare di 25,6 miliardi di yuan [2,9 miliardi di euro] nel 2009, e avrebbe cancellato di più nel 2010. In modo simile, nel 2018 Xi Jinping affermò durante il Forum per la Cooperazione Cina-Africa che la Cina avrebbe cancellato alcuni dei debiti senza interesse alle più povere nazioni africane.

In secondo luogo, sull’argomento dei prestiti e degli investimenti cinesi che aiutano a sostenere regimi dittatoriali, se ci sono casi dove ciò è vero, non sembra essere una regola generale. Un’indagine di Julia Bader, infatti, ha fatto emergere il risultato controintuitivo per il quale «la cooperazione economica della Cina sembra avere inaspettati effetti positivi per la democratizzazione», ovvero, l’importo dell’aiuto estero cinese è correlato positivamente con le transizioni alla democrazia. È senza dubbio un dato che dev’essere ulteriormente comprovato.

Per terzo, se in certi casi i piani finanziati dalla Cina esacerbano la disuguaglianza, i dati macroeconomici indicano che i prestiti cinesi offrono non solo finanziamenti alternativi ma dei finanziamenti alternativi che tendono a ridurre le diseguaglianze. La ricerca di un consorzio transnazionale di analisti guidati da università statunitensi e tedesche ha trovato il risultato che «i piani cinesi per lo sviluppo – in particolare, i progetti di ’infrastrutture connettive’ come strade e ponti – si riscontra che creino una distribuzione maggiormente uguale di attività economica nelle province e distretti dove sono stati inaugurati». Lo studio ha anche misurato l’impatto dei piani cinesi di sviluppo sulle disuguaglianze economiche tra province e distretti, «e pure qui i risultati forniscono motivi per essere ottimisti: i progetti finanziati dal governo cinese sembra che riducano, più che amplino, le disparità economiche tra regioni».

Se non c’è alcuna macro-correlazione tra i piani cinesi e la disuguaglianza che aumenta, non c’è alcun dubbio sul fatto che i programmi di aggiustamento strutturale finanziati dal FMI e dalla Banca Mondiale, con le loro imposte condizioni duramente neoliberiste, portino a un serio aumento della disuguaglianza e della povertà fra i loro destinatari negli anni Ottanta e Novanta.

In quarta istanza, sul fatto che le imprese statali cinesi sono spesso ritenute di inquinare l’ambiente più intensivamente delle multinazionali occidentali, c’è, di fatto, una prova contrastante sul fatto se sia vero o meno. Per certo, le società occidentali coinvolte in attività estrattive e relative, come il gigante minerario australiano-canadese OceanaGold in El Salvador e nelle Filippine, hanno record paragonabili, se non superiori in triste fama, delle aziende cinesi.

Per di più, le ditte transnazionali occidentali hanno sempre più subappaltato la loro manodopera a basso costo e le operazioni inquinanti a imprese nei paesi in sviluppo, cosicché l’impatto globale complessivo delle loro catene di valore, in termini di sfruttamento della manodopera e di inquinamento ambientale in Africa, America Latina, e Asia (fatta eccezione la Cina) è probabilmente molto maggiore di quello del numero limitato di imprese statali cinesi.

È stato mostrato, per esempio, che le emissioni di carbone prodotte dalle filiere globali dell’industria farmaceutica europea sono circa dieci volte maggiori delle sue emissioni dalle sue dirette operazioni. Un quadro simile si osserva per il consumo d’acqua (circa tre volte maggiore) e l’inquinamento aereo (venti volte maggiore).

Effettivamente, per tutte quelle lamentele sul comportamento delle imprese statali cinesi in quei paesi, molte persone nelle nazioni in sviluppo non pongono la Cina nella stessa categoria delle multinazionali occidentali.

Guardando attentamente ai ritratti della Cina sia nella stampa governativa che d’opposizione nel novero delle nazioni africane, uno degli studi più equi trasmessi sul ruolo cinese nel continente ha rilevato che «i media africani hanno criticato gli individui o le multinazionali cinesi per un cattivo comportamento; alcuni articoli di giornali zimbabwesi sono risultati accusare la Cina di neo-colonialismo o di ritrarla come una minaccia economica, e alcuni articoli di media sudafricani e zambiani hanno criticato i rispettivi governi per essere troppo amichevoli con la Cina, tuttavia la maggioranza degli articoli non ha ritratto la Cina di essere un impero del male che sfrutta l’Africa… Benché la Cina ottenga la sua quota di critiche nei media africani, a parte poche eccezioni, la stampa africana non vede la Cina come neo-imperialista, né tratteggiano i cinesi in tinte razziste».

Queste percezioni possono comunque cambiare se la Cina non si muove per correggere i suoi errori e permette alle proprie multinazionali e aziende di persistere con pratiche discutibili nei suoi primi venticinque anni di apertura del paese.

Le nazioni che in passato avevano intenzione di dare spazio alla Cina per fare errori a causa del fatto che era su una ripida curva d’apprendimento, possono non essere più così tolleranti nei prossimi anni. Non sarà facile cambiare comportamenti opinabili o sbagliati, ma a meno che la Cina non agisca presto, questi comportamenti possono coagularsi in schemi strutturali simili a quelli mostrati dalle multinazionali occidentali. Queste strutture possono quindi diventare i meccanismi e le vie di dominazione che dovrebbero emergere in Cina per una dirigenza che cerca l’egemonia globale.

5. A proposito di Cina, ha recentemente scritto un libro in cui prefigura una prossima crisi economica proprio nel gigante asiatico. In relazione a ciò, come giudica la politica economica cinese e che significato assume la BRI, la via cinese alla globalizzazione?

La Cina sta entrando in un periodo che potremmo chiamare, secondo la definizione di Toynbee, un “periodo di problemi”. Il suo tasso di crescita è calato dall’11% di quindici anni fa all’attuale circa 5%. È occupata in una guerra commerciale con gli Stati Uniti, che significa che i suoi profitti dal commercio saranno ridotti significativamente. Le sue industrie stanno soffrendo di sovrapproduzione, tant’è che non è più vantaggioso per molte di queste produrre in Cina. È afflitta da una bolla immobiliare, da un mercato azionario surriscaldato, e dall’ascesa di un vasto settore bancario ombra, che lo rende candidato ad essere il detonatore della prossima crisi finanziaria globale.

È in questo contesto più ampio che dobbiamo valutare il tema della Belt and Road Initiative (BRI). Molti hanno scritto che la BRI sia un grande progetto per la dominazione globale di Pechino. La realtà è che è davvero uno sforzo disperato per creare un mercato esterno tale da risolvere il problema di sovracapacità estremamente serio dell’economia cinese, che ha reso la produzione in Cina sempre meno redditizia.

Alcuni analisti affermano che è una strategia ben congeniata eseguita dall’alto. La verità è che è un caos mal-coordinato e incoerente che è guidato dal basso da governi e autorità provinciali che competono in lizza per risorse, prestigio e l’attenzione di Pechino. Quando è stata annunciata per la prima volta nel 2013, era solo One Belt, One Road, o OBOR. Nel 2015, è diventata tre belts, due rotte marittime, e sei corridoi. È stata aperta a tutti i paesi sulla terra, così che un influente studioso cinese, Xi Lue, si è lamentato del fatto che “se la poni ovunque, [la BRI] diventa nulla”.

Alcuni ritengono che la Cina sia una banca-salvadanaio inesauribile che può finanziare i progetti mal-assortiti della BRI. In realtà la crescita cinese è precipitata dall’11% di un decennio fa a poco più del 5% di oggi, ed è occupata nella guerra commerciale con gli Stati Uniti che taglieranno duramente i suoi ricavi dalle esportazioni, le sue imprese statali sono indebitate alle banche di stato per un totale di 12 mila miliardi di dollari, secondo alcune stime, rendere la BRI reale significherà fare debiti a più governi che non saranno capaci di risolverli, schiacciando i depositari cinesi dei loro risparmi, che è stato il metodo principale di accumulare risorse. Ciò provoca resistenza dal lato della stagnazione economica interna, e la combinazione di una pericolosa bolla di proprietà, un mercato azionario fuori controllo, e la crescita del settore bancario ombra rende la Cina un candidato come detonatore della prossima crisi finanziaria globale.

Il maggior problema con la BRI è che sta esportando non solo il problema della sovracapacità cinese ma anche la sua crisi ecologica. Un grande numero dei suoi progetti sono focalizzati sulla costruzione di dighe e la creazione di impianti energetici a carbone, le cui conseguenze ambientali negative sono già largamente note. La BRI è un grandioso trasferimento anacronistico al XXI secolo dell’impostazione mentale tipicamente novecentesca, tecnocratica capitalista, socialista di stato e sviluppista che ha prodotto la Diga Hoover negli Stati Uniti, i giganteschi progetti edilizi nell’Unione Sovietica staliniana durante gli anni trenta, la Diga delle Tre Gole in Cina, la Diga Narmada in India e la Diga Nam Theun 2 in Laos. Tutti questi sono lasciti di ciò che Arundhati Roy ha definito la “malattia di gigantismo” o gigantomania della modernità. È obsoleto.

Più che essere una via d’uscita dalla crisi, la BRI può in realtà spingere la Cina nel baratro, portando molto mondo con lei.

6. Tra le alternative alla globalizzazione da lei proposte ricopre una posizione importante il ruolo delle imprese cooperative. Un tema molto caro al dibattito economico marxista. In Italia il tema delle cooperative e dell’autogestione operaia è stato lungamente trattato dall’economista marxista Bruno Jossa ma in passato venne discusso lungamente dalla tradizione del marxismo libertario e dai difensori del socialismo di mercato come Oskar Lange. Come si confronta con questi teorici ed anche ai critici del modello autogestionario, come Charles Bettelheim, secondo cui l’autogestione permette ad un gruppo di lavoratori di assumere la proprietà giuridica dei mezzi di produzione della propria fabbrica ma altresì divide la classe operaia in tante unità quante sono le fabbriche autogestite, collegate attraverso il mercato. L’uso dei mezzi di produzione è quindi ancora dominato da rapporti di mercato che giocoforza influenza il funzionamento della fabbrica autogestita in termini di lavoro e obiettivi. Per esempio riproducendo la divisione sociale e tecnica del lavoro per mezzo dell’elezione dei dirigenti, che automaticamente diventano i direttori della fabbrica. C’è il rischio di rinchiudere l’orizzonte dell’operaio alla sua singola azienda invece di estendere la lotta per un radicale superamento dei rapporti di mercato?

Non ho seguito davvero il dibattito in questo campo. Permettimi di dire solo che l’autogestione operaia sarebbe un autentico passo in avanti in termini di democrazia economica. Naturalmente, ci sono dei pericoli, come gli amministratori eletti che hanno capacità possono costituirsi in un’élite cosciente che si forma dalle fabbriche e dalle imprese, o che le relazioni di mercato tra imprese possono portare al ribaltamento dell’interesse collettivo della società. Questi sono pericoli, comunque, che possono essere affrontati attraverso la creazione di meccanismi istituzionali che li controllano, come il limite di mandati degli amministratori e l’accertamento collettivo settimanale della loro esecuzione non-tecnica, o dei loro risultati in termini di raggiungimento di obiettivi democratici.

Il socialismo democratico non farà un viaggio tranquillo. Sarà pieno di problemi e contraddizioni, sia previste che impreviste, che emergono e maturano mentre le persone vanno a tentoni sulla loro via attraverso forme sempre più socialiste democratiche di governo e responsabilità. Non c’è alcun modello estemporaneo, ma una serie di progetti contingenti che sono adottati o rifiutati a seconda di come ci permettano o ci intralcino dal muoversi verso i valori o gli obiettivi finali di uguaglianza, giustizia e democrazia. Il mercato non dev’essere gettato via. È un meccanismo molto importante per l’allocazione delle risorse e per lo scambio che non può essere rimpiazzato dalla pianificazione centralizzata. Ciò che è importante è che le relazioni di mercato siano subordinate ai valori e al bene sociale, per il cui raggiungimento esso può necessitare dei meccanismi di controllo che possono risultare “inefficienti” dal punto di vista dei nudi criteri di efficienza, ma che in realtà promuovono ciò che definisco “economia effettiva” in termini di promozione della solidarietà sociale.

7. Fa parte dal 2007 del partito Akbayan. Come guida questa formazione politica l’opposizione a Duterte e qual è la base sociale di questo governo, di quale classe difende gli interessi?

Mi sono dimesso da capogruppo di Akbayan nel Parlamento [House of Representatives] nel 2016 a causa delle divergenze con la dirigenza del partito sulla continuazione del supporto all’amministrazione dell’allora presidente Benigno Aquino III. Mi è stato rinfacciato che le mie dimissioni sono state l’unico caso di dimissioni su un argomento di principio nella storia del Congresso delle Filippine. Ora sono Segretario Nazionale di Laban ng Masa [Contro le Masse], una coalizione democratica progressista che si oppone all’amministrazione di Duterte per le sue conclamate violazioni dei diritti umani e per le sue politiche neoliberiste.

Il governo Duterte è un regime controrivoluzionario che approfitta del vasto supporto popolare a causa della disillusione per il fallimento di trent’anni di liberaldemocrazia dopo Marcos a convogliare un’effettiva responsabilizzazione e uguaglianza come anche provvedere alla sicurezza fisica. Duterte ha convinto le persone che il ruolo dell’uomo forte e l’omicidio dei tossicodipendenti siano la risposta ai problemi delle Filippine. Il fatto che qualcuno che è responsabile per l’esecuzione fuori processo di oltre 20.000 persone in tre anni si veda un tasso di popolarità dell’87% è impressionante.

La base principale di Duterte è il ceto medio, ma è anche supportato dalle classi più basse. Per citare Gramsci, la classe media fornisce “consenso attivo”, mentre quello delle classi inferiori è “consenso passivo”. Le élite hanno, eccetto alcune, oscillato dietro Duterte, non solo perché sanno che non smantellerà la dipendenza del sistema capitalista periferico da cui provengono le loro ricchezze, ma anche perché ognuno di questi gruppi abbienti è preoccupato che Duterte possa espropriarli se lo oltraggiano. La relazione di Duterte alle élite economiche è come quella di Hitler con l’élite capitalista tedesca e Mussolini col capitalismo monopolistico italiano. È una collaborazione difficile in cui ognuno tenta di usare l’altro per soddisfare i propri interessi in un sistema economico e una struttura di classe di capitalismo periferico. Duterte ha un grande grado di relativa autonomia dalle élite economiche.

8. Due grandi movimenti di opposizione al neoliberismo in Asia sono le guerriglie maoiste in India e nelle Filippine. Per molto tempo è stato membro del Partito Comunista delle Filippine. In che rapporti è oggi con Jose Maria Sison e che giudizio può darci di questi movimenti guerriglieri?

Il Fronte Democratico Nazionale, che include il Partito Comunista delle Filippine, supportò inizialmente Duterte durante i suoi primi mesi di potere. Tuttavia, ora sono all’opposizione a causa dell’intransigente reticenza dell’esercito filippino per un autentico accordo di pace tra loro e Duterte. Per compiacere l’esercito, che è l’unica forza costituzionale capace di spodestarlo, Duterte ora sta reprimendo il NDF e il CPP. Tutte le forze, incluso il NDF-CPP, Akbayan, Laban ng Masa e le élite anti-Duterte costituiscono un largo fronte d’opposizione. Comunque, questo ampio fronte deve ancora diventare una forza coesa.

9. Il suo paese è a maggioranza cattolico. Quale ruolo potrebbe avere la Teologia della Liberazione sviluppata in America Latina per condurre le lotte sociali a favore delle masse?

Nelle Filippine, il problema per la gerarchia e il clero della chiesa cattolica è che ha perso molta credibilità e capitale politico per via della sua inflessibile opposizione alla pianificazione familiare, che è vista con favore dalla popolazione. Inoltre, come in altri paesi, la gerarchia ecclesiastica e il clero sono gravati di molti casi di comportamento non-etico e immorale, incluso l’abuso di donne e bambini da parte di preti, e ciò li ha resi vulnerabili di ricatti da Duterte, che ha promesso di rendere pubblica la cattiva condotta dei preti se la Chiesa si oppone a lui. Apparentemente la rabbia di Duterte verso la Chiesa è dovuta al fatto che è stato abusato sessualmente da un prete gesuita quando era uno studente. Ad ogni modo, eccetto per pochi vescovi e preti, la Chiesa è, per la sua maggior parte, in silenzio per ciò che attiene ai crimini di Duterte.

La Teologia della Liberazione è ancora rilevante? Forse.

10. Ritiene l’opera di Karl Marx e di altri pensatori marxisti, penso a Mao e Lenin, ancora uno strumento valido per analizzare il capitalismo e in particolare una forma periferica di capitalismo come quello filippino?

Naturalmente, tutti i pensatori progressisti, come Marx, Mao, Lenin, Rosa Luxemburg, Polanyi, Gramsci, Nicos Poulantzas, Ho Chi Minh, rimangono rilevanti. Ciò che la sinistra filippina, come la sinistra in altri paesi, deve imparare, è come fare delle discriminazioni, ovvero come distinguere ciò che è applicabile e utile da ciò che è sbagliato o insignificante tra gli scritti di questi pensatori, e approcciarsi al primo buttando via il secondo. E abbiamo bisogno di essere aperti non solo ai marxisti, ma anche ai non-marxisti come Keynes, l’economista ecologista Herman Daly, pensatori critici come Susan George e James C. Scott, alle femministe Vandana Shiva, Bina Agarwal e Sergy Floro, a teorici agrari come Jun Borras, e a paradigmi alternativi come l’economia femminista, la sovranità alimentare, la decrescita, e il Buen Vivir [buon vivere]. La fertilizzazione incrociata di questi approcci diversi, son sicuro che ci porterà a innovazioni nella teoria e nella prassi che rigenereranno la sinistra mondiale.

3 Replies to “Intervista al sociologo Walden Bello”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *