L’ambientalismo non è un barattolo di vernice

La protesta per il clima della settimana scorsa ci apre una serie di riflessioni sulla forma e sull’oggetto della protesta che, in un clima di fervente antagonismo ideologico e di abulico nichilismo, sembra quanto mai necessaria per quadrare i conti, senza miti né rassegnazione per una prospettiva analitica del fatto. Qui sotto potrete leggere il discorso integrale di un nostro importante componente veneto durante il Climate Strike di venerdì e, dopo quello, l’opinione ufficiale del collettivo sulle modalità, i protagonisti, gli antagonisti ed i pericoli del movimento di Fridays For Future e di questo modello di ambientalismo dalle parole di un altro nostro componente che per un anno ha collaborato ed è stato tra i portavoce nelle istituzioni della democrazia studentesca dello stesso movimento. A nome del collettivo, vi auguriamo una buona lettura, che vi possa dimostrare le potenzialità e, al tempo stesso, le criticità di un movimento notevole, di enorme proporzione, e perciò anche strutturalmente debole.

Il Financial Times una settimana fa è uscito titolando a caratteri cubitali: «Capitalismo, è tempo di reset». Ebbene, il Financial Times è uno dei quotidiani finanziari più autorevoli al mondo, e pone una questione di fondamentale importanza: possiamo ancora proseguire col sistema capitalista?

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Qualcuno ora potrebbe pensare, giustamente, peraltro: «E adesso cosa c’entra il capitalismo, noi siamo qui per il clima e per l’ambiente». Ma FFF non è politicamente neutrale, né l’ambientalismo è un barattolo, di vernice verde, con cui decorare qualsiasi società. FFF è un movimento politico, perché “politica”, come i compagni che studiano greco sanno bene, deriva da “polis”, la città-stato, la comunità sociale, e dunque la politica gestisce la vita sociale delle persone, nella comunità e nello stato. Vogliamo cambiare la gestione della comunità sociale e dello stato, quindi noi siamo un movimento politico, con obiettivi politici.

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Una delle obiezioni che mi sono state rivolte quando ho deciso di partecipare a questo sciopero è che, in fin dei conti, manifestare non porta a nessun risultato concreto. E in cuor mio so, che se siamo dovuti scendere in piazza un’altra volta, allora non sono stati fatti grandi passi avanti, né il movimentismo intermittente è una strategia che si rivela utile: oltre alle evanescenti promesse a mezzo sorriso di un Green New Deal, o di finanziare nuove politiche blandamente ambientaliste, non ci sono quei passi concreti che delle persone razionali farebbero, alla luce dell’apocalisse che già stiamo vivendo e che fra dieci anni sarà irreversibile. L’attuale classe dirigente è impotente, come quella coppia di anziani borghesi che si tiene per mano sul letto mentre il Titanic affonda e l’acqua sale. Irrigidita, dal terrore di qualcosa che pare più grande di lei. Il mostro di un cambiamento climatico repentino, mentre la tendenza millenaria normale sarebbe verso una nuova glaciazione, può sembrare un fatto ineluttabile, se non fosse che è stato scatenato dall’uomo stesso. E ora tocca all’uomo, ma ad altri uomini, escogitare una soluzione radicale alla svelta. La classe dirigente si rivela miope e incapace di cogliere la reale sfida che l’umanità deve sostenere. E io propongo: cambiamo classe dirigente. Si intende: cambiamo classe politica, economica, intellettuale, perché quelle attuali si son rivelate un disastro. I tempi così ristretti – dieci anni – impongono una rivoluzione politica mondiale, il che significa innanzitutto creare nuove forme socioeconomiche.

Ci sono delle strutture molto interessanti di economia popolare e circolare, dall’uso particolare delle fonti rinnovabili e dell’agricoltura a Cuba, da alcuni stati dell’India alle cooperative popolari argentine, che affrontano la grave crisi alimentare scatenata da politiche economiche suicide, dalle comuni agricole cinesi alle municipalità zapatiste nel sud del Messico. Questi esempi, oltre ai curdi del Rojavà, pongono già nella realtà dei modi locali di superare il capitalismo, poiché superano le logiche del profitto che sono alla base dell’attuale sistema socioeconomico, quello capitalista. Quindi già ci sono delle alternative, per quanto piccole e ristrette, che lottano per pensare altrimenti e per essere umili precettori di un nuovo futuro.

In questi ultimi decenni, se non addirittura da metà Ottocento, si sente il bisogno di un cambiamento in senso razionale della realtà. Guardando all’anarchia spasmodica che governa il mondo, il mercato, che ha portato il singolo individuo a slanciarsi egoisticamente alla ricerca del massimo profitto, senza curarsi delle conseguenze terribili sulle persone, e su tutto il pianeta, credo che anch’io pretenderei un uso razionale e misurato delle finite risorse a nostra disposizione; d’altronde, non si può pretendere di guadagnare illimitatamente su un pianeta limitato e finito. È stupido, oltre che insensato.

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Quest’etica del profitto però non è sola, è anche mal accompagnata, e va a braccetto con la società dei consumi. La società dei consumi si è dispiegata al massimo splendore nell’età dell’oro del capitalismo, ovvero dal dopoguerra al ’73. Oggi noi non possiamo permetterci di mangiare ciecamente, come bestie che non possono sapere che fine faranno, le scarse risorse finite del nostro spazio vitale. Ciò non significa che si debba lasciar spazio all’inutile idea del cosiddetto “consumo etico”, perché non c’è nulla che può essere migliore nell’offerta proposta dal mercato: è meglio comprare uno shampoo prodotto riversando sostanze tossiche nei fiumi, o uno che invece ha dentro delle microplastiche, che si depositeranno negli organismi viventi? Si è al paradosso di dover scegliere di che morte morire, e non di poter vivere.

Quindi, è doveroso, immanente in ciascun essere umano far chiarezza sulla catastrofe anche alimentare a cui andiamo incontro, senza porre un freno oggi alla pesca industriale che svuota tutti i mari, all’agricoltura intensiva che denatura la ricchezza minerale dei suoli, all’estrazione indiscriminata, che incendia le foreste e sventra la terra, alla cementificazione che disintegra gli ecosistemi delle aree urbanizzate, e aumenta il pericolo di alluvioni e frane in paesi fragilissimi, come il nostro. Potrei continuare ancora.
In questi anni l’umanità è giunta al bivio che pone in crisi la sua stessa esistenza, al momento fatidico, in cui la sesta estinzione di massa, iniziata per mano umana, deve essere frenata prima che ci travolga.

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Dev’essere altrettanto chiaro che non è minimamente possibile cambiare qualcosa dal comportamento del singolo individuo. Non è comprando prodotti “verdi” per mettersi la coscienza a posto che si risolve il gravosissimo problema a cui dobbiamo far fronte. Infatti, il 71% delle emissioni di anidride carbonica viene da solo 100 aziende. Non è possibile esigere un capitalismo “verde” e un progresso sostenibile, perché il capitalismo prevede il massimo profitto ottenibile, e per realizzare il massimo profitto si trova nel bisogno di sfruttare al massimo le risorse naturali, a prescindere dalle necessità umane, dal loro rinnovamento e dalla sostenibilità delle scelte commesse. Cambiamo sistema, non il clima, e come diceva un importante sindacalista, pioniere delle lotte ambientaliste in Brasile, Chico Mendes: «l’ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio».

Abbiamo già una risposta: ha un nome il sistema con cui relegare il capitalismo tra le anticaglie della storia; ha un nome quel sistema che ho finora descritto col suo fine di aiuto e collaborazione fra uomini, che con la Ragione irreggimenta l’economia a strumento per l’umanità.
La filosofa polacca Rosa Luxemburg, di cui quest’anno si commemora il centenario dal suo omicidio, fu tra i primi a comprendere il capitalismo come sistema totale, saccheggiatore universale e iniquo. Lei indicò la necessità di invertire la rotta subito, disse una frase che passò alla storia:

«Socialismo o Barbarie»

— Emanuele

IL VENTO SOFFIA ANCORA?

Convergenze ed analisi del Collettivo Le Gauche sul movimento dei FFF

I movimenti di protesta e rinnovamento nati negli ultimi anni, in seno alla nuova sensibilità rispetto alle tematiche ambientali, vedono il nostro collettivo nelle vesti di un mediatore analitico tra le parti che, nello scarto dialettico tra apparenza astratta ed essenza, lo inseriscono nella performatività della lotta: la prima parte sancisce l’obbligo storico che ci perviene con la questione del cambiamento climatico, l’altra sottolinea invece la necessità di mantenere il piglio critico e rinnovato che vuole contraddistinguerci come piattaforma di elaborazione marxista, perciò moderatamente critica nei confronti del movimentismo nell’epoca della governamentalità e del dispositivo, in un fatto totale qual è il capitalismo.
Il rinnovato impegno della società civile ci pone difronte all’obbligo morale di accogliere tali istanze poiché, pur potendo lecitamente non condividere le modalità con cui queste si possano manifestare (fra poco spiegherò pure il perché), ci giungono come rottura inattuale della contemporanea indifferenza.

L’inattualità di questa presa di coscienza è dettata dall’esigenza di assumere prospettive realistiche che superino quel mito del progresso deresponsabilizzato, entro cui il passato si è mosso ed entro cui si è strutturata la nostra attuale società: la potenza delle problematiche riportate a galla dalla questione climatica spinge ognuno di noi a considerare criticabile la realtà esistente, perché ne scopre i limiti più profondi e invalicabili e sfida l’insofferenza del pensare comune. A fronte dell’egoismo del presente-per-il-presente, l’esigenza di fondare un’etica comune basata sulla responsabilità, sulla collaborazione e sulla sostenibilità, se da una parte costruisce una nuova possibilità di ripensare il mondo della vita, dall’altra, proprio per le divergenze di visioni sul tema, mina la sicurezza che ognuno di noi ha rispetto al suo futuro poiché frattura le prospettive di lotta concreta contro un sistema di astrazioni tali da portare ad un bieco idiotismo specialistico, avulso perciò dalla presa in considerazione della totalità dei rapporti.

La stessa sicurezza che, caparbiamente ai limiti della protervia, si ostenta quando ci si illude di essere onnipotenti, di trovar sempre una soluzione e delegarla alle generazioni seguenti: come l’uomo, elevatosi al di sopra del suo essere naturale, ha squalificato e ridotto mediante un mero calcolo dell’utile l’ambiente naturale di cui esso stesso è parte, così l’uomo riduce a numero l’altro uomo con un’azione declinata sì al presente, ma anche al futuro, decidendo così senza diritto alcuno sulla vita delle generazioni prossime alla propria. Attualmente si sta iniziando a parlare di antropocene come l’era geologica in cui all’uomo e alla sua attività vengono attribuite le cause maggiori dei cambiamenti climatici: la mancata sostenibilità di tali dinamiche, il rifiutarsi di pensare alla storia come progresso globale e alla natura come sistema di equilibri hanno concorso alla definizione di tale era entro i termini di crisi generale. L’uomo svincolato dai suoi limiti ha trasformato un sogno passato in un incubo attuale; è compito nostro svegliarci ed agire con concretezza.

Sotto queste fattezze comportamentali si consuma l’estensione della disciplina di fabbrica ad ogni aspetto della vita umana e naturale, compreso la speranza che un movimento – per di più spontaneo – possa facilmente condurre una lotta di resistenza antagonista ed egemonica: la parcellizzazione delle visioni del mondo nel relativismo semplicistico e la loro strutturazione su una grammatica di regolazione eterodiretta, quella della forma valore, riconducono il problema del movimento dei Fridays For Future alla frammentazione dell’istanza universale, quella della lotta contro un sistema rivelatosi letale per i tempi di riproduzione organica nel rapporto uomo-natura: tale polimorfismo valoriale situatosi e convalidatosi all’interno della forma
tecno-capitalistica per eccellenza porta ad un’incapacità di riconoscimento e valutazione trasformativi sul piano normativo tra dirigenze e periferie, simboli e realtà.

Volendo ricondurci alla speculazione sul movimento italiano, quindi cercando di limitarci alla dimensione nazionale dei problemi, seppur universalmente le istanze approvate nei consigli di direzione siano antagoniste all’intero assetto vigente, persiste un problema di incomunicabilità: indicativi sono gli esempi di esultanza nazionale a iniziative quali quella della VW, passata alla storia come componente di uno dei più grandi trust automobilistici finalizzati a modificare le valutazioni sull’impatto ambientale delle proprie vetture, ora divenuta esempio di virtuosismo ambientale con la soppressione del proprio centro ricerca sui combustibili fossili.
Come ben si sa, la redenzione oggigiorno esiste solamente nei racconti biblici: un qualsiasi nucleo di potere egemonizzatore dei mezzi di riproduzione della vita, non può uscire dalla propria grammatica d’azione se non riducendosi all’indifferenziato: culturalmente parlando, il caso VW è la feticizzazione redenta della ricerca di un nuovo sbocco di mercato. Nulla di più, nulla di meno: tutto rientra nelle regole del gioco.

Tale condizione apparente, bisogna dirlo, in Italia ha difficilmente piegato la dirigenza ad una falsa coscienza (questo, a livello internazionale, è un pregio quasi solamente italiano), ed è in tale disposizione degli eventi che si profilano gli antefatti per la realizzazione di una rivoluzione passiva (depotenziare un’istanza politica per integrarla nella stessa logica contro la quale nacque) fondata proprio sullo scambio, funzionale al sistema, dei rapporti di forza e del simbolo con cui si vuol dargli un ordine.

Questa ottica sovvertitrice è suffragata dai media nazionali stessi che, sin troppo, rivolgono l’attenzione a realtà strutturalmente inscritte nella sfera del simbolo, piuttosto che allo scarto dialettico tra parola trasformativa (il coraggio di affermarsi, di dire e fare la verità) e grammatica dispositiva che avviene quotidianamente nelle iniziative del movimento.
È esemplificativo di quest’affermazione il rapporto tra il movimento e la giovane attivista Greta Thumberg, a cui i media pongono una “scontata identità” quando, in realtà, nella prassi del reale si può ben captare il distinguo tra le due figure nel rapporto tra la giovane e la dimensione multiforme del movimento nato spontaneamente dal suo atto scioperante.

Questa, sia ben chiaro, non è la volontà, mia o del Collettivo, di stigmatizzare la figura di Greta, ma semplicemente e obbiettivamente ridurla a ciò che realmente è: un influencer con alta capacità di nuclearizzazione delle reti comunicative e di buona volontà (meglio, principi onesti, non privi di giovane ingenuità, su cui qualcuno ha potuto lucrare, anche indirettamente).
È stata l’impulso storico e il precettore per la forma di protesta del movimento, ma non è il movimento stesso, è il simbolo con cui questo viene identificato e, allo stesso tempo, il soggetto risultato delle possibilità della società di massa. Perciò ella assume la funzione di capro espiatorio perfetto (per esorcizzare qualcosa di socialmente pericoloso quale la complessità del movimento) e di metro entro cui commisurare la logicità delle azioni di protesta, funzionale involontariamente al nascondimento di una realtà, rendendo una differenza sostanziale solo nominale (Greta=FFF), confondendo e convincendo gli agenti sociali.

La stessa convinzione e confusione è stata indotta dall’istituzionalizzazione stessa della protesta, dimostrazione di quanto le istituzioni, sulla scia dell’egemonia culturale vigente, siano riuscite magnificamente ad integrare in loro lo scarto dialettico dell’antagonismo, rendendo lo strumento della protesta e dello sciopero quale alterità rispetto al sistema parte integrante di quest’ultimo. Il ‘68 ed il ‘77 hanno ben insegnato al mercato come trattare con certe persone: uno sciopero è una presa di coscienza, d’uno spazio di autonomia politico totalmente negativo, è espressione della scelta del militante.
Una manifestazione non solo programmata, ma avvallata dal diritto astratto e dalle dimensioni formali entro cui il sistema trova la sua dinamicità di risposta, è il tentativo programmatico di disperdere tali coscienze, il rischio che molte di queste, in assenza di una vera dimensione autonoma fratturata dall’astrazione capitalistica, possano essere le cause interne della caduta del movimento stesso.

Non è infatti notizia falsa quella per cui quest’ultima manifestazione è stata usata da diversi ragazzi per far sega, più volenterosi a protestare bevendo uno spritz per le vie del centro piuttosto che in piazza assieme agli irriducibili ed ai veterani del primo e secondo strike. Ovviamente, il movimento dei Fridays For Future non può
né negargli la partecipazione né instaurare un serrato servizio d’ordine, perciò si trova con le mani legate di fronte all’opportunismo lascivo dei tanti.

Morale della favola?
È necessario, è obbligatorio, è decisivo agire nella resistenza al nuovo disciplinamento per mantenere davvero quel fondamento politico alla base del movimento, oltre alle simbologie forzose e alle dietrologie applicate dall’opposizione. Il nostro non è un testo di critica, bensì è un serio avvertimento: state attenti, mantenete la coerenza, abbandonate la facile propaganda e continuate, con sempre più vigore, ad intrecciare quelle relazioni del totale che non fanno dell’emergenza climatica il soggetto, ma la conseguenza di un sistema generalmente malato

– Elia Pupil

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