Antropocene o Capitalocene? Le critiche di Moore e la difesa di Angus

1. Perché Moore è contro l’Antropocene

Per Jason W. Moore nel libro Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, traduzione di Alessandro Barbero ed Emanuele Leonardi, l’Antropocene è una delle risposte concettuali date alla relazione moderna tra ambiente e natura. Il concetto si presta a molteplici interpretazioni ma una è dominante ed individua nell’Inghilterra del XIX secolo le origini del mondo moderno e nell’Anthropos la molla dietro le forze trainanti di questo cambiamento epocale, ovvero carbone e vapore. Si tratta di una storia che mette da parte la violenza propria dei rapporti moderni di potere e di produzione, nelle disuguaglianza e nell’alienazione. Le attività umane nella rete della vita sono ridotte ad un’umanità astratta dove non figurano problematiche come l’imperialismo e il patriarcato. La narrazione proposta vede la contrapposizione delle imprese umane con le grandi forze della natura. La complessità del cambiamento storico-geografico viene sostituita da nozioni lineari di tempo e spazio. Allo stesso tempo, dice Moore, i teorici dell’Antropocene non possono negare che gli esseri umani sono una forza geofisica operante nella natura. Emerge così la problematica mooriana “Un sistema/Due sistemi”. A livello filosofico l’umanità viene inserita nella rete della vita ma a livello metodologico viene pensata come separata da essa. In poche parole, il pensiero verde si dibatte in olismo in filosofia e dualismo nella pratica. Per quanto riguarda la teoria dell’Antropocene, essa possiede due dimensioni. Una che analizza i fenomeni bio-geologici e la seconda che si sofferma sulla storia. In breve, a partire da fatti e questioni bio-geologiche vengono prodotte delle periodizzazioni storiche. L’approccio è sostenuto da alcune importanti decisioni metodologiche. In primo luogo ci si sofferma sulle conseguenze dell’attività umana. Il domino dell’uomo sulla Terra è costruito sulla base di cambiamenti biofisici ridotti a categorie descrittive come i concetti di urbanizzazione e industrializzazione. La seconda scelta metodologica riguarda gli schemi storico-geografici di differenziazione e coerenza, producendo una teoria neo-malthusiana per quanto riguarda la popolazione, una visione del cambiamento storico che si muove seguendo il nesso tecnologia-risorse, la rimozione della questione della scarsità, posta ontologicamente indipendente dai rapporti realmente esistenti di capitale, classe e imperi. Infine, l’attribuzione della responsabilità del cambiamento climatico all’umanità tutta invece che alle forze del capitale e degli imperi. Questa teoria è figlia del dualismo che ci vuole separati dalla natura.

“A dire il vero, queste due unità operanti interagiscono e si influenzano a vicenda. Ma le differenze tra, e all’interno di, ciascuna unità di azione non sono reciprocamente costitutive, in modo che i cambiamenti all’interno dell’una implichino variazioni nell’altra − sebbene tali rapporti dialettici siano empiricamente riconosciuti di volta in volta. Questo dualismo suggerisce ai sostenitori dell’Antropocene di costruire su basi aritmetiche il periodo storico a partire dal 1800: “attività umana più significativo cambiamento biosferico uguale Antropocene”. Anche qui la prospettiva dell’Antropocene incorpora il senso comune dell’aritmetica green: “società più natura uguale studi ambientali”. Tutto questo non fa una piega. Ma, di nuovo, solo fino a un certo punto. Il problema è che la semplice somma delle parti non determina l’intero. L’attività umana non produce soltanto un cambiamento biosferico; piuttosto, sono le stesse relazioni tra esseri umani a essere prodotte dalla natura. Questa natura non è una natura-risorsa ma piuttosto una natura-matrice: una natura che opera non solo al di fuori e all’interno dei nostri corpi (dal clima globale al microbioma), ma anche attraverso i nostri corpi, includendo le nostre menti incarnate. Gli esseri umani producono differenziazioni intra-specie che sono ontologicamente fondamentali per il nostro essere-specie: a contare sono soprattutto le disuguaglianze di classe, coniugate in vari i modi a cosmologie razziste e sessiste. La storia dell’uomo come un tutto, e in particolare la storia mondiale moderna, è un insieme di contingenze e cambiamenti rapidi che non solo ha prodotto spostamenti non-lineari, ma è anche stata, essa stessa, prodotta dalle relazioni non-lineari di potere e ricchezza, già legate con e all’interno della natura come un tutto”1.

Moore, spostando l’attenzione dalle conseguenze al legame relazionale/consequenziale, individua l’origine del mondo moderno nel lungo XVI secolo, in particolare nelle relazioni di potere, sapere e capitale e non nella miniera di carbone o nella macchina a vapore. Significa che lottare contro il cambiamento climatico non deve portare a soffermarsi sulle miniere o la loro incarnazione del XXI secolo ma sui rapporti che le costituiscono. In questo modo Moore può sostenere che gli effetti sono cruciali e lo vediamo benissimo con la riduzione della produttività del lavoro e della terra a seguito del cambiamento climatico. Ciò segna la fine del regime alimentare a buon mercato di longue durée del capitalismo. Tuttavia non possiamo usate gli effetti per una periodizzazione storica. Dobbiamo partire dai cambiamenti decisivi nei rapporti dominanti di potere, produzione, classe e merci. Anche così non si aggiungerebbe nulla di nuovo visto che la teoria dell’Antropocene lavora già in questo modo e analizza i mutamenti nel rapporto tra umanità e resto della natura da cui deriva l’idea, nel loro modello dei Due Secoli, che la società è co-prodotta con la natura, come se fossero due realtà indipendenti. Moore critica questo dualismo Natura/Società e sostiene non possa essere spiegata la storia del capitalismo come un ping-pong dell’interazione tra natura e società. Le trasformazioni, come il motore a vapore, sono co-prodotte dalla natura umana ed extra-umana anche al livello dei rapporti strategici del riordino della biosfera da parte del capitalismo nella longue durée. Il capitalismo è allo stesso tempo produttore e prodotto della rete della vita.

“Gli schemi di co-produzione sono contingenti ma coerenti e questa coerenza si rivela negli specifici schemi della produzione-di-ambiente che vanno ben oltre le considerazioni convenzionali sul cambiamento ambientale. Tale coerenza si realizza e riproduce attraverso precise regole di riproduzione − del potere, del capitale, della produzione. Per la civiltà capitalistica, queste regole sono incarnate nei rapporti di valore, i quali determinano quasi letteralmente cosa si considera abbia valore e cosa no. Civiltà diverse hanno differenti rapporti di valore, che privilegiano diverse forme della ricchezza, del potere e della produzione”2.

Questa impostazione post-cartesiana, che abbiamo già affrontato altrove, consente di aprire alla possibilità di uno spostamento dalle conseguenze ambientali dei processi sociali alla costituzione socio-ecologica delle determinanti antropogeniche. Questo è possibile anche grazie ad una visione non ristretta del concetto di ambiente naturale che si estende agli studi della globalizzazione, dell’industrializzazione e del cambiamento agrario in quanto pratiche metaboliche e modalità di organizzazione della natura.

Moore si impegna a dimostrare come l’Antropocene non sia problematico solo teoricamente e filosoficamente ma anche storicamente e lo fa analizzando il concetto su due livelli. Il primo riguarda la difficile fusione tra concezione geologica del tempo e periodizzazione del cambiamento storico. Il secondo riguarda una vecchia concezione storiografica che individua i mutamenti della modernità a partire dal tardo XVIII secolo. Si tratta dell’idea che tutto cominci con la Rivoluzione industriale proprio del modello dei Due Secoli, oscurando la ridefinizione del lavoro e della terra avvenuto nel lungo XVI secolo tra il 1450 e il 1640. Moore, a questo punto, formula due domande:

“l’industrializzazione è il Big Bang della modernità oppure un fenomeno ciclico del capitalismo a partire dal lungo XVI secolo? La seconda: quello di industrializzazione è il concetto più utile per spiegare i modelli di ricchezza, potere e natura nel capitalismo storico su vasta scala e nel lungo periodo?”3.

La prima questione è stata ampiamente affrontata negli anni Sessanta e Settanta da storici come Wallerstein mentre la seconda è stata posta raramente. Partendo da Marx possiamo sostenere che l’industrializzazione è una cristallizzazione di tecnologia, classe e natura. Il pensiero marxista su questo tema ha prodotto importanti novità teoriche negli anni Settanta nella sociologia storica e nell’economia politica ma senza tenere conto delle condizioni bio-geografiche, con la conseguenza di contribuire alla costruzione di un campo di ricerca per gli storici e gli scienziati sociali orientati alle tematiche ambientali dove la Rivoluzione industriale era vista come un fenomeno puramente tecnico e relativo alle risorse, senza tenere in considerazione i rapporti di classe, e come il nesso esplicativo dei problemi ambientali che stiamo affrontando. Tuttavia già negli anni ‘70 c’era chi sosteneva la tesi dell’industrializzazione non come di un singolo evento ma come una serie di industrializzazioni iniziate nel XIII secolo ed è applicabile ad una concezione della storia mondiale come un prodotto di una serie di industrializzazioni successive che finiscono per produrre un’innovazione socio-ecologica e infine crisi. Moore, però, si chiede se davvero l’industrializzazione sia il modo migliore per inquadrare le origini e lo sviluppo delle crisi ecologiche della modernità. Dietro l’industrializzazione si cela una tensione tra tecnologia, potere, forze e rapporti di produzione.

“Queste tensioni sono state quasi sempre inquadrate in termini dualistici, contenute in un universo ‘sociale’ di rapporti umani ontologicamente precedenti il loro coinvolgimento nella rete della vita. Questo è il problema del dualismo cartesiano: esso rafforza la narrazione egemonica dell’industrializzazione come azione sulla natura e non attraverso di essa”4.

Ad una lettura delle crisi ecologiche che partono dalle conseguenze sulla biosfera per poi giungere alla storia sociale, come fa l’Antropocene, Moore contrappone una lettura non convenzionale che parte dalla dialettica tra e dentro gli esseri umani e il resto della natura, per poi giungere al cambiamento geologico e biofisico. Le conseguenze sono le condizioni per nuovi periodi di ristrutturazione capitalistica nella longue durée. Il sistema-mondo viene letto come un’ecologia-mondo dove accumulazione del capitale, ricerca del potere e la produzione della natura sono unite. In questo schema le nature storiche sono fondamentali per la periodizzazione del capitalismo. La natura non è né prefissata né esterna e il cambiamento storico è figlio del movimento congiunto di esseri umani e di nature extra-umane. Nel capitalismo questi legami possono assumere diverse forme tra cui quella di capitale, di territorialità statale, imperiale e di classe. Il capitalismo, come abbiamo detto altrove, non ha un regime ecologico ma è un modo di organizzare la natura nella sua dimensione storica più fondamentale.

2. Le origini del capitalismo secondo Moore

Il capitalismo per Moore emerge a partire dalla crisi della civiltà feudale dopo la Peste Nera e si inizia ad affermare nel mondo durante il lungo XVI secolo. Esso fu organizzato tramite l’espansione delle sue relazioni prodotte dallo scambio di merci nel moderno Oceano Atlantico. L’ascesa di questo nuovo modo di produzione fu accompagnata da radicali trasformazioni ambientali come la deforestazione delle foreste pluviali nel Brasile atlantico e del bacino della Vistola a ritmi impossibili nell’Europa medievale. Questo dimostra una transizione epocale nei rapporti di potere, ricchezza e natura che iniziano dopo il 1450. A partire da questo periodo storico che arriverà fino alla Rivoluzione industriale si verificano trasformazioni nella terra e nel lavoro come la rivoluzione agricola dei Paesi Bassi tra il 1400 e il 1600 dovuta alla crisi del crollo della torba che permise a tre quarti della forza lavoro olandese di lavorare fuori dal settore agricolo, la rivoluzione dell’estrazione mineraria e del settore metallurgico in Europa centrale che ebbe un forte impatto sull’ecologia politica delle foreste della regione, i primi vagiti della connessione tra zucchero-schiavitù nell’isola di Madeira alimentata dalla deforestazione a cui è legata anche la nascita del sistema delle piantagioni oppure la trasformazioni di Potosì nel principale produttore di argento del mondo dopo l’esaurimento delle miniere in Boemia e Sassonia. Questi fenomeni secondo Moore non sono trasformazioni prodotte da civilità pre-industriali. Qui entra ancora una volta in conflitto con la teoria dell’Antropocene che considera l’industrializzazione come la crescita di macchinari e degli input relativi al tempo-lavoro, ovvero la marxiana composizione tecnica del capitale. Questi sono processi di meccanizzazione. A questo processo i teorici dell’Antropocene aggiungono l’industrializzazione come standardizzazione e razionalizzazione che anticipa il taylorismo del XX secolo. Se accettiamo infatti queste definizioni sono molteplici gli esempi che rispettano queste caratteristiche nei tre secoli precedenti l’invenzione della macchina a vapore di Watt. Pensiamo solamente all’invenzione della stampa o ai mulini da zucchero nelle colonie. Per non parlare del nuovo regime nelle costruzioni delle navi guidato dagli olandesi che univano la specializzazione smithiana e la standardizzazione dei processi, le innovazioni organizzative e il cambiamento tecnico per aumentare la produttività del lavoro.

Ad un’osservazione generale queste trasformazioni potrebbero suggerire cambiamenti qualitativi nelle relazioni tra terra, lavoro, produzione e potere. In alcuni casi si trattò di un’espansione quantitativa degli sviluppi medievali ma in larga parte fu un cambiamento qualitativo prodotto da alcune trasformazioni in queste industrializzazioni che sono coerenti con la definizione di Marx di manifattura e di industria, come nel caso dei cantieri navali, delle piantagioni di zucchero e della metallurgia. Ogni analisi che tenti di dare una spiegazione di questo cambiamento qualitativo deve riconoscere anche l’esistenza delle transizione del controllo delle terra che passa dall’essere finalizzato all’appropriazione di un surplus al controllo della terra come condizione per aumentare la produttività del lavoro, inserendo questa risorsa nella produzione di merci e derrate. Questa transizione fu devastante ma colpì in maniera disomogenea, in base alla tipologia di coltivazione della terra. Ovunque arrivò la produzione di beni primari il ritmo della trasformazione ambientale accelerò

“Perché? Nonostante l’innovazione tecnologica fosse stata sicuramente veloce − e ancor più la diffusione delle tecniche − nel “primo” XVI secolo (1450-1557), non credo che ciò sia sufficiente a giustificare un tale cambiamento epocale del paesaggio. Ritengo infatti che questo mutamento abbia molto a che fare con l’inversione della relazione lavoro-terra e con la supremazia della produttività del lavoro come misura della ricchezza che pone le basi per l’appropriazione della “natura a buon mercato”. È qui che intravediamo la tenue e incerta formazione del capitalismo come regime di lavoro sociale astratto e le discipline del tempo di lavoro socialmente necessario”5.

Moore conclude il capitolo Natura e origini della nostra crisi ecologica con due proposte di lavoro. Una esplicativa e un’altra interpretativa. Queste trasformazioni epocali hanno prodotto una rivoluzione nella produttività del lavoro all’interno della zona di mercificazione e di appropriazione. La rivoluzione è stata resa possibile da un rinnovamento nelle tecniche di appropriazione globale che includono anche l’appropriazione della stessa Europa. Senza questo mutamento nel modo di intendere e ordinare la realtà non ci sarebbe stato alcun imperialismo. Questo è il periodo in cui emergono anche le prime forme di rappresentazione della natura come qualcosa di esterno, oltre alle nozioni di tempo e spazio astratti che consentirono agli imperi e ai capitalisti di costruire reti globali di sfruttamento e appropriazione su una scala senza precedenti. La prima fase del capitalismo è contraddistinta dalla Grande Frontiera, ovvero da una molla incessante verso l’espansione globale per aumentare la produttività del lavoro e facilitare l’accumulazione mondiale. Per Moore ciò rappresenta un segno di precocità del capitalismo, non un elemento di premodernità. In questo modo il primo capitalismo ha potuto superare la rapida alternanza di espansioni e frenate a partire dal 1450, impedendo di fare marcia indietro da un sistema basato sulla centralità del sistema delle merci.

“Perché? In sostanza perché la tecnica del primo capitalismo − la sua cristallizzazione di strumenti e potere, conoscenza e produzione − era appositamente organizzata per gestire l’appropriazione dello spazio globale come base per l’accumulazione di ricchezza nella sua forma specificamente moderna: il capitale, la cui sostanza è il lavoro sociale astratto”6.

Questo porta Moore alla seconda proposta di lavoro, quella interpretativa. Le tre rivoluzioni scientifiche analizzate, ovvero aumento della produttività del lavoro, trasformazione ambientale e tecniche di appropriazione globale, lo portano ad una riformulazione della legge del valore. Essa si cristallizzò per la prima volta durante il XVI secolo, con rapporti di valore intesi come fenomeno riconducibile alla forma economica del lavoro sociale astratto.

“La legge del valore − intesa come un campo gravitazionale che esercita un’influenza durevole sui modelli di lungo periodo e di larga scala dell’ecologia-mondo capitalista − non è solo un fenomeno economico, ma un processo sistemico dotato di un momento economico fondamentale e decisivo (lavoro sociale astratto). In secondo luogo, il momento dell’accumulazione di valore (come lavoro astratto) si è storicamente materializzato attraverso lo sviluppo dei regimi scientifico e simbolico necessari per la sua identificazione, quantificazione, ricerca, permettendo non solo la produzione di merci ma anche un’appropriazione ancor più allargata di “natura a buon mercato””7.

3. Valore ed ascesa del capitalismo

Moore considera il capitalismo come una civiltà co-prodotta dagli esseri umani e il resto della natura in un processo che prevede la combinazione del cambiamento storico in due modi: l’umanità nella natura e la natura dell’umanità. Si tratta di una prospettiva, come abbiamo già detto, alternativa a quella del dualismo Natura/Società ma ha bisogno di un suo nuovo vocabolario storico-concettuale per sfruttare a pieno le opportunità di questo cambiamento di angolazione. Qui si inserisce la prospettiva dell’ecologia-mondo e il tentativo mooriano di descrive come tale il capitalismo, unendo la ricerca del potere, l’accumulazione del capitale e la co-produzione della natura in un’unità dialettica attraverso l’ottica dei rapporti di valore che rappresentano un modo particolare di organizzare la natura. Per l’autore la legge del valore è ciò che ha permesso una transizione storica senza precedenti nell’aumento della produttività della terra e del lavoro come misura della ricchezza e del potere, consentendo la realizzazione della tecnica capitalistica per poter appropriarsi della ricchezza della natura non mercificata per aumentare la produttività dentro la zona di mercificazione. In questo modo la legge del valore ha posto al servizio della produttività del lavoro la natura non umana e umana non mercificata. La nuova unità di misura strategica, il valore, spinse l’Europa nord-occidentale verso la conquista dello spazio che nei termini di Marx viene definita “distruzione dello spazio per mezzo del tempo”. Da questa trasformazione emerge una nuova forma di temporalità chiamata tempo astratto. Il capitalismo, inoltre, ha rappresentato un modo radicale di intendere le topografie come esterne e astratte nella sua prassi geografica. Ciò rientra nella strategia della natura a buon mercato dove troviamo una rappresentazione del tempo come lineare, dello spazio come piatto e della natura come esterna. Il tempo astratto porta con sé lo spazio astratto e insieme sono alla base della cristallizzazione della natura umana ed extra-umana nella forma del lavoro sociale astratto. Queste sono le basi di una legge del valore che opera come un campo gravitazionale utile per sostenere le rivoluzioni biologiche e territoriali della prima modernità le cui origini non sono compatibili con il modello dei Due Secoli dell’Antropocene ma vanno fatte risalire al lungo XVI secolo.

“La questione non è quella delle cause antropogeniche − che presuppongono una fittizia unità umana − ma quella dei rapporti di capitale e di potere. Il problema non è l’Antropocene, ma il Capitalocene”8.

L’era del Capitale è basata sul rapporto funzionale che permette grandi balzi nella crescita della produttività del lavoro e nella produzione della nature a buon mercato, in particolare i quattro fattori a buon mercato, ovvero la forza lavoro, il cibo, l’energia e le materie prime. Per Moore il problema è che le relazioni capitale-lavoro non sono sufficienti per mappare, codificare e quantificare nuove fonti di natura a buon mercato che in questo processo finisce per coinvolgere la riproduzione allargata della relazione fra capitale e lavoro non retribuito su cui si basano l’accumulazione per appropriazione e la natura sociale astratta. L’auto-espansione del capitale che tutto ciò consentiva ha permesso all’idea di natura a buon mercato di funzionare bene. Queste nature sappiamo già essere storiche e quindi finite e il loro esaurimento spinge alla scoperta di nuove nature utili al rapporto di valore che in questo modo può sfruttare fonti intatte di lavoro non retribuito.

“Questo significa non solo che il capitalismo è connesso con una natura storicamente specifica, ma che in tale situazione si trovano anche le sue specifiche fasi di sviluppo. Ogni lungo secolo di accumulazione non “attinge a” una natura esterna che esiste come un magazzino di risorse prestabilite. Piuttosto, ogni lunga ondata crea − ed è creata da − una natura storica che offre un nuovo, specifico insieme di vincoli e opportunità. Le strategie di accumulazione che funzionano all’inizio di un ciclo − creando particolari nature storiche attraverso scienza, tecnologia e nuove forme di territorialità e governance (natura sociale astratta) − progressivamente esauriscono i rapporti di riproduzione che forniscono lavoro, cibo, energia e materie prime “a buon mercato”. A un certo punto, questo esaurimento si registra nell’aumento dei prezzi delle materie prime”9.

L’idea della natura come oggetto esterno è falsa in termini storici ma è stata utile all’ascesa del capitalismo perché, con la fusione della codificazione simbolica e l’iscrizione materiale, ha portata ad una feticizzazione della natura che si è espressa nel processo di accumulazione originare e in un nuovo sistema intellettuale basato sulla separazione tra esseri umani e resto della natura con l’intento di controllare la natura. Ma la natura a buon mercato non nasce solo da questa trasformazione simbolica e intellettuale perché dobbiamo aggiungere l’espansione del potere capitalistico a nuovi spazi non ancora mercificati.

Questo approccio post-cartesiano alla legge del valore consente di unire l’appropriazione delle nature a buon mercato e lo sfruttamento della forza lavoro mercificata, consentendo di svelare come una civiltà con poche risorse significative o vantaggi tecnologici, com’era la prima fase del capitalismo, abbia potuto rimodellare paesaggi a livello planetario.

Moore critica l’ecologia marxianizzante perché finisce per ignorare il valore come formulato da Marx, ovvero il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio rappresentano in superficie l’opposizione interna di valore d’uso e valore. Questa connessione intima, per l’autore, significa estenderne il rapporto oltre il processo di produzione immediato e ciò consente di collegare determinati modi di produzione ad altrettanti modi di vita in unità storicamente concrete. Quindi il capitalismo può essere compreso a partire dal cambiamento della configurazione nello sfruttamento della forza lavoro e nell’appropriazione delle nature a buon mercato in un dialettica di lavoro pagato e non pagato che ha bisogno di una maggiore espansione del secondo rispetto al primo.

Bisogna ricordare che gli omaggi della natura non sono facilmente sfruttabili, infatti le nature a buon mercato sono attivamente prodotte dall’attività umana unita al resto della natura e aggiunge Moore che le nature umane ed extra-umane sono dotate di contingenza e creatività. La natura infatti non è un substrato passivo bensì il campo dove si svolge tutta la vita e tutto ciò che coinvolge è attivamente impegnato nella trasformazione ambientale.

“Per cui, nel mondo moderno, l’ingegnosità umana (così com’è) e l’attività umana (come è stata) devono attivare il lavoro di nature particolari in modo da appropriarsi di flussi particolari di lavoro non retribuito. Tale attivazione si dà necessariamente in combinazione con le attività e la vita della natura umana ed extra-umana, presente e accumulata nel tempo”10.

Per una teoria del valore storicamente fondata ciò implica che da un lato il capitalismo vive e muore a partire dalla riproduzione allargata del capitale mentre dall’alto lato questa produzione di valore non dà valore a tutto ma soltanto alla forza lavoro che produce merci. La maggior parte del lavoro non viene registrata come preziosa, si tratta del lavoro svolto dalle donne e dalle nature extra-umane che Marx pensava svolgessero ogni tipo di lavoro utile ma non di valore, facendo una distinzione tra forma e rapporto di valore, per la produzione capitalistica in una lettura del concetto che è post-cartesiana. La tensione tra lavoro retribuito e non retribuito ha come conseguenza geografica la necessità di trasformare costantemente le frontiere nel momento in cui compare un esaurimento socio-ecologico. Da questo punto si arriva alla necessità dell’espansione geografica.

4. La difesa di Angus

Per Ian Angus c’è una tendenza nel movimento ecologista ad incolpare l’intera umanità dei problemi ambientali. Citando Bookchin, vengono lanciate accuse in cui una vaga specie chiamata umanità è tutta responsabile del cambiamento climatico, senza distinzione tra ricco e povero, abitante del Primo e del Terzo Mondo. Queste idee spiegano il sospetto dietro il termine Antropocene da parte di alcuni studiosi radicali di sinistra come Moore. Angus prova a rispondere a due domande nella parte finale del libro “Anthorpocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra”: il concetto di Antropocene incolpa veramente tutta l’umanità della crisi ecologica planetaria? Gli scienziati hanno scelto questo termine ambiguo in maniera volontaria?

Moore sostiene che i teorici dell’Antropocene riducono il mosaico delle attività umane nella rete della vita ad un’astratta umanità che unita agisce in maniera omogenea. Angus afferma che non sia così dal momento in cui i teorici dell’Antropocene sono consapevoli che tre miliardi delle persone più povere non emettono quasi nulla e pertanto il loro sviluppo non è in conflitto con la sfida posta dal cambiamento climatico di cui sono maggiormente responsabili i più ricchi. Altri radicali di sinistra definiscono l’Antropocene come un’epoca che incoraggia il fatalismo e riconduce i problemi ambientali a qualche qualità essenziale umana. Se simili accuse fossero vere, significherebbe che gli scienziati si sono schierati con i reazionari popolazionisti favorevoli alla riduzione della popolazione tramite la morte per fame di miliardi di persone. Per Angus sono giudizi nati da preconcetti sul significato di Antropocene che potrebbe dipendere dall’uso che ne fanno i molti scienziati naturali e sociali nelle loro ricerche. Il termine è usato anche da teorici neo-malthusiani le cui tesi sono minoritarie nella letteratura sull’argomento dove la crescita demografica è menzionata come uno dei tanti fattori associati alla Grande Accelerazione ma mai come uno dei principali legati al cambiamento climatico. Insomma, si tratta di pregiudizi ideologici di chi non vuole ammettere una comprensione profonda dei problemi di carattere sociale da parte degli scienziati naturali.

Per quanto riguarda il nome Antropocene, Angus pensa che sia irrilevante rispetto ai dati che mostrano come la Terra stia subendo pericolose trasformazioni. Ai critici non piace la radice Anthropos che significa essere umano, temendo che ciò significhi che ogni essere umano sulla Terra sia responsabile della distruzione ambientale. Nessun nuovo termine è stato sottoposto alla valutazione dell’AWG. Infatti con Antropocene si intende indicare una nuova epoca geologica che rispetti le convenzione della geologia sulle denominazioni dei tempi geologici. Le alternative sono proposte con dei termini a cui si aggiunge il suffisso -cene che deriva dal greco Kainos il cui significato è recente.

“Esso fu introdotto nel XIX secolo dal geologo Charles Lyell, che distingueva tra diversi strati rocciosi secondo la proporzione di specie fossili estinte e non estinte che contenevano. Così Miocene sta per meios – pochi fossili sono recenti; Pliocene sta per pleios – più fossili sono recenti. Dopo il Pleistocene, Lyell aggiunse un intervallo che chiamò semplicemente ‘recente’, ma nel 1885 l’International Geological Congress lo cambiò in Olocene, dal greco holos, per indicare uno strato roccioso nel quale i fossili sono interamente recenti. Così, a differenza di quanto spesso riportato negli articoli a riguardo, Anthropocene non significa epoca o età umane. Combinando kainos con anthropos e seguendo l’approccio di Lyell, il termine indica un tempo nel quale gli strati geologici sono pervasi da resti di recente origine umana. Infatti, una parte fondamentale del dibattito in corso tra i geologi sull’Anthropocene riguarda quali tra i resti dovrebbero essere indicativi della nuova era. Dal punto di vista della geologia storica e fisica, il nome è appropriato”11.

Il termine, sostenuto anche da Moore, che sembra trovare maggiore riscontro a sinistra è quello di Capitalocene, il quale sottolinea come la crisi ecologica non è prodotta dalla nostra specie in generale ma da un particolare tipo di società per focalizzare l’attenzione sulle responsabilità del capitalismo. Questo proposito è condiviso nelle motivazioni da Angus mentre respinge la formulazione mooriana che fa coincidere capitalismo e Capitalocene, individuando una nuova epoca socio-economico-ambientale emersa nel lungo XVI secolo. Per Angus ciò è incompatibile con le analisi delle scienze naturali. Il capitalismo ha seicento anni ed è esistito per la maggior parte di essi senza l’Antropocene che ha circa sessant’anni di vita e sopravviverà al capitalismo. Le due realtà non vanno fuse nello stesso fenomeno per non indebolire la lotta contro il capitalismo e per mitigare i danni causati al pianeta e consentire all’umanità di prosperare nell’Antropocene.

  1. Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017, pp.40-41 ↩︎
  2. Ivi, p.44 ↩︎
  3. Ivi, p.50 ↩︎
  4. Ivi, pp.51-52 ↩︎
  5. Ivi, pp.67-68 ↩︎
  6. Ivi, p.69 ↩︎
  7. Ivi, p.70 ↩︎
  8. Ivi, pp.77-78 ↩︎
  9. Ivi, p.78 ↩︎
  10. Ivi, p.81 ↩︎
  11. Ian Angus, Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Asterios, Trieste 2020, p.270 ↩︎

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *