-Elia Pupil
Tra individuazione politica, considerazioni a posteriori e clowneria applicata
Come una profezia auto-avveratisi mi accingo a scrivere l’unico comunicato ufficiale del nostro collettivo su quella questione privata di ordine pubblico e fare patetico che ormai circoscrive la pratica delle elezioni politiche, e lo scrivo volutamente per pubblicarlo a posteriori delle stesse.
Tutto ciò chiamando in causa il rispetto delle diverse posizioni e sensibilità interne al nostro gruppo, dove da posizioni differenti siamo potuti però giungere ad una serie di problematizzazioni in vista del conflitto politico più polarizzato degli ultimi 20 anni che, quasi certamente, varerà una legislatura tra le più travagliate che la storia repubblicana possa ricordare – se nell’eufemismo travagliate poi, leggeremo una pericolosa soluzione di continuità con molte legislature passate, mediante una poderosa offensiva ideologica sui fronti del lavoro e dell’ambiente, sui quali mai come adesso gli stakeholders pubblici e privati scommettono esplicitamente manifestando le nette motivazioni delle loro propensioni di voto.
Non abbiamo alcuna intenzione di far campagna post elettorale per qualcuno, rispettiamo la valutazione personale dei lettori su ciò che questi sono andati a scegliere nel segreto dell’urna, sempre che questi non siano stati tra le centinaia di migliaia di giovani, impediti all’esercizio del voto per via dell’assicurazione – puramente pubblica – di mantenere una quota forzosa di astenuti per non sbilanciare l’incidenza dei diversi bacini elettorali o, d’altra parte, non siano stati tra i fautori di una politica astensionistica su tutta la loro linea d’azione, cosa che effettivamente renderebbe ragione dei danni provocati dall’involuzione strutturale degli spazi di individuazione politica – specialmente quelli di rappresentanza istituzionale – negli ultimi 40 anni.
I primi punti su cui infatti vorrei andare a parare è proprio tale contesto involutivo, non per il gusto di giustificare l’astensionismo volontario nè di fare l’ennesima analisi sulla dinamicità sempre più limitata del decisore pubblico, ma con la volontà ultima di definire nel punto ultimo un che non fare a posteriori della tornata elettorale, volutamente fatto per non inserirci in un dibattito elettorale a sinistra già fin troppo ipertrofico. Dibattito, tra l’altro, estremamente riqualificabile ma ormai da anni inamovibile, a cui in qualche modo porremo domanda nel delineare quegli atavici problemi del movimento che ci hanno fatto desistere da qualsiasi discussione pubblica su temi e modalità.
Una questione globale
Nel decorso delle lunghe stagioni della politica italiana si può individuare una particolare evoluzione della relazione tra i corpi sociali e quelli istituzionali, andante da una condotta volta ad esautorare lo spazio di mediazione tra stato e società civile tipica del gatekeeper della Prima Repubblica fino ad una completa frammentazione della capacità di implementazione di qualsiasi policy.
La situazione che si realizza però non è casuale: la riduzione della sfera politica nazionale va di pari passo con lo sviluppo descritto da una possibile teoria evolutiva dello stato e, di contesto, del concetto di sovranità. Di questa crisi su molteplici livelli non vogliamo dare un’effettiva connotazione negativa o positiva: lo sviluppo della componente tecnica nei rapporti di produzione capitalistici comporta retroazioni emergenti – istituzionali e non – difficilmente trattabili secondo un rapporto di causalità semplice. Queste vanno a permettere lo sviluppo di specifiche prospettive di individuazione dei soggetti e dei network in un paradigma, quello globalizzato, il cui travaglio – troppo facile parlarne di “fine”, dozzinalità permeata dalla coscienza da made in Italy – dà adito a nuove forme di lotta e un nuovo modo di intendere il rapporto globale-locale, centri-periferie, non più secondo la rigida norma interpretativa della conservazione dell’autonomia nazionale, demodè se non totalmente fallimentare.
Quello che ci interessa specificamente nel nostro discorso è quel passaggio che da uno stato tendenzialmente integrale va a sviluppare uno stato tendenzialmente integrato nei circuiti globali di mercato.
Si inizia dalla sempre più pressante iniziativa privata delle corporations globali, pronte a sfruttare dumping fiscali e salariali, oltre che pronte a delegare alla produzione dislocata una sempre più forzosa frammentazione dei soggetti produttivi, cercando sempre di anticipare la componente politica di classe su quella tecnica al fine di tentare di rompere i network che indirettamente si vanno a creare nell’ambiente lavorativo. Si passa poi per i grandi monopolizzatori del mercato del credito mondiale e la consunzione della nettezza di distinzione tra centro e periferia, ormai non più legata al vincolo nazionale. Questa, infatti, va ad implementarsi nelle strategie di mantenimento del regime di sottosviluppo e dipendenza puramente locale, nonostante questo sia pure strutturato su una pluralità di livelli di interazione tra agenti non necessariamente legati al vincolo della località, complice l’avanzamento delle odierne tecnologie di comunicazione ed approvvigionamento. Le stesse che con l’odierna crisi della supply chain globale e del mercato energetico porteranno a configurazioni del potere – e della sua articolazione nei processi globalizzati – ancora totalmente da scoprire.
Tutto questo fino ad una riduzione fisiologica – e quasi necessaria per riuscire a mantenere un meccanismo di riproduzione globale – dell’azione monetaria dello Stato stesso, già più di quanto questa non sia naturalmente limitata – checchè ne dicano gli esponenti più radicali di teorie con tante luci quante ombre, come l’MMT e la teorica capacità di gestire completamente le proprie politiche monetarie al fine di poter contrastare la maggiore propensione congiunturale alla preferenza di liquidità. In questo frangente l’autonomia dello stato nella duplice funzione di ente di ratifica di alcune contraddizioni dell’equivalente generale e ente di contribuzione alla necessaria articolazione delle forme e delle funzioni della moneta […] mediante l’esistenza della restrizione monetaria come meccanismo di sanzionamento sociale a garanzia della riproduzione della stessa è sempre più vincolata sia dai meccanismi di limitazione che intervengono nei rapporti tra stati e nelle macro aree monetarie come l’UE, sia è vincolata dall’azione delle reti sociali di utilizzo della moneta.
Queste sono sovradeterminanti rispetto una pura ipotesi di completa autonomia del potere monetario e indicano bene come i bisogni di produzione e circolazione determinano la quantità di moneta in circolazione, questo sempre nella misura in cui i primi rappresentano il concretizzarsi di specifici rapporti sociali ormai non più limitati alle dinamiche nazionali, in cui locale e globale hanno sempre meno bisogno di corpi intermedi ed in cui questi ultimi, di converso, vengono lentamente trasformati da organi decisionali a dispositivi tecnico-amministrativi.
Per riuscire a dare uno spaccato generale a questa prospettiva bisogna comprendere come nella crisi delle sovranità nazionali vi sia un ordine di articolazione che ci può aiutare a trovare quegli specifici meccanismi tendenziali di evoluzione degli spazi politici che ci interessano nel nostro discorso:
- In primo luogo, da una parte si può osservare una stretta risonanza tra l’integrazione degli stati nel mercato, il rapporto sempre più immediato tra network locali e globali e la sempre più limitata autonomia decisionale. Dall’altra si esperisce la reazione e retroazione identitaria all’instabilità creatasi nell’adeguazione agli standard di integrazione del tessuto socioeconomico nazionale in una più ampia rete di agenti globalizzati dall’altra. Le relazioni di dipendenza sempre più distribuite a macchia di leopardo si uniscono con un grafo relazionale tra i vari centri di accumulazione che creano questa distribuzione e si scontrano con lo sviluppo diseguale dei vari stati – in particolare con le economie emergenti e quelle rimaste ad una composizione tecnica immutata dallo scorso secolo – e con l’arretratezza delle istituzioni, quindi con le asincronie dei differenti cicli di accumulazione, le quali possono comportare scenari totalmente non previsti nell’era globalizzata.
- Ovvero, scenari in cui ci siano da una parte punti mobili di saturazione del capitale che, mediante la costituzione di una sovranità istituzionale transitoria come garanzia di un nuovo settore ad alto saggio medio, con alti indici di presenza nel mercato o con la capacità di sfruttamento e concentrazione di determinate risorse – per lo più naturali – puntano a nuove cessioni di credito pubblico o privato per riuscire a compensare in funzione del tempo la sopravvalutazione di mercato. D’altra parte, ci stanno vere e proprie aree di contrazione della globalizzazione, come i momenti in cui si profila un conflitto armato tra paesi integrati nei processi globali di valorizzazione. Questa è una prospettiva su cui gran parte dei partiti comunisti nostrani ha fallito nell’analisi e nella presa di posizione, vedasi la questione ucraina: questa non è stata oggettivamente una voce discriminante sulla propensione di voto nella scelta dell’elettorato italiano medio, ma è comunque per noi sintomo del fatto che, oltre al terzomondismo di Samir Amin nell’analisi dei rapporti imperialistici, non ci si è voluti spingere. Tra la Russia e l’Ucraina noi vediamo tessuti socioeconomici estremamente lottizzati da ex funzionari pubblici divenuti poi oligarchi e che non hanno sviluppato un modello convincente per affrontare la globalizzazione. Crediamo possa apportare valore euristico alla discussione una modello che vede come causa dell’escalation l’unione tra le dinamiche di integrazione di mercato da una parte e la vecchia costituzione economica delle due nazioni dall’altra: vi sono centri di accumulazione che vogliono reagire ad una tendenza globale per via della vetustità istituzionale a loro rapportata e a causa della loro incapacità di reinvestimento di surplus nel loro mercato nazionale, capace di sostenere regimi a bassa intensità competitiva. Siamo fermi ad una letteratura sui rapporti imperialistici tra regioni a sviluppo diseguale che è vecchia di oltre 60 anni e che spinge a vedere una semplice
differenza tra nord e sud – tra aristocrazia proletaria e “bacino servile” – senza nemmeno verificare la reale geografia dei rapporti reticolari e locali di dipendenza e sottosviluppo. - In secundis, si sottolinea come queste relazioni di tendenza, distribuite e reticolari aprono ad una frammentazione sempre più tangibile del processo di policy-making nazionale, con annessa la graduale perdita dello statuto di decisore puro per quello di un amministratore di fatto: il concetto di governamentalità assume significato nel momento in cui vi si sviluppa sempre di più un appiattimento tra la sfera del potere istituzionale come campo specifico, le polarizzazioni dei portatori di interessi nella società civile e le loro disposizioni nella distribuzione dei rapporti di potere di produzione e riproduzione. Vi è una transizione del potere, dal palazzo al mercato, dall’imposizione alla disposizione, da un regime informativo che vedeva nel potere del palazzo una sintesi tra il generalismo degli apici decisionali e lo specialismo dei corpi amministrativi ad uno più improntato sulla sfera dell’orizzontalità e dell’esclusività dell’informazione, in un contesto in cui lo scambio tra influenza ed expertise è normato dai contesti funzionali di congiuntura ed in cui velocità e conformità agli scopi dell’informazione è tutto. Uno schiacciamento dell’apice decisionale al corpo amministrativo al traino delle nuove tecniche gestionali.
- Tutto questo senza nemmeno aver più bisogno di quella formula moderna dello Stato come ente di terza ispecie che va a universalizzare l’individuo nella Nazione ed ivi va a creare i suoi spazi di libertà: la critica marxiana sulla resa bicefala dell’agente politico nella filosofia politica borghese va ad invalidare a livello nazionale la già-in-passato sentita mistificazione della figura dello Stato. La differenza tra il cittadino di una nazione e portatore privato di interessi si sta andando gradualmente ad annullare all’interno di un gioco di azioni e retroazioni delle parti. Si va a sentire l’annichilimento della credenza comune circa la validità e l’esistenza della categoria del cittadino, già di suo categoria completamente astratta e trainata dal processo di determinazione puramente formale dei tipi e delle funzioni sociali, tipico della modernità del pensiero politico.
La conservazione amministrativa del corpo sociale equivale alla conservazione amministrativa dello Stato nel suo nuovo statuto-limite: una funzione di garanzia dell’accumulazione locale di ultima istanza, sempre all’interno di un contesto di globalità delle catene di comunicazione, amministrazione, produzione e distribuzione. - In terzo luogo, la lenta evoluzione della funzione statutale, dall’essere integrale all’essere integrata, non solo ridefinisce il vincolo tra rappresentatività, istituzione e potere, bensì sviluppa un nuovo livello dove possono nascere le piattaforme di lotta, e questo non è e non può essere un livello puramente nazionale.
La cartina tornasole del lobbying
La saturazione degli spazi di mediazione da parte di corpi sociali a funzione organica – e specificatamente in Italia la fine di quel meccanismo chiamatosi gatekeeping ubiquo di cui abbiamo parlato in una serie di articoli precedenti ha portato ad un nuovo modo di intendere lo stesso rapporto tra gruppi di interesse e decisori di sistema.
Senza dover riassumere scritti precedenti, si possono utilizzare gli studi sul fenomeno del lobbying in vece di una cartina tornasole sulla nuova disposizione tendenziale del potere nel profilo del mondo globalizzato. In Italia l’articolazione delle funzioni clientelare e collaterale delle lobby comporta forti asimmetrie di carattere informativo, la cui libera veicolazione delle informazioni sarebbe secondaria rispetto all’obbiettivo di mantenere un rapporto di autonomia tra lobby e partiti, creando una frattura di mutuo disinteresse. Al tempo stesso, il loro aumento sproporzionato di densità numerica non progredisce proporzionalmente al loro tasso di diversificazione, non permettendo un carico ideale per il sistema del lobbying – almeno affinché questo possa dirsi stabile.
Vi è perciò una certa catena di topics che si può articolare a punti:
- Si individua la presenza latente del comportamento classico delle lobby oligopolistiche: la mancanza di diversificazione ed europeizzazione mantiene alcune simmetrie di potere bloccate alla Prima Repubblica. D’altra parte, caratteristiche come la propensione monotematica e l’aumento vertiginoso del numero delle stesse lobby possono anche trovare correlazione nell’artificiosa separazione tra l’operato delle lobby e quello dei partiti, i secondi lasciando alle prime la costituzione del terreno di mediazione nel conflitto sociale, una mediazione che vede lo Stato nazionale classicamente definito sempre più come corrispondente sufficiente, funzionale, ma non necessario. I mancati processi di europeizzazione ed internazionalizzazione arrivano come grandi limiti per poter instaurare una corrispondenza attiva con qualsiasi realtà che possa davvero definirsi nella veste del decisore;
- La conflittualità si risolve in modelli di rappresentatività già vincolati da una cornice concertativa, sin da subito non proiettandola nell’ordine dei partiti e della sfera politica canonica, che furono per la prima stagione della politica italiana i grandi mediatori tra le parti, bensì dovendo qualificare in qualsiasi contingenza il decisore o il mediatore con cui andare a intavolare un dialogo;
- Ciò nonostante, le dimensioni di questo specifico campo di rappresentanza – specificato nella ridefinizione di globale, locale e delle loro congiunture – pone il problema della dimensione dell’azione delle lobby, portando il problema del loro mancato disancoramento all’ottica nazionale come uno dei problemi centrali italiani per lo sviluppo di soluzioni spesso non allo stesso livello di quelle che vengono portate dagli altri paesi dell’eurozona, complice una classe politica apicale mediamente incompetente nei termini del ragionamento globale ed alla cui lentezza le lobby spesso non riescono a reagire facendo la dovuta pressione sulla riqualificazione dei rappresentanti istituzionali;
- Qualsiasi campo specifico di rappresentanza tende a venire territorializzato secondo ottiche sempre più concertative – vedasi il comportamento delle più grandi lobby per bacino di iscritti potenziali e attuali, ma non tra le più influenti nei confronti dei decisori pubblici: i sindacati, specialmente quelli confederati. I rapporti di dipendenza tra realtà locali,
piattaforme globali o bacini e tipi contrattuali dispongono a macchia di leopardo e a tela di ragno le aree di possibile confronto, costituendo così un serio problema per la già scarsa centralizzazione statale delle possibili policy pubbliche che possono nascere dai confronti;
Da ciò partono già alcune conclusioni preliminari:
- Si delinea un assetto estremamente fragile del rapporto tra partiti e lobby: si è in un sistema di mutua determinazione e limitazione, in cui da una parte si vede come la creazione compulsiva di gruppi di interesse nella galassia massmediatica – capace di creare un ground di potenziali aderenti con costi estremamente compressi per il loro matching – ha rivestito un nuovo ruolo operativo circa tecnicizzazione delle istituzioni nazionali, con tanto di sommessa richiesta da parte delle fasce più giovani della popolazione, accortesi della mancanza di expertise a cui le lobby potrebbero sopperire. Interessante è vedere come lo svecchiamento dei gruppi di interesse rispetto alla possibilità di lottizzare il “metaverso” (o meglio, la rete con la vocazione futura d’esser “metaverso”) annichilisca la differenza tra gruppi di consenso simbolico (come i gruppi occupazionali) ed i gruppi restii al confronto con i bacini di consenso, propensi per loro natura a sfruttare le capacità di rappresentatività ed expertise proprie;
- Dall’altra parte i partiti – risentendo delle pressioni di cicli economici, dell’impossibilità di gestione nazionale del rapporto organico uomo-natura e di problematiche tra le componenti Capitale e Lavoro sempre meno controllabili entro un’ottica casalinga – traslano sempre più verso posizioni centriste e mutaforma, tentando di influenzare pesantemente il comportamento di molte lobby – tra cui i sindacati – spingendo sulla loro natura di andare a ricercare l’accesso alla sfera partitica. Tutto questo nell’intenzione di cercare il confronto con una maggioranza sempre più vincolata in ambito decisionale dalle condizioni di contesto – a meno che questa non voglia portare al default tecnico il paese. Esempio corrente è la progressiva tecnicizzazione in campagna elettorale e nella costituzione del toto nomine governativo della componente di Fratelli d’Italia, il cui direttivo ha chiaro come non si debba assecondare uno spettro di mercato consistente in pesanti pratiche ribassiste di shorting sul nostro debito, cosa per cui la presenza di Draghi riusciva a detener garanzia simbolica;
- In tutto questo la crisi del potere decisionale della politica rende sempre di più difficile distinguere i differenti approcci che i gruppi di interesse attuano sulla base del differente interlocutore, tra cui i gruppi burocratici – la cui conoscenza delle problematiche che si presentano è mediamente specialistica – e quelli partitici – la cui conoscenza per definizione si costituisce su un expertise più “globale”. La reiterazione di governi sempre più tecnici rende evidente sempre di più la riduzione di questa discrasia tra specialismo e globalità conoscitiva degli attori in gioco;
Quindi, a noi si offre una determinata situazione:
- L’allontanamento delle lobby dai partiti e viceversa, unita alla crisi della politica istituzionale nel creare corpi intermedi e all’appiattimento del potere decisionale al potere amministrativo porta queste non solo ad una paradossale funzione di riempimento necessaria per la gestione statale, bensì ad una strana asincronia tra la loro velocità di riproduzione e la velocità di riproduzione della politica istituzionale, in cui la prima anticipa – spesso di molto – la seconda e forza quest’ultima a politiche di allineamento – non sempre pacifiche – in vista di problemi la cui expertise della politica istituzionale non riuscirebbe a risolvere;
- Il panorama lobbistico riesce a costituire il profilo d’azione dei decisori pubblici meglio degli stessi perché sono dirette espressioni corporative della società civile e perché, se da una parte ne scontano i limiti, dall’altra sono più propense a lavorare tecnicamente in regole di gioco generali che la visione globale e generalista della politica classica perde spesso di vista;
- L’expertise carente delle funzioni politiche apicali ha spazio di manifestazione anche grazie alla lente europeizzazione del sistema lobbistico italiano;
- La sostituzione delle lobby ai corpi intermedi e l’appiattimento delle funzioni apicali a quelle amministrative espone il sistema paese ad una triplice asincronia temporale su tre piani differenti:
- Interno alle lobby ove lo sviluppo della componente dipende direttamente dal mondo ad essa sottostante e rappresentato: dalla concentrazione di capitale, dal tasso di produttività, dall’influenza sui corpi amministrativi, dall’incidenza nazionale ed internazionale dei settori di interesse, dall’eterogeneità e/o conflittualità dei fini ad esse addotti, dalla costituzione di differenti costituzioni politiche;
- Interno all’aspetto nazionale nel rapporto tra le lobby e le istituzioni, in cui il rapporto come abbiamo ben visto può essere difficile e farraginoso, nonostante una tendenza comune del mondo occidentale, quella dell’appiattimento tra apice decisionale ed amministrazione. Basti vedere negli USA, in cui le lobby riescono ad essere molto più dinamiche nonostante una regolamentazione molto più chiara che in Italia. Questo per il semplice fatto che, da una parte, il panorama politico americano viene da queste modificato sfruttando i processi di finanziarizzazione dei partiti e dall’altra lo stesso si fa carico delle pressioni lobbistiche in Congresso, in un meccanismo di ratifica delle leggi in cui i rappresentanti dei gruppi di interesse – diversi dai decisori pubblici – pongono i limiti e modifiche ad emendazione a qualsiasi profilo normativo;
- Relativo all’aspetto internazionale nella lenta integrazione del panorama lobbistico italiano rispetto a quello straniero.
In tale multi-temporalità ovviamente vi è un effetto di tendenza volta all’uniformità sviluppata mediante l’andamento dei saggi medi intersettoriali e vi sono le retroazioni che tentano di emergere in chiave reattiva o riformatrice.
Governamentalità o dilettantismo? Gli errori imperdonabili
In tale contesto, il bisogno di resa tecnica dello spazio politico, il bisogno della riqualificazione funzionale dello stato, la necessità di nuove mitologie a copertura o a razionalizzazione dell’appiattimento del potere istituzionale su quello effettivo possono comunemente portare a optare per politiche di contrasto a tale processo di trasformazione medico-legale del potere nell’amministrazione dei corpi sociali: questo è probabilmente il grande errore, ovvero quello di andare contro ad un assetto sempre più tecnicizzante, percepito come parziale e avvezzo a partigianeria d’ogni tipo, ricercando nella soluzione locale un palliativo per i problemi sempre più globali.
La sinistra anticapitalista italiana a malapena è riuscita a recepire il concetto di internazionalismo, al più come un fine teorico utopistico e ad alto carico moralistico piuttosto che come matrice tattica per lo sviluppo di uno spazio politico necessario a riprendersi lo statuto di decisore: i socialisti nostrani vorrebbero continuare il progetto malnato della via italiana – o “euro-mediterranea” per alcuni – al socialismo, quando le configurazioni dei tempi sono andate completamente a cambiare. Se l’ipertrofia amministrativa della sfera politica diviene sempre più visibile da una parte, d’altro canto il comportamento di tanta parte del movimento socialista denota una profonda mancanza di comprensione rispetto allo spazio di individuazione politica traslato sul piano di tracciamento degli obbiettivi internazionali e trans-nazionali.
L’errore centrale della sinistra è non riconoscere che modificare le norme di gioco è diverso che vincere la partita, perché nell’atto vi è la differenza tra il fatto d’essere player o essere architetto ed arbitro. Non è il profilo tecnico di una compagine governativa a dover fare paura, questo è l’evoluzione naturale dello statuto di “integrato” relativo alla figura dello stato, bensì dovrebbe far paura ai socialisti la loro difficoltà nel comprendere di dover andare a creare spazi politici di decisione ed arbitraggio del gioco attraverso e sopra gli stati. È indicativo vedere la funzione dei programmi elettorali nella dimensione dell’evoluzione dello statuto della nostra sovranità nazionale; si può trovare una sempre più preponderante svalutazione del criterio di attuabilità dei programmi politici, sintomo di un paradigma che cambia nel confronto tra partito e bacino elettorale:
- O il programma politico diviene un puro indirizzo su cui muovere forze di aggregazione e di consenso, ed in cui poter elencare la qualunque, sapendo sia di portare un format politico di ristrette vedute, sia di non poter puntare ad alcun attributo per la gestione della governabilità. Esempio di tutto questo sono i programmi della sinistra radicale presentatisi alle elezioni, dove ad un De Magistris piuttosto che ad un PCI o ad un Conte si faceva a gara sulle variabili dello stato sociale, con un unico effettivo problema, ovvero che almeno due tra questi partiti o aggregazioni di tali hanno perseverato a perseguire affermazioni tanto allucinanti quanto, spesso, auto sabotanti (ad esempio, l’estensione del calcolo IRPEF ai beni immobiliari nelle città gentrificate senza una politica nazionale di tetto per i costi di certe tipologie d’affitto). Questo, direttamente, tradendo lo stesso interesse di classe, approcciandosi ad una politica di ricatto e consenso che i vecchi chiamerebbero “menscevica”. Specialmente per queste forze politiche lo sforzo di non costituire una reale piattaforma programmatica non vale nemmeno il gioco delle misere percentuali a cui consciamente sono andati adeguandosi a adagiarsi. Perciò, condonando lo stesso “spettro” di proposte, effettivamente non si potrebbe nemmeno puntare a loro come compagini di contrattazione e veto in sede di legislativo;
- Oppure il programma politico si costituisce con un nuovo risvolto, prettamente manageriale, e le intenzioni dei leader delle coalizioni o della singola forza politica, come è accaduto per Calenda e Meloni, intraprendono intermediazioni organiche tra la pressione dei grandi gruppi di interesse internazionali, transnazionali e i gruppi di interesse più forti a livello nazionale; questa mediazione crea lo spazio di gioco del partito stesso, sentito anche dalla psicologia comune del singolo elettore più pragmatico e realista proprio perché sottende al rapporto tra i gruppi di interesse più incidenti. La necessità di fare questo lavoro, contrariamente ai corrispettivi di Forza Italia o della Lega, giunge dal fatto che i due programmi medi a cui ci stiamo riferendo, per via di una loro fattibilità media e per via della dimostrabilità di questa, sono programmi di due forze che, contrariamente a tutte le altre, hanno capito l’interesse della classe che vanno a rappresentare in campo specifico proponendo diversi tipi di mediazione – una più di respiro internazionale, l’altra più a favore degli interessi del tessuto produttivo a basso valore aggiunto italiano – in una strategia di gioco in cui sanno benissimo di non poter arrogarsi il diritto di cambiare le regole ed arbitrare lo stesso.
Ed il PD direte? Il PD è la mediazione tra queste due tendenze, senza però averne coscienza: il solo fatto che sia too big to fail garantisce la sua continuità fossilizzata, nulla di più.
Da Monti alla Meloni si è vista la cessione graduale e spontanea della sovranità “di decisione ed arbitraggio” del potere statale per delegare la funzione decisionale ad apparati complessi, spesso di natura impersonale ma con un mandato sempre, puramente, politico e di larghissime intese, di ratifica diffusa e nettamente transnazionale e sovranazionale. Questa spesso a fronte di un territorio istituzionale sovra nazionale caratterizzato da apparati antiquati e normative generali lasche o non aggiornate: non vi è solamente un’asincronia tipicamente italiana tra i piani istituzionali, vi è anche una profonda condotta asincronica tra l’istituzione politica prodotta dalla lunga e travagliata formazione dell’eurozona e le propensioni dei gruppi di interesse più globalizzati. Un esempio tra tutti è l’Unione Europea, che ha iniziato a parlare di camera di compensazione comune e di debito comune solo nel momento in cui si delineava l’ingente danno economico a seguito della pandemia di COVID-19. Cosa che in piena pandemia la sinistra radicale perse completamente di vista, non volendosi inserire nello spazio d’azione politica che poteva formarsi e preferendo allacciare rapporti con frange negazioniste o no green pass, prepotentemente rappresentate da molti delegati sindacali e da una vasta schiera di organico universitario de sinistra.
Si veda proprio la narrazione sul green pass da parte di molte frange affini all’universo della sinistra, in particolare di come sia stata funzionale a nascondere le lotte per un’equa distribuzione del prodotto nell’intero globo, a nascondere prima le inefficienze e poi gli sprechi e a non costituire una piattaforma unica, dopo il fallimento della gestione sanitaria delle regioni italiane col più alto tasso di privatizzazione del settore sanitario (vedasi il caso Fontana). Hanno continuato a non comprendere che il GP fu una misura legalmente necessaria per mediare l’esigenza di porre obbligatorio qualcosa di cui non si poteva disporre delle coperture per renderlo tale e che tale misura venne introdotta anche per il fatto che il mercato sanitario mondiale – per un notevole numero di beni la cui offerta risultava strictly bound ed anelastica – era andato ad arrancare per quasi un anno e mezzo nella produzione degli stock di prodotti. E non comprendendo questo, i “nostri” non hanno in alcun modo capito d’avere sottomano i dati necessari a dimostrare che la privatizzazione di settori in cui la domanda supera intrinsecamente l’offerta è una mossa completamente fallimentare dal punto di vista dell’allocazione dei beni e servizi sanitari. Invece s’è voluto fare preterintenzionalmente ostruzionismo a tutte queste tematiche, le quali sarebbero state centrali in un dibattito globale, favorendo un Puzzer qualsiasi, pensando stupidamente di riuscire a fare entrismo in proteste rispetto alle quali non serviva un genio per dedurre la componente politica di direzione, dato in particolare il reticolo di partiti di estrema destra che da 30 anni a questa parte imperversa tra la base dei portuali del nord est.
La convergenza tra le istanze della piccola borghesia italiana e di diverse forze della sinistra radicale si sono viste proprio per la mancata visione globale e per l’imprecisa qualificazione del campo di gioco di queste ultime: si veda pure il momento in cui si va a parlare di tutela delle PMI dalla “scure” fiscale italiana e dai processi di liberalizzazione europei – vedasi Bolkestein – in cui non si riesce a comprendere come siano proprio le medesime piccole e medie imprese il più grande blocco all’apertura delle conflittualità nella penisola: dispensate dalle forti presenze sindacali per via delle loro dimensioni, mediamente debitrici dagli investimenti statali, sfruttando basso e bassissimo valore aggiunto impongono una progressiva compressione delle qualifiche e un progressivo gioco al ribasso salariale. Questa si riflette sulla gestione dell’educazione scolastica peninsulare, dove l’avviamento all’università è ancora considerato un capriccio e dove per gli insani meriti delle legislazioni sull’autonomia scolastica vi è una dipendenza marcata tra tessuto istruttivo e tessuto produttivo di un determinato territorio.
Lo sfruttamento di basso e bassissimo valore aggiunto porta automaticamente ad un tasso di produttività per lavoro completamente sottotono rispetto alla media europea, unitamente al fatto che la bassa e bassissima propensione all’investimento in fattori tecnici (fisiologica alle piccole imprese dei maggiori settori italiani) rende estremamente impattanti sul bilancio aziendale misure come stipendio minimo e reddito di cittadinanza (quest’ultimo con un impatto ovviamente indiretto), che riuscirebbero ad avere buona applicazione in un contesto in cui fosse possibile lavorare con realtà produttive aggregate di medio-grandi e grandi dimensioni, le quali possono assicurare il mantenimento di uno standard salariale adeguato, scaturito da una più forte piattaforma di contrattazione. E questo solo al livello tattico: le misure di workfare prima elencate sono sacrosante come testa di ponte di ordine politico, basti pensare che a livello conflittuale sono riuscite a raggruppare un cospicuo numero di simpatizzanti. Però il vero obbiettivo non dovrebbe essere giungere ad uno stato sociale con forte capacità di compensazione generale, bensì sarebbe adeguarsi ad uno standard medio di produttività e sviluppo tecnico correlato alla capacità di messa in discussione dei rapporti di proprietà, tutto questo in termini transnazionali e internazionali, come sembra star riuscendo a fare la vertenza GKN con il progetto di fabbrica pubblica socialmente integrata e con la creazione di una piattaforma fissa di lotta trasversale.
Questa cecità è lo sconto che la sinistra radicale deve pagare, non riuscendo a comprendere appieno il fenomeno della globalizzazione, con i suoi corsi e ricorsi. In una particolare lettura del trilemma di Rodrik si vanno a scegliere solo due funzioni da mantenere tra le tre opzioni date: democrazia, globalizzazione economica (e di converso tecnica) e sovranità nazionale. E questo è il gioco di cui non può essere paga la componente socialista scientifica in Italia: fare in modo di creare lo spazio di conflitto sviluppando prima e seconda, stando attenti al facile riciclaggio di posizioni sovraniste assunte da partiti al traino effettivo della piccola borghesia o che consciamente o inconsciamente costituivano un puro elemento caotico in un gioco che, per loro costituzione, non potevano vincere ed a cui sarebbe già stato un ossimoro impegnarsi a partecipare.