È uscito per i tipi di Mimesis Sesto Stato. La rappresentabilità del lavoro oggi, a cura di Sergio Nannicola, Marco Pellizzola e Sandro Scarrocchia. Il volume contiene (alle pp. 49-52) un breve intervento di Riccardo Bellofiore che qui ripubblichiamo.
Qual è l’eredità che lascia Marx dal punto di vista della riflessione economica? Credo sia importante tenersi allo spirito più che alla lettera dell’opera marxiana. Marx intende fornire una ‘critica dell’economia politica’ – e si riferisce evidentemente all’economia politica del suo tempo, quella dei classici, Quesnay, Smith e Ricardo – per farne uno strumento per una critica radicale, teorica e pratica, del capitalismo. Sarebbe stato l’ultimo a ripetere acriticamente quanto ha scritto senza ridiscuterlo a fondo, centocinquant’anni dopo la pubblicazione del Capitale: lui stesso ha dichiarato di non essere marxista, e il suo motto preferito era de omnibus dubitandum. Quello che dobbiamo chiederci, se vogliamo essere fedeli a questa eredità “marxiana”, è dunque: c’è una nuova economia politica, dopo Marx, di cui tener conto? E ancora, vi sono novità sostanziali del capitalismo di oggi rispetto a quello intravisto da Marx? E infine, vi sono dentro l’elaborazione stessa di Marx, del migliore Marx, dei limiti da superare?
Penso che sia sbagliata l’idea, così spesso ripetuta da seguaci pedissequi e senza fantasia, che l’economia politica sia morta nel 1830, si sia cioè esaurita con Ricardo. In particolare, nel ventesimo secolo vi è stato un filone sotterraneo nella teoria borghese che ha contribuito alla conoscenza scientifica del mondo del capitale. Quesnay, Smith e Ricardo, con il Tableau économique e con la teoria del valore-lavoro, avevano aperto la strada sul terreno della teoria della riproduzione, dello sviluppo e del conflitto distributivo. Nel Novecento il contributo innovativo è soprattutto sul terreno della moneta e della finanza, da un lato, e della concorrenza dinamica dall’altro. I nomi da fare sono, prima del secondo conflitto mondiale, Wicksell, Schumpeter, Keynes (non soltanto la Teoria Generale, l’opera più famosa, ma altrettanto se non più il Trattato sulla moneta), e dopo autori come Joan Robinson, Kalecki, o Minsky. Bisogna sempre ricordare che quando Marx parla di ‘critica’ dell’economia politica non si riferisce essenzialmente alla rilevazione puntuale di errori superficiali (è questo, semmai, il suo atteggiamento contro l’economia volgare) ma alla individuazione dei limiti alla conoscenza del capitale che la scienza economica non può non incontrare perché, in quanto borghese, non riesce ad andare alla radice della natura storica e transeunte della società presente. Marx insiste tanto sul fatto che non si conosce questa società senza apprendere dagli economisti politici, quanto che quella scienza è legata a quell’oggetto particolare e ne è dunque segnata socialmente. Bisogna superarla, non ignorarla o cancellarla.
Conviene partire dal ricordare i contributi più significativi di Marx, per poi vedere dove vi sia bisogno di uno sforzo di innovazione. Paradossalmente, o forse no, la maggiore ricchezza si trova in quelle che sono le parti più contestate del suo sistema, quelle dove davvero incontriamo aspetti problematici, ma proprio perché siamo alla frontiera delle questioni affrontate dall’economia politica (critica) come scienza sociale, i nodi ancora oggi aperti e irrisolti. Mi riferisco alla sua teoria del valore-lavoro, riletta come centrata sulla ‘determinazione formale’, cioè sulla struttura socialmente specifica del lavoro capitalistico. Ma mi riferisco anche alla inseparabile teoria del denaro e della moneta. Marx è stato l’unico teorico ad avere declinato insieme valore e denaro, al punto che la dimensione monetaria è per lui costitutiva dello stesso valore, e che il denaro non lo si comprenda se non in rapporto al lavoro. È mia convinzione, che ho sviluppato in vari scritti e che è anche alla base di un libro da poco pubblicato (Le avventure della socializzazione, Mimesis 2018), che la teoria monetaria del valore-lavoro debba evolvere, con più coerenza di quanto non sia in Marx, in un’autentica teoria macro-sociale della produzione capitalistica di (plus) valore. Tutto ciò non è possibile senza un rapporto di dialogo critico con i grandi eretici della teoria borghese del secolo scorso.
Vi è poi la teoria della crisi. È ancora mia convinzione (esposta in La crisi capitalistica e la barbarie che avanza, Asterios 2012) che la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto vada vista come una meta-teoria della crisi. In altri termini, che in essa si condensi il filo unitario di una dinamica di trasformazione del capitalismo che ne spiega l’evoluzione diacronica attraverso i modi con cui la tendenza all’abbassamento della profittabilità proveniente dall’aumento della composizione di capitale sia stata ricorrentemente sconfitta dalle controtendenze, al contempo determinando però ogni volta una riduzione dei profitti per le contraddizioni che inevitabilmente le controtendenze generavano. Così la Lunga Depressione di fine Ottocento viene superata grazie alla trustificazione, al taylorismo e al fordismo, ma ciò ha generato un eccesso di profitti potenziali rispetto alla domanda di merci dando origine al Grande Crollo e alla crisi degli anni Trenta. Il ritorno alla crescita grazie al New Deal, ma soprattutto alla distruzione di capitale portata dalla guerra contro il nazismo e il fascismo, riportava alla crescita, che fu poi gestita con quelle politiche keynesiane che hanno consentito un aumento relativo della quota del lavoro improduttivo, alla condizione di un aumento continuo del saggio di sfruttamento sul decrescente lavoro produttivo di valore. È la fase del cosiddetto Fordismo, che tra metà Sessanta e metà Settanta crolla per una crisi sociale dovuta a molti fattori, ma quello cruciale fu la compressione dei profitti dovuta alle lotte dei lavoratori nel processo immediato di produzione. Come si vede, ogni volta, le stesse forze che battono la tendenza alla caduta del saggio del profitto sovrastando l’aumento della composizione del capitale, spiegano l’ascesa ma, per le tensioni che suscitano, anche l’esaurirsi e rovesciarsi della fase espansiva.
La Grande Recessione in cui ci troviamo dal 2007-08 segna la fine del Neoliberismo per come l’abbiamo conosciuto: una configurazione tutto meno che liberista davvero, caratterizzata da un intervento politico molto attivo che è stato addirittura definito un singolare keynesismo privatizzato e finanziario. L’attacco ai lavoratori sul mercato del lavoro e nei processi produttivi ha determinato quello che Alan Greenspan stesso, governatore della Federal Reserve, chiamò il ‘lavoratore traumatizzato’. Lo stesso Greenspan presiedette poi a quella inflazione sul mercato dei capitali che ha visto aumentare continuamente dal 1987 al 2007 il valore delle attività finanziarie, favorendo così l’aumento del consumo a debito garantito da quelle attività. Il Neoliberismo si basa su varie novità rispetto a Marx. Una è, appunto, la sussunzione reale del lavoro alla finanza e alle banche: le ‘famiglie’, perciò anche la classe lavoratrice, sono state incorporate in modalità subalterna al capitale. Si tratta di qualcosa che può essere reso coerente con l’impianto teorico del Capitale ma ciò richiede uno sviluppo notevole dell’analisi della finanza e del credito rispetto alla tradizione. L’altra, altrettanto significativa, novità è ora che viviamo una fase di ‘centralizzazione senza concentrazione’, mentre Marx prevedeva che concentrazione (aumento delle dimensioni dello stesso capitale) e centralizzazione (fusione dei diversi capitali) andassero di pari passo, che dunque il capitalismo portasse con sé fabbriche sempre più grandi sotto lo stesso padrone con lavoratori sempre più numerosi e omogenei.
La terza novità è questa. Marx pensava che il capitale producesse un ‘lavoratore immediatamente socializzato’, cioè mettesse in relazione i lavoratori dentro la produzione: che creasse un lavoratore collettivo, un lavoro in comune, e che ciò, mentre aumentava la forza produttiva del lavoro di cui godeva il capitale, rendesse però anche possibile un conflitto e magari un antagonismo. Il capitale pare invece in grado oggi – proprio grazie alla centralizzazione senza concentrazione – di far lavorare insieme i lavoratori senza davvero metterli in relazione (quando si ha come padrone l’algoritmo) o di dividerli comunque anche quando sono uniti nello stesso luogo di produzione (come è nel cosiddetto decentramento intra moenia). Come si ricostruiscono allora condizioni e possibilità del conflitto e dell’antagonismo? La massima attenzione deve essere dedicata alla analisi della articolazione delle catene transnazionali del lavoro, come anche al lavoro migrante, come anche alle forme di sfruttamento del lavoro di cura alle persone, in grande crescita. Sono solo alcuni esempi tra i molti, della necessità di rimettere in piedi una inchiesta per conoscere cosa è davvero il lavoro oggi in tutte le sue dimensioni.
Vi sono delle lacune nella riflessione originaria di Marx che vanno superate. Marx vede bene un punto: che sotto il capitale il lavoro è prestazione erogata dalla forza-lavoro di ‘soggetti’ apparentemente liberi ed eguali. È di lì, da questi lavoratori che sono un ‘altro’ dal capitale che deve essere reso interno, ‘incorporato’ nella fabbrica produttiva, che viene estratto il lavoro vivo, dunque il nuovo valore di cui il plusvalore è parte: è per questo che le lotte sul lavoro sono centrali. Non presta però attenzione alla riproduzione sociale degli esseri umani che sono portatori viventi della forza-lavoro, dunque al lavoro domestico e al lavoro di cura. È questo uno dei fuochi del discorso del femminismo. C’è poi un ‘altro’ che è esterno al capitale, che è la natura, che viene anch’essa sfruttata e depredata nel suo corpo come gli esseri umani. Anche questo Marx lo vede, ma in qualche misura ne sottostima la gravità, che non può più sfuggirci.
Vi è poi un altro limite, e cioè la convinzione di Marx che, siccome il capitale stava sviluppando e in qualche misura socializzando le forze produttive, sia pure concentrandole e centralizzandole nel capitale, fosse a un certo punto relativamente ‘facile’ espropriarlo e passare al socialismo e al comunismo. Si trattava di espropriare gli espropriatori. È però vero che lo stesso Marx sapeva come questa socializzazione e questo sviluppo fossero segnati qualitativamente dal capitale. Il lavoro e i mezzi di produzione non possono semplicemente essere presi così come sono, nella costruzione della società futura: il che è in fondo vero per gli stessi esseri umani segnati dall’individualismo. È, questa, una difficoltà non compresa dal marxismo politico-centrico che delega tutto alla coscienza esterna, o da quel marxismo sociocentrico che vede nei lavoratori o nei soggetti sociali un soggetto per così dire naturalmente indipendente e alternativo.
La centralità del lavoro e della produzione sono fenomeni reali, come parte della macchina capitalistica, ma nella logica marxiana vanno contestati per aprire la prospettiva di altre relazioni sociali e altre contraddizioni. La centralità sociale dei lavoratori non si traduce, in Marx, in una centralità politica del partito o degli ‘operai’, come è stato nei marxismi successivi. Tutti i soggetti hanno pari dignità nelle loro differenze. Coniugare centralità sociale del lavoro e pari dignità trasversale dei soggetti nell’alternativa politica al capitale, da costruire qui ed ora, è un problema irrisolto nella tradizione marxiana, che però rimane unica nell’ambizione di costruire un autentico processo di liberazione umana.
Semplificare ulteriormente …
Sintetizzare
Affinché possiamo capire bene tutti
Grazie. Una maestra elementare
PS dalla 3 classe -primaria- , sarà dovere formare ( con testi adeguati ) i futuri cittadini, che dovranno sostenere, a 14/15 anni, verifica e conseguire attestato per votareconsapevolmente.
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Grazie. Una maestra elementare
PS dalla 3 classe -primaria- , sarà dovere formare ( con testi adeguati ) i futuri cittadini, che dovranno sostenere, a 14/15 anni, verifica e conseguire attestato per votareconsapevolmente.