Capitalismo cognitivo e divenire rendita del profitto nel pensiero di Carlo Vercellone

  1. Introduzione

Il libro collettivo Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista curato da Carlo Vercellone si focalizza su un’analisi approfondita delle trasformazioni del capitalismo interrogandosi sulla possibile fine della sua fase industriale. L’approccio metodologico adottato si rifà ai padri fondatori dell’economia politica, in particolare ad Adam Smith, che nel primo capitolo de La Ricchezza delle nazioni analizza gli effetti della divisione del lavoro sull’industria, anticipando molti aspetti della rivoluzione industriale. Smith, attraverso l’esempio della fabbrica degli spilli, illustra come la parcellizzazione del lavoro e la separazione tra progettazione ed esecuzione abbiano portato a un aumento della produttività, riducendo il ruolo delle conoscenze dei lavoratori a favore di una classe specializzata di ingegneri e progettisti. Questo modello ha trovato il suo apice nel fordismo, dove la meccanizzazione e i principi tayloristici hanno integrato la forza lavoro in un sistema sempre più complesso di macchine e strumenti, separando ulteriormente il sapere tecnico dal lavoro manuale. La crisi del fordismo ha segnato un punto di svolta storico mettendo in discussione le dinamiche tradizionali del capitalismo industriale. La produttività, una volta legata alla divisione tecnica del lavoro, non è più sufficiente a sostenere la crescita e le relazioni tra capitale, lavoro e finanza sono state radicalmente ridefinite portando a due tendenze principali nel capitalismo contemporaneo. La prima è l’emergere di un capitalismo cognitivo, in cui la conoscenza diventa il motore principale della produzione, superando i confini delle imprese e diffondendosi socialmente. Questo nuovo modello si distacca dal capitalismo industriale, dove il sapere era monopolio di una classe ristretta, e introduce nuove forme di organizzazione del lavoro, come i modelli di rete e i laboratori di ricerca, che potrebbero rappresentare il nuovo paradigma produttivo, simile a quanto la fabbrica degli spilli rappresentò per il capitalismo industriale. Una delle conseguenze di questa mutazione riguarda il tempo di lavoro, centrale nel capitalismo industriale, che cede il passo al tempo sociale necessario per la creazione e l’organizzazione del sapere. Tuttavia l’autonomia crescente delle conoscenze dei lavoratori si accompagna a una maggiore precarietà delle condizioni di impiego e di remunerazione, creando una tensione tra l’emancipazione del sapere e la precarizzazione del lavoro. La seconda tendenza è il processo di finanziarizzazione, spesso analizzato come risultato del crollo del sistema di Bretton-Woods e della globalizzazione finanziaria. Vercellone, invece, cerca di collegare la finanziarizzazione alle trasformazioni della divisione del lavoro e alla crisi del rapporto salariale, evidenziando come la crisi del fordismo abbia contribuito a questo processo ridefinendo i meccanismi di accumulazione del capitale, dove la sfera finanziaria assume un ruolo sempre più centrale, spesso in contrasto con la logica tradizionale della produzione industriale. Per quanto ci riguarda, procederemo ad analizzare solo i saggi di Vercellone per delineare le coordinate teoriche utilizzate da questo ricercatore per analizzare le mutazioni del capitalismo.

  1. L’ipotesi del capitalismo cognitivo

Carlo Vercellone scrive assieme a Didier Lebert il saggio Il ruolo della conoscenza nella dinamica di lungo periodo del capitalismo: l’ipotesi del capitalismo cognitivo. La crisi del fordismo ha segnato l’inizio di una profonda trasformazione strutturale del capitalismo che ha ridefinito le modalità di valorizzazione del capitale e l’organizzazione della produzione e del lavoro. Al centro di questa trasformazione si colloca il crescente ruolo della conoscenza, come dimostrano le numerose analisi che si basano su concetti quali la rivoluzione informatica, l’economia fondata sul sapere o, più recentemente, il capitalismo cognitivo. Vercellone e Lebert però ribadiscono come il ruolo chiave della conoscenza nella dinamica della crescita e del progresso tecnologico non sia una novità storica: esso ha radici che risalgono alla prima rivoluzione industriale e si è evoluto nel tempo, assumendo forme diverse fino ai giorni nostri. La domanda centrale che ci si pone è quindi capire perché oggi si possa parlare di un ruolo nuovo della conoscenza e quali siano i concetti che ci permettono di interpretare queste trasformazioni. L’obiettivo dell’articolo è affrontare questa tematica attraverso un’analisi che combini teoria e storia, con lo scopo di studiare le modificazioni del ruolo della conoscenza e dell’immateriale nel tempo e nello spazio. 

La scelta metodologica nasce dalla necessità di superare i limiti presenti nel dibattito sull’economia della conoscenza e dell’immateriale che spesso ostacolano una comprensione articolata del cosiddetto “nuovo capitalismo”. Uno dei problemi principali è che la nozione di economia fondata sul sapere (EFC) rimane ancora mal definita, e, immersi nel tumulto della storia, risulta difficile sviluppare un’analisi coerente di questo fenomeno. Questa difficoltà deriva da due principali ostacoli teorici legati al ruolo della conoscenza e dell’immateriale nel sistema economico. Il primo ostacolo è rappresentato dalla tendenza a trattare la conoscenza attraverso modelli teorici generali, validi in ogni tempo e spazio, che separano l’analisi economica da quella dei rapporti sociali. In questo modo, come avviene nelle teorie neoclassiche del capitale umano e della crescita endogena, si tendono a formulare leggi economiche universali, ignorando o negando l’importanza dei processi storici e dei cambiamenti strutturali che caratterizzano l’evoluzione dei sistemi economici. La conoscenza viene ridotta a un nuovo fattore produttivo, analizzato in modo astratto e decontestualizzato, senza considerare le dinamiche sociali e storiche che ne plasmano il ruolo. Questo porta a un paradosso: mentre si riconosce l’importanza della conoscenza, si ignora la sua storicità e il suo legame con i rapporti sociali di produzione. Il secondo ostacolo riguarda la visione riduttiva del ruolo della conoscenza presente in molte interpretazioni dell’EFC. Questi approcci tendono a spiegare l’emergere di un’economia fondata sulla conoscenza come il risultato di un passaggio quantitativo a qualitativo, dovuto all’aumento relativo del capitale intangibile (istruzione, formazione, ricerca e sviluppo) e alla diffusione spettacolare delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Sebbene questa prospettiva contenga elementi di verità, essa rischia di cadere in due trappole: il determinismo tecnologico e il riduzionismo storico. Il determinismo tecnologico attribuisce alle TIC un ruolo guida nel passaggio alla produzione di massa della conoscenza, in modo simile a come la macchina a vapore fu considerata il motore della prima rivoluzione industriale. Così viene trascurato il fatto che la conoscenza non è semplicemente informazione perché implica la capacità cognitiva di interpretare e utilizzare l’informazione, che altrimenti rimarrebbe sterile. Il riduzionismo storico, d’altro canto, tende a considerare l’EFC come un semplice ampliamento della variabile “conoscenza” nell’economia, senza cogliere le contraddizioni sociali, culturali ed etiche che ne caratterizzano la dinamica. In particolare si trascura il conflitto storico intorno al controllo delle potenze intellettuali della produzione, un tema centrale nella critica marxista del capitalismo. Per superare questi limiti viene proposto il concetto di capitalismo cognitivo con cui si tenta di cogliere la connessione tra lo sviluppo delle forze produttive e quello dei rapporti sociali di produzione. Alla sua base ci sono due elementi chiave: la permanenza delle variabili fondamentali del sistema capitalistico, come il ruolo del profitto e del rapporto salariale, e la nuova natura delle fonti di valorizzazione e della struttura di proprietà legata alla conoscenza e all’immateriale. Il capitalismo cognitivo non è una rottura totale con il passato ma una metamorfosi del capitalismo che genera nuove contraddizioni e forme di regolazione. Per analizzare questa transizione è necessario considerare tre dimensioni principali che definiscono la dinamica della conoscenza nel capitalismo contemporaneo. La prima dimensione riguarda il rapporto salariale e il conflitto tra capitale e lavoro. In particolare si deve esaminare come la conoscenza sia incorporata sia nel lavoro (attraverso la formazione e le competenze dei lavoratori) sia nel capitale (attraverso beni immateriali come brevetti, marchi e software). La relazione tra questi due aspetti è al centro della trasformazione storica del rapporto capitale-lavoro. La seconda dimensione concerne lo statuto della conoscenza come bene, oscillante tra la logica di mercato (come merce appropriabile privatamente) e quella di bene pubblico (libero e accessibile a tutti). Questo aspetto è particolarmente rilevante nel dibattito sui diritti di proprietà intellettuale (DPI) e sulla regolazione istituzionale della scienza, divisa tra un modello “aperto” e uno “chiuso”. La terza dimensione riguarda il ruolo della conoscenza come variabile competitiva a livello micro, macro e mesoeconomico. La conoscenza è decisiva nell’analisi storica delle forme di concorrenza e dell’evoluzione della divisione internazionale del lavoro. Queste tre dimensioni, interconnesse, contribuiscono a definire una logica coerente di regolazione e produzione della conoscenza che varia a seconda del periodo storico. Nella sua storia dell’economia mondiale, Landes sottolinea l’importanza della guerra economica dei saperi che ha influenzato i rapporti internazionali tra le nazioni durante la tumultuosa transizione dal capitalismo mercantilista a quello industriale. Egli sintetizza i fattori che permisero alla Gran Bretagna di essere il primo paese a compiere la rivoluzione industriale, affermando che fu il sapere a fare la differenza. Questo passaggio storico è caratterizzato da una competizione tra le potenze europee per il controllo delle conoscenze e delle tecnologie che si manifestò attraverso due strumenti fortemente interconnessi. Il primo strumento fu il ricorso al brevetto, un’istituzione che, sviluppatasi nell’Italia del Rinascimento, si diffuse successivamente in Francia e Inghilterra. Il sistema dei brevetti, tuttavia, non era inizialmente concepito per incentivare l’innovazione tecnologica, bensì come strumento di politica statale per appropriarsi delle tecnologie e dei saperi sviluppati all’estero. Gli Stati cercavano di attrarre e proteggere le conoscenze tecniche e i “saper fare” provenienti da altri paesi, spesso attraverso pratiche di spionaggio e di trasferimento forzato di competenze. Il secondo strumento fu lo spionaggio sistematico e la ricerca di tecnici e operai qualificati, accompagnati da leggi sempre più severe per limitare l’emigrazione di questi lavoratori e impedire il trasferimento di tecnologie. Come sottolinea Landes, in quest’epoca era ben chiaro che la semplice conoscenza teorica, anche se formalizzata, non aveva valore se separata dal “saper fare” pratico dei lavoratori e dei tecnici ed esso poteva essere acquisito solo attraverso l’esperienza diretta. L’affermarsi della divisione del lavoro stravolge queste dinamiche. Grazie all’avanzare della rivoluzione industriale, infatti, il sapere necessario alla produzione si frammenta e ciascun operaio arriva a detenere solo una piccola frazione delle conoscenze complessive richieste. Questo passaggio segna l’ingresso in una nuova era del capitalismo e dell’economia della conoscenza: il capitalismo industriale. In questa fase la divisione del lavoro diventa un pilastro fondamentale del sistema produttivo, separando sempre più il sapere teorico e progettuale, concentrato nelle mani di una classe specializzata di ingegneri e tecnici, dal sapere pratico degli operai, ridotto a compiti parcellizzati e ripetitivi. La conoscenza, da bene diffuso e legato all’esperienza diretta, si trasforma in un fattore produttivo sempre più formalizzato e controllato mentre il sistema dei brevetti e delle protezioni legali assume un ruolo centrale nel regolare l’accesso e l’uso delle innovazioni tecnologiche. Il capitalismo industriale rappresenta, allora, una fase storica in cui si definisce un sistema preciso di regolazione dell’economia della conoscenza, basato su tre direttrici principali: la polarizzazione sociale dei saperi, la separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e il processo di incorporazione del sapere nel capitale fisso. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, poiché riflette una logica di accumulazione incentrata sulla grande impresa, prima di stampo manchesteriano e poi fordista, specializzata nella produzione di massa di beni durevoli standardizzati. Il capitale fisso assume un ruolo centrale, diventando non solo l’essenza della proprietà ma anche la principale forma di progresso tecnico. La creazione del valore si basa sulla riduzione del tempo di lavoro necessario e su una concezione quantitativa della produttività, misurata in termini di rapporto input/output.

La dinamica del progresso tecnico nel capitalismo industriale è guidata da due obiettivi principali: il miglioramento dell’efficienza economica e la riduzione della dipendenza della direzione aziendale dai saperi artigianali degli operai che nell’organizzazione preindustriale della produzione giocavano un ruolo decisivo. Con l’avanzare della rivoluzione industriale si assiste a un processo di espropriazione progressiva dei saperi operai che vengono incorporati in un sistema meccanico sempre più complesso. Questo processo, che Marx definisce come il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al capitale, si concretizza nella contrapposizione tra le potenze intellettuali del processo di produzione e gli operai che diventano sempre più subordinati al controllo del capitale. La polarizzazione dei saperi raggiunge il suo apice nel modello fordista, dove la divisione del lavoro si struttura in due livelli funzionali rigidamente separati: da un lato il lavoro intellettuale e progettuale, riservato a una minoranza di tecnici e ingegneri; dall’altro, il lavoro manuale, ridotto a compiti parcellizzati e ripetitivi. L’organizzazione scientifica del lavoro di matrice taylorista, tipica del fordismo, mira a sottrarre la dimensione intellettuale e progettuale dalla fase esecutiva della produzione. Il lavoro diventa sempre più astratto, non solo nella forma ma anche nel contenuto, poiché gli operai perdono il controllo sui saperi tradizionali che un tempo detenevano. Questa separazione tra attività lavorativa e soggettività del lavoratore è resa possibile da un processo di codificazione della conoscenza che permette di oggettivare il lavoro in compiti e mansioni descrivibili e misurabili secondo criteri standardizzati, come quelli del cronometro. L’innovazione tecnologica viene progressivamente eliminata dalla fase di produzione-esecuzione e diventa appannaggio esclusivo di una minoranza specializzata, concentrata nelle attività di progettazione e di ricerca e sviluppo (R&S). A livello di fabbrica, il lavoro materiale è organizzato secondo principi di cooperazione muta e sequenziale, finalizzati all’aumento della produttività quantitativa e alla riduzione dei tempi di esecuzione. Al contrario, il lavoro intellettuale, svolto nei centri di R&S e nella direzione aziendale, si basa su forme di comunicazione e non su sequenze rigide. Questa divisione gerarchica del lavoro riflette una logica conoscitiva specifica del capitalismo industriale, in cui l’innovazione e la produttività sono considerate variabili indipendenti dai saperi degli operai e correlate esclusivamente all’attività delle grandi imprese. Le teorie economiche della crescita sviluppate nel Trentennio glorioso da Kaldor a Solow traducono questa logica in modelli in cui la produttività è spiegata principalmente attraverso l’innovazione tecnologica, intesa come risultato dell’attività di R&S delle imprese, piuttosto che come frutto dei saperi e delle competenze dei lavoratori. Nel capitalismo industriale i ritmi dell’economia e della società erano scanditi da cicli di ristrutturazione e innovazione che, in periodi relativamente brevi, determinavano la formazione di paradigmi socio-produttivi successivi. Queste fasi di intensa trasformazione si verificavano durante le cosiddette grandi crisi di trasformazione del capitalismo industriale, momenti in cui un insieme di innovazioni tecniche, organizzative e istituzionali radicali davano vita a nuovi modelli produttivi. Dopo queste fasi di rottura, seguivano periodi più lunghi di consolidamento, durante i quali il paradigma dominante si stabilizzava e l’innovazione assumeva un carattere prevalentemente incrementale, contribuendo a rafforzare e sedimentare il modello esistente. La capacità competitiva di un sistema economico dipendeva in larga misura dal grado di sviluppo del settore dei beni capitali, ovvero quei beni strumentali necessari per la produzione. La specializzazione dei paesi in questo settore era la leva principale per padroneggiare le norme di produzione, incorporate nel capitale fisso, che determinavano la gerarchia della divisione internazionale del lavoro. Questa interpretazione, sebbene schematica, trova conferma in numerose analisi della dinamica storica del capitalismo industriale, siano esse di ispirazione regolazionista, come quelle di Coriat, neoschumpeteriana, come quelle di Freeman e Perez, o legate alla teoria delle onde lunghe di Kondratiev. La dinamica dell’innovazione e il ruolo centrale del capitale materiale nel capitalismo industriale spiegano anche il modo in cui veniva regolata la proprietà intellettuale e il ruolo relativamente marginale che essa giocava in questa fase storica. A differenza del capitalismo contemporaneo, in cui la conoscenza e i beni immateriali assumono un’importanza crescente, nel capitalismo industriale la proprietà intellettuale era considerata secondaria rispetto al capitale fisso e ai beni materiali. L’innovazione era infatti strettamente legata alla produzione di macchinari e strumenti. Quindi la competitività dipendeva dalla capacità di sviluppare e controllare queste tecnologie materiali. Nel modello fordista i meccanismi di produzione della conoscenza, i quali marginalizzano il lavoratore collettivo, si basano su due sistemi di regolazione distinti che riflettono la separazione tra ricerca teorica e ricerca applicata. Questa distinzione mette in luce i fallimenti del mercato legati alla natura di bene pubblico dell’informazione scientifica. Il primo sistema di regolazione è legato al settore pubblico e all’insegnamento superiore, la cui funzione principale è produrre e trasmettere saperi di base (fondamentali) in modo libero e gratuito, secondo il modello della “scienza aperta”. La ricerca è finanziata attraverso sovvenzioni pubbliche, a condizione che i risultati siano diffusi liberamente e senza restrizioni. La motivazione dei ricercatori non è tanto il profitto, quanto il riconoscimento sociale e l’avanzamento della conoscenza. Il secondo sistema di regolazione, invece, è legato ai centri di ricerca e sviluppo (R&S) e agli uffici dei tempi e metodi delle grandi imprese. In questo caso i saperi scientifici e tecnologici sono prodotti internamente all’azienda e sono caratterizzati da un’elevata dimensione tacita, ovvero non formalizzata e difficilmente trasferibile. Questi saperi sono controllati gerarchicamente e rimangono confinati all’interno dell’impresa che li utilizza per mantenere un vantaggio competitivo. La logica di accumulazione e appropriazione privata dei saperi si basa principalmente su risorse materiali e invenzioni, la cui brevettabilità è giustificata dal fatto che sono incorporate in dispositivi tecnico-industriali o in specifiche applicazioni pratiche. Il sistema dei brevetti, nel capitalismo industriale, è coerente con questa logica e si basa su quattro vincoli interdipendenti. Un’invenzione, per essere brevettabile, deve: 1) rappresentare una novità; 2) dimostrare il lavoro umano creativo; 3) essere applicabile a livello industriale; 4) consentire, attraverso una descrizione dettagliata, di conciliare la remunerazione dell’inventore con l’obiettivo della diffusione della conoscenza. Questo sistema di brevetti è strettamente legato a regimi di accumulazione di base nazionale poiché il brevetto è definito non solo dal tempo e dallo spazio del prodotto ma anche dal dominio territoriale di applicazione che coincide principalmente con lo Stato-Nazione. I pilastri di questo sistema iniziano ad essere messi in discussione dalla ridefinizione del campo di applicazione dei diritti di proprietà intellettuale e dalla loro internazionalizzazione che segue il modello statunitense. Questo cambiamento riflette una trasformazione più ampia nel modo in cui la conoscenza viene prodotta, controllata e diffusa, segnando un passaggio da un sistema basato su regole nazionali a uno globalizzato, in cui i diritti di proprietà intellettuale assumono un ruolo centrale nella competizione economica e nella regolazione dei mercati.

A questo punto siamo arrivati all’emergere del capitalismo cognitivo che affonda le sue radici in tre processi storici fondamentali nella crisi del rapporto salariale fordista. Il primo è la contestazione dell’organizzazione scientifica del lavoro taylorista, caratterizzata dal rifiuto del lavoro parcellizzato e dalla crescente richiesta di autonomia da parte dei lavoratori che ha reso insostenibili le forme tradizionali di organizzazione del lavoro. Il secondo processo è l’espansione delle garanzie e dei servizi collettivi del welfare che ha invertito la tendenza di lungo periodo alla riduzione del costo sociale di riproduzione della forza lavoro. Questa trasformazione ha anche posto le basi per un modello di sviluppo alternativo, basato sulla produzione intensiva di conoscenze finalizzate al benessere umano (salute, educazione, ricerca) che potrebbe rappresentare un’alternativa alla regolazione attuale del capitalismo cognitivo. Il terzo processo è la costituzione di un’intellettualità diffusa, frutto della democratizzazione dell’istruzione e dell’innalzamento del livello generale di formazione. Questa nuova qualità della forza lavoro ha portato a un aumento del lavoro immateriale e intellettuale mettendo in discussione le forme di divisione del lavoro e di progresso tecnico tipiche del capitalismo industriale. La contestualizzazione storica proposta offre importanti insegnamenti spesso trascurati dalle analisi dell’EFC. In primo luogo, la formazione di un’intellettualità diffusa ha giocato un ruolo centrale nella transizione verso un’economia basata sui saperi, più delle TIC che infatti non possono essere attivate e accumulate senza un sapere vivo capace di mobilitarle. In secondo luogo l’elemento chiave della transizione verso un’EFC sono le “produzioni collettive dell’uomo per l’uomo”, come la salute, l’educazione e la ricerca. Questo spiega perché la privatizzazione di questi settori rappresenta una delle poste in gioco principali nel capitalismo cognitivo. Infine, il capitalismo cognitivo non è semplicemente il risultato di un’amplificazione del ruolo del sapere nell’economia ma il prodotto di una complessa dialettica tra conflitto e ristrutturazione, attraverso la quale il capitale cerca di inquadrare e sottomettere alle sue logiche le condizioni collettive della produzione di conoscenza. Per comprendere meglio questa transizione è necessario esaminare le trasformazioni e le contraddizioni che emergono a livello delle tre dimensioni istituzionali chiave: il rapporto salariale, la proprietà intellettuale con la dinamica dell’innovazione e la divisione internazionale del lavoro. Nel capitalismo cognitivo la principale fonte di valore risiede nei saperi incorporati e mobilitati dal lavoro vivo piuttosto che nel capitale o nel lavoro materiale. Questa mutazione non può essere compresa isolando un settore specializzato nella produzione di conoscenze o di informazioni. Al contrario, la diffusione delle funzioni di produzione e trattamento della conoscenza interessa tutti i settori economici, compresi quelli a bassa intensità tecnologica, grazie alle esternalità legate al sapere e ai suoi effetti sull’organizzazione del lavoro. A livello macroeconomico, la crescita del capitale immateriale (sanità, educazione, ricerca) supera ormai quella del capitale materiale, indicando che la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte della sfera del lavoro salariato e dell’universo mercantile, principalmente nel sistema di formazione e ricerca. Le tradizionali frontiere tra lavoro e tempo libero si sgretolano mentre la società nel suo insieme diventa la fonte di un progresso tecnico esogeno alle imprese. Di conseguenza il concetto di lavoro produttivo deve essere ridefinito per includere l’insieme dei tempi sociali che contribuiscono alla produzione e riproduzione economica e sociale. A livello delle imprese, la crescita del lavoro immateriale e intellettuale rompe le barriere tra concezione ed esecuzione ridefinendo la dinamica dell’innovazione nei reparti di fabbricazione. I processi di innovazione e produzione di conoscenza diventano non lineari, basati su meccanismi di apprendimento collettivo come il learning by doing, learning by using e learning by communicating. Emerge così il concetto di “impresa che apprende”, caratterizzata dal superamento delle barriere tra ricerca e produzione e dalla ricomposizione del lavoro di concezione ed esecuzione. Questo passaggio dal modello taylorista della cooperazione muta e routinaria a quello della cooperazione comunicante implica una gestione dinamica dei saperi, in cui la scienza produttiva non è più “incapsulata” nelle macchine perché risiede nella reattività di una forza lavoro capace di condividere conoscenze generiche e decontestualizzate. Questa trasformazione del rapporto salariale genera nuove tensioni. La preponderanza dei saperi incorporati nel lavoro pone problemi inediti di inquadramento poiché la cooperazione produttiva dei salariati può svilupparsi in modo autonomo rispetto alle logiche di direzione aziendale. Questa tensione tra sapere e potere spiega perché la via della precarizzazione e dell’individualizzazione del rapporto salariale è stata privilegiata, nonostante contraddica una regolazione efficace della produzione di conoscenze che richiede una dimensione collettiva. I tempi lunghi della formazione e dell’apprendimento, necessari per una competitività basata sull’innovazione, sono spesso sacrificati a favore di una flessibilità reattiva alle mutazioni della domanda e di una visione che considera l’impiego come variabile di aggiustamento per ottenere risultati finanziari immediati. Infine il controllo attraverso l’obbligo di risultati sostituisce quello basato sulla prescrizione di mezzi e procedure, portando alla prescrizione della soggettività, in cui i lavoratori sono chiamati a mettere la loro creatività al servizio dell’impresa. Questa ingiunzione paradossale rischia di generare una “scissione dell’Io” che compromette la capacità di apprendimento dei salariati e, di riflesso, delle imprese. Inoltre la prescrizione della soggettività, spesso attuata attraverso incentivi individuali, mina la coesione del collettivo di lavoro, essenziale per l’accumulazione delle conoscenze. Simili contraddizioni evidenziano le ambivalenze e le tensioni della transizione verso il capitalismo cognitivo. L’accelerazione del ritmo dell’innovazione è uno dei tratti distintivi della transizione dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo. In questa nuova fase, si assiste all’emergere di un regime di innovazione permanente in cui la competitività non dipende più principalmente dalle tecnologie incorporate nel capitale fisso ma dalle competenze di una forza lavoro capace di gestire un cambiamento continuo e di rinnovare costantemente saperi soggetti a rapida obsolescenza. Questo passaggio segna un’evoluzione dalla divisione tecnica del lavoro di stampo tayloristico verso una divisione cognitiva del lavoro basata sul frazionamento dei processi di produzione secondo blocchi di sapere mobilitati. Tutto ciò ha un impatto cruciale sulla localizzazione delle imprese e sulla genesi delle specializzazioni internazionali. Nella nuova divisione internazionale del lavoro (DIL) fondata su principi cognitivi, la mobilità del capitale diventa un indicatore chiave. Le regioni che si basano su modelli neo-tayloristici, caratterizzati da una forte dipendenza dalla produzione materiale e da una vulnerabilità alla volatilità del capitale, si trovano in difficoltà. Al contrario, le attività intensive in conoscenza tendono a essere più radicate territorialmente poiché il capitale dipende da un bacino di lavoro intellettuale e immateriale preesistente che si concentra principalmente nelle metropoli. Il fattore determinante della competitività a lungo termine di un territorio è sempre più legato allo stock di lavoro intellettuale che può essere attivato in modo cooperativo. La logica di sfruttamento dei vantaggi comparati tradizionali lascia il posto alla detenzione, da parte di un territorio, di elementi di monopolio e vantaggi assoluti basati su competenze specifiche. Questo processo però non è univoco. Se da un lato alcune fasi della produzione possono essere ricollocate in regioni sviluppate, dall’altro, alcune funzioni di direzione e concezione possono essere delocalizzate verso paesi del Sud o del vecchio blocco socialista che dispongono di una significativa riserva di manodopera intellettuale. In alcuni casi una logica di delocalizzazione basata sulla riduzione dei costi del lavoro può combinarsi con la nuova logica della divisione cognitiva del lavoro, creando dinamiche complesse e contraddittorie. Nonostante l’aumento considerevole degli investimenti diretti all’estero (IDE), questi restano concentrati nei paesi sviluppati e in un numero limitato di paesi in via di sviluppo a forte crescita che dispongono di ampi mercati e/o di un forte potenziale di forza lavoro qualificata. Lo sviluppo ineguale dell’economia della conoscenza tende a generare un processo cumulativo che condanna molti paesi in via di sviluppo a una disconnessione forzata dal mercato mondiale. Questa minaccia è ulteriormente aggravata dalle barriere protezionistiche che i paesi del Nord continuano a erigere, come dimostrano le politiche agricole americane ed europee. Il libero scambio rimane un mito imposto ai paesi del Sud mentre i paesi del Nord mantengono politiche protezionistiche. Una simile dinamica riflette le profonde disuguaglianze e contraddizioni che caratterizzano la transizione verso il capitalismo cognitivo in cui la conoscenza e le competenze diventano il motore principale della competitività ma la loro distribuzione e accessibilità rimangono fortemente sbilanciate a livello globale. La transizione verso il capitalismo cognitivo mette in discussione anche le basi del DPI e di regolazione della ricerca ereditati dal capitalismo industriale. Questa evoluzione è il risultato dell’impatto delle TIC in un’economia basata su un’intellettualità diffusa. In molti ambiti l’uso delle TIC mette in crisi la protezione offerta dal copyright e dalle licenze, favorendo lo sviluppo di forme orizzontali di cooperazione e scambio dei saperi basate su una logica non di mercato. Un esempio emblematico è il modello Linux, spesso presentato come il principale concorrente al monopolio di Windows e come un’alternativa sia all’impresa tradizionale, sia al mercato come forme dominanti di coordinamento. In secondo luogo dobbiamo prendere in considerazione la crescente compenetrazione tra ricerca di base e ricerca applicata, particolarmente evidente nei settori del software e delle biotecnologie. Questa evoluzione rende possibili forme inedite di privatizzazione dei saperi e del vivente, grazie a un allentamento dei criteri di brevettabilità che rende più labile il confine tra scoperta e invenzione. La tendenza è particolarmente rilevante nel contesto del capitalismo cognitivo, dove il potenziamento del sistema di DPI e la sua estensione al vivente e ai risultati della ricerca di base diventano aspetti decisivi della regolazione economica. Questo rifacimento dei DPI è spesso giustificato come una politica per stimolare l’innovazione e creare sinergie tra il settore privato e quello pubblico di ricerca, basandosi sull’argomento che, nei settori ad alta intensità di conoscenza, i costi principali sono fissi e legati agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) delle imprese. La fondatezza di questo argomento è oggetto di critiche. In primo luogo, la maggior parte dei costi fissi di ricerca si trova a monte dei centri di R&S delle imprese, poiché le condizioni della ricerca e dell’innovazione dipendono sempre più dalla qualità e dalla densità della forza lavoro formata dal sistema di insegnamento pubblico. Inoltre molti brevetti detenuti dalle imprese non sono il risultato diretto dei loro sforzi in R&S ma derivano da ricerche sviluppate da istituzioni pubbliche o dalla predazione dei saperi delle comunità tradizionali. In secondo luogo, è errato presumere che tutte le invenzioni e scoperte brevettate non avrebbero visto la luce senza la protezione dei brevetti. Al contrario, molti brevetti hanno lo scopo di ostacolare le ricerche e le innovazioni rivali, attraverso strategie di “saturazione” o “inondazione” del mercato con brevetti che spesso riguardano conoscenze di base. Queste pratiche portano a un eccesso di privatizzazione, con conseguenze negative come il minimo sfruttamento delle conoscenze, il rallentamento del ritmo di creazione di nuovi saperi e la formazione di posizioni dominanti con effetti anticoncorrenziali. Infine, non esiste una correlazione dimostrata tra l’esistenza e l’ampiezza dei DPI e la stimolazione dell’innovazione. Alcuni studi mostrano che il rafforzamento della protezione dei brevetti, ad esempio nel settore dei programmi informatici negli Stati Uniti negli anni ’80, ha portato a un declino dell’innovazione e della R&S nelle imprese che depositavano il maggior numero di brevetti. Allo stesso modo, nell’industria farmaceutica, la richiesta di una protezione crescente sembra essere motivata più dalla necessità di aumentare i costi di imitazione in un contesto di rallentamento dell’innovazione che da una reale spinta alla creatività. Il rafforzamento del sistema di proprietà intellettuale, sebbene sia visto come una questione di sopravvivenza per alcune imprese, rischia di costituire un meccanismo di blocco della circolazione e della produzione delle conoscenze, limitando piuttosto che favorire l’innovazione.

  1. Marx e il capitalismo cognitivo

Nel saggio Elementi per una lettura marxiana dell’ipotesi del capitalismo cognitivo Vercellone 

spiega come l’ipotesi del capitalismo cognitivo si sviluppa a partire da una critica dell’economia politica delle nuove teorie liberiste sull’economia basata sulla conoscenza. 

Nel fare ciò recupera l’approccio di Marx che offre ancora oggi una griglia di lettura fondamentale per comprendere non solo le trasformazioni della divisione del lavoro ma anche le traiettorie che potrebbero portare a una nuova evoluzione, come suggerito da Schumpeter. Marx critica la visione smithiana della divisione del lavoro mettendo in discussione l’idea che la polarizzazione dei saperi e la separazione tra compiti concettuali e materiali siano fenomeni naturali e necessari dello sviluppo delle forze produttive. Al contrario, queste tendenze sono il risultato di specifiche modalità storiche attraverso cui il capitale incorpora il progresso tecnico, subordinando il processo di lavoro (produzione di valori d’uso) al processo di valorizzazione (produzione di valori di scambio e estrazione del plusvalore). Marx analizza lo sviluppo della divisione del lavoro attraverso il rapporto conflittuale tra capitale e lavoro che si manifesta nella dinamica dell’innovazione tecnica e organizzativa. Ad esempio, la lotta per la riduzione e la regolazione della giornata lavorativa è centrale nel passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, come descritto nel primo libro del Capitale. Un aspetto ancora più rilevante è l’attenzione di Marx ai conflitti riguardanti il controllo delle potenze intellettuali della produzione. Questa prospettiva va oltre l’impatto del progresso tecnico sulla produttività e l’efficienza economica, focalizzandosi sui rapporti tra sapere e potere che strutturano l’evoluzione della divisione tecnica e sociale del lavoro. Sotto il capitalismo lo sviluppo della scienza applicata alla produzione coincide con l’espropriazione dei saperi operai ma genera anche resistenze da parte dei lavoratori che possono portare a una ricomposizione del sapere e del lavoratore collettivo. La dinamica conflittuale tra sapere e potere è centrale anche nella spiegazione della tendenza all’aumento della composizione organica e tecnica del capitale. Marx osserva che il sistema delle macchine si sviluppa attraverso la divisione del lavoro che trasforma le operazioni degli operai in azioni meccaniche, fino a sostituirli. Questa tendenza riflette la separazione crescente tra produttori e mezzi di produzione, una lotta di classe nella produzione che riguarda il controllo del processo di lavoro e della produzione del plusvalore relativo. Pur non approfondendo la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, è importante sottolineare che, ponendo l’accento sulla dinamica qualitativa del rapporto sapere/potere, è possibile ipotizzare una forma alternativa di crisi strutturale. Questa crisi non si basa sulla tradizionale analisi marxista in termini di valore e sovraccumulazione del capitale ma su un cambiamento qualitativo nella composizione tecnica del capitale e nel processo sociale del lavoro. Un simile cambiamento potrebbe portare a un rovesciamento del rapporto tra sapere vivo (incorporato nella forza-lavoro) e sapere morto (incorporato nel capitale fisso), definibile come caduta tendenziale del controllo del capitale sulla divisione del lavoro. Nei Grundrisse, in particolare nel Frammento sulle macchine, Marx anticipa l’avvento di un nuovo stadio di sviluppo della divisione del lavoro, caratterizzato dal General Intellect, dove il sapere diventa la principale forza produttiva. Questo concetto prefigura una congiuntura storica in cui il lavoro intellettuale e scientifico assume un ruolo dominante e il sapere si risocializza, diventando centrale nel processo produttivo. Un ritorno alle nozioni marxiane di sussunzione formale e reale e al concetto di General Intellect può quindi essere di grande interesse per avanzare riflessioni sull’ipotesi di un XXI secolo post-smithiano. Nella sussunzione formale il capitale si appropria di un processo di lavoro preesistente senza trasformarlo radicalmente, controllandolo tramite rapporti mercantili e monetari, come nel sistema del putting-out. La cooperazione tra lavoratori rimane autonoma ma la dipendenza monetaria li costringe a vendere la propria forza lavoro. Questa fase è caratterizzata da una contraddizione tra l’autonomia produttiva dei lavoratori e la loro subordinazione monetaria che richiede politiche come le enclosures per consolidare il lavoro salariato. Con la sussunzione reale il capitale modifica direttamente il processo produttivo, introducendo meccanismi di controllo interno e trasformando le forze produttive. In questa fase il capitale penetra nella sfera produttiva, riducendo l’autonomia dei lavoratori e incorporando il sapere nelle macchine. Prima della meccanizzazione il capitale preferisce adottare forme indirette di dominio a causa della resistenza dei lavoratori e della difficoltà di controllo diretto. Il General Intellect rappresenta una fase successiva, in cui il sapere sociale e tecnologico diventa centrale, superando la divisione smithiana del lavoro. Marx suggerisce che il capitale alterna fasi produttive, finanziarie e commerciali, privilegiando forme flessibili di accumulazione. Questa dinamica si riflette nella crisi del fordismo e nell’emergere del capitalismo finanziario globale, dove il capitale cerca di affrancarsi dalla produzione diretta, valorizzandosi attraverso meccanismi indiretti. Braudel, studiando la storia del capitalismo, ne evidenzia la flessibilità e adattabilità, mostrando come il capitalismo industriale sia solo una fase di un processo più lungo. La crisi del fordismo e l’attuale finanziarizzazione possono essere viste come un ritorno a forme di dominio indiretto, tipiche del capitalismo mercantile e finanziario, in risposta alle trasformazioni conflittuali della divisione del lavoro. Questa prospettiva, combinata con l’ipotesi del General Intellect, offre una chiave per comprendere le trasformazioni contemporanee del capitalismo e le sue crisi. 

La sussunzione reale del lavoro al capitale è un processo storico, dice Vercellone, che inizia con la prima rivoluzione industriale e si consolida con l’affermazione del capitalismo industriale basandosi su una serie di tendenze che troveranno la loro massima espressione nel fordismo, un sistema produttivo che combina meccanizzazione, taylorismo e una rigida divisione del lavoro. Queste tendenze includono la separazione progressiva tra lavoro intellettuale e manuale, la polarizzazione dei saperi e la parcellizzazione delle attività lavorative che riducono il lavoro a una serie di compiti ripetitivi e frammentati. Ciò consente al capitale di esercitare un controllo sempre più stretto sul processo produttivo e sul prodotto stesso, subordinando completamente il lavoratore alle esigenze del sistema capitalistico. Un elemento centrale di questo processo è l’affermazione di una norma sociale che fa del tempo di lavoro immediato, cioè il tempo direttamente dedicato alla produzione, il principale metro di misura della ricchezza e della produttività. Prima della rivoluzione industriale, il lavoro non era rigidamente misurato dal tempo: in un contesto dominato dalla poliattività e dalla polivalenza degli individui, il lavoro era un’attività fluida, non vincolata dalle regole dell’efficienza imposte dall’orologio e dal cronometro. Con l’avvento del capitalismo industriale, questa relazione si inverte: è il tempo che diventa la misura del lavoro. Il tempo dell’orologio e del cronometro, insieme al macchinismo, rappresentano l’essenza della trasformazione economica e culturale del lavoro determinata dalla rivoluzione industriale. Questa nuova economia del tempo forgia la logica del progresso tecnico, che, combinando i principi del taylorismo e della meccanizzazione, porterà al fordismo. Il lavoro, allora, diventa sempre più astratto, non solo nella sua forma di valore di scambio ma anche nel suo contenuto, svuotato di ogni qualità intellettuale e creativa. La sussunzione reale del lavoro al capitale si realizza quando il controllo del capitale si impone all’interno del processo produttivo stesso, non solo dall’esterno. Questo controllo è reso possibile dalla tecnologia e dalla divisione del lavoro che rendono il sapere collettivo esterno al lavoratore individuale. La forza lavoro diventa così una semplice appendice del sistema delle macchine e il lavoro salariato non è più solo una costrizione monetaria ma anche tecnologica. La sussunzione reale opera su due livelli. A livello della divisione tecnica del lavoro il capitale integra le esigenze di controllo della forza lavoro nel cambiamento tecnico e organizzativo mentre a livello della divisione sociale del lavoro il capitalismo industriale tende a inglobare l’intera società, generalizzando il rapporto salariale e il valore di scambio, destabilizzando le condizioni di esistenza dei lavoratori. Questa dinamica genera un processo conflittuale che porta alla socializzazione di alcuni costi di riproduzione della forza lavoro da parte dello Stato, come nel caso del welfare state. La scolarizzazione di massa, pur essendo un fattore di democratizzazione parziale, contribuisce alla diffusione dei saperi e alla crisi della sussunzione reale poiché crea tensioni all’interno del sistema educativo che tradizionalmente riproduceva le gerarchie sociali. La sussunzione reale del lavoro al capitale non è un processo irreversibile. La riappropriazione collettiva dei saperi, favorita dalla scolarizzazione di massa e dall’emergere di un’intellettualità diffusa, rappresenta una sfida alla tendenza storica dell’espropriazione dei saperi e dell’approfondimento della sussunzione reale. Questa evoluzione realizza in parte le intuizioni marxiane sul General Intellect, ovvero l’idea che il sapere collettivo possa diventare una forza produttiva autonoma, capace di trasformare le condizioni del lavoro e della società. In questo senso la dinamica di trasformazione economica e sociale che conduce dalla sussunzione formale alla sussunzione reale non è solo un processo di dominio del capitale sul lavoro ma anche un terreno di conflitto e di emancipazione. La lotta dei lavoratori per la riappropriazione dei saperi e per l’emancipazione dal rapporto salariale ha giocato un ruolo centrale nella successione dei paradigmi produttivi, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, e continua a influenzare le trasformazioni del capitalismo contemporaneo.

Nel primo libro del Capitale Marx sviluppa un’analisi dettagliata delle trasformazioni della divisione del lavoro, partendo dalle forme più semplici di cooperazione e manifattura fino ad arrivare alla grande industria. Questo percorso logico-storico non deve essere interpretato come una descrizione di una tendenza inevitabile e insuperabile verso la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale ma piuttosto come una critica alle contraddizioni insite nel sistema capitalistico. Marx mette in luce come la divisione capitalistica del lavoro generi conflitti, alienazione e come questi conflitti siano al centro delle dinamiche che potrebbero portare alla crisi del capitalismo e, in ultima istanza, alla sua dissoluzione come forma dominante di organizzazione della produzione. Un aspetto cruciale dell’analisi di Marx è il legame tra la riduzione del tempo di lavoro e la lotta per la socializzazione dell’accesso alla conoscenza. Marx vede nella regolamentazione della giornata lavorativa e nell’istruzione elementare pubblica i primi passi verso una trasformazione sociale più profonda. Queste conquiste, ottenute attraverso lotte contro il capitale, non sono solo vittorie immediate per i lavoratori ma rappresentano l’inizio di un processo più ampio che mira all’abolizione della divisione del lavoro esistente che genera disuguaglianze e alienazione. Marx riconosce un ruolo centrale alle lotte per l’istruzione pubblica perché è in netto contrasto con la logica della sussunzione reale del lavoro sotto il capitale. La scolarizzazione di massa e lo sviluppo di un’intellettualità diffusa sono visti come condizioni essenziali per permettere ai lavoratori di acquisire un sapere teorico e pratico adeguato al livello di sviluppo capitalistico e per superare le limitazioni imposte dalla divisione capitalistica del lavoro. Nei Grundrisse Marx approfondisce ulteriormente l’analisi della sussunzione reale del lavoro, ma va oltre, considerando le dinamiche che potrebbero portare a una ricomposizione della scienza e del lavoratore collettivo. Egli suggerisce che la logica stessa della sussunzione reale può creare le condizioni per una riappropriazione collettiva dei saperi. Infatti, nel suo sforzo di ridurre i tempi di lavoro e aumentare l’efficienza, il capitale finisce per liberare tempo che può essere dedicato allo sviluppo individuale e alla formazione. Questo tempo libero diventa una forza produttiva che può reagire positivamente sulla produttività del lavoro. Marx anticipa così l’emergere di un’economia basata sulla diffusione del sapere, in cui il lavoro non è più semplicemente una componente del processo produttivo, ma diventa un’attività di regolazione e controllo. In questa nuova configurazione il sapere sociale generale si trasforma in una forza produttiva immediata e le condizioni del processo vitale della società passano sotto il controllo del General Intellect. Questo cambiamento mette in crisi i pilastri dell’economia politica capitalista poiché il lavoro immediato cessa di essere la principale fonte di ricchezza e il tempo di lavoro non può più essere la misura del valore. La crisi della legge del valore, tuttavia, non significa la sua scomparsa. Il capitale continua a imporla come base della misurazione della ricchezza ma la natura sempre più immateriale e intellettuale del lavoro rende difficile distinguere tra lavoro e non lavoro. Il capitale, allora, cerca di estendere i meccanismi di estrazione del plusvalore a tutti i tempi sociali che partecipano alla produzione. Tra gli elementi chiave di questa trasformazione vi sono: la crisi della divisione tecnica e sociale del lavoro generata dalla prima rivoluzione industriale, il ruolo centrale del sapere come forza produttiva, la rimessa in discussione del lavoro immediato come misura della produttività e il passaggio da una teoria del valore-tempo di lavoro a una teoria del valore-sapere. Il principale capitale fisso diventa l’uomo stesso e il progresso tecnico assume una natura sempre più collettiva, aprendo la strada a nuove forme di libertà e di sviluppo individuale. Marx sottolinea inoltre che la diffusione del sapere e la formazione di un’intellettualità diffusa mettono in discussione i tradizionali meccanismi di controllo del capitale. Quando il sapere diventa una forza produttiva immediata e si diffonde nella società, il capitale perde la sua capacità di costruire una nuova “ossatura oggettiva indipendente” basata sulla divisione tra concezione ed esecuzione. In questo modo la sussunzione del lavoro torna ad essere formale, basata principalmente sul rapporto di dipendenza monetaria del salariato all’interno del processo di circolazione. Infine, Marx suggerisce che la precarietà delle condizioni di lavoro e di remunerazione nel capitalismo cognitivo non è una logica economica ineluttabile ma piuttosto il risultato di un rapporto salariale che rimane fondamentalmente un vincolo monetario. La dipendenza del lavoratore dal salario come unico mezzo di accesso alla moneta e al reddito è il fondamento primario del rapporto capitalistico. La crisi del capitalismo industriale e l’emergere del General Intellect aprono la possibilità di una nuova organizzazione sociale in cui il progresso tecnico e la conoscenza possono essere messi al servizio della libertà e dello sviluppo individuale, superando la logica del valore di scambio e affermando il primato del valore d’uso.

4. Come cambia il lavoro produttivo e la lotta per il reddito sociale garantito 

Nel saggio Mutazione del concetto di lavoro produttivo e nuove norme di distribuzione Vercellone afferma che la teoria smithiana della crescita e la teoria ricardiana della distribuzione rappresentano i pilastri fondativi dell’economia politica classica, attraverso i quali i primi economisti hanno cercato di comprendere e modellizzare il funzionamento del capitalismo pre-rivoluzione industriale. Nel contesto di una transizione dal capitalismo industriale verso un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, è necessario ripercorrere l’approccio analitico dei fondatori dell’economia politica. Questo approccio, che lega indissolubilmente il modo di produrre e il modo di distribuire la ricchezza, solleva una questione centrale: la legittimità e la fattibilità economica di un reddito sociale garantito (RSG) indipendente dal lavoro. Vercellone esplora due aspetti fondamentali di questa problematica. Il primo riguarda la distinzione tra due concezioni opposte di reddito garantito emerse nel dibattito contemporaneo. Da un lato, vi è la visione neoliberista di un reddito minimo di sussistenza, condizionato e limitato, che mira a fornire un sostegno economico di base solo a chi si trova in condizioni di estrema necessità. Dall’altro lato, vi è la proposta del RSG, inteso come un diritto incondizionato e universale volto a garantire una dignità economica a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro partecipazione al mercato del lavoro. Questa seconda concezione si basa sull’idea che il lavoro non sia più l’unica fonte di ricchezza e che, in un’economia sempre più basata sulla conoscenza, sia necessario riconoscere il contributo collettivo alla produzione di valore. Il secondo aspetto affrontato nell’articolo riguarda i fondamenti economici e il finanziamento del RSG. La riflessione su questo tema deve tenere conto delle profonde trasformazioni nella divisione del lavoro e nei modelli di accumulazione che caratterizzano la transizione verso il cosiddetto capitalismo cognitivo. Per questo motivo il RSG viene concepito come un reddito che combina un salario sociale (una quota di reddito derivante dalla partecipazione collettiva alla produzione) e una rendita collettiva (una quota derivante dalla condivisione dei frutti dell’accumulazione di conoscenza e innovazione). Prima di delineare il RSG Vercellone critica l’idea del reddito minimo di esistenza condizionato. Secondo questa visione, la disoccupazione è causata principalmente dalle rigidità del mercato del lavoro che impediscono ai salari di adattarsi in modo da favorire la piena occupazione. L’idea è che un reddito minimo, legato a condizioni specifiche, possa sostituire gli ammortizzatori sociali tradizionali, considerati responsabili della cosiddetta trappola dell’inattività. Questo tipo di reddito minimo è visto come uno strumento per de-socializzare l’economia e ripristinare una regolazione concorrenziale del mercato del lavoro. Un elemento chiave di questa proposta è il principio di condizionamento che vincola l’erogazione del reddito minimo alla disponibilità del beneficiario ad accettare un lavoro, anche se precario o sottopagato. Si tratta di un approccio in linea con le logiche neoliberiste miranti a sostituire il welfare tradizionale con un sistema di workfare, dove il sostegno economico è strettamente legato all’attività lavorativa. Il reddito minimo diventa uno strumento per incentivare l’accettazione di lavori precari, riducendo al contempo i costi del lavoro per le imprese. Un’altra proposta legata a questa visione è quella dell’imposta negativa teorizzata da Milton Friedman. Tecnicamente, l’imposta negativa potrebbe essere compatibile con un reddito minimo incondizionato però nella pratica le proposte neoliberiste la legano strettamente all’attività lavorativa. L’imposta negativa sarebbe erogata solo a chi ha un lavoro scarsamente remunerato, escludendo i disoccupati volontari. Questo meccanismo rafforza la logica del workfare, incentivando l’accettazione di lavori precari e sottopagati, contribuendo alla creazione di una classe di working poor, ovvero lavoratori che, nonostante un impiego, restano in condizioni di povertà. Simili proposte non sono prive di contraddizioni. L’introduzione di un reddito minimo condizionato potrebbe portare a una selezione della forza lavoro basata sulla disponibilità ad accettare salari inferiori al livello di sussistenza, senza necessariamente aumentare l’occupazione. Inoltre, il costo di tale sistema potrebbe diventare insostenibile, nonostante i risparmi derivanti dalla riduzione degli ammortizzatori sociali tradizionali. In contrapposizione a queste proposte neoliberiste, esiste la proposta del RSG, incondizionato e indipendente dall’occupazione. Questo approccio mira a ri-socializzare l’economia, attenuando la costrizione monetaria insita nel rapporto salariale. Il RSG sarebbe uno strumento per garantire una continuità di reddito nonostante la discontinuità dei rapporti di lavoro, favorendo la mobilità scelta rispetto a quella imposta dalla precarietà. Inoltre, il RSG presuppone il mantenimento e l’espansione del sistema di protezione sociale, garantendo l’accesso a servizi essenziali come l’alloggio, la sanità e la formazione. Questa proposta è stata spesso oggetto di due principali critiche: la sua presunta insostenibilità finanziaria e l’illegittimità economica ed etica di un diritto al reddito che non sarebbe legato a un contributo lavorativo diretto alla creazione di ricchezza. Le due obiezioni sono strettamente connesse e devono essere analizzate nel contesto delle trasformazioni del lavoro e del regime di accumulazione nel capitalismo cognitivo.

Sostenere polemicamente che manca un’analisi approfondita sul finanziamento del RSG porta a due conseguenze principali. In primo luogo l’importo del reddito di cittadinanza viene spesso stimato a livelli molto bassi, tra i 230 e i 300 euro mensili, considerati insufficienti per garantire una reale libertà ai lavoratori di accettare o rifiutare condizioni di lavoro svantaggiose. In secondo luogo, quando si propone un importo più elevato, vicino alla soglia di povertà o al salario minimo, il RSG viene criticato per il suo presunto irrealismo poiché il costo di finanziamento richiederebbe una redistribuzione radicale dei redditi, stimata in alcuni casi fino al 30% del PIL, considerata economicamente e politicamente insostenibile. 

Per Vercellone queste critiche risultano spesso semplicistiche e incomplete. Esse si basano su un calcolo del costo lordo del RSG, moltiplicando l’importo per il numero di abitanti, senza considerare il costo netto e le possibili risorse per il finanziamento. In realtà il RSG potrebbe essere cumulabile con altri redditi e, a partire da una certa soglia, sarebbe soggetto a tassazione progressiva. Questo meccanismo ridurrebbe il costo netto del RSG poiché una parte del reddito garantito verrebbe recuperata attraverso il prelievo fiscale sui redditi più elevati. Inoltre l’introduzione del RSG potrebbe essere accompagnata da una riforma del sistema fiscale che aumenti la progressività, tassi maggiormente i redditi da capitale (attualmente meno tassati rispetto ai redditi da lavoro in Europa) e utilizzi le economie derivanti dalla soppressione di trasferimenti assistenziali condizionati che verrebbero sostituiti dal RSG incondizionato. Un’altra fonte di finanziamento potrebbe derivare dalla soppressione delle agevolazioni fiscali e degli esoneri contributivi di cui beneficiano le imprese per l’assunzione di manodopera non qualificata, misure che spesso si traducono in un semplice trasferimento di reddito dai salari ai profitti senza creare nuovi posti di lavoro.    Il RSG potrebbe essere introdotto gradualmente, riservandolo inizialmente alla popolazione adulta tra i 18 anni e l’età legale della pensione, per poi estenderlo progressivamente a tutta la popolazione. Questo approccio ridurrebbe il costo iniziale e eviterebbe di entrare in conflitto con il finanziamento di altre conquiste essenziali del sistema di protezione sociale, come le pensioni, il diritto alla salute e le indennità di disoccupazione.

Altri aggiustamenti potrebbero riguardare un importo pieno per gli adulti e un’indennità ridotta per i minorenni a carico dei genitori, definita come indennità di esistenza. Questo approccio renderebbe il finanziamento più sostenibile. Infine la questione del finanziamento e della legittimità del RSG richiede un riesame delle nozioni di lavoro produttivo e di ricchezza nel contesto del capitalismo cognitivo. In un’economia basata sulla conoscenza il lavoro produttivo non si limita più alle attività tradizionali, ma si estende a tutte le forme di produzione e condivisione del sapere. Allo stesso tempo, è necessario ripensare le regole di distribuzione del reddito in opposizione alla finanziarizzazione crescente del sistema economico che concentra la ricchezza nelle mani di pochi. Solo attraverso una comprensione più profonda di queste trasformazioni è possibile pensare ai fondamenti teorici e alla fattibilità del RSG che rappresenta non solo una misura di giustizia sociale ma anche una risposta alle sfide poste dal capitalismo contemporaneo, in cui il sapere e la cooperazione sociale diventano motori centrali della creazione di ricchezza. 

Vercellone prosegue la riflessione affrontando in modo approfondito le criticità e le sfide concettuali che emergono nelle proposte di un reddito universale o di un reddito di cittadinanza, evidenziando come molte di queste proposte si basino su un approccio prevalentemente etico e redistributivo, senza però radicarsi in un’analisi strutturale delle trasformazioni economiche e sociali che caratterizzano la creazione della ricchezza nelle società contemporanee. Vercellone prende di mira le interpretazioni della fine del lavoro alla Rifkin che sostiene l’idea secondo cui la disoccupazione tecnologica sia un fenomeno strutturale e che il lavoro stia perdendo il suo ruolo centrale nella produzione di ricchezza. Questa visione, riscontrabile nella proposta di reddito universale avanzata da Van Parijs, viene messa in discussione affermando che la crisi del lavoro salariato non significa affatto la fine del lavoro come fonte di valore e ricchezza ma piuttosto un cambiamento profondo nella natura stessa del lavoro produttivo. Il sapere sociale generale è diventato una forza produttiva immediata, grazie soprattutto alla scolarizzazione di massa e all’emergere di un’intellettualità diffusa. Questo fenomeno, anticipato da Marx nei Grundrisse con il concetto di General Intellect, rappresenta una nuova forma egemonica di lavoro, sempre più intellettuale e immateriale. Tale trasformazione è il risultato dei movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 che hanno rivendicato il diritto al sapere e la sua indipendenza dalle logiche di accumulazione del capitale. Questi conflitti hanno portato a un prolungamento del tempo dedicato alla formazione e all’istruzione, con un conseguente aumento del capitale immateriale (educazione, ricerca, sanità) rispetto al capitale tangibile. A partire dagli anni ’70, infatti, lo stock di capitale immateriale ha superato quello di capitale tangibile, diventando oggi largamente dominante. L’economia contemporanea si basa sempre più sulla produzione, il trattamento e la diffusione delle conoscenze, dove la capacità di mobilitare in modo cooperativo il potenziale di lavoro intellettuale diventa cruciale per la crescita e la competitività. Questo cambiamento mette in discussione il modello smithiano della divisione del lavoro, tipico della prima rivoluzione industriale, e introduce una nuova divisione del lavoro basata su principi cognitivi. Le principali trasformazioni includono l’obsolescenza del lavoro astratto e intercambiabile, tipico del modello fordista, sostituito da un lavoro basato su conoscenze e competenze non codificabili. Inoltre, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione non è più la frazione più importante del tempo sociale di produzione mentre i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro si attenuano, rompendo ogni rapporto di proporzionalità tra remunerazione e lavoro individuale. La ricchezza delle nazioni si sposta sempre più a monte dell’attività delle imprese, nella società e nel sistema di formazione e ricerca, dove risiede la chiave della produttività e dello sviluppo della ricchezza sociale. Il deterioramento delle condizioni di lavoro e di remunerazione nel postfordismo non corrisponde alle esigenze di un’efficacia economica obiettiva. La flessibilità del lavoro ha distrutto il sistema di sicurezza del posto di lavoro tipico del compromesso fordista, creando una crescente insicurezza per i lavoratori. Nel capitalismo cognitivo, povertà e impiego non sono più statuti sociali antinomici, essi coesistono in una logica che tende a frenare le forze vive del sapere sociale produttivo di ricchezza. La questione teorica che si pone è se il reddito garantito possa diventare uno strumento per attenuare l’asimmetria monetaria che caratterizza il capitalismo, separando coloro che hanno accesso alla moneta attraverso il lavoro da coloro che vi accedono attraverso la rendita. La riflessione di Vercellone si sviluppa su due linee di ricerca principali. La prima riguarda una possibile riforma monetaria che avrebbe come obiettivo una distribuzione sociale dei redditi più indipendente dalle decisioni degli imprenditori, ricostruendo un nesso macroeconomico coerente tra crescita della massa salariale e incrementi della produttività. Questa riforma potrebbe indebolire l’asimmetria tra classi sociali nell’accesso alla moneta, avvicinandosi a una nuova formula secondo cui è la società nel suo insieme che “guadagna quello che spende”. La seconda linea di ricerca conduce a un’analisi alternativa dell’origine della ricchezza delle nazioni, riconoscendo il ruolo centrale del sapere nella creazione della ricchezza e proponendo una rilettura dei criteri di contabilità nazionale. Questo implica un cambiamento radicale e un allargamento del concetto di lavoro produttivo che integri il riconoscimento del ruolo motore del sapere e la remunerazione di attività che la teoria convenzionale considera non lavoro. Il reddito garantito viene proposto come un reddito primario basato su un salario sociale e una rendita collettiva, con fonti di finanziamento che riflettono queste due componenti. La prima componente del RSG, quindi, si fonda sull’idea di un salario sociale che riconosce il carattere produttivo di tutta la forza lavoro, non limitandosi al lavoro direttamente impiegato nel mercato. Questo approccio nasce dalla constatazione che i meccanismi sociali di incremento della produttività e dell’innovazione tecnologica sono sempre più legati a un contenuto immateriale e intellettuale della produzione. Tale trasformazione sfida i confini tradizionali tra lavoro produttivo e improduttivo, rendendo obsolete le categorie economiche convenzionali che separano la sfera di mercato da quella non di mercato. La cooperazione produttiva si sviluppa sempre più al di fuori del lavoro salariato, in un contesto in cui il sapere e il non-lavoro diventano fonti di esternalità e di progresso tecnico esogeno rispetto alle imprese. Questa evoluzione mette in discussione tre pilastri fondamentali della teoria del valore e della distribuzione: la teoria del valore basata sul prezzo di mercato, che non riesce a cogliere il ruolo produttivo della sfera non di mercato; la teoria del valore legata al tempo di lavoro immediato, che considera il lavoro diretto come unica fonte di valore e la teoria della distribuzione basata sul contributo marginale di ciascun fattore produttivo, che perde di significato in un sistema sempre più integrato e interdipendente. Il lavoro nel capitalismo cognitivo è sempre, almeno in parte, un lavoro sotterraneo, non riconosciuto e non remunerato, che contribuisce alla creazione di ricchezza ma non è contabilizzato nel sistema monetario. Questo lavoro sotterraneo, che include attività non retribuite come la formazione, la ricerca e altre forme di cooperazione sociale, rappresenta una dimensione produttiva vasta e cruciale spesso ignorata. Si tratta di un’economia non di mercato che, pur contribuendo alla creazione di valore, sfugge ai criteri tradizionali di misurazione e remunerazione. sLa legittimazione socioeconomica del RSG potrebbe basarsi proprio sul riconoscimento e sulla remunerazione di questa dinamica economica sotterranea. Vercellone risponde alle critiche etiche rivolte al diritto a un reddito garantito indipendente dall’occupazione sostenendo che la contropartita in lavoro esiste già però manca la contropartita in reddito. Infatti il lavoro non remunerato contribuisce già alla creazione di valore senza che ciò venga riconosciuto economicamente. Per approfondire questa prospettiva, Vercellone propone due vie di ricerca complementari. La prima consiste nella valutazione dell’impatto del lavoro sociale nascosto, non contabilizzato nel PIL, attraverso metodi come il calcolo di salari fittizi per le attività non mercantili. Questo approccio permetterebbe di riconoscere il ruolo cruciale delle attività non commerciali, come il lavoro domestico, la formazione e la ricerca non remunerata, e di legittimare socialmente il RSG. Integrare queste attività nel calcolo del PIL potrebbe dimostrare l’inadeguatezza dei criteri attuali che considerano solo il lavoro salariato come produttivo. Inoltre, il RSG potrebbe preservare l’autonomia della sfera non mercantile dalla colonizzazione del mercato, evitando che questa venga normalizzata o assorbita dalla logica del profitto.

La seconda pista di ricerca si concentra sull’elaborazione di indicatori per valutare le esternalità positive prodotte dall’economia non di mercato, in particolare legate al sapere e alla conoscenza. Il sapere, infatti, è un bene non esclusivo, non rivale e cumulativo, che genera benefici collettivi e contribuisce allo sviluppo delle forze produttive. La diffusione del sapere e la crescente importanza delle reti di cooperazione produttiva al di fuori del mercato rendono sempre più evidente l’impatto dell’economia non di mercato sulla produttività e sull’innovazione. Misurare queste esternalità potrebbe fornire una base solida per giustificare il finanziamento del RSG e per riconoscere il valore delle attività non mercantili. La seconda componente del RSG si fonda sull’idea di istituire una rendita sociale collettiva o un dividendo universale, basata sul principio che la ricchezza attuale non è frutto esclusivo del lavoro individuale perché deriva dall’interazione tra il lavoro presente e il patrimonio collettivo ereditato dalle generazioni precedenti. Questo patrimonio include risorse naturali, beni materiali (come infrastrutture e tecnologie) e beni immateriali (come conoscenze e cultura). La proposta si basa sul riconoscimento che la ricchezza è un prodotto sociale, frutto di una collaborazione storica e collettiva, e non può essere attribuita esclusivamente agli sforzi individuali. Un aspetto centrale del dibattito sul reddito garantito riguarda la sua natura, spesso paragonata a quella di un reddito derivante da proprietà immobiliari o da capitale finanziario. Per una parte della popolazione, infatti, il legame tra reddito e occupazione è già attenuato o addirittura assente, grazie alla detenzione di titoli di credito, proprietà o altre forme di rendita. Essa si rapporta al lavoro non come a una necessità imposta dalla costrizione monetaria ma come una scelta libera. Questa osservazione mette in luce una contraddizione logica negli argomenti di chi si oppone al reddito garantito per motivi morali o economici: la separazione tra reddito e lavoro salariato è già una realtà per una categoria privilegiata di persone, i cosiddetti rentiers. Estendere questo diritto a tutta la popolazione non significherebbe, quindi, creare una novità radicale. Si andrebbe, infatti, a democratizzare un privilegio già esistente. L’istituzione di una rendita sociale collettiva avrebbe l’effetto di ridistribuire questo diritto, permettendo a tutti di beneficiare di una quota della ricchezza sociale. Questo non comporterebbe, come temono alcuni, un abbandono generalizzato del lavoro perché favorirebbe la ricerca di nuove forme di attività liberamente scelte, più rispondenti alle aspirazioni individuali e alle esigenze della società. Inoltre, questa riforma rappresenterebbe un baluardo contro la logica dell’accumulazione capitalistica dominata dalla finanza e contro le pressioni dei mercati globalizzati che minacciano le conquiste del welfare state ottenute dai movimenti operai nel corso del XX secolo.

La proposta di una rendita sociale collettiva trova un importante riferimento teorico nelle riflessioni di John Maynard Keynes. Nei suoi scritti, come le Prospettive economiche per i nostri nipoti, Keynes immaginava un futuro in cui il progresso tecnologico avrebbe ridotto drasticamente la necessità di lavoro, portando a una società basata sull’abbondanza piuttosto che sulla scarsità. Prevedeva che la “disoccupazione tecnologica”, causata dall’automazione e dall’aumento della produttività, avrebbe rappresentato una sfida temporanea e un’opportunità per liberare l’umanità dalla costrizione del lavoro. Allora Keynes auspicava una riduzione delle ore lavorative (fino a 15 ore settimanali) e l’estensione a tutti di un reddito indipendente, simile a quello già goduto dai rentiers. Questa visione si allinea con l’idea di una rendita sociale collettiva che permetterebbe agli individui di dedicarsi ad attività creative, sociali o personali, liberandosi dalla necessità di lavorare per sopravvivere. Keynes, inoltre, sottolineava l’importanza di superare il potere oppressivo del capitale che deriva dalla sua scarsità avviando un processo di “eutanasia del rentier”, ovvero la fine del dominio di chi trae profitto dalla semplice detenzione di capitale. La rendita sociale collettiva rappresenterebbe un passo in questa direzione, sostituendo la rendita privata con un dividendo universale, accessibile a tutti i membri della società. Questo approccio non solo ridurrebbe le disuguaglianze poiché permetterebbe anche una maggiore libertà individuale, favorendo un individualismo positivo in cui le persone possano esercitare scelte autonome e creative. Per finanziare questa rendita sociale diverse proposte sono state avanzate. Una di queste è l’introduzione di una Tobin tax, un’imposta sulle transazioni finanziarie speculative, proposta dall’economista James Tobin nel 1978. Questa tassa, applicata a livello globale, potrebbe fornire risorse significative per istituire un fondo destinato al RSG. Un’altra proposta è quella di una Keynes tax, un’imposta sulle transazioni borsistiche, che avrebbe l’effetto di ridurre la speculazione finanziaria e di restituire al potere politico una maggiore capacità di regolazione dei mercati. L’associazione di queste due tasse garantirebbe il finanziamento della rendita sociale e contribuirebbe anche a ridurre l’instabilità dei mercati finanziari, favorendo investimenti a lungo termine. In una prospettiva più radicale, il finanziamento del RSG potrebbe ispirarsi alla proposta di Oskar Lange, economista marxista polacco degli anni ‘30, che suggeriva un dividendo sociale derivante dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Secondo Lange, il progresso tecnologico e la produttività sono frutto della cooperazione sociale e, pertanto, i benefici dovrebbero essere distribuiti equamente tra tutti i membri della società. Questo approccio rappresenterebbe una forma di socializzazione dell’economia alternativa alla nazionalizzazione, basata sul riconoscimento del diritto di ogni cittadino a una quota della ricchezza collettiva.

5. Il divenire rendita del profitto

Nel saggio Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto. Appunti sulla crisi sistemica del capitalismo cognitivo Vercellone si propone di offrire una lettura teorica della crisi del capitalismo partendo dalla tesi del “divenire rendita del profitto” e della crisi della legge del valore. Con il declino del modello fordista, il capitalismo ha subito una trasformazione radicale, caratterizzata da un prepotente ritorno e una moltiplicazione delle forme di rendita che ha capovolto i tradizionali rapporti tra rendita, salario e profitto. Questa evoluzione ha generato interpretazioni molto diverse, sia dal punto di vista teorico che politico. Un approccio diffuso tra le teorie marxiste, influenzato dall’economia politica ricardiana, considera la rendita come un residuo precapitalistico e un ostacolo all’accumulazione del capitale, sostenendo che il capitalismo “puro” sarebbe un capitalismo senza rendita. Questa visione, che sostituisce la rendita terriera con quella finanziaria, è stata utilizzata per interpretare la crisi sistemica scatenata dalla bolla dei subprime e dalla cartolarizzazione del credito che ha trasformato il credito in capitale fittizio. Secondo questa analisi, la crisi del 2007-2008 sarebbe il risultato del conflitto tra il capitalismo finanziario, orientato alla rendita, e il capitalismo produttivo, portatore di una logica di accumulazione favorevole alla crescita della produzione e dell’occupazione. Da questa interpretazione emerge la proposta di un compromesso neo-ricardiano tra lavoratori e capitale produttivo contro il potere della finanza, con l’obiettivo di ripristinare l’egemonia del capitalismo manageriale fordista e ristabilire la legge del valore basata sul tempo di lavoro come norma di distribuzione e misura del valore. Un simile compromesso dovrebbe permettere di ristabilire le condizioni di una crescita vicina al pieno impiego, in continuità con le modalità fordiste di organizzazione del lavoro e di regolazione del rapporto salariale. Questa interpretazione è considerata errata per quattro ragioni principali, strettamente connesse tra loro:  

  1. Errore sullo statuto della rendita: si sbaglia nel considerare la rendita come una categoria esterna alla dinamica del capitale, opposta al profitto. In realtà la rendita è intrinsecamente legata al funzionamento del capitalismo e non può essere semplicemente eliminata come un residuo precapitalistico.  
  2. Disconnessione dalle trasformazioni strutturali: la denuncia del ritorno della rendita e dei suoi effetti perversi è sconnessa dall’analisi delle trasformazioni profonde che hanno investito il rapporto capitale-lavoro dopo la crisi del fordismo. Queste trasformazioni sono legate alla crescente importanza del lavoro cognitivo e immateriale, di cui lo sviluppo dei servizi finanziari rappresenta solo un aspetto, sebbene il più oscuro.  
  3. Ignorare l’esaurimento della logica industriale: questa interpretazione omette l’importanza delle evoluzioni che hanno determinato l’esaurimento del ruolo egemonico della logica industriale dell’accumulazione di capitale, portando a una vocazione rentier e speculativa sempre più pronunciata dello stesso capitalismo produttivo.
  4. Sottovalutazione della pervasività della finanza: non si coglie la natura pervasiva della finanza che oggi si estende lungo l’intero ciclo economico, dalla produzione alla distribuzione e alla realizzazione del valore, coinvolgendo una moltitudine di soggetti sociali e agenti economici. Ciò rende sempre più difficile operare una distinzione chiara tra economia finanziaria ed economia reale.

La finanza, pur godendo di un’autonomia relativa e di un potere sistemico, non può essere considerata un’entità completamente separata dal capitale produttivo. Il suo potere si manifesta sia nelle fasi di crescita, quando si appropria di una parte esorbitante dei profitti, sia nelle fasi di crisi, quando la minaccia di trasformare una crisi locale in crisi globale le permette di ottenere concessioni incondizionate da parte delle banche centrali e dei governi. Insistere sulla finanza come un potere autonomo e quasi assoluto tende a far dimenticare la compenetrazione tra capitale finanziario e capitale produttivo, nonché le altre cause socioeconomiche alla base delle contraddizioni e della crisi della valorizzazione del capitale.

La crisi del 2007-2008 non è semplicemente una crisi finanziaria che si ripercuote sull’economia reale ma è il risultato di contraddizioni più profonde legate al capitalismo cognitivo. La crisi del 2000, legata al crollo del Nasdaq, ha segnato la fine delle illusioni della new economy e ha evidenziato i limiti del capitale nel sottomettere l’economia dell’immateriale e della conoscenza alla logica della mercificazione. Nonostante i tentativi di instaurare barriere economiche all’accesso e di rafforzare i diritti di proprietà intellettuale, il principio della gratuità e dell’autorganizzazione in rete continua a predominare. La crisi del 2007-2008 riflette l’incapacità del capitalismo di integrare l’economia della conoscenza in una dinamica di crescita progressiva, come dimostra il fallimento delle politiche economiche dell’era Bush, basate su bolle speculative e compressione salariale. La crescita economica degli anni 2004-07, ad esempio, è stata sostenuta quasi esclusivamente da una bolla speculativa nel settore immobiliare e finanziario mentre la compressione dei salari e l’esplosione delle disuguaglianze hanno spinto lo sviluppo abnorme del credito al consumo.

La finanziarizzazione e la crescita della rendita sono quindi conseguenze, non solo cause, delle contraddizioni globali interne al capitalismo cognitivo. La crisi non può essere ridotta a una semplice crisi finanziaria che coinvolge l’economia reale in un secondo momento. Al contrario, numerosi indicatori economici, sociali ed ecologici di una crisi globale erano già presenti prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2007-2008. Le difficoltà nello sviluppo mercantile dei settori della new economy, la crisi strisciante dell’industria automobilistica, l’indebitamento insostenibile delle famiglie e gli squilibri economici e finanziari internazionali sono tutti segnali di una crisi strutturale più profonda. Per usare le categorie della scuola della regolazione, la crisi del 2007-2008 non è solo una crisi del modo di regolazione finanziario del capitalismo cognitivo perché esprime una contraddizione strutturale tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione. Essa segnala l’inconciliabilità del capitalismo cognitivo con le condizioni sociali ed ecologiche necessarie per un’economia basata sulla conoscenza. La crisi della legge del valore si manifesta come una crisi della misura, la quale destabilizza le categorie fondamentali dell’economia politica, e come l’esaurimento della forza progressiva del capitale, sempre più parassitario. Il lavoro cognitivo, con i saperi incorporati nel lavoro vivo, ha sostituito il lavoro astratto come motore della produttività mentre il profitto e la rendita si basano sempre più su meccanismi di appropriazione del valore esterni all’organizzazione della produzione. La logica capitalistica della produzione, che nel capitalismo industriale favoriva lo sviluppo della ricchezza attraverso la riduzione dei costi e la soddisfazione dei bisogni, si è dissociata dalla creazione di valore. Oggi il capitalismo sopravvive attraverso la distruzione di risorse scarse e la creazione di scarsità artificiale, confondendo profitto e rendita. Questo non significa che il lavoro non sia più la fonte del valore ma che la legge del valore è diventata un involucro svuotato delle sue funzioni progressive. L’antagonismo tra capitale e lavoro si trasforma sempre più in un conflitto tra le istituzioni del comune, alla base di un’economia della conoscenza, e la logica di espropriazione del capitalismo cognitivo, che si esprime attraverso la rendita. Vercellone afferma che secondo Marx salario, rendita e profitto rappresentano le tre grandi categorie della distribuzione del reddito nel capitalismo, categorie che, come i rapporti capitalistici stessi, possiedono un carattere storico. Pertanto vanno analizzate le loro trasformazioni nel capitalismo contemporaneo a partire dal salario. Nel capitalismo esso rappresenta la remunerazione del lavoro produttivo, ovvero del lavoro che genera plusvalore. Questo plusvalore è alla base sia della formazione dei profitti che delle rendite. Marx sottolinea che il plusvalore non è semplicemente la somma del pluslavoro individuale di ciascun lavoratore perché esso include anche l’appropriazione gratuita del surplus generato dalla cooperazione sociale del lavoro. Si tratta di un aspetto fondamentale per ripensare il concetto di salario, di lavoro produttivo e di sfruttamento, soprattutto in un contesto in cui la cooperazione sociale è estesa all’intera società, organizzandosi in modo sempre più autonomo rispetto al capitale. Dopo il salario l’analisi si sposta sulle categorie che si appropriano del prodotto di questo pluslavoro: la rendita e il profitto. La rendita, in particolare, è un concetto teorico complesso, che può essere definito attraverso tre elementi chiave. Il primo riguarda la sua genesi ed essenza: la rendita capitalistica nasce da un processo di espropriazione delle condizioni sociali della produzione e della riproduzione. Un esempio storico è la formazione della rendita fondiaria moderna, legata alle enclosures, ovvero alla privatizzazione delle terre comuni che trasformò la terra e la forza lavoro in merci fittizie. Questo processo di espropriazione è strettamente connesso alla privatizzazione delle condizioni sociali della produzione, un fenomeno che si ripete in diverse fasi storiche del capitalismo, dalle prime enclosures basate sulla terra fino alle moderne enclosures basate sul sapere e sul vivente. Il secondo elemento che caratterizza la rendita è la sua relazione con la scarsità. La rendita è legata a risorse che, per natura o per artificio, sono disponibili in quantità limitata. Ciò permette ai proprietari di imporre prezzi più alti rispetto ai costi di produzione, sfruttando posizioni monopolistiche. Un esempio è il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale che crea una scarsità artificiale di conoscenza e permette di estrarre rendite. Il terzo elemento riguarda la rendita capitalistica. Essa, diversamente dalla rendita feudale, non svolge alcuna funzione produttiva. È un puro rapporto di distribuzione, un diritto di proprietà che permette di prelevare valore senza contribuire direttamente alla produzione. Questo la distingue dal profitto che invece è tradizionalmente visto come una categoria interna al processo produttivo. La distinzione tra rendita e profitto non è sempre netta. Marx, nel III libro del Capitale, introduce l’ipotesi del “capitale-rendita”, in cui la proprietà del capitale si separa dalla sua gestione, diventando un mero titolo di credito che preleva plusvalore senza partecipare attivamente alla produzione. Questa tendenza è accentuata nel capitalismo contemporaneo grazie al ruolo svolto dal sapere e dalla cooperazione sociale che rendono obsolete molte funzioni manageriali e accentuano il carattere parassitario del capitale. In particolare Marx anticipa che, con lo sviluppo delle forze produttive e l’emergere di una “intellettualità diffusa” (il cosiddetto General Intellect), le funzioni di coordinamento e direzione del capitale diventano superflue. Per questo motivo il profitto stesso tende a trasformarsi in rendita poiché il capitale non svolge più un ruolo attivo nella produzione, limitandosi a prelevare valore attraverso meccanismi di rarefazione e monopolio. Vercellone sostiene che nel capitalismo cognitivo la crisi della legge del valore, basata sul tempo di lavoro, e la riduzione del lavoro immediato necessario alla produzione, portano il capitale a sviluppare meccanismi rentier per mantenere i profitti. Ne consegue che il capitale diventa sempre più simile alla rendita, perdendo la sua funzione produttiva e trasformandosi in un mero strumento di appropriazione del valore. Questo passaggio viene indagato da Vercellone studiando la transizione dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo. Nel periodo fordista, successivo alla crisi del 1929 e nel dopoguerra, la rendita è stata progressivamente marginalizzata mentre il capitalismo industriale si è affermato come modello dominante, concentrandosi sulla creazione di plusvalore attraverso la produzione industriale. Questo processo è stato favorito da una serie di fattori istituzionali e sociali. In primo luogo, la regolamentazione dei mercati finanziari, l’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito e la gestione keynesiana dell’offerta di moneta hanno limitato il potere della proprietà patrimoniale, favorendo tassi di interesse reali bassi o negativi e un contesto inflazionistico. In secondo luogo, lo sviluppo del welfare state ha socializzato le condizioni di riproduzione della forza lavoro, sottraendo una parte crescente dei redditi alla logica di valorizzazione del capitale e alla finanza. In terzo luogo, l’organizzazione tayloristica e fordista del lavoro ha separato il lavoro di concetto da quello di esecuzione, favorendo l’ascesa di una tecnostruttura manageriale che ha relegato gli interessi degli azionisti e le forme non produttive di valorizzazione del capitale a un ruolo secondario. Infine, in un’epoca di accumulazione centrata sul capitale fisso, i diritti di proprietà intellettuale hanno avuto un ruolo marginale. In un simile contesto il conflitto principale si è concentrato tra salario e profitto, con la rendita relegata a un ruolo secondario, legato principalmente alla rendita immobiliare urbana. Con la crisi del modello fordista e l’avvento del capitalismo cognitivo, la rendita ha riconquistato un ruolo centrale confondendosi sempre più con il profitto. Questo cambiamento è stato guidato da due meccanismi principali. Il primo riguarda il ruolo centrale dei diritti di proprietà, come brevetti e azioni, e dei titoli di credito, come il debito pubblico, che permettono di prelevare valore senza partecipare direttamente alla produzione. Il secondo meccanismo consiste nella progressiva sostituzione del comando diretto sul processo di produzione con il comando sul mercato, attraverso posizioni di monopolio e l’intermediazione tra lavoro e mercato. Nel capitalismo cognitivo la competitività delle imprese dipende sempre più dalla capacità di catturare la rendita legata alla produttività differenziale dei territori, basata su risorse cognitive e sistemi di formazione e ricerca pubblica. La fonte del valore si è spostata dalla fabbrica alla cooperazione produttiva esterna alle imprese, con il lavoro vivo e la creatività come motori principali. Il controllo sul lavoro è diventato indiretto, basato su meccanismi come la precarietà, la prescrizione della soggettività e l’obbligo del risultato. La precarietà è diventata un elemento strutturale della regolazione neoliberale del lavoro cognitivo, nonostante i suoi effetti controproduttivi per l’economia della conoscenza. Le politiche monetarie e dei redditi hanno favorito l’indebitamento delle famiglie, creando una nuova fonte di plusvalore per il capitale e una soggettività dipendente dal credito. Questo ha portato a una situazione in cui il profitto si è trasformato in una forma di rendita, con le grandi imprese sempre più concentrate sulla loro architettura finanziaria piuttosto che sulla produzione diretta. La finanziarizzazione, quindi, è il risultato di una mutazione endogena delle strategie di valorizzazione del capitale che ha portato a un modello di profitto senza accumulazione di capitale, con una stagnazione degli investimenti produttivi. Se il capitalismo cognitivo si basa sulla valorizzazione del sapere e della creatività, esso entra in contraddizione con la logica di mercato. La conoscenza, come bene non rivale e cumulativo, sfugge ai criteri tradizionali di mercato, portando a una rarefazione artificiale delle risorse e a una crisi sistemica. La privatizzazione dei servizi collettivi del welfare e l’espropriazione del comune minacciano le basi stesse di un’economia fondata sulla conoscenza. Il futuro sarà caratterizzato da uno scontro tra la strategia neoliberale di espropriazione rentière del comune e un progetto di risocializzazione dell’economia basato sulla riappropriazione democratica delle istituzioni del welfare. L’aumento del debito pubblico e la concorrenza tra Stati porteranno a una maggiore pressione fiscale e a ulteriori tagli alla spesa pubblica, approfondendo il processo di espropriazione del comune.

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