Ringraziamo il professor Negri per la sua immensa disponibilità e tutti coloro che dal punto di vista umano e professionale hanno reso unico questo percorso di studi.
28 novembre 2020
1 luglio 2021
Introduzione
— Elia Pupil e Francesco Barbetta
I. Cosa possiamo premettere?
Siamo nel 1981, esce in italiano lo scritto L’anomalia selvaggia, potere e potenza in Spinoza, prossimo a stravolgere le relazioni tra Spinoza e Marx, studio già preconizzato nel suo Marx, oltre Marx del 1979. Le influenze erano chiare, si compiva un atto necessitato e si rispondeva ad una problematizzazione naturale tutt’oggi fertile di discussione: se il problema politico risulta sempre speculare ad un problema di ordine metafisico, allora è necessario rifondare ontologicamente il marxismo per sviluppare quella portata propulsiva pronta a rispondere ai problemi posti in essere, necessità allora mai intravista dalle ortodossie di partito. In questo senso l’utilizzo di Spinoza per sviluppare questo progetto divenne il coronamento di una serie di studi tipicamente francesi radicati nello spirito della Spinoza-Renaissance a cui Toni Negri, autore dei testi sovracitati, riuscì a dar seguito.
Il rifiorire degli studi su Spinoza, iniziato dall’opera incompleta di Desanti del 1956, si iniziava ad aprire al carattere prettamente accademico, allora monopolio kojeviano secondo cui “il sistema Spinozista, pretendendo di situarsi dal punto di vista dell’eternità, è l’incarnazione dell’assurdo”. Da quel momento il percorso si configurava come una tendenziale discesa in campo a favore di Spinoza.
Prima con Althusser, che usò Spinoza per muovere guerra contro l’umanesimo socialista del PCF, analizzando alcune caratteristiche del sistema che diverranno cardinali nello sviluppo di opere come Per Marx e che lo porteranno a Elementi di Autocritica e ad opere successive, in cui svilupperà lo studio sull’eterogeneità irriducibile degli infiniti attributi come studio della loro complessità strutturale. Tutto questo all’interno di una profonda comprensione dei modi di produzione delle idee in una teoria materialistica dell’ideologia. Poi fu la volta del ‘68 e di tre pubblicazioni che rinsaldarono in campo universitario la presenza degli studi spinoziani, fortemente influenzati anche da uno spinozismo politico che sottendeva ad una certa area marxista eterodossa: Individu et communauté chez Spinoza di Alexandre Matheron, Spinoza et le problema de l’espression di Gilles Deleuze e Spinoza di Martial Geroult.
La lettura di Matheron e Deleuze portò Negri a problematizzare la questione dell’esistenza di un primo e secondo Spinoza, nel segno di una rottura simboleggiata dalla brusca interruzione della stesura dell’Ethica a favore del Trattato Teologico-Politico. Tale interruzione si può dire fondamentalmente utile sia per interrogare l’opera spinoziana in merito al suo carattere sovversivo e radicalmente immanente, sia per introdurre, partendo proprio da Spinoza, questa serie di discussioni finalizzata a delucidare alcuni aspetti del percorso intellettuale del professor Negri, cercando di restituire al lettore la più completa panoramica sul suo pensiero.
II. Uno sguardo agli obiettivi
“Perché dunque mi sono occupato di Spinoza? Perché credo che il suo pensiero sia necessario a rifondare un’esistenza filosofica, un vivere politicamente da filosofi, strappando, come voleva Deleuze, la Bildung filosofica alla storia della filosofia. La storia della filosofia non è altro che apologia di una continuità metafisica del potere da Platone fino ad Heidegger”
(Riferimento alla discussione)
L’obiettivo dell’approccio di Negri a Spinoza si istituisce con uno scopo molto preciso: comprendere gli spazi e le modalità sul come possiamo vivere nel contemporaneo un’esperienza di democrazia radicale, come possiamo vagliare la possibilità di un governo della moltitudine che possa interpretare se stessa ed aprire ad un processo istituente del comune. Si possono trovare già evidenti correlazioni con le finalità che mossero sin dal TIE Spinoza: ricercare la dimensione pratica che subordina la pura ricerca speculativa della verità alla ricerca di un bene sommo e stabile che possa assecondare lo sforzo conativo dell’esistere.
Le leggi dell’appetito sono le reali determinazioni dei nostri pensieri.
Non diamo spinti verso qualcosa, non lo vogliamo, non l’appetiamo né desideriamo perché giudichiamo che sia buono; ma giudichiamo buono qualcosa perché siamo spinti verso di esso, lo vogliamo, lo appetiamo, lo desideriamo.
(Ethica III, prop 9 scolio)Dico che agiamo quando noi o fuori di noi avviene qualcosa di cui siamo causa adeguata, cioè quando dalla nostra natura segue in noi o fuori di noi qualcosa che può essere compreso chiaramente e distintamente per mezzo di essa soltanto.
(Ethica III, def 2)
Questo non vale a dire che si vuol rendere la ricerca veritativa dimensione accessoria della vita umana, bensì afferma come questa sia indispensabile all’individuazione del bene, essendo questa una funzione di fruizione dei dati dell’esperienza e di coscienza dell’unione che la mente ha col resto della natura, perciò indispensabile nel comprendere cosa può o meno un corpo, la sua forza ad esistere ovvero la sua potenza d’agire.
Per bene si intende ciò che sappiamo essere a noi utile, ovvero che ci avvicina alla nostra natura, per male invece consideriamo l’impedimento ad esser padroni di quel bene preciso.
La virtù è la potenza stessa, ossia la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha il potere di fare certe cose che si intendono solo in riferimento alle leggi della natura. La ragione esige che ognuno cerchi il proprio utile, ovvero che conduca l’uomo ad una maggiore perfezione, quindi che conduca ad una maggiore potenza d’esistere, pertanto il fondamento ultimo della virtù rimane il conatus. Ovvero rimane la determinazione dell’essenza modale quando il modo stesso passa all’esistenza e sussume all’interno del rapporto costitutivo (che corrisponde alla sua essenza quale grado di potenza) un’infinità di parti estensive.
Il conatus si esprime della determinazione del modo ad esistere: è lo sforzo “di aumentare o diminuire la potenza di esistere [e d’agire]” puntando a provare emozioni gioiose, ovvero incontri che riescano a far perdurare la propria durata aggregando e direzionando parti estensive sotto il proprio rapporto. Così facendo si introduce una particolare economia emozionale che possa sviluppare dallo stato del proprio rapporto un circuito compositivo virtuoso testimoniato dal vivere affetti positivi, ovvero non dati da incontri disgreganti. E più si perdura nel perseguire quella che è la propria potenza d’agire, più si cercano eventi gioiosi, più la propria potenza d’agire aumenta e, in maniera correlata, più il conatus continua a garantire un aumento di capacità di essere affetti.
L’affectio rinvia a uno stato del corpo affetto e implica una
presenza del corpo che determina l’affezione, mentre l’affectus
rinvia al passaggio da uno stato all’altro, tenuto conto della
variazione correlativa dei corpi affettanti. Vi è dunque una
differenza di natura fra le affezioni immagini o idee e gli
affetti sentimenti, benché gli affetti sentimenti, possano venir
presentati come un tipo particolare di idee o di affezioni:
“Per affetto intendo le affezioni del corpo, da cui la potenza di
agire di quel corpo medesimo è aumentata o diminuita, aiutata
o impedita…”,
“L’affetto che viene detto passività dell’animo, è un’idea
confusa con cui la mente afferma una forza di esistere del suo
corpo maggiore o minore di prima..”.
Certamente, l’affetto presuppone un’immagine o idea e ne
deriva in quanto sua propria causa. Ma questo affetto non si
riduce a un’idea, è di altra natura, essendo puramente
transitivo e non indicativo o rappresentativo, venendo
sperimentato in una durata vissuta includente la differenza fra
due stati.
(G.Deleuze, Spinoza: Filosofia Pratica)
Per Spinoza le passioni vanno convertite in azioni per accrescere la potenza d’agire del corpo e della nostra mente, ovvero ne va indagata la causa cercandone l’idea adeguata. Il desiderio si traduce qui come una determinazione cosciente ad agire; un’essenza non si muta qualitativamente in un’altra nel momento d’aumento della propria potenza d’agire, ma lascia concepire
la sua potenza di agire aumentata o ridotta, in quanto venga
intesa mediante la sua stessa natura
(Ethica IV, prefazione)
La conquista della virtù (ovvero della propria potenza d’agire, detta in poche parole, la conquista di ciò che può un corpo) non è altro che l’esercizio stesso della libertà come liberazione. Il bene supremo e la suprema virtù consisteranno nella stessa conoscenza di Dio. L’ontologia introduce all’etica: l’immanenza deve esser conquistata mediante un piano tracciato o costruito. Il carattere costruttivista del doppio etico-ontologico si oppone al carattere contemplativo tipico del pensiero speculativo, contro cui Spinoza formula un’ontologia che deve farsi e tracciarsi nel corso della vita, introducendo il lettore ad una filosofia pratica in cui non sappiamo mai cosa possa un corpo finchè non ne facciamo esperienza: il piano della natura non è un programma sviluppato teleologicamente da un Dio che sceglie il migliore degli universi possibili, ma è un piano di composizione in cui l’etica ritrova i contenuti dell’ontologia.
La mente, sia avendo idee chiare e distinte, sia avendo idee
confuse, è spinta a perseverare nel suo essere (volontà), ma per
conatus intendiamo anche il Desiderio (cupiditas). Dunque il
desiderio si riferisce a no i anche in quanto intendiamo, ossia in
quanto siamo attivi.
(Opere Complete, p. 953)
Tale ontologia apre quindi alla sfida della conoscenza e del come conoscere, che è perennemente una sfida di carattere pratico, che sottolinea ancora come l’uomo non sia spinto dalla verità a conoscere, ma dal suo essere ente desiderante e che la catena di idee ha un suo ordine specifico e si sviluppa secondo un processo completamente impersonale.
Negri agisce su un doppio binario impossibile da districare in merito alla gnoseologia/etica/ontologia del tracciamento spinoziana: radicalizzando l’immanentismo di Spinoza, egli riflette sui modi e sulle modalità degli individui singolari di produrre il reale, per cui
- Rivaluta il potere dell’immaginazione, il primo modo di conoscenza per Spinoza, bistrattato dagli interpreti come il modo imperfetto. Negri ne rintraccia invece il carattere affermativo.
- Apre all’impossibilità dell’esistenza di una potentia solitudinis a favore dell’accumulazione di singolarità desideranti verso la costituzione di una moltitudine che riesca completamente a limitare la presenza della potestas a favore della potentia, nonostante, come scrive in Spinoza e Noi, non sussista un rapporto antinomico tra i due termini ma estremamente caotico, aperto e sfuggente.
III. Spinoza: immagine, segno e pregiudizio
Distinguendo traccia da immagine, la prima è l’affezione lasciata in un corpo dal corpo afficiente, mentre la seconda è la rappresentazione di quel corpo che trascende i limiti temporali dell’affezione.
La traccia, ovvero il vestigium, pur avendo una connotazione corporea, tuttavia non costituisce un corpo: la traccia è una presenza che testimonia un’assenza e che forma la natura dei corpi. Se la traccia è la testimonianza, l’immaginazione è la rappresentazione di un corpo esterno percepito come presente: è una rappresenzazione non mentale di una relazione data nella presenza, è un effetto pratico concepibile che significa l’accaduto.
Ora, l’immagine ha bisogno di un senso che gli può unicamente dare l’interprete: in questo senso l’immaginazione viene definita da Spinoza come cognitio ex signis, l’oggetto dell’idea inadeguata è un segno. Più specificatamente, l’immaginazione tratta immagini e segni: le prime sono meno stabili e più duttili che i secondi (esistono adeguate interpretazioni semiofisiche che si rifanno al piccolo trattato di fisica dell’Ethica).
Specificamente le immagini sono le unità di base del segno, di cui questo ne fa sintesi e riflessione, mentre il segno è
“Sempre l’idea di un effetto colto nelle condizioni che lo separano dalle sue cause. Così l’effetto di un corpo sul nostro non è mai colto in rapporto all’essenza del nostro corpo e all’essenza del corpo esterno, ma in funzione di uno stato momentaneo della nostra costituzione variabile
[…]
(I segni) non si esplicano attraverso la nostra essenza (o potenza), ma indicano il nostro stato attuale e la nostra impotenza a sottrarci ad una traccia; non esprimono l’essenza del corpo esterno ma indicano la presenza di tale corpo e il suo effetto su noi. […] Queste idee si concatenano le une alle altre secondo un ordine (interpretativo) che è anzitutto quello della memoria o dell’abitudine. […]
Meno gli incontri (tra corpi) sono costanti e più l’immaginazione vacilla ed i segni sono equivoci.
[…]
(Il carattere indicativo dei segni fonda) un intero ordine dei segno convenzionali che fa capo al linguaggio, che si caratterizza per la sua equivocità, vale a dire attraverso la variabilità delle catene associative in cui tali indicazioni si inseriscono (II, 18, sc.).
[…]
(Tutti i segni) formano un linguaggio equivoco ed immaginario che si oppone al linguaggio naturale e filosofico fatto di espressioni univoche. ”
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia Pratica)
Come già detto però, da L’Anomalia Selvaggia si introduce tutta una tradizione di revisione e rivalutazione dell’elemento dell’immaginazione, sempre nel segno di una filosofia dell’affermazione e della produzione, che la salva dall’esser negativamente e unicamente accostata alla possibile dimensione erronea del carattere indicativo del segno.
L’immaginazione in Spinoza, infatti, diviene l’elemento minimo di una potenza produttiva capace di costruire alternative in vista di un futuro e di presiedere a strategie di liberazione.
“L’immaginazione in Spinoza, in quanto primo genere di conoscenza, è l’unica fonte di errore (E IIP40 Sch. II), perché rappresenta a noi le cose in modo mutilato e confuso e senza ordine per l’intelletto. L’immaginazione è quindi fonte di errore perché ha un legame privilegiato col corpo, rappresenta anzi le cose secondo un ordine che è quello fortuito delle affezioni del corpo. Ma in E II Ρ17 Sch. Spinoza dice che l’errore dell’immaginazione nasce se si è privi dell’idea che esclude l’esistenza dell’oggetto immaginato. Se ciò non avviene, l’immaginazione diventa una virtus..”
(Pastorelli, Francesco. “IMMAGINAZIONE E IMMAGINI. NOTE SU LEIBNIZ E SPINOZA IN MARGINE ALL’ESTETICA. Annali Della Scuola Normale Superiore Di Pisa. Classe Di Lettere e Filosofia, vol. 8, no. 1/2, 2003, pp. 83–98. JSTOR)
Fatta tale premessa, ciò che a noi ora interessa è che i segni sono realtà fisse, stabili, che riescono a portare un’abitudine al corpo, rappresentando una legge. Ovvero ci interessano i due modi suppletivi di considerazione del segno, ovvero la funzione imperativa, detta anche effetto di rivelazione carico di significato morale e la funzione interpretativa. Vediamo ora come tale differenza funzionale ha un doppio nell’ambito politico: la certezza del profeta si sviluppa attorno alla vividezza con cui questi immaginava le rivelazioni, queste accompagnate sempre da un segno per essere confermate e, per cautelarle da ulteriori dubbi, da un sovrappù di significato di valore morale, essendo loro nel bene e nel giusto. Il segno ad accompagnamento è un segno di funzione interpretativa, ovvero
Il segno è ciò che garantisce, dal di fuori di questa idea snaturata della causa (idea data da funzione imperativa)
[…]
Infatti la causa interpretata come legge morale (funzione imperativa del segno) abbisogna di una garanzia estrinseca che certifichi l’interpretazione e la pseudorivelazione.
[…]
Il profeta reclama dei segni conformi alle sue opinioni ed al suo carattere, per essere sicuro che gli ordini ed i divieti vengano veramente da Dio.
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia Pratica)
Se per Spinoza i pregiudizi si fondano sul mondo umano di immaginare schemi pre-comprensivi quali il finalismo, l’antropocentrismo ed il libero arbitrio, che impongono rispettivamente la valutazione in termini classificatori assoluti di un evento (segno estrinseco) e la sua valutazione morale, le superstizioni nascono dalla stessa introduzione del culto e dalla sua normativizzazione e codificazione nel rito, in modo tale di fissare un segno estrinseco in una posizione di assolutezza che gli cautela l’interpretazione privilegiata sul mondo e la garanzia della sussistenza del pregiudizio.
Ogni segno interpretativo o effetto di pregiudizio si da per rispondere ad un doppio problema:
- L’instabilità dell’animo umano, ovvero la continuità tra fluttuazione ed incertezza che dimostra come non esista una costituzione autonoma delle idee rispetto a quella degli affetti. Tale fluttuazione è il segno dell’impotenza umana, ed è in effetti un particolare affetto a far scatenare il bisogno di superstizione: la paura.
- La fortuna ha un carattere aleatorio
E la modalità di risposta rientra in quello che alcuni interpreti chiameranno “semiologia della paura” (cfr. Vinciguerra), ovvero funzioni signiche finalizzate alla creazione di miracoli e alla reiterazione di presagi per convalidare l’istituzione di un ordine.
“Non c’è niente di più efficace della superstizione per reggere più efficace della superstizione per reggere la moltitudine”
(Spinoza, Opere Complete, pp 429–430)
Gli ordini ed i divieti a cui la superstizione garantisce un segno estrinseco presuppongono quella differenza ontologica necessaria a giustificare l’esercizio gerarchico di veicolazione del sapere tipico del propheta quale interprete della volontà divina.
Di contro si presenta il propagator, veicolo di una rivelazione intellettuale esercitato democraticamente tra pari, che apre ad una complessa discussione in merito alla resa pubblica dello spazio di confronto liberi pensatori in relazione alle formazioni di potere che possano o meno consentire a questi la libertà d’esercizio.
“La parola legge significa ciò secondo cui ogni individuo o tutti
[…] agiscono s econdo una sola e medesima regola certa e
determinata. Tale regola dipende o dalla necessità della natura
o dalla decisione degli uomini”
(TTP cap.IV S.1)
In un primo senso si parla di lex, in un secondo di jus, molto simile al Mussen und Sollen di marxiana memoria. La seconda si giustifica nell’apparato della prima. Ma l’intendere tale rapporto, non da tutti perseguito, é ciò che il potere limita, dispone e sfrutta nella sua difficoltà al fine di promettere a chi segue il diritto astratto dal proprio contesto la beatitudine, la dannazione, il premio e la punizione. In realtà la non comprensione di questa relazione, che si correla alla comprensione di Spinoza di quell’idea intellettuale di Dio, spinge non a considerare la legge divina nella sua naturalità, razionalità ed universalità (contrariamente a chi la voleva dipendente ad una qualche rivelazione di un qualche racconto storico).
“Appunto, il più grave torto della teologia è quello di aver
trascurato e occultato la differenza di natura fra obbedire e
conoscere, di averci fatto prendere dei principi di obbedienza
per dei modelli di conoscenza”
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia Pratica)
Questo portò all’errore di Adamo che “non colse quella rivelazione [quella del frutto proibito] come verità eterna e necessaria, ma come una legge o un precetto da cui conseguiva un vantaggio” (TTP cap IV, S 9). Questo errore è quello più indicativo per introdurre la visione del segno imperativo:
Adamo interpreta l’effetto come un castigo e la causa come
una legge morale, cioè come una causa finale che preocede per
comando e divieto (lettera xix, a Blyenbergh). Adamo crede che
Dio gli faccia segno. E’ così che la morale compromette tutta la
nostra concezione della legge.
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia
Pratica)
IV. Spinoza precursore: produzione, comune e moltitudine
Fino dove è possibile allora parlare di libertà se ogni possibile segno può essere potenzialmente un rimando all’esercizio del potere? Ogni teologia si sviluppa in una strategia di carattere politico: l’analisi della funzione del profeta e della superstizione aprono ad una profonda riflessione in merito a questo sviluppo, riflessione che identifica tale passaggio come originario del potere stesso nell’analisi dell’origine morale della legge.
La stessa parola legge è talmente compromessa dalla sua origine morale che vi si scorge più un limite alla potenza che una regola di sviluppo.
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia Pratica)
Da ciò la profonda differenza tra potere e potenza che si approfondirà nella discussione.
“Uno dei punti fondamentali dell’Ethica è negare ogni potere (potestas) di Dio analogo a quello del tiranno
[…]
(L’identità tra potenza di comprendere, potenza di esistere, espressione e produzione in Dio porta ad affermare che) non vi è potestas ma solo potentia.”
(Gilles Deleuze, Spinoza Filosofia Pratica)
Spinoza rende la particolare equivalenza tra potenza e diritto, poiché il diritto di natura si estende sin dove si estende la potenza di natura.
“La potenza universale non é altro che tutto l’insieme degli individui”
(TTP cap XVI S 2)
Quindi per natura ogni individuo ha diritto parimenti la sua potenza, il che nei minimi termini esprime un diritto comune a tutti: preservare la propria potenza ad esistere, il proprio desiderio di conservazione. Noi, tra l’altro, sappiamo che la conoscenza si produce nella dinamica di fluttuazione stessa dell’affetto al fine di esercitare tale diritto, ed infatti:
“Nelle forme attive del desiderio e della gioia alla conoscenza adeguata viene riconosciuto un valore affettivo. Ora, tutte le azioni che seguono dagli affetti, che si riferiscono alla mente in quanto intende, fanno capo alla fortezza. Mentre fermezza (conservazione del proprio essere) e generosità (creazione di vincoli funzionali ad aiutare e supportare l’altro) si riferiscono specificatamente al riflesso della prima sull’utilità individuale specifica e su quella collettiva.”
(Lorenzo Vinciguerra, Spinoza, pag 174.)
Ricordandoci la definizione sopra data di utile ed utilità, ciò che consente il doppio binomio etica-ontologia, ciò che lega l’aumento della potenza d’agire e la conoscenza di Dio è la nozione di comune, ovvero l’idea di ciò che può convenire con la nostra natura secondo un reale accordo attraverso ciò che è, difatti, a noi comune.
Il comune in Spinoza assume un rapporto di derivazione con il concetto di nozione comune, tant’è che pure questo nella sua definizione non permette una sua associazione al puro campo speculativo. Per formulare questa novità in campo gnoseologico vengono invocati due autori specifici: Giusto Lipsio ed Euclide.
Spinoza prima riprende da Euclide come le nozioni comuni non possano per loro definizione essere contraddette poiché idee vere ed adeguate, poichè rifacentesi ad un ordine geometrico (e perciò costruttivo-necessitato). Poi si rifà a Lipsio quando costruisce l’altra faccia della nozione comune: il suo essere una regola pratica di relazione logico-etica, secondo cui le nozioni comuni non sono solo verità eterne ma dicono qualcosa del rapporto tra l’uomo e la sostanza dell’identificazione dei caratteri comuni. La nozione comune spinoziana quindi, più precisamente, è un’idea vera ed adeguata che ci definisce gli elementi comuni su cui indirizzarci nel mentre si svolge l’atto conoscitivo per comporre nuovi rapporti, al fine di organizzare una specifica economia degli incontri per identificare ciò che di comune si può comporre per aumentare la propria potenza d’agire, convertendo le proprie passioni in azioni.
Quella della nozione comune non è un’idea astratta che abbisogna di un segno estrinseco per esistere, è un’idea generale improntata sulla necessità di dare una geometria naturale ai rapporti tra cose esistenti, questo in una regressione e generalizzazione graduale che non disperda le proprietà dei modi relegandoli ad una classe logica che renda completamente contingente ogni loro caratteristica non richiesta, bensì rendendo conto dell’interiore e necessaria concordanza con gli altri modi esistenti: a questo punto il raggiungimento della conoscenza intuitiva del terzo grado di conoscenza si determina il superamento del limite intimo della nozione comune, ovvero il non riuscire a generare le essenze dei singoli modi, limitandosi a trattare solamente i rapporti necessari tra modi esistenti. Spinoza si apre al genetico, alla definizione produttiva delle modalità di generazione delle essenze singole: come Spinoza spiegerà prima a De Vries e poi a Tschirnaus, la migliore definizione vera ed adeguata è intrinseca, ovvero genera attraverso un metodo costruttivo l’essenza, la potenza di qualcosa. Tutto questo si regola attraverso la necessità di rendere univoca la definizione secondo un’intima equivalenza per la quale definire si identifica col produrre, e nel produrre si esprime e si comprende ciò che può un corpo.
“L’esercizio e la fruizione delle arti sono parti integranti dell’etica quale cura e sviluppo delle attitudini del corpo, quale funzione di tracciamento. In questo quadro è possibile pensare ad […] un’estetica del corpo”
(Lorenzo Vinciguerra, Spinoza, p.181 – a seguire altre citazioni)
Il senso affermativo, la proprietà positivo-produttiva della cosa esistente che viene espressa adeguatamente dal comune e dalla nozione comune viene applicata a tutti gli uomini, il cui “senso profondo ne conviene massimamente”. Ovvero, il comune apre al darsi di ciò che accumuna gli uomini che, sotto tal punto di vista, superano il loro assoggettamento alle passioni “per convenire necessariamente sempre” tra loro, “massimamente utili gli uni agli altri.” Coloro che esercitano la virtù fanno pertanto esercizio di un bene comune “di cui tutti possono godere senza discordia alcuna.”
“L’essenza di ogni singolo uomo porta con sé ciò che è comune a tutti e rende anche concepibile qualcosa come il bene comune ad ogni uomo. Come dalle nozioni comuni si ravvisano i fondamenti della ragione, così nel bene comune si mostrano i fondamenti dello Stato inteso come civitas.”
(Lorenzo Vinciguerra, Spinoza)
Il valore del precetto conosci te stesso “sarebbe destinato a rimanere astratto se non fosse suffragato dalla conoscenza adeguata dei nostri affetti a cui vengono addotte diverse tecniche di liberazione” (Vinciguerra, Spinoza, p.187), tecniche che fanno dell’Etica di Spinoza un esercizio di tracciamento del piano ontologico proiettato alla vita comune dell’uomo e sviluppato attraverso la resa produttiva del vero ed adeguato intesa come resa il cui assetto, divenuto da individuale a collettivo, risponde ad un esigenza preponderante di aumentare la propria potenza d’agire data dall’esercizio comune della virtù.
Abbiam capito che l’esercizio della virtù è il naturale sviluppo di una funzione aggregatrice (creazione della società) al fine di aprirsi ad un discorso veritativo complessivo e comune capace di assecondare l’atto conativo di un soggetto diventato soggetto politico. Sembra perciò che ci si ponga in una modalità completamente diversa rispetto agli altri giusnaturalisti rispetto lo stato di natura: questo non solo non sembra essere abbandonato ad un certo livello di evoluzione della civiltà, bensì sembra esso stesso l’artefice della creazione di un qualsiasi soggetto socializzato. Spinoza, si pone in piena antitesi con la tesi di Hobbes, per cui lo jus naturale si evoca come la libertà dell’uomo al di fuori degli ostacoli esterni posti a limitare la sua volontà. Al contrario in Spinoza l’esercizio della potenza si identifica proprio attraverso la limitatezza della potenza ad agire delle infinite parti sussunte nell’atto limitato (durevole) di esistenza del modo. Ovvero esiste una concezione diametricalmente opposta che esalta la natura limitata del modo contro l’arbitraria assenza di qualsiasi della volontà.
Il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo cosí diviene rapporto di identità. Perciò la libertà si estende quando il modo può esercitare la propria potenza in relazione al rapporto naturale di limitazione con tutti i suoi simili. La libertà é seguire la propria natura in una medesima struttura espressa secondo infinite modalità dell’essere: l’ordine e a connessione delle cose, nel capirle, apre il modo alla pratica di liberazione, ovvero di adeguazione al proprio ordine nella natura. Mentre un ordine artificiale e scevro dal proprio retroterra necessitato per natura potrà sempre aprire ad una condizione cogente e mai libera.
Secondo una lettera del 1674 scritta a Jarrig Jelles:
“per quanto concerne la politica, la differenza tra me e Hobbes […] consiste in questo: io lascio il diritto naturale integro e asserisco che in una città il potere sovrano ha piú diritto su esso solo nella misura in cui ne ha piú potere”.
Non esiste una soppressione del diritto naturale del singolo, ma la costituzione di una potenza maggiore al fine proprio di conservare il diritto all’autoconservazione dell’uomo, autoconservazione funzionale alla resa comune delle cose che l’uomo teme riguardo la finalità di mantenimento del proprio potere d’agire.
Il Trattato Politico eliminerá ogni possibile interpretazione di ordine contrattualistico.
Perciò, riassumendo come dalla potenza di esistere si passa al potere:
- Nello stato di natura il diritto é identico alla potenza
- Secondo la logica della potenza non é concepibile né giusto né ingiusto
- Affinché un’istanza si normativizzi come istituzione di legge deve essere necessario un trasferimento del diritto naturale a qualcuno (formazione del potere)
- La visione sul mondo si dà attraverso coloro che detengono il potere mediante la sua interpretazione.
- Tra interprete detentore del potere e legislatore non v’é differenza (vedasi figura di Mosé, che ripercorreremo nella discussione parlando della relazione tra modalità conoscitive e soggettivizzazione).
-
Il diritto naturale non può essere diritto di un solo individuo, proprio perché l’uomo, specie gregaria, costruisce le piú complesse strategie di comunicazione al fine di mantenere nell’ottica della specie la conservazione di un animale che, se abbandonasse il proprio grado di socialità (il che non vuol dire divenire asociale, poiché l’asociale é tale perché radicato nel suo essere sociale), sarebbe unicamente una scimmia nuda. Ribadiamo, non esiste una potentia solitudinis. E da ciò la costituzione della potenza maggiore sfocia nella teoresi democratica.
In risposta quindi alla domanda sulla libertà dell’individuo, si riesce a comprendere che solamente la rimodulazione degli affetti data da una una selezione collettiva di incontri riesce a liberare l’individuo dalla propria condizione coatta al fine di costruire un soggetto politico democratico. La costruzione di un soggetto politico, se per Hobbes é l’uscita dallo stato di natura mediante patto, per Spinoza é una funzione connaturata del diritto di natura. Ma quale soggetto politico?
Come per Machiavelli anche per Spinoza la durata (e la potenza d’esistere) dello stato come funzione di sopravvivenza della specie costituisce il vero problema da risolvere. Nel Trattato Politico si specifica nella stessa definizione di stato tal problema:
“Lo stato é la legittimità di diritto (di potenza) di una moltitudine, la stessa che presenta i requisiti necessari affinché qualsiasi forma di governo possa con essa accordarsi o meno.”
La risposta quindi si indirizza verso il termine che gode del diritto di essere soggetto politico, la moltitudine. Ma cos’è? Il termine moltitudo apre alla differenza e alla relazione, non é né un termine classificatorio né un termine capace di essere rappresentato per ipotiposi (come il leviatano di Hobbes): esso é l’insieme dinamico delle
“relazioni interindividuali e, per certi versi, transindividuali, che in modo immanente ne attraversano il corpo, benché questo sia instabile […] la moltitudine si propone come quella figura che permette di articolare il paradigma antropologico a quello politico di potere costituente”.
(Lorenzo Vinciguerra, Spinoza)
La filosofia di Negri e Hardt indica un percorso teorico capace di pensare nuove forme di organizzazione sociale proprio attraverso il concetto di moltitudine. Il sorgere della moltitudine non appare come l’antitesi dello sfruttamento capitalistico, ma come il desiderio di vita delle persone, un desiderio nel senso di poter esprimere la propria soggettività, la propria forza creativa, il proprio lavoro vivo e produttivo, il desiderio del comune. Nelle prossime due sezioni presenteremo le articolazioni di questi concetti di paternità spinoziana all’interno del pensiero di Toni Negri, in particolare come la commistione tra il pensiero operaista ed il pensiero francese possa esprimere la potenzialità più attuale di ciò verso cui fin’ora abbiamo voluto leggere con la sola ottica spinoziana.
V. Il concetto di Moltitudine
Rompendo con ogni rappresentazione, la moltitudine annulla anche ogni trascendenza espressa nella forma della sovranità e afferma un’immanenza totale e assoluta attraverso l’azione costruttiva del comune, ovvero la sua nuova costituzione, in cui le singolarità si ibridano nel corpo della moltitudine e fanno nuove esperienze biopolitiche, improntate al principio etico della cooperazione e della condivisione. È l’essere che emerge con tutto il suo potenziale, con tutto il suo desiderio mostrando la sua forza costituente.
È un nuovo pensiero che ci permette di comprendere gli assetti sociali contemporanei nell’era del controllo biopolitco. Alla fondazione dello Stato moderno, l’alternativa tra popolo e moltitudine era presente. Prevalse il concetto di popolo, ma oggi non è più sufficiente per esprimere la realtà. Il dibattito si riaccende intorno al concetto di moltitudine, che irrompe pienamente, reinventando una prassi del comune, una prassi che riunisce tutta la potenza del nuovo agente politico che si forma come costruzione di orizzonte, o come costruzione di senso in spazi svuotati dalla corruzione ontologica. L’azione politica della moltitudine è finalizzata alla costruzione del comune. Nell’era dell’egemonia della biopolitica, il comune diventa, a sua volta, il luogo della politica, al di là del privato e anche del pubblico, trascendendo queste due sfere. Ma questa teleologia acquista una caratteristica peculiare perché è sempre aperta. Uno scopo sempre in costruzione e libero da ogni determinismo. Fare politica o costruire il comune dipende, in questo senso, prettamente dall’azione orizzontale della moltitudine. In questo senso, il potere assoluto di azione della moltitudine, il potere di creazione e di espressione del lavoro vivo, è risvegliato da una forza più grande della morte. Si tratta di amore che genera nuove forme di vita nel terreno biopolitico, reinventando la politica stessa. Inoltre, l’intellettualità diffusa, che Marx mette in relazione con il lavoro immateriale, è la vera manifestazione del potere della moltitudine. Un lavoro cooperativo, creativo e produttivo di nuove forme di vita e soggettività, libero dalla rappresentanza e partecipe della costruzione del sociale e del politico. Ma, in fondo, che cos’è una moltitudine, questo concetto allo stesso tempo affascinante e intrigante, che Negri e Hardt propongono come concetto di un nuovo modo di vivere e di produzione di soggettività che rompe con ogni rappresentanza e intende generare nuovi orizzonti etici e politici, sforzandosi di costruire il comune, garantendo così una società più giusta e solidale? In Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, la moltitudine è definita nel seguente modo:
“Il termine moltitudine (…) designa un soggetto sociale attivo che agisce sulla base di cioò che le singolarità hanno in comune. La moltitudine è intrinsecamente differente, un soggetto sociale molteplice, la cui costituzione e le cui azioni non sono deducibili da alcuna unità o identità (più o meno differente), ma da quello che i soggetti che la compongono hanno in comune.”
(Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, con Michael Hardt, Milano, Rizzoli, 2004; pag.128)
Gli autori intendono per moltitudine un soggetto sociale che agisce in comunione con altri soggetti sociali, scambiando e condividendo esperienze, informazioni, affetti, mirando alla costruzione del comune. È, dunque, il nome di un’immanenza che irrompe nel terreno biopolitico, carica di potenza e di affetto. In questa immanenza, questo soggetto ha il potere di agire in comune ma mantenendo le differenze. La costituzione della moltitudine deve essere intesa nei termini della sua molteplicità di forme di vita.
La loro differenza non può essere ridotta all’uniformità, come nelle masse, oppure a un’identità comune. Non forma un’unità o un’identità, oppure la sua identità non si dissolve nel gruppo per formare l’identità del gruppo. Cessa di essere identità per diventare singolarità attraverso la cooperazione e la costruzione del comune. Ciò che viene evidenziato è, quindi, la comunanza che esiste tra loro attraverso la cooperazione e la comunicazione. E la cooperazione è il modo in cui la moltitudine si connette e acquista un corpo. L’agente politico, nella sua unicità, partecipa alla moltitudine senza essere un prodotto di se stesso. Quindi ogni corpo è una moltitudine, e quando si ibridano, diventano una forza mostruosa. Questo soggetto sociale attivo si presenta, quindi, come soggetto interessato alle sue azioni e al suo rapporto con gli altri per costruire una nuova società. Il concetto introduce tutti in un nuovo mondo all’interno della sovranità imperiale.
Coniugando desiderio e potenza, esprime il processo di ibridazione delle singolarità nella costituzione di un tessuto connettivo comune, facendo esprimere loro la potenza e il potere di creare e inventare nuovi modi di vita e convivialità in questa società segnata dallo sfruttamento capitalista.
Una delle caratteristiche principali della moltitudine, che la rende decisamente diversa dalle masse, è la questione del diverso. La singolarità non diventa come un’altra singolarità perché fa parte del movimento. Il movimento della moltitudine non crea identità e si impone a tutto il suo corpo, e tanto meno ogni singolarità sopprime le sue differenze e la propria identità per fare propria quella del movimento. Nessuno diventa uguale. Le differenze restano. Il contatto con l’altro, nella moltitudine, è proprio ciò che esalta le differenze nelle singolarità. È nella moltitudine che l’uomo perde la paura del contatto e acquista apprezzamento per lo stare insieme, per la collaborazione. A differenza delle masse, la paura del contatto è ciò che la moltitudine si propone di combattere. La moltitudine non è una massa, né può essere collocata sullo stesso piano di classificazione di un popolo. È il suo contrario. Il popolo è uno e, pur composto da più individui e identità, si riduce a una identità ed è rappresentato dal sovrano, che costituisce la negazione di ogni potere, poiché il contratto, il mutuo trasferimento del diritto , è la posta in gioco dei diritti, dal popolo al sovrano o al suo rappresentante costituendo solo un’unità. Per la fondazione dello Stato e la garanzia della sua libertà e dei suoi diritti, il popolo li trasferisce al sovrano per averli garantiti, ma in quel momento il potere della moltitudine viene assorbito dall’unità del popolo configurata nel potere sovrano. La moltitudine, al contrario, resta sempre molteplice e plurale e si rappresenta da sé. Non c’è nessun rappresentante della moltitudine, a differenza del popolo.
La molteplicità della moltitudine, come già detto, per Hobbes, può essere compresa solo nell’unità della rappresentazione, restringendo la comprensione stessa del concetto di moltitudine come il molteplice e il disorganizzato, privo di unità perché privo di rappresentazione, e in questo senso il concetto, così come è stato definito da Negri e Hardt, si allontana completamente dalla concezione contrattualistica. Il popolo è il frutto della sovranità, la moltitudine è la negazione della sovranità, o la rottura con ogni forma di rappresentanza. È impossibile quantificare le singolarità per “misurarle” e rappresentarle. La moltitudine sfugge alla misura. Ecco perché non forma un’unità come il popolo e non può essere rappresentata. Questo concetto può essere compreso solo dalle trasformazioni che la società capitalista sta attraversando, in particolare, attraverso l’emergere di nuove forme di lavoro, cioè il lavoro immateriale, presentandosi così come un limite nel rapporto tra capitale e sovranità, perché consiste nel pensare il lavoro come immateriale, arricchito da esperienze di condivisione e cooperazione.
Le singolarità che compongono il corpo della moltitudine agiscono nella società senza bisogno che qualcuno le rappresenti. Sono singolarità organizzate, in reti decentralizzate, seguendo lo stesso modello con cui il capitalismo opera nell’Impero, cioè attraverso reti, orizzontalmente, e in questo modo agisce producendo il comune. La moltitudine, quindi, non è né popolo né massa. Né può essere semplicemente confuso con la classe operaia, sebbene sia un concetto di classe. Racchiude ogni singolarità che lavora e lotta contro lo sfruttamento capitalista. Poiché il lavoro nell’Impero si basa sulla conoscenza cooperativa, comunicativa e di scambio affettivo, diventa immateriale e così la moltitudine incorpora tutti coloro che lavorano e producono, tutti coloro che vengono sfruttati attraverso le reti del capitale.
È un concetto molto più ampio rispetto alla classe operaia, perché racchiude tutte le singolarità che lavorano, producono beni e servizi, non solo quelle che sono impiegate nelle fabbriche ma anche tutte quelle che ne vengono scartate e si uniscono a una moltitudine di “superflui” che cooperano linguisticamente e affettivamente per produrre qualcosa e sopravvivere. In questo senso, il concetto di classe operaia oggi, alla luce dei modi di vivere contemporanei, immersi nello scenario biopolitico, non tiene più conto della realtà del mondo del lavoro, segnato dall’egemonia del lavoro immateriale (concetti che avremmo modo di definire meglio nelle prossime discussioni con Negri). Ai molti comunisti che hanno criticato queste analisi per la loro debolezza empirica, ad esempio affermando che i lavoratori non immateriali sarebbero esclusi, Negri risponde che quando si ragiona del rapporto tra biopolitica e sfruttamento si intende la messa a valore della vita nel suo insieme, il povero o il lavoratore materiale non possono rimanerne fuori. La moltitudine, insieme di singolarità, attraverso la cooperazione, diventa produttrice di una nuova soggettività, e diventa potenza costituente di un nuovo futuro.
VI. Da Spinoza a Marx: dal lavoro materiale al concetto di Comune
Dalle ultime parti possiamo quindi vedere un triplice legame inscindibile tra discorso veritativo, produzione e moltitudine, e questo è ciò che si può intravedere secoli dopo Spinoza nella nozione di General Intellect marxiana, a cui Negri fa seguire una nuova ed ispirata formulazione, tipicamente di tradizione operaista, proiettandola nella sfera odierna in una speculazione andante dal lavoro immateriale sino al rinnovato concetto di Comune.
A partire dal saggio del 1991 “Travail immaterial et subjectivite” pubblicato su Futur Antérieur n. 6 da Lazzarato e Negri, si afferma che il lavoro immateriale tende a diventare egemonico, in modo del tutto esplicito. Seguendo il metodo marxiano, come per il concetto di Impero che verrà tratto nella quarta discussione, il lavoro immateriale viene presentato come una tendenza all’egemonia. La mancata comprensione dell’importanza della nozione di tendenza nel lavoro di Negri può essere fonte di critiche semplicistiche, come il fatto che sostenga la scomparsa del lavoro materiale o industriale o che la sua lettura sia macchiata da eurocentrismo. La nozione di lavoro immateriale come tendenza significa due cose, forse ancora non del tutto chiare nel 1991, ma che saranno sviluppate ampiamente nei testi successivi di Negri: si tratta di qualcosa in costituzione, in movimento e viene ad affermarsi una tendenza non solo di ciò che viene immediatamente identificato come lavoro immateriale stricto sensu ma una logica che si applica a tutte le forme di lavoro “precedenti”.
In questo modo, il lavoro produttivo di tipo fordista viene “trascinato” dalla logica del lavoro immateriale e comunicativo, poiché l’elemento principale della valorizzazione non è il tempo di lavoro impiegato per la produzione materiale ma il fardello “immateriale” posto sulla produzione del suo significato e sulle forme di vita con cui lavorerà.
Il lavoro immateriale non rappresenta la fine del lavoro o la fine della centralità del lavoro. Di più: la tesi della tendenza al lavoro immateriale non implica la fine del lavoro materiale o industriale. Negri e Hardt affermano addirittura, in più di un’occasione, che il numero dei lavoratori materiali (nell’industria e nell’agricoltura) è aumentato o, almeno, non è diminuito. Tuttavia,
“quando i marxisti ortodossi ribadiscono che il numero degli operai della grande industria non è diminuito e che dunque il lavoro operaio e il sistema di fabbrica restano ancor oggi il nucleo centrale dell’analisi marxista, dobbiamo ricordare loro il metodo marxiano della tendenza storica. I numeri contano certamente molto, ma è più importante saper cogliere la direzione di marcia del presente per distinguere i semi che germoglieranno da quelli che deperiranno. Il grande tentativo di Marx alla metà del XIX secolo fu quello di interpretare la tendenza e di proiettare lo sviluppo del capitale – che allora viveva negli anni della propria infanzia – come una forma sociale integrale.”
(Moltitudine, pag.177)
Negri è d’accordo con Marx quando, nei Grundrisse, afferma che in tutte le forme di società, è una certa produzione e le sue relazioni corrispondenti che stabiliscono la posizione e l’influenza di altre produzioni e le loro rispettive relazioni. La tendenza all’egemonia dell’immateriale, quindi, implica una trasformazione del lavoro, anche materiale, che resta centrale perché totalmente diverso. È quindi evidente che il contesto della sussunzione reale non è un mondo post-lavoro o una formazione economico-sociale in cui il lavoro diventa “democratico” o “libero”. Tuttavia non si tratta neanche di piangere per la fine dei “bei tempi andati”, difendendo l’idea che nel passato recente sussitevano condizioni di vita migliori.
Come affermano Negri e Hardt:
Così come in quel periodo l’agricoltura fu costretta a industrializzarsi e ad adottare i metodi meccanici e automatici dell’industria, ad adeguarsi ai rapporti salariali, ai regimi di proprietà, e alla giornata lavorativa, allo stesso modo ora l’industria sta diventando biopolitica, sta cioè integrando in modo massiccio le reti della comunicazione, i circuiti intellettuali e culturali, la produzione di immagini e degli affetti. L’industria e insieme a quest’ultima tutti i settori produttivi saranno progressivamente costretti a obbedire al Tableau économique del comune.
(Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.287)
La forma di produzione capitalista tende a inghiottire tutta la vita e, quindi, tutto il lavoro (formale o informale, “produttivo” o “improduttivo”) nei suoi circuiti. Il paradigma del lavoro immateriale (la sua egemonia) prende la sua forma ei suoi contenuti di valorizzazione da altre forme di lavoro, così come l’industria ha fatto e fa con l’agricoltura e, questo è il punto, in modo più intenso, poiché l’immaterializzazione offusca i confini tra lavoro e vita, tra lavoro improduttivo, riproduttivo e produttivo. L’egemonia del lavoro immateriale ha la capacità di guidare forme di lavoro “non immateriali” attraverso la sua logica. La stessa distinzione tra lavoro immateriale e lavoro materiale si dissolve, poiché entrambi partecipano ai circuiti della “bioproduzione”, in cui il capitale estrae valore dalla propria produttività diffusa. Gli stessi Negri e Hardt si spingono fino ad affermare che, man mano che la vita stessa diventa produttiva, il termine “lavoro biopolitico” diventerà un concetto migliore per descrivere il “lavoro immateriale”. Sebbene tutto ciò sia difficile da comprendere empiricamente (per la sociologia o l’economia tradizionali, ad esempio), la tesi del lavoro biopolitico afferma che l’astrazione della valorizzazione capitalista (in forma finanziaria e/o virtuale) ha raggiunto un livello così alto che tende a estrarre valore dalla vita stessa. Come afferma Negri, il passaggio alla sussunzione reale è il passaggio a un livello ancora più elevato di astrazione del lavoro. Lo stesso processo analizzato da Marx nel Capitale, che ha portato, con lo sviluppo dell’industria, diverse forme di lavoro concreto, come quella del lavoratore dell’industria automobilistica, calzaturiera e chimica, a pari merito in termini di uguaglianza astratta, raggiunge un altro grado. Ciò che produce valore per il capitale è il lavoro astratto, oltre alle sue differenziazioni concrete: ciò che Negri chiama, seguendo Marx, astrazione reale o astrazione razionale:
“un’astrazione razionale, come la definisce Marx, che risulta però assai più concreta e fondamentale di qualsiasi riferimento al lavoro individuale.”
(Moltitudine, pag.180)
Tuttavia, affermare semplicemente l’esistenza nel capitalismo contemporaneo di una strategia volta a racchiudere forme di lavoro diverse ed eterogenee nella stessa soggettività non sembra sufficiente. E non lo è. Per questo motivo, Negri e Hardt, dopo gli sviluppi sul lavoro immateriale a partire da Impero, stanno lavorando sempre più sul concetto di Comune. La nozione del divenire comune del lavoro appare, quindi, come un concetto per sovradeterminare le articolazioni del lavoro immateriale, nonché delle lotte che ne derivano.
Il concetto di comune appare già in Moltitudine attraverso la nozione di divenire comune del lavoro, Le diverse forme di lavoro, propriamente materiali o immateriali, rimangono eterogenee e specifiche, ma si costituiscono attraverso la comunicazione, in comune, e hanno aspetti comuni. Comune, quindi, non è un concetto che cancella le differenze, ma le mette in comunicazione. Gli sviluppi sulla sussunzione reale indicano già la costituzione del comune.
La produzione socialmente diffusa, per l’ambito della vita stessa, colloca le singolarità produttive, o lavoratori bioproduttivi (formali o informali, salariati o meno), in una rete produttiva e comunicativa che si pone autonomamente in relazione al capitale e al potere, una produzione che si dà già in comune. Nello stesso senso, il prodotto di questa produzione, in autonomia e attraverso la rete, è un’espansione del comune stesso, una produzione del comune. È in questo senso che Negri afferma il “comune come modo di produzione”.
La produzione diffusa e socializzata, con l’informatizzazione generalizzata e il processo del divenire-lavoro della vita stessa, e con la crescente centralità della produzione della soggettività e dei modi di vita per il processo di valorizzazione del capitale, pone ciò che gli autori chiamano comune come l’elemento centrale della produzione contemporanea. Pertanto, è attraverso la diffusione del lavoro sociale che si creano le condizioni per la riproduzione e la produzione del lavoro sociale stesso. Questo processo è chiaro con la questione del lavoro cognitivo, in cui la rete di innumerevoli singolarità coinvolte nei processi di produzione cognitiva sparsi in tutto il mondo finisce per produrre un’enorme quantità di conoscenza. Questa conoscenza, a sua volta, viene rimessa in circolo nelle reti produttive, principalmente, attraverso le reti virtuali (internet), in modo legale o illegale, a pagamento o in maniera gratuita. Nei social network avviene un processo simile, anche se in maniera meno formale e non necessariamente professionale. Il comune, tuttavia, non coinvolge solo il lavoro cognitivo, ma tutto il lavoro coinvolto nelle reti comunicative e cooperative della produzione socializzata e globalizzata. Il comune è contemporaneamente la fonte e il prodotto della cooperazione, il luogo della composizione del lavoro vivo e del suo processo di autonomia, il piano di produzione della soggettività e della ricchezza sociale. Ciò che è comune è sia la “base” su cui è posta la produzione e il prodotto di quella stessa produzione. Questa “circolarità”, tuttavia, ha il movimento di una spirale espansiva, poiché in ogni “momento della produzione” (le virgolette sono giustificate perché questa separazione in momenti è solo analitica), ciò che costituisce il comune, il corpo comune creato dal lavoro vivo, si arricchisce, si accresce. Come affermato da Negri e Hardt, esiste “un circolo virtuoso che conduce dall’attualità del comune a una nuova costituzione del comune, il quale rappresenterà, a sua volta, la base di un’ulteriore espansione della produzione.” (Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.151)
In questo senso il comune è più degli elementi di uso comune ma è il modo di produzione e di espansione dei “beni comuni”. In questa produzione e riproduzione, però, ciò che è centrale non sono esattamente i “beni comuni”, ma il modo di produzione che pone, attraverso l’egemonia dell’immateriale, la produzione stessa delle soggettività come fonte di valore e come momento di produzione socializzata. Ciò che è comune è il lavoro stesso e la produzione stessa delle forme di vita, in quanto il comune è mobilitato dalle e nelle soggettività produttive che lo compongono, costituendo un processo che è allo stesso tempo “una produzione di soggettività attraverso il comune o come produzione del comune attraverso la produzione di soggettività.” (Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.299)
Il concetto di comune ci dà una determinazione in più al concetto di moltitudine, poiché la moltitudine è allo stesso tempo la molteplicità delle singolarità che, comunicando e cooperando, (ri) producono il comune e vengono (ri) prodotte nel comune. Il comune, come la moltitudine, non va inteso come la cancellazione delle singolarità, ma come la costituzione del lavoro comune, della comunicazione tra di loro: la moltitudine non è né un incontro di identità, né una pura esaltazione delle differenze, ma è il riconoscimento che, dietro identità e differenze, può esserci “qualcosa di comune”, cioè “il comune”, ogni qualvolta è inteso come proliferazione di diverse attività creative, relazioni o forme associative.
Ciò che è comune è il modo di produzione in cui le singolarità produttive che compongono la moltitudine entrano in comunicazione e cooperano; questa cooperazione è ciò che rende possibile la produzione di singolarità a un livello sempre più socializzato. Alla fine di questo processo, come nell’espansione di una spirale, il comune si arricchisce e contemporaneamente arricchisce le singolarità produttive. In questa logica, “il comune e le singolarità non solo sono compatibili, ma reciprocamente costitutivi.” (Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.130)
La tendenza della produzione biopolitica è quella di allontanarsi dal controllo diretto del capitale: mentre il lavoro lascia la fabbrica e investe la città, la società e la vita, la produzione socializzata passa attraverso innumerevoli processi che non vengono avviati dal capitale. Il comando capitalista sulla produzione tende a diventare più distante e diffuso, poiché la produzione guadagna una certa autonomia e la produttività della forza lavoro riesce sempre più a superare i limiti stabiliti nel suo impiego dal capitale. Questa autonomia è il comune come modo di produzione.
Il comune come modo di produzione, ovviamente, non è un modo di produzione libero dallo sfruttamento. Sebbene il comune sia autonomo rispetto al capitale, il capitale lo sfrutta, si articola come un parassita della sua produzione. Questo sfruttamento, tuttavia, non è più lo stesso di quello che ha avuto luogo durante il periodo di sussunzione formale, lavoro industriale, salariato e formale. Lo sfruttamento del lavoro consisteva nel misurare il valore attraverso la separazione tra il tempo di lavoro necessario e il plusvalore. Questa misura entra in crisi quando si tratta della sussunzione reale, quella che gli operaisti chiamano crisi della legge del valore. Per Carlo Vercellone, economista allineato alla tradizione operaista, questa crisi si presenta soprattutto come una crisi dell’unità di misura dell’attuale metrica che destabilizza il significato stesso delle categorie fondamentali dell’economia politica: il lavoro, capitale e il valore. Se prima il plusvalore era estratto nello sfruttamento della forza lavoro in un regime formale, localizzato e misurato, quando la produzione deve essere comune, il valore capitalistico verrà estratto da questa produzione diffusa.
Con la crisi della legge o la misurazione del valore, il valore capitalistico cambia natura. Per Negri, la nozione stessa di sfruttamento si trasforma perché se il valore è creato dalla produzione comune, è evidente che la teoria marxista deve essere modificata. Lo sfruttamento dovrebbe significare, infatti, l’appropriazione di una parte o di tutto il valore che è stato costruito in comune. L’estrazione di valore dal lavoro al capitale, l’accumulazione capitalistica, nella misura in cui il capitale è esternalizzato in relazione al processo di produzione, assume la forma di espropriazione del comune. In questo sfruttamento per esproprio vengono trasposti e trasformati i concetti che definivano lo sfruttamento nel contesto della sussunzione formale, cioè quelli del tempo di lavoro necessario e del pluslavoro. La citazione è lunga, ma è giustificata dal suo potere sintetico: il lavoro necessario deve essere considerato quello che produce il comune, perché nel comune si integra il valore necessario per la riproduzione sociale
“se il lavoro necessario è incorporato nelle reti della riproduzione sociale, di conseguenza, occorre intendere il plusvalore e il pluslavoro come forme della cooperazione sociale ed elementi del comune appropriati dal capitale.”
(Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.289)
Oltre all’espansione propria del comune, attraverso il suo ciclo produttivo, il capitale espropria il “pluslavoro”. Questo surplus che va al capitale, però, invece di aumentare la ricchezza e il potere produttivo del comune stesso, viene appropriato privatamente dalle mani capitaliste, che, nello stesso movimento, limita l’espansione del comune e arricchisce il capitale. L’espropriazione del comune non è la fine del comune, poiché il capitale dipende da esso per continuare il suo processo di valorizzazione, ma ne è una corruzione. Ma dopotutto, come fa il capitale a espropriare il valore prodotto in comune e in comune? La finanziarizzazione è il suo meccanismo principale.
Per Vercellone, tutto accade come se il movimento per l’autonomia della cooperazione lavorativa corrispondesse a un movimento parallelo per l’autonomia del capitale. Questo processo di autonomizzazione trova un terreno ideale nella finanza, poiché è “lo strumento capitalistico più adeguato per l’espropriazione dall’esterno, e in una condizione di astrazione radicale dai processi produttivi, della ricchezza comune.” (Comune: oltre il privato e il pubblico, pag.162-163)
Vercellone dedica il testo “Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto. Appunti sulla crisi sistemica del capitalismo cognitivo” a mostrare come la finanza diventi la principale forma di sfruttamento e accumulazione capitalistica dopo la crisi della legge del valore: poiché la misura del valore nella giornata lavorativa era il criterio dello sfruttamento sotto forma di profitto, con la sua crisi del capitale ha bisogno di trovare altre forme di esproprio. Il reddito, o rentismo, è la forma egemonica dell’accumulazione capitalistica di fronte alla produzione autonoma del comune.
Mentre il profitto viene ricavato dallo sfruttamento del lavoro formale e dall’estrazione di maggior valore, il reddito viene dato in modo capillare e attraverso diversi circuiti, non direttamente legati al lavoro formale, attraverso le valutazioni di borsa e la diffusione del debito e quindi dell’interesse.
Andrea Fumagalli chiarisce che, in considerazione della costante necessità di aumentare la ricchezza mondiale diretta ai mercati finanziari, il capitale agisce in due modi: un aumento esponenziale del numero di persone indebitate e dei rapporti di debito e credito (condizione estensiva) e una costruzione di nuovi strumenti finanziari che si nutrono degli scambi finanziari esistenti.
Questa espansione del mercato finanziario, tuttavia, non è casuale: è piuttosto il modo in cui il capitale ha dovuto cercare di mantenere, anche se trasformato, il suo processo di accumulazione, dato che la legge di misurazione del valore è diventata inefficace. Non a caso abbiamo assistito, negli ultimi decenni, ad un aumento esponenziale della finanziarizzazione e dei rapporti di debito e credito. Secondo Vercellone, il boom del credito, accelerato dal 2002 negli USA, ad esempio, ha una triplice funzione: porre rimedio alla stagnazione dei consumi con il credito, fornire al capitale, attraverso l’accumulo di interessi a carico delle famiglie, una nuova fonte indiretta di cattura del plusvalore e creare, attraverso un indebitamento generalizzato, una soggettività dipendente e conforme al dominio capitalista. In questo senso, assumendo un aspetto ricorrente nell’opera di Negri, ovvero l’inestricabilità tra comando e sfruttamento, la diffusione dello sfruttamento attraverso l’indebitamento non è solo una forma indiretta di sfruttamento del lavoro, ma una forma di comando e potere sulle soggettività produttive, sui lavoratori.
Parte I: Potenza e Potere
— Toni Negri, Elia Pupil e Francesco Barbetta
PUPIL: Parliamo proprio di Baruch Spinoza. Questa domanda in realtà verrà sviluppata in più step; intanto un’introduzione al lettore. Siamo nel 1981, esce in italiano lo scritto L’anomalia selvaggia, potere e potenza in Spinoza, prossimo a stravolgere le relazioni tra Spinoza e Marx, già messe in discussione da autori come Althusser, Macherey e Giancotti, per molti interpreti già studio preconizzato nel suo Marx, oltre Marx del 1979; già Marx cita spesso Spinoza nei Quaderni del 1840-1841, gli Exzerpte berlinesi…
NEGRI: Li commenta proprio! C’è un’edizione ottima di Bongiovanni con l’introduzione di Alexandre Matheron, grande interprete di Spinoza e padre di François che ha pubblicato l’Althusser inedito. Questi quaderni a commento sono importanti nello sviluppo del pensiero marxiano.
PUPIL: Assolutamente, ma le dico: il mio dubbio principale è che in questi scritti solitamente Marx tenta di evitare immediatamente l’Ethica e le costruzioni che seguono più un’ontologia naturalistica, focalizzandosi sul Trattato Teologico-Politico, sempre in relazione alla sua tesi di laurea su Democrito ed Epicuro. Eppure, tutta la produzione scritta marxiana è pervasa da continui echi riferiti a Spinoza, in particolare in relazione ad argomenti dell’Etica che vennero capiti solo negli anni ‘60 del Novecento. Sembra davvero che Marx abbia capito qualcosa di Spinoza in maniera davvero originale, penso a come dietro certi vocaboli hegeliani si nascondono definizioni molto più originali di ciò che si crede. Ho in mente il termine con cui Marx connota la classe operaia nell’Ideologia Tedesca, negazione assoluta che comporta sempre qualcosa di affermativo e costruttivo nei confronti del soggetto politico, uno soggetto che si costruisce da sè. Secondo lei è possibile che Marx avesse compreso alcune particolarità della filosofia di Spinoza, inconsciamente facendosele proprie? Sembra che ci sia un fil rouge che colleghi Machiavelli, Spinoza, Marx, nonostante in quest’ultimo si rifiuti, forse per il clima culturale dell’epoca, di concedere a Spinoza la paternità sovversiva del concetto di piano d’immanenza assoluto.
NEGRI: Sono molto d’accordo con ciò che dici. Forse da un punto di vista filologico sarei più prudente: le terminologie sono tipiche del “giovane hegeliano”, ma – riconosciuto questo – nulla toglie che ci sia dietro un’ontologia materialista produttiva e creativa. Personalmente, credo di aver molto più imparato sullo spinozismo di Marx frequentando gli operai che leggendo la storia della filosofia, e credo che pure Marx frequentando gli operai renani o di Bruxelles potesse provare inconsciamente quell’imprinting spinozista.
PUPIL: La lettura di Matheron e Deleuze la portò a problematizzare la questione di un primo e secondo Spinoza, nel segno di una rottura per lei simboleggiata dalla brusca interruzione della stesura dell’Ethica a favore del Trattato Teologico-Politico. A fronte di tale analisi lei pose la differenza, centrale nei suoi testi, tra potenza e potere, evidenziando come Spinoza rompe con la possibilità di mediazione politica nel campo del potere (inteso come potestas, Macht sino al più incisivo Gewalt) a favore della potenza come pensiero di composizione, tracciamento, costituzione selvaggia e radicalmente immanente. In merito a questo particolare rapporto, ci piacerebbe che il lettore potesse avere delucidazioni rispetto il seguente punto: come incide il significato di “potenza” all’interno del discorso politico, se per potenza si intende quel carattere puramente produttivo, tracciante il piano di immanenza, tipicamente assegnatogli nello studio dello statuto di quella definizione “vera ed adeguata”, perciò “potente”, da ricercare anche nelle lettere a De Vries e a Tschirnhaus dello stesso Spinoza?
Scrissi L’anomalia selvaggia quando ero in prigione: scrissi questo libro in un contesto affatto diverso da quello che voi potrete mai immaginare. Non è perché sono andato in Francia e mi sono, ironicamente, abbeverato nelle acque della Senna che volli mantenere una linea di continuità con Matheron, Geroult, Macherey e i grandi del circuito spinoziano. La motivazione che mi fece scrivere l’opera su Spinoza fu estremamente più tangibile e politica: stava nella mia carcerazione, ed era legata alla battaglia politica di quel periodo.
Ero in galera in quanto autonomo che considerava le lotte rivoluzionarie nascere e qualificarsi dall’interno della lotta di classe. Ciò avveniva in un quadro nuovo – laddove cioè il comando capitalista si era ormai definito in termini sociali, e lo sfruttamento si esercitava su un soggetto sociale, su un operaio socializzato, capace di esprimere livelli di intellettualità, di autocoscienza, e di autovalorizzazione sempre più alti. In questi termini ho scavato la potentia spinoziana – contro la potestas padronale e statale.
Ovviamente questa visione cozzava con la rappresentazione della politica che era tradizionalmente insegnata. I miei avversari erano gli hobbesiani, ed in particolare quei vecchi compagni che, tornando dal PCI, stavano in quella fase (alla fine dei ’70) introducendo nella letteratura filosofica italiana in maniera perversa la tematica della sovranità schmittiana, vero fondamento dell’autonomia del politico. Riprendevano questo fondamento trascendentale e nazista della teologia del politico di Schmitt regalandolo alla repressione degli anni ‘70. Spinoza è stato quindi funzionale alla mia battaglia, è stato prima di tutto un atto politico contro e dentro la repressione, un modo di pensare altrimenti, dopo il formidabile processo di lotte che avevamo vissuto. Per leggere Spinoza in questi termini bisogna trovare il punto nel quale egli esalta l’immanenza nel discorso politico e la sua irriducibilità ad ogni altro schema.
Vediamo dunque dove s’innesta la definizione di potentia. Evidentemente questo luogo non può che essere totalmente legato al tessuto della sostanza. Ora, la sostanza è causa sui, in essa consiste il rifiuto di qualsiasi categoria o effetto causale che concluda la sequenza dell’azione nell’improduttività, alla stregua del classico argomento “causale” arabo-tomistico. Tale rottura determina ogni dispositivo ontologico spinoziano in forme più o meno forti: nella metà della seconda parte dell’Ethica, quando finisce l’approccio spinoziano alla filosofia della natura, il passaggio dall’analisi del conatus alla potentia della cupiditas segna un primo livello di consolidamento del farsi della produzione ontologica. Il discorso poi si riapre sulla dinamica delle passioni e sposta definitivamente il quadro della lettura spinoziana della potenza da un livello naturalistico ad un livello costruttivo e costituente, dalla cupiditas all’amor.
Tutto questo mi fa riconsiderare corretta la definizione di una rottura nella stesura dell’Ethica (come ho largamente argomentato nell’Anomalia selvaggia) – che permette l’inserimento (in questo tempo) della costruzione del Trattato Telogico-Politico e che può rivelare, meglio, esaltare il processo etico-politico che la potentia determina. Quando scrissi L’Anomalia selvaggia feci forse l’errore di sottovalutare i passaggi di teoria politica contenuti nell’analisi dell’obbedienza politica degli Ebrei, nel TTP, tant’è che questa estate ho voluto rileggermelo ed ho potuto non solo confermare in Spinoza la costruzione del dispositivo politico (di potere) dentro un rapporto dialettico binario (aperto, che esclude realisticamente di dar ragione del bene e del male se non nel rapporto di forza e di potenza), ma ho potuto anche osservare una triplice definizione d’obbedienza del popolo ebraico nella sua storia, una triplice soggettivazione:
- quella dell’esodo, quando il volgo obbedisce a Mosè, leader carismatico, che lo disciplina nel quadro di una conoscenza imperfetta, sensibile e confusa;
- quella del Regno d’Israele, quando un popolo è costruito nel rapporto con la sovranità;
- ed infine una terza figura di obbedienza: quella prodotta da Gesù Cristo che introduce il valore della solidarietà e costruisce una moltitudine capace di muoversi singolarmente sul terreno della virtù e insieme sul terreno politico. Non vi è più obbedienza ma partecipazione alla costruzione della libertà, obbedienza e libertà coincidono.
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Tutto questo noi lo troviamo poi nella terza e quarta parte dell’Ethica e nell’opera incompiuta di Spinoza, il Trattato Politico, che per la morte dell’autore si interrompe nel capitolo dedicato alla democrazia. Ma si interrompe in maniera positiva: Spinoza aveva infatti fin lì studiato monarchia, oligarchia e democrazia che sono tre forme di governo fin da Platone indicate come le uniche possibili configurazioni di potere. In Spinoza ce n’è un’altra – cui l’interruzione del Trattato Politico rimanda, ma che già nel Trattato Teologico-Politico avevamo intravista – una forma di democrazia radicale assoluta, che appare nel rapporto con la figura del Cristo nel TTP, dove la moltitudine è potenza.
La potenza è desiderio, la potenza è cupiditas, è il rapporto che va dal semplice bisogno di conservarsi in vita al costruire comunità: non esiste una potentia solitudinis, esiste solo una potentia moltitudinis, la potenza dello stare assieme e di costruire insieme attraverso la vera virtù, ovvero nel divenire ontologicamente sempre più forte del desiderio.
Come in Hobbes nel piccolo trattato materialista De Corpore, anche nella fisica di Spinoza c’è un conatus inteso come conatus vivendi, spinta di vivere, tensione alla vita. Il conatus si trasforma pian piano in cupiditas, ma la cupiditas non può avere imperfezioni, può avere soltanto blocchi; i suoi opposti non sono il nulla rispetto alla potenza, ma sue deviazioni. In Spinoza non v’è il nulla, non perché esso sia stato assorbito dialetticamente (come avviene nella dialettica classica), ma perché alla cupiditas la potestas, il potere, contrappone un cumulo di negatività in nessun senso dialettiche – bensì deviazioni e opposizioni, residui o depositi. Il crescere e l’addensarsi della potenza non si danno d’altronde dentro alcun dispositivo storicistico: l’unico dispositivo sta nel proiettarsi della potenza dell’uomo nel divenire comune. La potenza è il sapere, la verità si dà sul bordo sul quale la potenza può esprimersi: ecco dov’è l’idea adeguata e vera, adeguata al comune e vera nella comune costruzione.
Nella lettura di Spinoza io credo all’importanza delle parole composizione e costituzione, e le preferisco a quel tracciamento vitalista – molto deleuziano (ove persiste un continuo fuggire, affatto conturbante) – che altre letture assumono. A me sembra che il materialismo del desiderio (e la sua dialettica compositiva) costituisca propriamente la novità rispetto alla dialettica moderna del superamento. Quando Kojève – il “russo bianco” passato attraverso Heidegger – arriva in Francia e legge la Fenomenologia di Hegel, in particolare la figura “servo-padrone”, e definisce la dialettica come dinamica attraverso la quale il servo diventa padrone – questo rivela una radicale ridefinizione della dialettica del desiderio perché al suo interno incolla una dialettica del potere (il servo che diventa padrone), cancellando così quel pensiero rivoluzionario (il padrone dev’essere soppresso) che da Spinoza era risalito a Hegel attraverso i Lumi settecenteschi. In Spinoza, dunque, non diventiamo buoni se assumiamo il cattivo in noi: come facevano i vecchi comunisti che esprimevano la necessità di prendere lo Stato per farlo a loro immagine e somiglianza, senza sospettare che potesse essere lo Stato a ridurli a sua immagine e somiglianza.
Per finire su questo punto: quali che siano le riserve rispetto allo stile vitalista della lettura deleuziana di Spinoza, resta il fatto che già in Logica del senso egli determina una rottura decisiva del processo dialettico e propone il dispositivo dialettico del due e non del tre.
Perché dunque mi sono occupato di Spinoza? Perché credo che il suo pensiero sia necessario a rifondare un’esistenza filosofica, un vivere politicamente da filosofi, strappando, come voleva Deleuze, la Bildung filosofica alla storia della filosofia. La storia della filosofia non è altro che apologia di una continuità metafisica del potere da Platone fino ad Heidegger. Di tanto in tanto vi trovate qualche scheggia impazzita (che non si è potuta soffocare all’inizio) che deve essere forzosamente reintegrata nella logica del potere e depotenziata di ogni alternativa. Guardate cosa stanno provano a fare con Foucault: lo stanno riducendo a filosofo dell’omosessualità (che certamente è stato, ma davvero non è stato solo quello). Si rifiuta la sua carica rivoluzionaria ed eversiva. Guardate quello che hanno fatto di Spinoza, tra accuse di panteismo e acosmismo, senza comprendere come nell’assetto del piano di immanenza assoluta ogni modalità è divina, che Dio non è fuori, ma è dentro ai modi di vivere. Certo, ci sono dei problemi nella lettura dell’ateismo di Spinoza, ad esempio rispetto ai lasciti “teologico-metafisici” del suo pensiero – la questione degli attributi è uno di questi. Pian piano, tuttavia, essi stanno scomparendo dalla letteratura specialistica a favore di una rinnovata attenzione alle modalità. Noi siamo causa noi stessi di noi stessi.
E per finire su questo punto. Sono convinto che la triade Machiavelli-Spinoza-Marx, che sta alla base del mio lavoro filosofico, sia tutt’altro che inventata. Il primo è considerato da Spinoza come filosofo acutissimus. E quanto a Marx: egli muove da un fondamento materialista che è molto più che “vetero-hegeliano”, perché in esso si afferma la dinamica del desiderio come dinamica del collettivo e della classe. I tre sono ovviamente filosofi maledetti e quindi vanno revisionati: Machiavelli viene trasformato in puro teorico dello Stato, nella forma del consigliere del principe. Questa narrazione era suffragata dalla mistificazione togliattiana (quasi inconscia immedesimazione) tra il Partito Comunista Italiano ed il Principe stesso.
PUPIL: Quindi lei si immette in una distinzione netta tra potenza e potere. La prima è sempre produttiva, affermativa, il secondo rappresenta l’atto di negazione tipico dell’esercizio del potere.
NEGRI: Io non m’immetto, ma parto dalla definizione spinoziana di “potentia”, di potenza produttiva. Su questo concetto di potenza, c’è molta confusione e ambiguità derivante, fra l’altro, da una questione linguistica. In inglese, infatti, esiste solo il termine power. In francese, il termine puissance è equivalente a power, ma in francese c’è anche il termine pouvoir, che corrisponde all’italiano “potere”, al latino potestas. Esistono quindi delle grosse difficoltà a farsi intendere. In Francia è diventato più facile da quando la distinzione spinoziana è entrata nell’uso filosofico, ma in Inghilterra, normalmente si usa il maiuscolo o il minuscolo per fare questa distinzione. Se poi vogliamo vedere questa distinzione in Foucault l’ambiguità si accresce. Tuttavia, alcuni specialisti di Foucault danno la medesima interpretazione che do anch’io.
PUPIL: Per questa ambiguità volevo farle questa domanda: perché l’elemento del potere produttivo in Foucault di fronte al rapporto tra potenza e potere, “informato e forma”, è stato in questi mesi un discorso su cui io mi sono spesso e volentieri imbattuto.
NEGRI: La lotta di classe in Foucault è molto difficile da identificare.
PUPIL Già lo stesso nel suo ultimo corso, Il coraggio della verità, tenutosi al College de France nel 1984 afferma come la politica sia discorso veritativo, nel segno del dire-il-vero e del parlar franco. Lei pone alla base del discorso politico la potenza contro il potere, il percorso veritativo contro il percorso puramente legittimato da un potere istituente. Pochi mesi fa Quodlibet ha pubblicato un’edizione dell’Almanacco di Filosofia e Politica curata da Di Pierro e Marchesi con un titolo piuttosto suggestivo: “Crisi dell’Immanenza”. In questo volume viene attaccata quell’ “immanenza che non riesce a confliggere con se stessa rifugiandosi nella piena identità delle differenze indifferenti”, sacrificata ad una “neutralizzazione totale del negativo in un contesto di totale positività non conflittuale”. Secondo lei è fondata tale preoccupazione? La tesi di Esposito con la quale la trattazione apre condanna coloro che ripudiano “le dualità di potere e pura potenza, forma e informato, potenza costituente e potenza destituente” al fine di aprire la strada “alla complessità del potere istituente e all’ambito dell’informale”, una prospettiva chiamata “neo-machiavelliana” che fa eco al pensiero di Lefort e al testo espositiano del 1984 dal titolo Ordine e Conflitto. L’accusa rivolta esplicitamente a lei è eliminare il concetto di limite e di negativo per risolversi nella pura affermazione, “nell’anima bella” per cui, nell’eliminazione del conflitto, “basta modificare la prospettiva, per riconoscere nel presente il nucleo affermativo che già si libera al suo interno”. Che ne pensa?
NEGRI: Questo fa parte delle ultime letture fatte da Esposito e dai suoi allievi, che sembrano riportare puramente il pensiero del primo. Esposito vorrebbe stare tra Agamben e Negri, i due estremi dell’Italian Theory, il primo il pensatore della pura destituenza, il secondo il pensatore della pura costituenza: facendo il gioco delle tre carte, vorrebbe prendere metà dell’uno e metà dell’altro per unirli. Ma da tale unione esce semplicemente il padrone hyppolitiano della Fenomenologia dello spirito, in un noioso continuo rappel di Hegel.
Non è un giochetto divertente: è più che altro un mezzo pedagogico finalizzato a produrre la composizione di un puzzle tipico della storia accademica della filosofia politica… prendendo un po’ da una parte e un po’ dall’altra, alla fin fine il centro vince sempre…
Ad esempio, il suo volermi accostare (a contrario) ad Agamben con il quale, nonostante un continuo rapporto di amicizia, non ho molti punti in comune, soprattutto politicamente. Il suo pensiero destituente è ripreso da diversi movimenti, come il Comitato Invisibile in Francia, radicato nell’anarchismo francese, dalle cui istanze rifuggo.
Penso inoltre che la sua produzione teorica e le sue ultime posizioni siano davvero antitetiche alle tesi di Foucault sul coraggio della verità, e che il suo uso della biopolitica sia ambiguo e che l’estensione della figura del “campo concentrazionario” all’intero spettro del politico costituisca un profondo errore perché taglia fuori ogni possibilità di resistenza ed ignora la sua stessa potentia. Su questi presupposti temo che Giorgio Agamben possa non solo produrre ma accoccolarsi in una vera e propria teoria dell’impotenza.
In quel numero dell’Almanacco di cui parlavamo è anche riportato un dibattito tra me ed Esposito sul sovranismo, con due opinioni contrastanti: io totalmente a sfavore del sovranismo, lui particolarmente cauto, se non simpatizzante.
Sicuramente, non capisco nemmeno perché Esposito faccia questo gioco, timido e sfuggente nella sua presa di posizione sulla questione della sovranità. Sembra non intendere che sovranità non è solo il tener fuori i migranti che arrivano in Sicilia, ma significa assolutezza del potere sovrano. E questo apre porte pericolosissime. Come sta avvenendo qui in Francia, dove hanno costruito una commissione parlamentare per valutare quali siano i professori che parlano contro la Repubblica. Maccartismo puro!
D’altra parte, io difendo il potere costituente di una potenza storicamente data e soggettivata di volta in volta: la sua assolutezza intensiva, storica e non metafisica, la storicizzazione non entra invece mai nel discorso di Esposito, anzi! Per lui pare che, a soggettivare, debba esser necessario mettere assieme potenza ed impotenza. Ma tutto questo è illogico. Bisogna misurare la potenza, non limitarla, a limitarla bastano gli ostacoli. Bisogna comprendere su quale piano l’azione possa svilupparsi e determinarsi, costruire e definire. L’immanenza non nega il desiderio, nega solo la sua trascendenza, ovvero il porgli un limite dal di fuori.
PUPIL: Io mi ricordo la prima volta che lessi il volume di Di Pierro e Marchesi: pensavo fosse un trattato dedicato alla costituzione del modo e l’importanza del negativo nella costituzione stessa del modo, ancor prima di leggerlo. Ma se si vuol andare ad attaccare un piano di immanenza di pura origine spinoziana, bisogna fare anche i conti con i vari gradi di conoscenza: bisogna fare comunque i conti con il fatto che il negativo nel modo, il negativo del potere, possa comunque esistere. Siamo noi a far saltare queste connotazioni negative.
NEGRI: Assolutamente, sono d’accordo. Mi interessa ribadire di nuovo come, di fronte alle evocazioni foucaultiane, si vede in questo pensatore semplicemente un’apologia della produttività individuale dice delle grandi sciocchezze che non corrispondono per nulla al suo pensiero. Vedi, quando scoppia un episodio importante di innovazione filosofica, come indubbiamente è stato quello rappresentato da quel gruppo di filosofi della generazione althusseriana e post-althusseriana che va da Foucault a Deleuze (e a tutto quello che gli sta intorno), dopo un certo tempo esso viene inghiottito dalla macchina reazionaria della Storia della Filosofia. Si tratta di una macchina che interpreta perfettamente il TINA (there is not alternative) della Thatcher. Si tratta dell’apologia della metafisica classica come orizzonte eterno ed insuperabile, fino alle sue ultime figure nietzschiane o heideggeriane. Se si vuole fare storia delle idee o della cultura, bisogna sempre stare attenti: ci sono sempre momenti di passaggio ed innovazione che sono gli unici interessanti; poi ci sono dei momenti di moda, e infine dei momenti di restaurazione.
Solo Marx si salva da questo meccanismo perché non sono i filosofi che hanno costruito il marxismo ma sono i militanti. Quanto a Foucault, egli non è un pensatore liberale ma, al contrario – quando avanza nel suo pensiero, dopo aver analizzato i modelli del neoliberalismo e le figure politiche che ne derivano –, pone le basi di una riconquista generosa e collettiva di un orizzonte di liberazione.
BARBETTA: Parlando proprio di althusserismo, in che modo è stato influenzato da Althusser e ritiene possibile un dialogo tra il marxismo operaista e di derivazione althusseriana?
NEGRI: Ci sono due Althusser come sapete, il primo, filosofo marxista estremamente importante, che, come si suol dire, ha fatto scuola, ed il secondo che, indubbiamente, continua ad essere antiumanista e critico dell’ideologia ma si apre all’aleatorio, al contigente come a ciò che costituisce il vivente e il futuribile – un Althusser che respira in maniera deleuziana. Il primo lo conobbi perché mi invitò a fare un ciclo di lezione su Marx all’École Normale Supérieure a Parigi – lavorai sui Grundrisse. Non che lui fosse d’accordo con le mie tesi: affermava che dai Grundrisse non si potesse togliere molto, alla strenua di molti interpreti marxisti di quegli anni, i quali sostenevano che quel libro fosse solo un “canovaccio”, una raccolta alla rinfusa di materiale vario. Erano pochi coloro che ritenevano i Grundrisse qualcosa di organico e valevole. Si parla indicativamente del ‘77-’78. Poi, nel ’79, a Parigi avevo dato il via ad un secondo corso su Gramsci che non riuscii mai a concludere poiché, tornato in Italia, venni arrestato.
Dopo il primo Althusser ci fu un secondo Althusser, questo inteso come filosofo dell’incontro e dell’aleatorietà, provato dall’incidente familiare e dalla tormentata crisi della sua prima fase di pensiero. Tornato in Francia nell’83, lo incontrai nuovamente. Collaboravo allora con le due persone che si occupavano della biografia di Althusser e l’edizione dei suoi inediti, Yann Moulier Boutang e François Matheron. Carissimi amici: il primo aveva tradotto in francese Marx oltre Marx, il secondo il mio Spinoza.
Comunque, cosa ci rimane di queste due fasi di Althusser?
- Il suo antistoricismo feroce, che non è rifiuto della storicità ma è rifiuto di qualsiasi teleologismo e di qualsiasi determinismo volgare; questo è un elemento costante di tutta la vita di Althusser, da quando legge il Capitale fino a quando specula sull’aleatorietà dell’epistemologia, passando per colui che scrive di sé stesso e del suo rapporto con la psicanalisi;
- Gli elementi di analisi e di critica dell’ideologia come macchina che si sovrappone e che si mantiene all’interno dello sviluppo delle istituzioni, dell’azione statale e della pratica ideologica in senso generale. L’ideologia come macchina e la sovradeterminazione che questa impone sono lasciti che la tradizione althusseriana ci lascia in tutta la loro importanza;
- La dialettica del due, l’opposizione che mai comporta il tre: l’uno si divide in due ma non c’è il tre, non c’è l’elemento ricompositivo. Il tre può essere un prodotto logico, ma non esiste oggettivamente, come non può darsi – se non illusoriamente – la figura hegeliana dell’Aufhebung;
- Il ritorno al Das Kapital quando negli anni ‘50 dell’opera somma di Marx nessuno ne parlava più, letta oramai attraverso l’incontrastato Diamat. La lettura del Capitale da parte dei marxisti con la sua reintroduzione in campo speculativo fu un fattore rivoluzionario – in Italia sostenuta dai Quaderni rossi;
- La collocazione della storia della filosofia, che per Althusser è un campo di battaglia, Kampfplatz. Il filosofo si pone all’interno del campo filosofico come luogo di scontro, posizione assunta anche dagli operaisti.
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Alcuni tra questi sono elementi che circolano anche nella Scuola di Francoforte, anche in Hanz Jürgen Krahl in particolare, e in diversi autori anglosassoni come Hobsbawn; essi sono sviluppati da Althusser all’ENS di Parigi, centro di produzione teorica estremamente forte con allievi validi come Balibar, Macherey, ecc. e vengono veicolati a livello europeo nella cultura dei Partiti Comunisti, seppur talora in termini polemici. In Italia la ricezione di Althusser avvenne ben poco all’interno delle istituzioni di partito: caso a parte fu Luporini, l’unico ad avere quel tanto di consistenza teorica (ed accademica) per confrontarsi allo spessore del pensiero althusseriano.
BARBETTA: Non a caso Luporini fu uno di coloro che aprirono il dibattito sul concetto di formazione economico-sociale in Italia, assieme a Sereni e La Grassa, sulle pagine di Critica Marxista.
NEGRI: Certamente. Pure sulla questione della dialettica è fondamentale la ricerca di Luporini. Altra questione è come collocare il feroce antiumanesimo di Althusser – sintomatico in una minoranza intellettuale, di cui Althusser faceva parte, la quale rifiutava la centralità, meglio lo strapotere ideologico connessi ai Manoscritti Economico-Filosofici del 1844 sull’intera produzione marxiana da parte di interpreti revisionisti del secondo dopoguerra. Esempio tangibile è il Marx della Scuola di Francoforte, Iring Fetscher ecc., che vi vedevano solo la teoria dell’alienazione. Con queste lenti si voleva leggere anche il Capitale.
Concesso questo, vi è d’aggiungere che se la polemica di Althusser fu giusta nei confronti dei revisionisti, fu tuttavia ingiusta riferendosi all’ambiente intellettuale francese. Colpì infatti dei fini interpreti del primo Marx come Lefebvre. La polemica althusseriana finì così per escludere dal dibattito un autore che ha offerto a tutti noi molte cose, ed anche a Foucault, attraverso la sua analisi critica dei modi di vivere: lo studio sulle città, le reti urbane e la loro influenza sulle forme di vita, fra l’altro.
Quanto alla differenza tra operaisti ed althusseriani, essa consiste nella denuncia che i primi hanno sviluppato nei confronti del teoreticismo dei secondi nella lettura del Capitale. Althusser sembra non avallare l’intervento pratico nelle lotte, mentre per gli operaisti la ricostruzione di Das Kapital si fa all’interno/dall’interno delle lotte, ed ogni volta singolarmente in relazione alla costituzione di classe a volte mutata, a volte dinamica. La critica la si fa nello scontro di classe, mentre per gli althusseriani ogni questione viene posta nella pura realtà teoretica. Le conseguenze di questa impostazione si vedranno nei successori del pensatore strutturalista quando, sottovalutando le dinamiche della lotta di classe, firmano l’adesione alla teoria trascendentale dell’autonomia del politico – in particolare Badiou… e un po’ anche Balibar, almeno fino a pochi anni fa.
BARBETTA: Che differenza c’è con l’autonomia del politico trattata da Tronti e come confrontarlo con le teorie spinoziane?
NEGRI: Abbiamo avuto un incontro a tre io, Tronti e Balibar: dovrebbe uscire un libretto proprio a proposito. In linea teorica, la differenza con l’autonomia del politico di Tronti è ben poca, ma certamente Balibar è divenuto molto più pragmatico nell’intervento politico e nella costruzione del concetto stesso di autonomia del politico. La vera questione è comprendere come e dove si definisca il concetto di politico: nello scontro sociale o nella sola sfera dell’azione statale?
Spinoza è l’autore che meglio di altri ha dato risposta alla questione. Il politico nasce dall’interno del dibattito sull’obbedienza religiosa (e il Trattato Teologico-Politico è un documento necessario per definire la sfera del politico nello studio della formazione dei modelli di obbedienza). Esso è la forma nella quale il comando si adegua e risponde ad una domanda sociale di ordine e comunità. Al limite, l’autonomia del politico non potrà allora che essere una forza che si stacca dai processi genealogici del politico per autonomizzarsi in termini ideologici.
PUPIL: Dedicando l’ultima parte di questa sezione al confronto, di fronte ai vari critici come Preve, che descrive il rischio che il conatus ha nello svilupparsi all’interno di un desiderio “in negativo”– identificandolo quindi come una mancanza e non una potenza produttiva (egli riconduce le tesi di Deleuze e Guattari a legittimazioni filosofiche della società della performance e del plusgodimento)– sarebbe il caso di contrapporgli i precedenti rimandi sia nei riferimenti alle opere che nei riferimenti ai concetti in esse racchiuse – si pensi alla potenza come legata a doppio filo con il vero ed adeguato – per sdoganare la dimensione della potenza come qualcosa di affermativo e costitutivo? È d’accordo con questa presa di posizione?
NEGRI: Sono d’accordo.
BARBETTA: Contro tutto questa lettura abbiamo la sinistra sovranista, che sta riscoprendo Michel Clouscard, intellettuale del PCF autore de L’ideologia del Desiderio, in cui critica in maniera feroce – e spesso insensata – sia Althusser che Guattari.
PUPIL: Il figlio di certe logiche rimane in Italia Fusaro, ma sono logiche che hanno fatto vedere tutta la loro pericolosità nel volgersi sin troppo spesso a strumento della reazione.
NEGRI: L’evidenza dell’assurdità di certe critiche traspare pure se non si ha mai letto Deleuze. Cosa che in realtà sconsiglio, la sua lettura dovrebbe anzi essere invogliata: darebbe un profondo incremento alla nostra voglia di leggerlo interamente, ed allora tanto vale essere ambiziosi e farlo! Se non lo si vuol prendere come filosofo, prendiamolo come un poeta: un poeta di cui necessitiamo. C’è stato in Francia quel gruppo di poeti surrealisti, da Paul Éluard a Louis Aragon, che sono splendidi da leggere e, sotto un certo punto di vista, sono connotati come autori estremamente utili per comprendere quel terreno materialista e quell’immanenza produttiva a cui lo stesso Deleuze apre il suo pensiero.
PUPIL: Di Deleuze si parla anche con estremo mistero, riferendosi alle sue ultime lettere, a proposito di un’opera finale le cui bozze vennero distrutte: Grandeur de Marx.
NEGRI: Quella della Grandeur de Marx è una bufala di cui in parte sono stato responsabile. Non fu per cattiveria: la cosa circolava in ambiente familiare (ci era stato detto che era stata autorizzata dalla moglie di Gilles, e che insomma c’erano materiali accumulati che rappresentavano una summa attorno al pensiero di Marx). Fu un gran misunderstanding di carattere familiare. Mi scuso pubblicamente di aver anch’io testimoniato di questo materiale inesistente, ma all’epoca si era certi della sua esistenza.
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