I comunisti e la logistica

1. Introduzione alla logistica

Giorgio Grappi in Logistica afferma che la logistica è un concetto che nel linguaggio comune viene spesso associato alla risoluzione di problemi organizzativi legati al movimento di persone o merci e alla sistemazione fisica degli elementi all’interno di uno spazio definito. Questo duplice aspetto, cioè il coordinamento dei flussi e la disposizione materiale delle risorse, emerge chiaramente in situazioni concrete come l’organizzazione di un viaggio, dove entrano in gioco scelte relative ai mezzi di trasporto, ai percorsi, agli orari e alla distribuzione dei partecipanti, oppure nella pianificazione di un evento, come un concerto, che richiede la gestione dello spazio disponibile, il posizionamento delle attrezzature, l’approvvigionamento energetico e il controllo degli accessi del pubblico. In tutti questi casi le questioni logistiche ruotano attorno alla capacità di orchestrare attività complesse che implicano una componente dinamica di spostamento, una dimensione spaziale di allocazione delle risorse e un calcolo razionale volto a ottimizzare tempi, costi ed efficienza.  

L’etimologia del termine logistica affonda le radici in due tradizioni distinte. Da una parte, il dizionario Treccani la riconduce al verbo greco λογίζομαι (logizomai) che significa calcolare, associandola all’arte del computo praticata dalla scuola pitagorica e, in seguito, alle attività amministrative delle città antiche. Questa origine matematica e razionale ha contribuito a legare la logistica alla logica formale e al metodo scientifico moderno. Dall’altra, a partire dall’Ottocento, si è diffusa un’accezione militare del termine che identifica la logistica come l’insieme delle operazioni volte a garantire il rifornimento, il trasporto e l’alloggiamento delle truppe. La connotazione bellica ha avuto un peso significativo nella percezione comune, tanto che molti dizionari, come il francese Larousse o l’inglese Douglas Harper, continuano a definirla principalmente in relazione alla gestione degli eserciti, sottolineando aspetti come l’acquartieramento delle truppe, la distribuzione dei viveri e l’organizzazione delle reti di supporto. Altre interpretazioni etimologiche, come quella proposta dall’Oxford Dictionary, la collegano invece al termine francese loger (alloggiare) o al latino lobia (loggia), evidenziando così il ruolo della logistica nel garantire spazi sicuri e funzionali, lontani dalle zone di conflitto. Oltre alla dimensione storica e militare, la logistica ha assunto nel tempo un significato più ampio e trasversale, applicabile a svariati contesti organizzativi. Nella sua accezione contemporanea, essa riguarda l’insieme delle attività finalizzate a rendere efficiente ed efficace la gestione di processi complessi, come la catena di approvvigionamento delle merci, la distribuzione commerciale o l’erogazione di servizi. Questa evoluzione semantica riflette l’integrazione di due approcci: la precisione analitica mutuata dalla tradizione matematica e l’esperienza pratica maturata in ambito militare e industriale. Tuttavia, la logistica odierna non si limita a essere una semplice tecnica di ottimizzazione poiché rappresenta un sistema articolato e globale, composto da infrastrutture, mezzi di trasporto, reti informative e tecnologie avanzate che costituisce l’ossatura materiale della globalizzazione. Tre dimensioni fondamentali concorrono a definire la natura della logistica: il movimento, inteso come capacità di far circolare persone, merci, dati ed energia attraverso reti sempre più estese; lo spazio, ossia l’organizzazione fisica e territoriale che permette di allocare risorse e strutture in modo funzionale; infine, il calcolo, ovvero l’applicazione di modelli razionali per ottimizzare tempi, costi e prestazioni. L’interazione tra questi elementi genera un campo di studio sempre più rilevante che attrae l’attenzione di discipline diverse, dall’economia alla geografia, dall’antropologia alla sociologia. Ma la logistica non è più soltanto una questione tecnica o manageriale, è diventata un concetto politico chiave per interpretare le trasformazioni del mondo contemporaneo, in particolare le dinamiche che ridefiniscono i rapporti tra Stati, mercati e governance sovranazionale. Henri Lefebvre, filosofo e urbanista che ha indagato lo spazio come categoria politica, ha interpretato la logistica come uno strumento attraverso cui lo Stato organizza il territorio in modo gerarchico e funzionale, creando una netta separazione tra centri decisionali e aree periferiche. Oggi la logistica ha assunto una rilevanza autonoma e strategica, influenzando direttamente le scelte politiche ed economiche a livello globale. La geografa Deborah Cowen, ad esempio, la considera una forza attiva nella ridefinizione dei confini e delle giurisdizioni, capace di plasmare nuovi assetti spaziali e di potere nell’era della globalizzazione. La logistica, però, abbiamo detto che affonda le sue radici nella storia militare, dove per secoli è stata considerata un aspetto secondario, quasi ancillare rispetto alle grandi strategie belliche. Eppure, già agli albori dell’Ottocento, pensatori come Henri de Jomini ne avevano intuito il potenziale sistemico, descrivendola non come mera tecnica di approvvigionamento ma come vera e propria arte pratica di muovere gli eserciti, un’attività complessa che abbracciava la pianificazione strategica, la gestione delle risorse umane e materiali, la scelta dei tempi e dei luoghi delle operazioni. Questa visione innovativa si scontrava con la tradizionale concezione clausewitziana che relegava la logistica a semplice fase preparatoria della guerra, subordinata alle superiori considerazioni politiche. La storia avrebbe dimostrato come la logistica militare fosse destinata a diventare sempre più centrale, trasformandosi da attività di supporto a vero e proprio fattore determinante dell’esito dei conflitti. L’evoluzione degli eserciti moderni, con la loro crescente complessità organizzativa e il passaggio da un modello predatorio basato sul saccheggio a un sistema strutturato di approvvigionamento, ha reso la logistica un elemento imprescindibile della macchina bellica. L’Impero Romano rappresenta forse il primo grande esempio storico di potenza che basava la sua espansione su una logistica avanzata, capace di sostenere operazioni militari a migliaia di chilometri dal centro del potere. Le raffigurazioni sulle colonne di Traiano e Marco Aurelio non celebrano solo le gesta dei generali ma testimoniano una straordinaria capacità di progettare infrastrutture, gestire flussi di rifornimenti e coordinare movimenti di truppe su vasta scala. Questo retaggio storico continua a ispirare ancora oggi le moderne aziende logistiche che spesso si richiamano metaforicamente alle imprese di Annibale o alle campagne romane per rappresentare la loro capacità di superare ostacoli geografici e organizzativi. Con l’avvento degli Stati nazionali e la professionalizzazione degli eserciti, la logistica assume una dimensione scientifica, diventando oggetto di studio e perfezionamento. La rivoluzione industriale, in particolare l’introduzione delle ferrovie, rappresenta una svolta epocale, creando nuove possibilità ma anche nuove sfide, come la gestione delle differenze tra diversi sistemi di trasporto. Manuel De Landa ha efficacemente paragonato la logistica militare al sistema circolatorio di un organismo vivente, essenziale per mantenere in vita e operativa la complessa macchina bellica. Il Novecento segna l’ingresso della logistica nell’era della tecnologia avanzata. Le due guerre mondiali, con la loro scala senza precedenti, dimostrano l’importanza cruciale della catena logistica mentre la guerra fredda spinge verso lo sviluppo di sistemi resilienti, capaci di resistere a interruzioni e attacchi. La creazione di ARPANET, antesignano di Internet, nasce proprio dall’esigenza militare di avere una rete di comunicazione in grado di sopravvivere a eventuali attacchi nucleari. Parallelamente la logistica conosce una straordinaria espansione nel settore civile, trasformandosi da semplice funzione aziendale a vero e proprio settore industriale strategico. La nascita del concetto di supply chain management rappresenta una rivoluzione copernicana: non più semplice gestione del trasporto ma visione integrata dell’intero ciclo produttivo, dalla materia prima al consumatore finale. In questo nuovo paradigma la distinzione tra produzione e distribuzione si fa sempre più sfumata, con attività manifatturiere che si spostano all’interno degli hub logistici e processi produttivi che si adattano alle esigenze della catena di approvvigionamento.  

L’avvento dell’e-commerce e la crescente attenzione alla sostenibilità hanno ulteriormente ampliato il raggio d’azione della logistica, dando impulso alla reverse logistics e all’economia circolare, dove i flussi tradizionali si invertono e i materiali di scarto tornano a essere risorse. In questo contesto le associazioni di settore come il CSCMP (Council of Supply Chain Management Professionals) hanno ridefinito i confini della disciplina, affermando che oggi la vera competizione non è più tra singole imprese ma tra intere supply chain. La logistica contemporanea si presenta così come una disciplina ibrida e multiforme che unisce tecnologia avanzata, modelli matematici complessi e una profonda comprensione dei processi organizzativi. Dai software di gestione sviluppati da aziende come McLane Advanced Technologies alle mega-infrastrutture globali, la logistica è il sistema nervoso dell’economia mondiale, una forza invisibile ma potentissima che plasma i nostri modelli di produzione e consumo, ridefinisce le geografie economiche e influenza persino le strategie geopolitiche.  

2. I paradossi della rivoluzione logistica

La rivoluzione logistica rappresenta una delle trasformazioni più significative nel capitalismo contemporaneo, ridefinendo radicalmente i processi produttivi e le dinamiche di creazione del valore. Questo cambiamento epocale non si limita a modificare aspetti tecnici della distribuzione merci perché riesce a trasformare l’intera organizzazione economica globale, creando nuovi paradigmi di produzione, circolazione e accumulazione. Le origini di questa rivoluzione affondano nel secondo dopoguerra statunitense, quando si cominciò a concepire la logistica non più come semplice funzione di trasporto, considerata fino ad allora un “male necessario”, bensì come sistema integrato capace di ottimizzare l’intero ciclo produttivo. Si tratta di un salto da una visione ristretta della distribuzione fisica a un approccio olistico che coordina acquisti, produzione e vendite per massimizzare i profitti attraverso il perfetto allineamento di quantità, tempi e luoghi di distribuzione. L’evoluzione del pensiero logistico è stata accompagnata da potenti metafore che ne hanno segnato l’immaginario. Negli anni ‘60, influenti pensatori come Peter Drucker paragonarono la logistica a un “continente nero” economico, evocando l’idea di un territorio inesplorato e ricco di potenziale. Deborah Cowen ha sottolineato come queste metafore coloniali non siano casuali: la logistica, da arte militare al servizio degli Stati nazionali, è diventata una tecnologia al servizio di corporations transnazionali che operano in uno spazio geoeconomico relazionale, dove i flussi di merci e capitali superano i confini territoriali. Questa trasformazione richiama il concetto marxiano di accumulazione originaria da intendere come processo continuo di espansione capitalistica. Autori come Kalyan Sanyal e David Harvey hanno mostrato come il capitalismo generi costantemente nuovi spazi da rendere produttivi. La rivoluzione logistica rappresenta in questo senso una forma di autocolonizzazione dell’economia che trasforma settori prima considerati marginali (come i trasporti) in fonti di valore, ridefinendo violentemente le strutture economiche preesistenti. Il processo è stato favorito da precise scelte politiche. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni ‘50, le amministrazioni hanno progressivamente smantellato il sistema dei trasporti verticalizzato, spinti dalla recessione post-bellica, dalla conflittualità operaia e dalla crisi petrolifera. Il “messaggio sul trasporto” di Kennedy del 1962 segnò una svolta, avviando un percorso di deregolamentazione che sarebbe culminato con le politiche di Reagan, in particolare con l’attacco al sindacato dei controllori di volo PATCO nel 1981. La teoria economica forniva gli strumenti concettuali per questa trasformazione. Michael Porter, con la sua teoria della catena del valore, ha offerto un quadro analitico per scomporre il processo produttivo in attività primarie (come la produzione vera e propria e la logistica) e attività di supporto (come le risorse umane e la tecnologia). In questo schema ogni fase non è più considerata semplicemente un costo ma un’opportunità per creare valore aggiunto. La logistica contemporanea si caratterizza per tre paradossi fondamentali che ne rivelano la natura contraddittoria. Il paradosso politico emerge dalla tensione tra la necessità di centralizzazione e controllo (attraverso standard comuni, interoperabilità e sistemi informatici integrati) e l’esigenza di flessibilità e resilienza per rispondere a shock esterni. Questo dualismo si riflette nelle forme di governance, dove modelli aziendali di gestione del rischio influenzano sempre più le politiche pubbliche. Il paradosso del lavoro si manifesta nell’ambivalente rapporto tra automazione e forza lavoro umana. La logistica aspira a sostituire il lavoro vivo con sistemi automatizzati e algoritmi ma dipende ancora crucialmente dalla flessibilità e adattabilità della manodopera. Questo genera situazioni contraddittorie dove tecnologie avanzate convivono con condizioni di lavoro precarie e sfruttamento, come dimostrano gli scioperi che periodicamente paralizzano i nodi logistici globali. Il paradosso geoeconomico nasce dalla contraddizione tra l’ideale di flussi senza attriti e la necessità di infrastrutture materiali che occupano spazio e generano conflitti territoriali. La trasformazione logistica del territorio ridefinisce intere regioni attraverso parchi logistici, interporti e corridoi di trasporto mentre la supply chain security diventa un principio superiore che condiziona le politiche nazionali. Simili paradossi rivelano come la logistica sia un vero e proprio dispositivo di potere che ridefinisce il capitalismo contemporaneo. La sua capacità di integrare produzione e circolazione, di connettere scale globali e locali, di combinare controllo centralizzato e adattamento flessibile, la rende uno dei principali motori della trasformazione economica e sociale del nostro tempo. Prendiamo l’esempio del trasporto marittimo, dove la containerizzazione rappresenta una rivoluzione silenziosa ma radicale che ha plasmato il mondo contemporaneo attraverso una trasformazione profonda delle dinamiche commerciali globali. Questo sistema, apparentemente semplice nella sua concezione, una scatola metallica standardizzata, ha in realtà innescato una serie di cambiamenti a catena che hanno ridefinito l’intera architettura del commercio internazionale, le geografie economiche e persino gli equilibri geopolitici. All’origine di questa trasformazione troviamo una convergenza di fattori storici e tecnologici. Come evidenziato da Marc Levinson, il container non fu semplicemente inventato, ma piuttosto “sistematizzato” attraverso un processo complesso che vide protagonisti imprenditori visionari come Malcom McLean, il cui approccio innovativo alla logistica portò alla nascita della Sea-Land negli anni ’50. La vera genialità di McLean, come sottolinea Levinson, non risiedeva nell’idea del contenitore in sé (già esistente in forme diverse), ma nella comprensione che per rivoluzionare il trasporto marittimo occorreva ripensare l’intero ecosistema: dalle navi ai porti, dalle gru ai sistemi di stoccaggio. I dati concreti dimostrano l’impatto di questa rivoluzione: oggi, come riporta il reportage di Rose George, circa il 90% delle merci globali viaggia via mare, e di queste, la stragrande maggioranza (a esclusione delle rinfuse e dei combustibili liquidi) viene trasportata in container. Questa predominanza ha richiesto una riconfigurazione totale delle infrastrutture portuali in tutto il mondo. I terminal moderni, come descritto vividamente da Tim Maughan nei suoi reportage, presentano caratteristiche uniformi in ogni angolo del globo con torri di gru che dominano lo skyline, pareti di container che sembrano statiche ma sono in costante movimento e navi gigantesche in attesa al largo che rappresentano l’ultimo anello di una catena logistica invisibile ma perfettamente oliata. L’efficienza operativa raggiunta grazie alla containerizzazione è impressionante. Dove una volta erano necessarie squadre di decine di scaricatori e giorni interi per caricare una nave, oggi sistemi automatizzati completano le operazioni in poche ore. Le gru portuali moderne, come quelle installate al Pireo o a Rotterdam, possono movimentare fino a 30-40 container all’ora, con una precisione millimetrica garantita da sistemi computerizzati. Questo balzo in avanti tecnologico ha permesso di ridurre i costi di trasporto in modo drastico, infatti, secondo i dati dell’Organizzazione Marittima Internazionale, il costo per tonnellata-chilometro si è ridotto di oltre il 90% rispetto all’era pre-container. L’efficienza nasconde vulnerabilità strutturali. Il World Shipping Council stima che ogni anno vengano persi in mare circa 733 container, un numero che può sembrare irrisorio rispetto ai 120 milioni movimentati annualmente ma che assume proporzioni drammatiche in casi come quello della Mol Comfort, la nave giapponese che nel 2013 affondò portando con sé oltre 4.000 container. Questi incidenti hanno spinto a rivedere gli standard di sicurezza, culminati nell’adozione nel 2014 del nuovo Codice CTU (Container Transport Units) che introduce requisiti più stringenti per il fissaggio e la dichiarazione del peso dei carichi. La containerizzazione ha anche trasformato radicalmente il lavoro portuale. Gli operai sono diventati figure sempre più invisibili, ridotti a operatori di sistemi remoti o a piloti di muletti che si muovono tra canyon di acciaio. Parallelamente, sono emerse nuove professionalità altamente specializzate, come gli ship planner che utilizzano software avanzati per ottimizzare il carico delle navi, considerando fattori che vanno dalla stabilità alla sequenza di scarico nei porti successivi. Un aspetto particolarmente interessante è quello della tracciabilità, dove le innovazioni tecnologiche stanno aprendo nuovi scenari. L’esperienza della Traxens, la start-up francese sostenuta da CMA CGM, rappresenta un caso emblematico. Il loro sistema, installato sulla nave Bougainville (18.000 TEU), utilizza sensori IoT per monitorare in tempo reale posizione, temperatura e condizioni di ogni singolo container, generando un flusso continuo di dati che rivoluziona la gestione logistica. La standardizzazione, raggiunta dopo anni di conflitti tra diversi operatori e autorità nazionali, rappresenta un altro capitolo cruciale di questa storia. Il TEU (Twenty-foot Equivalent Unit) è diventato la lingua franca del commercio globale, un vero e proprio “sistema operativo” materiale che permette l’interoperabilità tra navi, porti e mezzi terrestri in ogni angolo del pianeta. Questo processo non fu semplice. Infatti, come documenta Levinson, nei primi anni della containerizzazione diverse compagnie utilizzavano standard incompatibili, con container di dimensioni variabili tra 17 e 35 piedi, creando caos logistico.

L’impatto geopolitico della containerizzazione è stato altrettanto profondo. Durante la Guerra del Vietnam, le navi della Sea-Land vennero utilizzate per rifornire le truppe americane, creando involontariamente le prime rotte commerciali containerizzate tra Asia e Nord America. Questo episodio storico dimostra come innovazione logistica e strategia geopolitica siano spesso intrecciate, infatti la guerra del Vietnam ebbe un ruolo fondamentale nell’espansione globale della containerizzazione, segnando l’inizio di un complesso militare-logistico dove i confini tra commercio e sicurezza, tra sicurezza nazionale e privata, divennero sempre più sfumati. Questo conflitto dimostrò come il rapporto tra guerra e logistica fosse più complesso di quanto le teorie sulle origini militari della containerizzazione suggerissero. Con oltre cinquecentomila soldati impegnati in un’occupazione sanguinosa, il Vietnam rappresentò una fonte sicura di commesse per le aziende logistiche che fu cruciale per operatori come la Sea-Land. Nonostante il servizio fosse principalmente destinato all’esercito, la Sea-Land si occupò direttamente della costruzione dei terminal in Vietnam attraverso un accordo che prevedeva un investimento minimo da parte militare, con l’esercito responsabile solo in caso di perdite dovute ad azioni belliche. Questo permise alla Sea-Land di completare un processo iniziato nel secondo dopoguerra, quando il Piano Marshall e la crescita industriale del Giappone avevano portato all’introduzione di linee regolari attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Il governo giapponese, per promuovere le esportazioni, aveva investito nella costruzione di porti container nelle aree di Tokyo-Yokohama e Osaka-Kobe. Il contesto vedeva operatori statunitensi come la Matson Navigation, pioniere nei collegamenti del Pacifico, che nel 1967 aveva sviluppato una rotta tra Stati Uniti e Giappone con navi capaci di trasportare 464 container e 49 automobili. Dopo il 1968 altre imprese iniziarono a programmare servizi settimanali dal Giappone, permettendo ai container di ritorno dal Vietnam di riempirsi di merci giapponesi e asiatiche. Tornando alla Sea-Land, possiamo dire che con essa si ebbe una svolta sia per la diffusione del container che per l’organizzazione militare, tradizionalmente basata su spedizioni gestite direttamente dall’esercito o distribuite tra molti operatori. L’ingresso del container e di un grande fornitore privato come la Sea-Land, che arrivò a gestire circa il 30% delle commesse, rappresentò un primo passo verso la riorganizzazione dei rifornimenti militari. L’efficienza dimostrata dal container nei trasporti a lunga distanza ne favorì la diffusione massiccia. Le prime sperimentazioni con l’Asia e il Giappone attraverso il Pacifico modificarono il significato stesso delle rotte marittime che divennero parte di una rete integrata di collegamenti, scali e porti. Questo processo, inizialmente centrato sugli Stati Uniti, assunse progressivamente una dimensione globale, accompagnato dalla liberalizzazione dei mercati. La prima nave portacontainer della Sea-Land aveva compiuto il suo viaggio inaugurale nel 1958, scaricando 58 container a Port Newark. Due decenni dopo, il porto di Newark-Elizabeth era diventato il più importante al mondo per traffico container ma nel 2014 si trovava alla ventisettesima posizione globale, con volumi pari a circa il 15% di quello del leader mondiale, il porto di Shanghai. Questo cambiamento rifletteva una ridefinizione della distribuzione spaziale della produzione industriale, con effetti che superavano il mondo dei trasporti. La rivoluzione logistica contribuì alla deindustrializzazione delle economie avanzate e modificò il baricentro geografico delle rotte navali. Se nel dopoguerra il trasporto marittimo era dominato dalle rinfuse e dai liquidi, con porti principalmente al servizio di industrie locali, la containerizzazione introdusse un nuovo modello di porti inseriti in catene globali. Sergio Bologna ha osservato come fino agli anni ‘70 lo sviluppo marittimo-portuale fosse concentrato nell’area atlantica settentrionale mentre dagli anni ‘90 si assistette a un drammatico spostamento verso le rotte del Pacifico e quella Far East-Europa.

Questo cambiamento coincise con l’emergere delle economie BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), dove le multinazionali spostarono quote crescenti della loro produzione. Organismi internazionali come la Banca Mondiale iniziarono a considerare la connettività e i corridoi infrastrutturali come elementi chiave per lo sviluppo. L’estensione delle reti globali introdusse però elementi di instabilità, creando una divergenza tra ottimizzazione fisica delle operazioni logistiche e loro realizzazione economica. Un altro aspetto cruciale è la finanziarizzazione del settore navale. Le compagnie di navigazione risposero all’espansione dei commerci con il gigantismo navale, costruendo navi sempre più grandi che richiedevano adattamenti costosi dei porti. Questo portò a una sovracapacità del settore: tra il 2005 e il 2013, la capacità dei 25 principali operatori crebbe del 35% più velocemente rispetto alle merci trasportate. Come spiegato da Bologna, il valore delle navi non dipendeva solo dalla capacità di carico ma dalle loro caratteristiche tecnologiche, diventando strumenti finanziari per garantire crediti bancari. Questa dinamica ha creato rischi di bolla economica. Inoltre, la presenza di investitori influisce direttamente sulle operazioni, con pressioni per aumentare i profitti che si traducono in condizioni di lavoro spesso estreme per i marittimi. Nonostante la crisi del 2007-2008 e la stagnazione delle economie occidentali, l’industria navale continua a essere un indicatore delle dinamiche speculative globali. La corsa al gigantismo non accenna a fermarsi, con navi così grandi da non poter più transitare per il canale di Panama nemmeno dopo il suo ampliamento, aprendo scenari geopolitici nuovi come il progetto del canale del Nicaragua.

3. Politica e logistica

Grappi analizza le profonde implicazioni politiche della logistica che ha superato il suo originario ruolo tecnico di gestione dei trasporti per diventare una scienza manageriale capace di ridefinire l’intero processo produttivo e di trasformare radicalmente l’organizzazione del lavoro, la produzione dello spazio e la gestione del territorio. La logistica emerge come una vera e propria tecnocrazia che, analogamente ad altre forme di potere tecnocratico, mina le capacità di controllo democratico e influenza direttamente le scelte pubbliche attraverso la promozione di specifiche priorità politiche, modelli di governance e strumenti amministrativi che ridefiniscono concetti fondamentali come sovranità e cittadinanza. Come evidenzia Brett Neilson, la razionalità logistica genera una forma di potere particolare che crea valore, impone misure e favorisce la circolazione, producendo “mondi” coerenti con le esigenze del capitale globale. La rivoluzione logistica e la containerizzazione hanno fornito le basi tecniche per questa trasformazione e hanno anche prodotto una serie di sperimentazioni territoriali tra cui spiccano le zone economiche speciali (Export Processing Zones, EPZs) e i corridoi infrastrutturali che rappresentano veri e propri assemblaggi territoriali funzionali alle catene globali del valore. Queste zone, che oscillano tra la funzione di avamposti in territori lontani e quella di enclave differenziate all’interno di territori nazionali, affondano le loro radici in esperienze storiche come le città libere della Lega Anseatica, i porti franchi del Seicento e soprattutto le factories coloniali, dove compagnie commerciali come la Compagnia delle Indie Orientali, descritta da Philip Stern come uno Stato-compagnia dotato di propria sovranità, esercitavano un controllo integrato su attività economiche, militari e politiche. La diffusione moderna delle EPZs, promossa a partire dagli anni ‘60 da organizzazioni internazionali come l’UNIDO e la Banca Mondiale, ha conosciuto una crescita esponenziale. Se prendiamo i dati incrociati di ILO, Commissione Europea ed Economist emerge che dalle poche decine di zone esistenti negli anni ’60 si è passati a centinaia di zone negli anni ’80-90 fino a raggiungere diverse migliaia di zone negli anni 2000, con decine di milioni di lavoratori impiegati e almeno un quarto del commercio globale che transita attraverso queste aree. L’impatto di queste zone è profondamente ambivalente perché generano processi di industrializzazione accompagnati da intenso sfruttamento del lavoro nei territori dove vengono istituite (come dimostrano i casi delle maquiladoras messicane o dello sviluppo cinese) e provocano fenomeni di deindustrializzazione nelle aree abbandonate dalle multinazionali, contribuendo a ridefinire i tradizionali rapporti centro-periferia. Aiwa Ong ha teorizzato il concetto di sovranità graduale per descrivere come gli Stati moderni creino deliberatamente enclave a regime speciale per attrarre capitali globali, cedendo parte della loro sovranità a attori transnazionali e producendo un arcipelago di eccezioni normative che frammenta il territorio nazionale. Come evidenziano Saskia Sassen e Maurizio Ricciardi, questa trasformazione non rappresenta semplicemente un indebolimento dello Stato ma una sua radicale riconfigurazione. Sassen parla di disassemblaggio delle tradizionali funzioni statali (autorità, territorio, diritti) mentre Ricciardi introduce il concetto di Stato globale come campo di tensione in cui lo Stato mantiene un ruolo cruciale ma agisce su molteplici piani, spesso in collaborazione con attori transnazionali. Sandro Mezzadra e Brett Neilson propongono di superare la tradizionale dicotomia tra unità statale ed eccezioni, analizzando come la logistica, insieme alla finanza e alle pratiche estrattive, ridefinisca il rapporto tra Stati e capitale globale in un contesto caratterizzato dalla proliferazione di forme statali ibride e dalla crescente influenza di protocolli tecnici, algoritmi finanziari e sistemi normativi transnazionali che sfuggono al controllo degli Stati nazionali. Il risultato è un panorama politico-istituzionale profondamente trasformato, in cui le tradizionali categorie di sovranità, cittadinanza e governance devono essere ripensate alla luce del ruolo ordinatore esercitato dalla logistica nella produzione di nuove configurazioni territoriali e di potere. 

A questo punto Grappi presenta il concetto di extrastatecraft introdotto dall’architetto e urbanista Keller Easterling, traducibile come “arte di governo supplementare” o “costruzione dello Stato extra-statale”, per descrivere quelle modalità di esercizio del potere che si sviluppano in spazi eccentrici rispetto alle istituzioni convenzionali, come appunto le reti infrastrutturali, le zone economiche speciali o gli standard tecnici internazionali. Questi sistemi dinamici, operando al di fuori dei consueti processi legislativi, generano forme di governo più agili e pervasive rispetto ai meccanismi tradizionali di governance, configurandosi come veri e propri siti di sovranità multipla e sovrapposta dove giurisdizioni domestiche e transnazionali entrano in collisione. La prospettiva di Easterling va oltre una visione meramente fisica delle infrastrutture, interpretandole piuttosto come dispositivi capaci di generare protocolli, ovvero formule ripetibili che orientano comportamenti, priorità economiche e organizzazione dello spazio. Le zone economiche speciali rappresentano in questo senso un caso emblematico visto che mantengono un rapporto ambivalente con lo Stato, operando talvolta sotto autorità indipendenti rispetto alle leggi locali, talaltra fungendo da proxy statali attraverso particolari regimi di eccezione, favoritismi e immunità quasi-diplomatiche che ricordano, come nota Easterling, certi meccanismi dell’epoca coloniale. Questa dinamica rivela come le infrastrutture contemporanee costituiscano le basi materiali di un nuovo potere logistico, la cui struttura corrisponde all’implementazione di specifici assetti procedurali e fisici replicabili in contesti diversi. L’analisi storica del Canal du Midi realizzato nella Francia del Seicento su commissione di Luigi XIV offre un significativo precedente di questa logica. Come dimostrano gli studi della storica Chandra Mukerji, questa imponente opera infrastrutturale, oltre a rafforzare il potere centrale della monarchia, generò un nuovo tipo di autorità logistica fondata su competenze tecniche e gestionali, in tensione con il potere strategico della corona. Mukerji evidenzia come la costruzione del canale abbia dato vita a un’amministrazione specialistica che, basando la sua legittimità sulla capacità di governare le infrastrutture materiali, rappresentò l’embrione di una forma di potere alternativo a quello politico tradizionale. Questa dialettica tra potere logistico e potere statale trova riscontri anche nelle analisi di Marx sul colonialismo britannico in India, dove il controllo dei sistemi di irrigazione si rivelò uno strumento cruciale per l’organizzazione del dominio coloniale, come confermano ricerche più recenti di studiosi come David Mosse. Nella contemporaneità la logistica assume una dimensione qualitativamente nuova con le singole infrastrutture non più elementi isolati ma nodi di reti globali che trascendono i confini statali, generando spazialità interconnesse che sfuggono a qualsiasi controllo univoco. Come osserva Alberto Toscano, la logistica rappresenta ormai una strategia contraddittoria del potere statale, dove lo Stato non appare più come un centro unitario ma come una rete gerarchizzata di istituzioni spesso in competizione interna. Questo processo ha modificato profondamente l’assetto territoriale degli Stati moderni, prima attraverso politiche di zonizzazione poi espandendosi su scala transnazionale e ridefinendo i tradizionali modelli statali (socialdemocratico, socialista o dello sviluppo) in funzione della loro integrazione nelle catene globali del valore. La cosiddetta politica dei corridoi, ovvero la pianificazione strategica di reti infrastrutturali transnazionali, costituisce l’espressione più avanzata di questa trasformazione. Essa si articola attraverso una complessa costellazione di elementi: la definizione di reti infrastrutturali fondamentali (core network); la creazione di enti di governance ibridi pubblico-privati; l’elaborazione di regolamenti e standard procedurali condivisi; la formazione di zone economiche speciali lungo i corridoi logistici; l’implementazione di dispositivi di sicurezza spesso militarizzati e la produzione di un immaginario discorsivo volto a legittimare i progetti attraverso strumenti quali rapporti tecnici, eventi promozionali e rappresentazioni cartografiche. Grappi individua tre principali modelli applicativi di questa politica dei corridoi: il primo è rappresentato dall’iniziativa cinese della Nuova Via della Seta che combina proiezione geopolitica esterna e riorganizzazione territoriale interna; il secondo coincide con il corridoio industriale Delhi-Mumbai in India, dove un mega-progetto infrastrutturale sta ridefinendo gli equilibri federali e le politiche di sviluppo; il terzo è da ricondurre alle reti transeuropee dei trasporti (Ten-T) e dell’energia (Ten-E) che stanno plasmando una governance sovranazionale ibrida, modificando profondamente il ruolo degli Stati membri dell’Unione Europea. Questi processi stanno generando una nuova forma di cittadinanza logistica stratificata, dove l’accesso a servizi essenziali come acqua, energia e connettività digitale dipende sempre meno dalla cittadinanza formale e sempre più da logiche contrattuali e finanziarie. Parallelamente, come nota il giurista Gunther Teubner, la logistica globale sta alimentando processi di giuridificazione transnazionale attraverso la proliferazione di regimi normativi settoriali (standard tecnici, clausole commerciali, protocolli operativi) che spesso entrano in collisione con i sistemi giuridici nazionali, erodendo le tradizionali prerogative statali in ambiti cruciali come i controlli doganali, la regolazione dei flussi finanziari e la sicurezza delle frontiere. Il linguaggio stesso della logistica costituisce un dispositivo cruciale in questa trasformazione. Esso, più che veicolare contenuti veritativi, mira a mantenere una perpetua fluidità discorsiva, generando continuamente aspettative attorno a progetti spesso iperbolici ma capaci di orientare risorse e decisioni a livello globale. La crisi finanziaria del 2007-2008 ha ulteriormente accelerato questa dinamica, con istituzioni come la Banca Mondiale (attraverso il suo Logistics Performance Index) che hanno progressivamente assunto le infrastrutture logistiche come chiave di volta per la ripresa economica e l’integrazione dei mercati. La dimensione politica della logistica si dispiega in tutta la sua complessità quando si analizza il rapporto dialettico tra la razionalità logistica e il mondo del lavoro, un rapporto che sfugge a qualsiasi lettura unidirezionale o deterministica. La logistica, mentre da un lato ha prodotto una spinta potente verso l’automazione integrale e il controllo algoritmico dei processi produttivi, dall’altro non ha affatto reso superfluo il lavoro umano ma lo ha piuttosto riconfigurato in forme nuove e spesso più oppressive. È proprio la natura stessa della logistica, con la sua esigenza di resilienza e adattamento a condizioni contingenti in sistemi estesi su scala globale, a richiedere paradossalmente una rinnovata centralità del fattore lavoro, sebbene in forme profondamente trasformate. Questo paradosso apre uno squarcio illuminante su ciò che realmente costituisce l’oggetto di analisi: non semplicemente il lavoro “nella” logistica come settore economico particolare ma il modo in cui la razionalità logistica ha rimodellato l’intero universo delle condizioni lavorative contemporanee, con particolare riguardo a tre dimensioni fondamentali che si intrecciano continuamente: i processi di automazione e informatizzazione, la capacità della logistica di articolare condizioni eterogenee e le tensioni sistemiche che queste dinamiche generano. Colossi del capitalismo delle piattaforme come Amazon rappresentano l’avanguardia di questa trasformazione, con magazzini sempre più automatizzati dove sciami di robot Kiva collaborano con lavoratori umani ridotti a semplici esecutori di movimenti standardizzati mentre sperimentazioni avanzate come i droni per le consegne prefigurano un futuro di automazione ancora più spinta. L’uso pervasivo di tecnologie di tracciamento, dai codici a barre alla geolocalizzazione in tempo reale, combinato con sistemi complessi come quelli che regolano il traffico delle mega-portacontainer, potrebbe far pensare a un mondo lavorativo completamente assoggettato alla tirannia degli algoritmi. Eppure, la miriade di conflitti che percorrono le catene globali del valore dimostra quanto questa immagine sia fuorviante. La logistica non corrisponde affatto alla rappresentazione levigata e senza attriti della sua autorappresentazione tecnologica, essa è piuttosto un gigantesco apparato che produce simultaneamente processi di standardizzazione e una moltiplicazione di condizioni differenziali, un sistema che mentre connette realtà lontane e disomogenee, genera continuamente nuove fratture e asimmetrie. L’adozione massiccia di software gestionali non ha affatto pacificato i rapporti di produzione ma ha semmai radicalizzato le forme del comando, occultando dietro l’apparente neutralità degli algoritmi la violenza strutturale insita nelle catene globali della produzione. Gli studi pionieristici di Bonacich e Wilson sul lavoro portuale e logistico hanno messo in luce come la rivoluzione logistica abbia prodotto tre mutamenti fondamentali nell’organizzazione del lavoro contemporaneo. In primo luogo, si è verificato un impressionante spostamento di potere verso i grandi retailer e distributori globali, che dalle vette delle loro supply chain impongono condizioni draconiane ai fornitori sottostanti, generando una pressione al ribasso su salari e condizioni lavorative che si propaga a cascata lungo tutta la catena. In secondo luogo, dagli anni ‘90 abbiamo assistito all’esplosione dell’offshoring produttivo, con la frammentazione geografica delle catene del valore basata sul calcolo spietato del costo per unità che ha creato rapporti produttivi sempre più contingenti e instabili. Terzo, e forse più significativo, è lo slittamento verso modelli organizzativi fondati sulla containerizzazione, l’intermodalità e la produzione just-in-time che hanno rivoluzionato i tempi e i ritmi del lavoro. Queste trasformazioni hanno prodotto effetti devastanti: precarizzazione estrema, indebolimento storico dei sindacati, processi di razzializzazione della forza lavoro, tutti fattori che convergono nel determinare un generale peggioramento delle condizioni lavorative attraverso tutti i segmenti dell’industria globale, dalla produzione alla distribuzione fino alla vendita al dettaglio. Particolarmente emblematico è il ricorso massiccio alle agenzie interinali per il reclutamento della manodopera, una strategia che risponde all’esigenza delle corporation di eludere qualsiasi forma di responsabilità diretta verso i lavoratori. Queste agenzie, operando come veri e propri schermi giuridici, assumono su di sé l’onere contrattuale, spesso offrendo salari inferiori agli standard settoriali e ricorrendo a pratiche come il benching (mantenere lavoratori in standby senza garanzie di impiego). Ma non si tratta semplicemente di ridurre i costi perché questa architettura permette una vera e propria deresponsabilizzazione strutturale, dove le grandi corporation possono disconoscere qualsiasi rapporto con i lavoratori che materialmente contribuiscono alla loro catena del valore. Come osservano acutamente Bonacich e Wilson, in questo sistema per le compagnie non esiste una cosa come una rivendicazione legittima e tutte le rivendicazioni da parte dei lavoratori sono fraudolente, una negazione radicale della stessa possibilità del conflitto sociale. Deborah Cowen ha dimostrato come queste dinamiche rappresentino l’estensione su scala globale dei principi del taylorismo che dalla fabbrica fordista si sono ora espansi per colonizzare l’intera supply chain. Il paradosso è che mentre la logistica promuove il principio della supply chain visibility (tracciabilità completa della catena), questa visibilità si interrompe bruscamente quando si tratta di rendere visibili le condizioni reali di lavoro. I grandi committenti preferiscono nascondersi dietro una cortina di subappalti mentre pratiche come il benching creano eserciti di riserva di lavoratori precari, come ha documentato Xiang Biao nel caso dei migranti altamente qualificati nel settore IT. Parallelamente a questo peggioramento delle condizioni, la logistica ha sviluppato sistemi di controllo sempre più sofisticati. L’introduzione di KPI (Key Performance Indicators) personalizzati permette una misurazione granulare di ogni singola prestazione lavorativa mentre l’integrazione di questi dati in software gestionali crea un circuito di feedback continuo che estende i principi del management scientifico a ogni angolo della produzione globale. Questa sovranità informatizzata, come l’hanno definita Neilson e Rossiter, frammenta il lavoro in una miriade di micro-prestazioni misurabili per poi ricomporle in un sistema di controllo centralizzato dove “il codice è il Re”. La containerizzazione, che tecnicamente ha reso possibile la rivoluzione logistica, combinata con tecnologie come geotag e codici a barre, ha elevato questo controllo a livelli senza precedenti, attribuendo un’importanza ossessiva a ogni singolo gesto, movimento e funzione corporea nel processo produttivo. Come osservano Neilson e Rossiter, in questo sistema il confine tra l’esecuzione di un compito e la comunicazione sulla sua conclusione è diventato sempre più stretto o indistinto, con il lavoro vivo che viene catturato e disciplinato dagli algoritmi in tempo reale. Eppure, questa pretesa di controllo totale si scontra continuamente con l’irriducibile resistenza del lavoro vivo. Le ricerche di Pun Ngai sulle fabbriche cinesi della Foxconn che producono per Apple rivelano come la sofisticata organizzazione logistica si traduca in condizioni di sfruttamento brutale, dove sistemi gestionali avanzati convivono con ritmi di lavoro disumani. Tragedie come il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013 (dove morirono 1.129 operai tessili) mostrano il volto più oscuro di queste catene globali ma situazioni analoghe, seppure meno eclatanti, si ritrovano anche nel cuore dell’Europa sviluppata, come dimostrano le lotte dei lavoratori migranti nei magazzini logistici del Nord Italia. Qui un sistema di appalti e subappalti gestito da cooperative ha creato condizioni di lavoro ai limiti dello sfruttamento, con grandi gruppi come TNT, DHL o la stessa Coop Adriatica che fingono di ignorare quello che accade alla base della loro catena di fornitura dice Grappi. La logistica non ha solo trasformato i processi lavorativi ma ha anche ridefinito i discorsi sul lavoro, depoliticizzando le condizioni di sfruttamento e presentandole come semplici variabili tecniche. Cowen evidenzia come le infrastrutture logistiche siano sempre più concettualizzate come questioni di sicurezza nazionale, dove qualsiasi interruzione del flusso viene trattata come una minaccia alla sicurezza pubblica. Questo discorso, che affonda le sue radici nell’intreccio storico tra logistica e apparati militari, produce l’effetto perverso di criminalizzare le lotte sindacali, trasformando ogni rivendicazione lavorativa in un potenziale attentato all’ordine economico. La forza della logistica sta nella sua capacità di valorizzare e articolare differenze geografiche, di genere e giuridiche per segmentare la forza lavoro. Le ricerche di Anna Tsing sulle nicchie lavorative nelle catene globali mostrano come specifici segmenti di popolazione (donne migranti nelle fabbriche cinesi, uomini migranti nei magazzini italiani) vengano selezionati in base a caratteristiche sociali e demografiche che li rendono più vulnerabili allo sfruttamento. In Italia, ad esempio, il sistema delle cooperative di facchinaggio ha sfruttato abilmente la legislazione sull’immigrazione, offrendo contratti a tempo indeterminato necessari per il rinnovo dei permessi di soggiorno ma in condizioni lavorative spesso ai limiti della legalità. Questa differenziazione democratica della forza lavoro, come l’hanno definita Grappi e Sacchetto, frammenta le possibilità di organizzazione collettiva, rendendo più difficile la solidarietà tra lavoratori di settori diversi. Nonostante questo apparato di controllo e segmentazione, la logistica deve continuamente fare i conti con forme di resistenza che ne minano la presunta invulnerabilità. Scioperi nei magazzini, blocchi portuali, ma anche forme più sottili come l’elevato turnover in settori come la logistica o l’elettronica (in Cina si arriva al 50% annuo) dimostrano che i lavoratori non sono mere variabili algoritmiche. Come hanno mostrato Sacchetto e Andrijasevic studiando le fabbriche dell’Est Europa, questa mobilità può essere letta come una forma di resistenza attiva, dove i lavoratori votano con i piedi abbandonando condizioni inaccettabili. Si tratta di un fenomeno che spiazza tanto i datori di lavoro quanto i sindacati tradizionali, abituati a rappresentare lavoratori stabili nello spazio e nel tempo. La logistica aspira a sincronizzare l’intero mondo del lavoro al ritmo implacabile del mercato globale ma deve continuamente negoziare con le frizioni e le resistenze che emergono dai suoi stessi meccanismi. Mentre cerca di ridurre il lavoro a pura variabile algoritmica, dipende in realtà dalla cooperazione e dall’intelligenza dei lavoratori che spesso trovano il modo di sabotare, sia pure in forme molecolari, il controllo manageriale. La tensione fondamentale della logistica contemporanea risiede proprio in questo paradosso: da un lato la spinta verso un controllo integrale e una governamentalità algoritmica del lavoro; dall’altro l’irriducibile capacità di resistenza e adattamento del lavoro vivo che continua a sfuggire alla totale sussunzione. In questo equilibrio instabile, fatto di avanzate tecnologie di controllo e antiche forme di sfruttamento, di automazione spinta e lavoro manuale estremo, si gioca una delle partite decisive del capitalismo contemporaneo.

4. Che dicono i comunisti?

Sul tema della logistica ha scritto molto Into the Black Box, per esempio nel libro Le frontiere del capitale. Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo. Questo collettivo di ricercatori legge la logistica come una controffensiva del capitale contro il potere operaio fordista, frammentando la produzione e indebolendo le tradizionali forme di organizzazione sindacale. Essa è al tempo stesso un’ideologia che promuove l’efficienza e l’eliminazione di ogni attrito e un campo di battaglia, dove si sperimentano nuove forme di resistenza, dai picchetti dei magazzini alle proteste dei rider delle piattaforme digitali. La sua centralità si è accentuata dopo la crisi del 2007-2008, quando è emersa come possibile soluzione alla stagnazione economica, ottimizzando i tempi di circolazione e riducendo i costi. Ma la logistica non è solo una questione tecnica: è produzione di spazio, con infrastrutture che ridisegnano interi territori; è ritmo, imponendo una sincronizzazione globale dei tempi di lavoro e consumo; è tecnologia, dall’e-commerce alla gig economy. Eppure, dietro l’apparente seamless integration del sistema, persistono fratture profonde con lavoratori sfruttati, comunità marginalizzate, economie locali devastate dalla concorrenza globale. Adottare uno sguardo logistico significa quindi decostruire le narrazioni dominanti, mostrando come la mobilità e la fissità, il globale e il locale, siano intrecciati in un unico campo di tensione. Significa riconoscere che la logistica non è solo un motore di crescita ma anche un dispositivo di controllo e disciplinamento che produce nuove gerarchie e forme di sfruttamento. Allo stesso tempo, però, essa apre anche spazi di conflitto e possibilità inedite di organizzazione, come dimostrano le lotte dei lavoratori dei magazzini o delle piattaforme digitali. Per comprendere appieno questa complessità, è necessario un approccio transdisciplinare che unisca analisi economica, studi urbani, teoria politica e indagini etnografiche. Solo così è possibile cogliere le dinamiche nascoste del capitalismo contemporaneo, dove accelerazione e crisi, innovazione e regressione, convivono in un equilibrio instabile e conflittuale. La logistica diventa una lente attraverso cui osservare le trasformazioni del presente, rivelando tanto le logiche del dominio quanto le possibilità di emancipazione. Un altro spunto interessante ci viene da Jasper Bernes e il suo Comunismo e logistica che inizia con una riflessione articolata sul ruolo della teoria nella lotta contro il capitale e lo Stato, analizzando criticamente due approcci storicamente contrapposti all’interno della tradizione marxista e rivoluzionaria. In primis la concezione pedagogico-didattica, dominante nel marxismo ortodosso della Seconda e Terza Internazionale e secondariamente una visione anti-didattica che trova le sue radici in alcune intuizioni del giovane Marx e che si sviluppa poi in correnti eterodosse come l’ultrasinistra comunista. La prima concezione, incarnata da figure come Lenin e Kautsky (nonostante le loro profonde divergenze politiche), assegna alla teoria una funzione essenzialmente pedagogica. In questa prospettiva, la coscienza rivoluzionaria non emerge spontaneamente dalla classe operaia ma deve essere introdotta “dall’esterno” da intellettuali e avanguardie organizzate. Come sottolinea Bernes, esiste qui una sorprendente continuità tra Lenin e il suo presunto antagonista Kautsky: entrambi condividono l’idea che, senza la mediazione del partito rivoluzionario e della teoria scientifica, il proletariato sia condannato a rimanere prigioniero di una coscienza meramente tradunionista. Questa visione, nelle sue varie declinazioni, dalle formulazioni più dirette del leninismo alle elaborazioni più sofisticate di Gramsci sull’egemonia o di Althusser sugli apparati ideologici di Stato, concepisce la teoria come uno strumento per “armare” la coscienza di classe, indirizzandola verso obiettivi rivoluzionari. Bernes individua un’alternativa a questo approccio in alcune riflessioni del giovane Marx, in particolare nella sua corrispondenza con Arnold Ruge. Qui Marx rifiuta esplicitamente la posizione del maestro che impartisce lezioni alle masse: “noi non diciamo al mondo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta. Noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa che esso deve fare propria, anche se non lo vuole”. Questa formulazione contiene un ribaltamento cruciale: la coscienza rivoluzionaria non viene introdotta dall’esterno ma emerge immanentemente dalle lotte stesse. La teoria, in questa prospettiva, non è un manuale di istruzioni ma un momento di auto-chiarificazione collettiva, una sintesi riflessiva delle contraddizioni già presenti nella pratica sociale. Fredric Jameson, con il suo concetto di mappe cognitive, offre una metafora particolarmente efficace per comprendere questa seconda concezione della teoria. Di fronte alla complessità sfuggente del capitalismo postmoderno, simbolicamente rappresentata dall’architettura disorientante del Bonaventure Hotel, la teoria rivoluzionaria non può pretendere di offrire una visione panoramica e onnicomprensiva dall’alto. Piuttosto, assomiglia a una mappa tracciata da chi è perso nello stesso labirinto, un tentativo parziale e situato di orientarsi in uno spazio che sfugge continuamente alla comprensione totale. C’è una tensione in Jameson tra questa concezione immanente della teoria e la sua persistente adesione a una visione più tradizionale del ruolo pedagogico degli intellettuali. Essa diventa particolarmente evidente nell’analisi delle correnti dell’ultrasinistra comunista che sviluppano fino alle estreme conseguenze la critica alla concezione pedagogica della teoria. Per pensatori come Gilles Dauvé o il collettivo Théorie Communiste, la teoria rivoluzionaria tradizionale, con la sua pretesa di guidare la classe operaia, finisce per riprodurre la divisione tra lavoro intellettuale e manuale, costituendo di fatto una nuova forma di dominio. La risposta a questa critica, però, rischia di cadere in un paradosso perché se ogni intervento intellettuale è visto come una corruzione dell’autonomia operaia, la teoria si condanna a un ruolo puramente contemplativo, limitandosi a descrivere le lotte senza mai impegnarsi in una riflessione strategica. Come nota acutamente Bernes, questa posizione produce una coscienza infelice che sa di non poter intervenire senza tradire i propri principi e al tempo stesso non può sottrarsi alla consapevolezza dell’importanza dell’analisi teorica. Bernes supera questa antinomia proponendo una terza via: se la teoria emerge veramente come momento di auto-chiarificazione delle lotte, allora non c’è motivo di temere l’intervento strategico. Ogni prospettiva che militanti e intellettuali portano nelle lotte è già parte del conflitto stesso e può essere discussa, contestata o fatta propria dai partecipanti. La teoria non è un dogma calato dall’alto né una rinuncia all’azione ma un processo collettivo di riflessione che nasce dall’esperienza concreta della lotta e che a essa ritorna. L’esempio del blocco del porto di Oakland durante il movimento Occupy nel 2011 illustra perfettamente questa dinamica. I partecipanti al blocco, molti dei quali senza una formazione teorica specifica, svilupparono una comprensione intuitiva ma acuta dell’importanza strategica del porto nell’economia globale. Da questa azione emersero domande cruciali: quali catene produttive vengono effettivamente interrotte da un blocco portuale? Qual è il rapporto tra lavoratori sindacalizzati e attivisti precari? Come si collega questa forma di lotta ad altre esperienze storiche, dai piqueteros argentini ai piquets volants francesi? Queste domande non erano astratte ma sorgevano direttamente dalla pratica del conflitto, mostrando come la teoria possa emergere “dal basso” come strumento per comprendere e potenziare l’azione collettiva. Contro la tentazione di vedere la riflessione teorica come qualcosa di separato dall’azione concreta, Bernes insiste sul fatto che le migliori analisi nascono dall’interno dei conflitti sociali, come tentativo di dare senso a esperienze collettive e di aprire nuove possibilità strategiche. I blocchi portuali hanno dimostrato, inoltre, in modo lampante la vulnerabilità di un sistema economico che ha fatto della fluidità assoluta il suo principio organizzativo fondamentale. Questa vulnerabilità non è un incidente di percorso ma il rovescio della medaglia di un modello produttivo che, dagli anni ‘80 in poi, ha progressivamente dissolto i confini tradizionali tra produzione e circolazione, tra fabbrica e mercato. Il capitalismo è sempre stato un sistema globale, dalle sue origini segnate dalle conquiste coloniali e dalla tratta degli schiavi fino all’epoca industriale, quando le fabbriche europee dipendevano già da reti globali di approvvigionamento. La globalizzazione contemporanea presenta una differenza qualitativa radicale: non si tratta semplicemente di un’estensione geografica, bensì di una fusione organica tra processi produttivi e circuiti distributivi. Il modello just-in-time, nato nel Toyota Production System e poi diffusosi a livello planetario, rappresenta la punta di diamante di questa trasformazione. Al cuore di questo sistema c’è una filosofia che considera ogni stock, ogni pausa, ogni accumulo come uno spreco da eliminare. Le merci devono fluire come informazioni, avvicinandosi il più possibile alla velocità della luce digitale. Questo nuovo paradigma ha stravolto i rapporti di forza tradizionali con i giganti del retail come Walmart che dettano legge su design e prezzi senza assumersi la responsabilità diretta della produzione, in quello che Bennett Harrison ha definito un sistema di concentrazione senza accentramento. I dati delle vendite al minuto (POS) viaggiano a ritroso lungo la catena di fornitura, trasformando la produzione da processo “push” (dove si produceva per il magazzino) a sistema “pull” (dove si produce solo ciò che è già stato venduto). La rivoluzione logistica, resa possibile dall’invenzione del container e dall’evoluzione delle tecnologie informatiche, non è semplicemente un settore industriale tra gli altri. Essa rappresenta una metamorfosi del capitalismo stesso, dove la produzione viene progressivamente assorbita nella circolazione, dove la fabbrica si dissolve in una rete globale di nodi produttivi interconnessi, dove il valore si genera sempre più attraverso il controllo dei flussi piuttosto che attraverso la trasformazione materiale. Questa trasformazione trova una potente metafora nella concezione idraulica del capitalismo sviluppata da Deleuze e Guattari. L’economia globale appare sempre più come un immenso sistema di vasi comunicanti, dove il potere non risiede tanto nella proprietà dei mezzi di produzione quanto nella capacità di regolare pressioni e direzioni dei flussi. La logistica diventa così l’arte di governare questi movimenti, di accelerarli, deviarli, interromperli secondo le esigenze del capitale. Le conseguenze politiche di questa mutazione sono profonde. Il sistema mostra una fragilità inedita, con un blocco in un nodo logistico chiave che può paralizzare intere catene del valore ma allo stesso tempo consolida il potere di chi controlla le infrastrutture della circolazione globale. Allora porti, centri di distribuzione e snodi logistici diventano contemporaneamente i punti nevralgici del potere economico e i suoi anelli deboli, luoghi dove la materialità del sistema torna a farsi sentire con tutta la sua forza, nonostante i sogni di fluidità assoluta che animano le fantasie del capitalismo digitale globale. La logistica si rivela così come linguaggio attraverso cui il capitalismo contemporaneo pensa se stesso e organizza il suo dominio. A questo punto Bernes prende le mosse da una metafora spaziale, quella di mappa cognitiva, utilizzata per descrivere la posizione dei lavoratori in lotta all’interno della vasta rete logistica globale. Questa immagine viene immediatamente problematizzata perché se da un lato permette di visualizzare la scala monumentale delle infrastrutture di circolazione, risulta insufficiente perché riduce la logistica a una questione puramente geografica, tralasciandone la profondità storica e politica. La mappa, in altre parole, rischia di essere un’astrazione statica, un’istantanea senza temporalità mentre la logistica è un processo dinamico, plasmato da rapporti di forza, crisi economiche e strategie di controllo. Per comprenderla appieno occorre quindi integrarne la dimensione spaziale con quella temporale, trasformando la mappa in una storia, un diagramma o una cartografia che tenga conto delle cause strutturali e delle conseguenze sociali. La necessità di approfondimento storico conduce alla domanda centrale: perché il capitale, a partire dagli anni ’70, ha fatto della logistica un pilastro della sua riorganizzazione? La risposta va cercata nella crisi strutturale del modello di accumulazione fordista-keynesiano che aveva garantito crescita e stabilità nel dopoguerra ma che, a partire dagli anni ’70, entrò in una fase di stagnazione caratterizzata da un calo dei profitti industriali. Di fronte a questa crisi, il capitale reagì lungo due direttrici principali, entrambe volte a ripristinare la redditività: la finanziarizzazione, con massicci flussi di denaro spostati verso attività speculative, mercati immobiliari e strumenti creditizi e un investimento senza precedenti nella sfera della circolazione, reso possibile da innovazioni tecnologiche come il container, i sistemi informativi integrati e le reti di trasporto globali. Questi sviluppi non solo accelerarono la velocità dei flussi commerciali riducendo il tempo di rotazione del capitale e aumentando così i profitti complessivi ma abbatterono anche i costi di transazione, liberando risorse da reinvestire altrove. L’obiettivo era sia di tipo quantitativo (aumentare volume e velocità) che qualitativo. Infatti la logistica mirava all’agilità, cioè la capacità di adattarsi in tempo reale alle fluttuazioni del mercato, spostando produzioni, modificando rotte e riconfigurando intere catene di approvvigionamento in risposta a variazioni della domanda o a crisi improvvise. Per comprendere appieno la logistica contemporanea occorre guardare alle sue radici storiche che affondano nel terreno della guerra. Fino alla Seconda Guerra Mondiale essa era essenzialmente una disciplina militare, legata alla movimentazione di truppe e rifornimenti. Solo nel dopoguerra, grazie alla stretta collaborazione tra complesso militare-industriale, università e grandi corporation, mediata da discipline come la cibernetica, la teoria dell’informazione e la ricerca operativa, essa si trasformò in una scienza aziendale. Questo passaggio implicò una continuità strategica con molti degli strumenti chiave della logistica moderna che furono prima sperimentati in contesti bellici e solo successivamente adattati al commercio globale. L’esempio più emblematico è quello del container, la cui adozione su larga scala avvenne durante la guerra del Vietnam, quando l’esercito statunitense, di fronte a una crisi logistica, adottò la soluzione proposta da Malcolm McLean della Sea-Land Service, dimostrandone l’efficacia per il trasporto internazionale. Allo stesso modo, la tecnologia RFID, oggi centrale nella tracciabilità delle merci, fu inizialmente sviluppata per scopi militari in Iraq e Afghanistan, prima di essere imposta da colossi come Walmart ai propri fornitori. Questo legame organico tra guerra e commercio non è metaforico perché la logistica è, in sostanza, una forma di guerra condotta attraverso il mercato, un’offensiva per conquistare nuovi territori economici e neutralizzare i concorrenti. La logistica è però irriducibile ad un’arma offensiva, essa è anche un sistema difensivo, progettato per garantire resilienza di fronte a shock esterni che si tratti di blocchi operai, disastri naturali o interruzioni nella catena di fornitura. Se l’agilità è il principio guida dell’aspetto offensivo, cioè flessibilità, adattamento, riconfigurazione permanente, la resilienza è quello difensivo, basato su meccanismi di stabilizzazione e adattamento continuo per assorbire le perturbazioni. Questi due aspetti, in realtà, sono inseparabili in quanto l’agilità di un’azienda si traduce in maggiore volatilità per il sistema nel suo insieme, costringendo gli altri attori a diventare più resilienti. In un’epoca di crisi economica e collasso ambientale, la logistica si sta sempre più configurando come una scienza della gestione del rischio, un tentativo di governare l’instabilità anziché eliminarla ma la dimensione più cruciale della logistica è il suo ruolo nella ristrutturazione globale del rapporto tra capitale e lavoro. Le catene di approvvigionamento frammentate e riconfigurabili permettono al capitale di praticare un arbitraggio salariale su scala planetaria, spostando la produzione dove il lavoro è più docile e meno pagato, mettendo così i lavoratori di diversi paesi in competizione tra loro. Questo ha portato, negli anni ’80 e ’90, a un sistematico smantellamento delle roccaforti sindacali e a una precarizzazione diffusa della forza lavoro, divisa tra un nucleo stabile e una periferia di lavoratori temporanei, subappaltati e senza diritti. La logistica è stata, in questo senso, una delle armi più efficaci nella controffensiva globale del capitale contro il lavoro, permettendogli di circondare le resistenze operaie, aggirare le fortezze sindacali e frammentare la forza lavoro in una miriade di figure precarie e intercambiabili.  

Questa dispersione ha creato però una vulnerabilità strategica per il capitale: se l’intero sistema dipende da reti di circolazione sempre più complesse e interdipendenti, allora è lì che può essere colpito. I blocchi portuali, ad esempio, non sono solo una risposta alla disoccupazione o alla precarietà ma una controffensiva nello stesso spazio, quello della circolazione, che il capitale ha eletto a terreno privilegiato del suo dominio. Le lotte logistiche sono doppiamente determinate dalla ristrutturazione del capitale con i lavoratori che sono spinti ad agire nella sfera della circolazione perché il capitale ha reso sempre più difficile l’organizzazione nei luoghi di produzione tradizionali e allo stesso tempo ha trasformato la circolazione nel cuore pulsante dell’accumulazione, cioè un punto nevralgico da cui può essere destabilizzato. La logistica è sviluppata da Bernes come un progetto intrinseco del capitale volto alla mappatura cognitiva, dove la “visibilità” assume un ruolo centrale nel garantire il controllo sulle catene di approvvigionamento. Questo controllo si realizza attraverso una duplicazione dei flussi, infatti accanto al movimento fisico delle merci, esistono flussi informativi che li sorvegliano, spesso automatizzati, riducendo al minimo l’intervento umano. La logistica, così come la finanza con i suoi modelli predittivi, struttura rappresentazioni che permettono di dominare la complessità del sistema delle merci. Contro questa logistica del capitale, si delinea la possibilità di una contro-logistica, un’arte della guerra proletaria che utilizzi gli stessi strumenti tecnici e concettuali per individuare e sfruttare punti critici, come i colli di bottiglia nella circolazione delle merci. Un sistema del genere potrebbe fornire ai manifestanti informazioni precise sul contenuto dei container, sulle rotte commerciali e sull’impatto economico di eventuali interruzioni, ottimizzando così l’efficacia delle azioni di blocco. Un esempio concreto è offerto dalle proteste francesi del 2010 contro la riforma delle pensioni, dove gruppi mobili di 20-100 persone bloccavano siti strategici in modo coordinato, dimostrando come una simile conoscenza logistica avrebbe potuto potenziare notevolmente la loro capacità di pressione. Oltre all’utilità strategica, la contro-logistica possiede un valore esistenziale: la possibilità di vedere le proprie azioni inserite in un contesto più ampio, accanto a quelle di altri, e di percepirne gli effetti concreti, conferisce un significato più profondo alla lotta. Questo meccanismo è evidente in fenomeni come la Primavera Araba, dove la diffusione di immagini di resistenza ha avuto un effetto moltiplicatore, rafforzando la determinazione dei manifestanti attraverso una visibilità condivisa. La teoria, allora, svolge una funzione cruciale nel rendere visibili le lotte, connettendole tra loro e permettendo ai protagonisti di riconoscersi in un quadro più ampio di antagonismo. Richard Sennett, in L’uomo flessibile, approfondisce il tema della leggibilità del lavoro nel capitalismo contemporaneo, osservando come l’identità professionale si sia indebolita a causa dell’opacità dei processi produttivi. In una panetteria computerizzata da lui studiata i lavoratori non entrano più in contatto fisico con il pane ma lo producono interagendo con icone su schermi, senza comprenderne il processo reale. Questo sistema, apparentemente trasparente nell’interfaccia, rende invece il lavoro illeggibile con i panettieri che non sanno più come intervenire manualmente in caso di guasto poiché il loro sapere è stato esternalizzato nelle macchine. Sennett rileva un paradosso: più le interfacce digitali sono semplificate, più il processo complessivo diventa inaccessibile alla comprensione diretta. Ciò solleva una questione cruciale, ovvero, le rappresentazioni tecnologiche, se non sono accompagnate da una capacità pratica di agire sul mondo, finiscono per oscurarlo anziché chiarirlo. Questa problematica riguarda tanto i lavoratori quanto i manifestanti perché affinché una lotta possa persistere, deve riconoscersi nei propri effetti, collocandosi non solo nello spazio concreto del capitale ma anche in una sequenza politica con una storia e un orizzonte di possibilità. Ciò richiede una conoscenza praticabile che possa essere tradotta in azione. Tuttavia i manifestanti si trovano spesso in una condizione di espropriazione cognitiva, ridotti a meri punti di passaggio in un sistema tecnico che comprime la loro agency in pochi kilobyte di dati. Bernard Stiegler, teorico della tecnologia, definisce questo processo proletarizzazione cognitiva e affettiva da cui ne consegue che i lavoratori sono espropriati non solo dei mezzi di produzione ma anche del savoir faire e del savoir vivre. Questo fenomeno rientra in una storia più ampia di grammatizzazione, in cui conoscenza e memoria vengono scomposte in unità discrete (fonemi, grafemi, bit) e poi esternalizzate in supporti tecnici. Le tecnologie digitali rappresentano la fase finale di questo processo, in cui le facoltà cognitive e mnemoniche diventano dipendenti da protesi esterne, come il cloud computing. Contrariamente alle letture ottimiste sul general intellect che vedono nell’informatica una socializzazione del sapere, Stiegler evidenzia una perdita di autonomia individuale e collettiva. Sennett offre una correzione fondamentale a questa analisi sostenendo come un approccio marxista tradizionale presupporrebbe che i lavoratori desiderino riappropriarsi del sapere perduto ma molti di loro non nutrono questo desiderio. Per i panettieri computerizzati il lavoro è un’attività astratta, priva di significato, e la loro vita reale si svolge altrove. Solo il caporeparto, formatosi come artigiano, vive la dequalificazione come una perdita personale. Ciò indica che l’alienazione contemporanea non sempre genera una spinta alla riappropriazione e non a caso molti lavoratori non cercano più dignità nel lavoro che rimane per loro un’attività estranea e incomprensibile. La ristrutturazione del processo lavorativo, guidata dalla rivoluzione logistica, ha frammentato il lavoro in componenti illeggibili e geograficamente disperse, rendendo difficile per i proletari visualizzare il proprio ruolo nel sistema. Inoltre il potere del capitale di delocalizzare e precarizzare il lavoro ha reso quasi impossibile qualsiasi rivendicazione classica di controllo operaio. Se i lavoratori non possono più affermare “siamo noi che abbiamo costruito questo mondo! Ed è a noi che deve appartenere!” è perché il loro rapporto con il processo produttivo è diventato troppo mediato e opaco. Senza la possibilità di immaginare una riappropriazione dei mezzi di produzione, l’orizzonte rivoluzionario tradizionale si dissolve. Se non si può visualizzare ciò che si vorrebbe conquistare e se il proprio posto nel sistema rimane incerto, la stessa idea di un’alternativa diventa inafferrabile. Bernes ritiene ci siano una serie di difficoltà fondamentali che minano alla radice l’ipotesi di una riconfigurazione anticapitalista delle infrastrutture produttive e logistiche esistenti. Il problema non risiede in una mera carenza di comprensione teorica, risolvibile attraverso una migliore mappatura cognitiva dei processi economici, ma nell’intrinseca incompatibilità tra la logica di tali sistemi e le esigenze di un’organizzazione post-capitalista. Alberto Toscano, nel suo tentativo di superare le tendenze meramente negative dell’anticapitalismo contemporaneo, avanza l’idea che le reti logistiche globali possano essere riadattate a fini emancipatori, trattandole non come oggetti di sabotaggio ma come strutture potenzialmente riconvertibili. Tuttavia, questa prospettiva presuppone, in modo non sufficientemente problematizzato, che tutte le tecnologie capitaliste contengano in sé un potenziale progressivo, accessibile attraverso una forma di negazione dialettica. Questa assunzione si rivela particolarmente fragile nel caso della logistica, la cui funzione primaria non è tanto l’ottimizzazione tecnica della produzione quanto la massimizzazione dello sfruttamento attraverso la delocalizzazione e la compressione salariale. A differenza di altre configurazioni produttive, come la fabbrica fordista, che perseguivano l’aumento della produttività per generare plusvalore relativo, la logistica opera principalmente attraverso l’estrazione di plusvalore assoluto, spostando la produzione verso aree a basso costo del lavoro e neutralizzando le resistenze operaie. La sua utilità per il capitale risiede proprio in questa capacità di rendere il lavoro il più precario e sfruttabile possibile, il che solleva seri dubbi sulla possibilità di riutilizzare tali meccanismi in un contesto non capitalista. Se i lavoratori tentassero di impadronirsi dei segmenti chiave di questo sistema si troverebbero a gestire un apparato progettato per perpetuare disparità salariali e dipendenze globali, la cui stessa ragion d’essere svanirebbe in assenza della logica del profitto. Anche l’idea di una riconversione parziale o pragmatica delle infrastrutture esistenti si scontra con una serie di ostacoli materiali. La logistica contemporanea è strutturata attorno alla circolazione di merci, non di valori d’uso, ed è ottimizzata per soddisfare le esigenze della produzione capitalistica: imballaggi superflui, differenziazioni di prodotto artificiali e catene di approvvigionamento basate su squilibri commerciali. Eliminata la forma-merce, interi segmenti di questo sistema perderebbero ogni funzione. Inoltre, la distribuzione geografica della produzione, con interi settori concentrati in specifiche regioni, come il tessile in Bangladesh o l’elettronica in Asia orientale, implica che il sistema non sia scalabile verso il basso ma possa essere gestito solo come un tutto integrato. Ciò rende impossibile una transizione graduale o localizzata poiché ogni tentativo di riorganizzazione dovrebbe affrontare fin dall’inizio la complessità dell’intera rete globale. Questa impossibilità di frammentazione solleva ulteriori interrogativi sulla fattibilità di una pianificazione socialista su scala mondiale. I sostenitori della riconfigurazione evocano soluzioni tecnologiche, come l’uso di supercomputer, per gestire la complessità logistica, ma non spiegano come tali sistemi possano conciliarsi con l’autodeterminazione dei produttori o con l’abolizione del lavoro salariato. Se l’allocazione delle risorse continuasse a essere mediata da algoritmi, in che modo ciò si differenzierebbe dal meccanismo dei prezzi? E come si risolverebbero le disuguaglianze tra regioni con diversi livelli di produttività o risorse? L’appello di Toscano all’alienazione necessaria di Marcuse, presentata come un male inevitabile per mantenere in funzione il sistema tecnico, tradisce una tensione irrisolta tra l’ideale dell’autogestione e le esigenze di un’amministrazione centralizzata su scala planetaria. Il problema più grave emerge quando si considera la dinamica storica di una transizione rivoluzionaria. Il capitalismo contemporaneo, con la sua divisione internazionale del lavoro e la concentrazione di interi settori produttivi in poche regioni, richiederebbe una rottura immediatamente globale, poiché qualsiasi tentativo parziale di espropriazione si scontrerebbe con la dipendenza da catene di approvvigionamento ancora capitaliste. Le esperienze della Russia rivoluzionaria e della Spagna anarchica dimostrano come la necessità di commerciare con l’estero per ottenere beni essenziali abbia riprodotto dinamiche di coercizione e sfruttamento, trasformando i rivoluzionari in amministratori di un’accumulazione forzata. Oggi, con la deindustrializzazione del Nord globale e l’iperconcentrazione produttiva nel Sud, la situazione è persino più sfavorevole con gran parte del lavoro contemporaneo, legato a servizi e finanza, che sarebbe irrilevante in un’economia post-capitalista mentre la capacità di produrre beni necessari è dispersa in poche aree del mondo. A ciò si aggiunge il potere disciplinare del capitale finanziario che potrebbe rispondere a qualsiasi tentativo di insubordinazione con fughe di capitali, sanzioni e blocchi commerciali. Allora l’ipotesi di una riconversione progressiva delle infrastrutture esistenti appare non solo ingenua ma potenzialmente controproducente, rischiando di riprodurre, sotto nuove forme, le stesse logiche di dominio che si pretenderebbe di superare. La sfida non è appropriarsi della macchina logistica capitalista ma immaginare forme radicalmente alternative di organizzazione produttiva, capaci di prescindere dalle strutture che oggi rendono possibile lo sfruttamento globale. Arrivando alle conclusioni Bernes dice che il tutto è il falso non perché sia impossibile da rappresentare compiutamente, né perché ogni tentativo di catturarlo in una teoria o in una mappa riveli inevitabilmente le sue contraddizioni interne. Piuttosto, è falso perché presuppone che il tutto possa essere afferrato, posseduto, dominato come un oggetto stabile. Questa totalità non ci appartiene essendo proprietà esclusiva del capitale che la amministra attraverso la sua logistica globale, un sistema distribuito e senza centro, un potere che non si contrappone a noi come un nemico visibile ma ci avvolge, ci attraversa, ci condiziona in ogni punto. Il capitale non è un avversario che possiamo sfidare frontalmente perché non occupa un luogo specifico, anzi esso è la geografia stessa su cui ci muoviamo, l’aria che respiriamo, la struttura invisibile che dà forma a ogni nostro gesto di resistenza. Noi combattiamo qui e ora, in spazi e tempi determinati mentre il capitale è simultaneamente ovunque e da nessuna parte, una forza che non si presenta mai in un corpo unico da abbattere e si diffonde come un campo magnetico, una pressione costante che modella il terreno stesso del conflitto. Essere partigiani, allora, significa accettare questa asimmetria radicale e rinunciare all’illusione di una visione d’insieme, di una strategia che possa abbracciare la totalità perché solo il capitale ha questo privilegio. La nostra lotta è necessariamente parziale, frammentaria, legata a luoghi e momenti precisi e proprio per questo, paradossalmente, più reale, più concreta di qualsiasi fantasia di rivoluzione globale. Le tattiche che emergono oggi, i blocchi, le occupazioni, i disordini puntuali, non sono il segno di una cecità strategica, di una mancata comprensione del nemico. Al contrario, sono il prodotto di una coscienza che ha già fatto i conti con l’impossibilità di riprodurre le vecchie forme di lotta e che ha compreso, anche solo intuitivamente, come il capitale abbia reso obsoleti interi repertori di resistenza. Le catene della logistica globale sono radicate così profondamente nel sistema che strapparle via richiederà una rottura altrettanto radicale. Non c’è spazio per una riconfigurazione graduale, per un aggiustamento del meccanismo. L’unica via è il delinking, un distacco brutale dalla fabbrica planetaria, un atto di sopravvivenza che ci costringerà a reinventare completamente il modo in cui produciamo, ci nutriamo, ci riproduciamo. Come si traduce questa consapevolezza in strategia? La teoria ci offre un orizzonte di possibilità ma la strategia è qualcosa di più concreto. Essa è il momento in cui la teoria incontra la pratica, non per enumerare tutto ciò che potrebbe essere fatto ma per indicare ciò che deve essere fatto, qui e ora. È il punto in cui le lotte, accumulandosi, raggiungono una certa densità, una certa altezza e da quel crinale si apre un prospetto, un sentiero più stretto, più definito, che indica una direzione praticabile. Le recenti lotte globali ci hanno mostrato che la sfera della circolazione, i flussi di merci, dati, persone, è diventata un terreno decisivo: i blocchi logistici potrebbero essere, nei prossimi anni, altrettanto potenti degli scioperi tradizionali. Le occupazioni di spazi urbani, le battaglie per il controllo del territorio riconfigurato dal capitale, sono già oggi fronti caldi. Dovremmo concentrarci su come rendere queste tattiche più efficaci, studiarne i limiti, sperimentare modi per superarli. Dobbiamo abbandonare l’idea che la “presa del Palazzo d’Inverno” globale sia ancora un obiettivo realistico e imparare invece a mappare il capitale come un sistema fragile, fatto di nodi che possono essere interrotti, di flussi che possono essere deviati. Questa mappatura non può essere astratta, universale ma deve essere semi-locale, legata a territori specifici, alle loro connessioni, alle loro vulnerabilità. Dobbiamo imparare a riconoscere, quartiere per quartiere, regione per regione, quali infrastrutture sono essenziali per la riproduzione del capitale, quali tecnologie sopravviverebbero a una rottura con il sistema globale, quali invece diventerebbero inutili. Dobbiamo porci domande concrete: come garantirci l’acqua potabile quando le reti idriche centralizzate crollano? Come evitare che le centrali nucleari abbandonate esplodano? Come riorganizzare la produzione di cibo a livello locale? Quali macchinari delle fabbriche vicine potrebbero essere riconvertiti e per produrre cosa? Non si tratta di scrivere un manuale della rivoluzione, un programma da applicare meccanicamente. Si tratta di un lavoro di bricolage rivoluzionario che parte dal basso, dall’esperienza accumulata nelle lotte, e che servirà a chi, in futuro, si troverà a dover ricostruire il mondo tra le macerie del capitalismo. La nostra forza sta nel riconoscere la nostra parzialità, nel sapere che non possiamo dominare il tutto ma possiamo smontarlo pezzo per pezzo, combattendo dove siamo, con ciò che abbiamo, vincendo una battaglia dopo l’altra, non per conquistare il mondo ma per smettere di esserne conquistati.

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