1. Le origini del rapporto tra plebe e schiavitù.
Ai tempi del famoso discorso di Agrippa Menenio Lanato, nel 494 a.C., la schiavitù non era un fenomeno diffuso nei territori controllati dalla città di Roma. Esclusi gli stranieri, le donne e i minori, il potere politico era riservato ai cittadini romani: una formula molto comune nelle città-stato dell’antichità. All’interno di questo corpo politico, tuttavia, possiamo trovare la celebre distinzione tra plebei e patrizi, risalente alle origini della città e tramandata essenzialmente in maniera ereditaria. I patrizi costituivano infatti per diritto tramandato tramite il proprio nome di famiglia una aristocrazia che godeva, specie nel periodo immediatamente successivo alla istituzione della Repubblica, diritti politici distinti e di molto più elevati rispetto a quelli della plebe. Conosciamo le lotte sociali, raggruppate nel cosiddetto conflitto degli ordini, che portarono a riforme egualitarie, all’istituzione di nuove magistrature e assemblee per controbilanciare il potere dei patrizi. È importante, tuttavia, sottolineare che la contraddizione tra gli ordini non fu solo politica, quanto anche economica. I patrizi non solo costituivano una aristocrazia terriera sin dalle origini della civiltà romana, ma anche una importante élite finanziaria, in grado di dispensare fondi e concedere prestiti a concittadini in difficoltà economiche.
Quella del debito è una costante nella storia romana. Nelle Dodici Tavole sono previste norme che permettono a un padre di vendere temporaneamente i propri figli a un debitore, in modo che le loro prestazioni lavorative possano ripagare un debito insoluto. Per chi non poteva pagare i debiti contratti, più in generale, era prevista una norma che li riduceva in condizioni simili a quelle di uno schiavo, costretti a lavorare a titolo gratuito fino ad aver ripagato del tutto la somma dovuta. Questa forma di lavoro coatto è detta nexum. I nexi, coloro che per debiti sono costretti a fornire lavoro gratuito ai debitori, saranno un bacino importante di manodopera a costo pressoché nullo per tutta la prima fase della repubblica. Tuttavia, è complesso stabilire il loro numero, il loro ruolo, e il loro rapporto con altre forme di lavoro in età arcaica [1].
Le notizie di rivolte schiavili in età monarchica segnalerebbero l’esistenza di un numero consistente di schiavi, ma non è nota la forma giuridica in cui questa schiavitù si sarebbe presentata. Diversi episodi successivi tramandati da Livio[2] riportano la presenza di un numero di schiavi di origine straniera al lavoro nelle case di romani. Da Aulo Gellio è invece riportata la norma, inclusa nelle Dodici Tavole, che prevedeva la riduzione in schiavitù dei ladri verso coloro che avevano derubato, suggerendo quindi l’esistenza di schiavi di origine romana[3]. La funzione domestica di questi schiavi sembra in ogni caso abbastanza ben attestata, contro l’uso di massa che verrà fatto della manodopera schiavile nelle campagne in periodi successivi. L’ipotesi di un numero elevato di schiavi sembra rafforzato dall’istituzione della lex Manlia de vicesima manumissio del 357 a.C., che tassava le manomissioni (liberazioni) degli schiavi. Eppure, nel 367 a.C., solo dieci anni prima, con le leggi Licinie Sestie erano state attuate misure per limitare il debito, segnale che questo problema, e quello collegato del nexum, erano ancora rilevanti[4].
Questo è un punto di passaggio importante nella storia dei rapporti tra plebe e schiavi, che avviene dopo la presa di Veio, nel 396 a.C., e la conseguente incorporazione di ingenti quantità di terreni nell’ager publicus. Le conquiste militari nella storia romana avranno un ruolo fondamentale nel plasmare le relazioni tra le classi lavoratrici: la conquista è infatti annessione di terreni e acquisizione di schiavi. I terreni annessi, nel caso della presa di Veio, sono lottizzati e assegnati ai proletarii urbani, segnando un importante salto di qualità del loro standard di vita. I proletarii, con una forma di sostentamento, sono liberati dal debito, e quindi dallo spettro del nexum, e hanno maggiore forza contrattuale. Proprio a questo maggiore potere sono riconducibili le leggi Licinie Sestie, che garantiscono ai plebei la possibilità di accedere al consolato e peraltro limitano la quantità di ager publicus che un cittadino può occupare[5]. Misura, probabilmente, di scarso effetto.
Il nexum è infine abolito dalla lex Papiria-Poetelia del 326 a.C., alla vigilia della seconda guerra sannitica. Il significato di questa decisione, proprio in un momento storico simile, appare chiaro. Quella che da un lato è una vittoria per la plebe romana è anche la ratifica del superamento del nexum, a favore di una forma diversa di lavoro coatto. Tramite le guerre di espansione, infatti, le classi dominanti romane avevano ormai ampliato il bacino della manodopera servile a tal punto da rendere obsoleto, e anzi dannoso il nexum, in quanto forzava alla vergogna della sottomissione dei concittadini, e privava l’esercito di una possibile fonte di militi. La servitù per debiti fu abolita quando non servì più ai padroni, e per effetto delle guerre di conquista[6]. Le masse degli schiavi, nel frattempo, andavano formandosi al servizio delle grandi tenute patrizie, spostati dalle case dei romani ai loro campi. E in concomitanza a questo processo, vediamo formarsi lo stadio embrionale del latifondo romano, del sistema villa che successivamente sarà analizzato nel suo apice. In una certa misura, la domanda di schiavi deriva dall’allargamento delle tenute dei grandi possidenti terrieri. Ma dall’altro lato, la possibilità pratica di allargare le tenute agricole si basa proprio sulla presenza di manodopera coatta disponibile da far lavorare sui terreni[7]. Il conflitto e l’espansione della città portarono sia a migliorare le condizioni finanziarie, politiche ed economiche della plebe, sia in contemporanea a costruire la schiavitù come soggetto economico e sociale.
2. La crisi della plebe rurale e la nascita della villa.
La vittoria riportata nelle guerre puniche (264-202 a.C.) porta vasti sconvolgimenti negli equilibri economici e sociali della società romana. La repubblica vede un influsso di bottino e schiavi, oltre che una vasta espansione dei suoi territori. Con la conquista della provincia di Sicilia prima e di Africa poi, cioè due importanti centri di produzione cerealicola, si libera la possibilità per i latifondisti romani di orientare la propria produzione agricola in Italia verso vigneti e uliveti, maggiormente redditizi[8]. Le province forniscono grano, come tributo in natura a Roma, e si allenta la domanda incessante di grano che oberava l’economia agraria italica[9]. La produzione di cereali nei territori italici cesserà mai, ma si apre la possibilità di concentrare le coltivazioni verso un orientamento che massimizzi il profitto, ovvero verso colture commerciali. La classe dei latifondisti inizia a vedere il possesso di terreni sempre più come una valida possibilità di investimento. E proprio dalle guerre, le classi dominanti trovano tutta la liquidità necessaria a finanziare l’avanzamento e lo sviluppo del sistema produttivo romano, nella forma di bottino di guerra e tributi[10].
Le conquiste romane sul suolo italico, e quindi le annessioni di territorio all’ager publicus, derivano da conquiste a danno degli stati vicini oppure dalle requisizioni punitive attuate contro gli alleati rei di essersi schierati con i cartaginesi. Come abbiamo già visto, in maniera più o meno legale questi terreni di nuova acquisizione sono velocemente occupati da possedimenti privati e dal grande latifondo. L’influsso di schiavi dalle guerre abilita e accelera questo processo[11]. La piccola proprietà, tuttavia, non cede immediatamente e dappertutto alla pressione del latifondo, ed è rintracciabile una forma di coesistenza in diverse zone d’Italia, soprattutto nelle aree periferiche e collinari[12]. Di fatto, cresce il distacco tra classi sociali: la piccola proprietà vede il tributo delle province come una concorrenza sgradita, i latifondisti come una opportunità per investimenti su altre colture più redditizie. Per il momento i due modelli, piccola proprietà del cittadino contadino e latifondo del senatore, non sono visti come contrapposti. Il sistema della colonizzazione attuato nell’Italia settentrionale e le assegnazioni viritane non fanno altro che riprodurre il modello della piccola proprietà supplementata da terre comuni. È sbagliato quindi assumere questi processi come drastici rivolgimenti nell’organizzazione agraria[13]. Non si tratta nemmeno di processi repentini: da diversi anni, si è messa in discussione l’interpretazione schematica del fenomeno della nascita del latifondo a orientamento commerciale. Analisi dei ritrovamenti archeologici e un maggiore approfondimento delle fonti letterarie hanno portato a collocare la comparsa della Villa sicuramente prima della pubblicazione del De Agricoltura, ma anche in antecedenza alle guerre puniche[14].
In alcuni casi, tuttavia, l’equilibrio tra la piccola proprietà e il latifondo collassa. È il caso di quelle aree che hanno subito gravi crisi di spopolamento dovute dalle guerre annibaliche[15]. Per la plebe rurale, il conflitto è un disastro forse senza precedenti. I campi lasciati in parte o del tutto incolti dalla partenza degli uomini per la guerra sono difficili da rimettere a coltura. In molti casi, i soldati sono morti in guerra e famiglie sono rimaste prive di braccia per il lavoro. In altri, i campi sono stati devastati dagli eserciti in marcia o in cerca di foraggio. Altre zone vedono lo spostamento di massa di agricoltori verso le colonie in cisalpina, in cui la terra è più fertile, oppure verso le città in cerca di occupazione, dove andranno a ingrossare le fila del proletariato urbano. I proprietari di fondi, nel frattempo, intensificavano l’occupazione dell’ager publicus per il pascolo e la transumanza di greggi di bestiame in numero sempre maggiore. Tradizionalmente utilizzato come complemento per la piccola proprietà agricola, la privazione della proprietà comune danneggia ulteriormente le sorti già buie della plebe rurale[16]. Nonostante politiche che proattivamente cercano di contrastare il declino del contadinato libero, il I secolo a.C. segna un punto di svolta nella questione agraria, che vede, tra la pubblicazione dei trattati di Catone e Varrone, la crisi completa della piccola proprietà[17].
L’Urbe, con il suo vasto mercato, è sicuramente uno dei principali e primi centri di smercio dei beni prodotti nella tenuta del latifondo[18]. Non a caso, è proprio nel contado nei pressi della città che vediamo la nascita del modello Villa catoniana. La gestione razionalizzata e ottimizzata della tenuta agricola proposta da Catone nel De Agricoltura riflette i processi in corso. La manodopera fissa è costituita da schiavi specializzati, il tipo di coltura è a indirizzo commerciale, per l’esportazione. Ha un ruolo anche il lavoratore libero: il bracciantato, che Catone consiglia di utilizzare in periodi in cui il lavoro è maggiormente impegnativo, come la raccolta dell’uva e la mietitura. In alternativa, anche il rapporto affittuario è una delle vie che la piccola proprietà trova per sopravvivere, seppur di fatto al servizio del latifondista e non più con il controllo della terra su cui il contadino lavora. Come tiene a specificare anche Varrone, la villa può funzionare sia sulla scorta di manodopera libera, sia utilizzando solo schiavi, sia attingendo in parte da entrambi i bacini di manodopera[19]. Quello che è importante sottolineare però è che il lavoro libero in questo caso, sia nella forma del bracciantato, sia nella forma dell’affitto in natura, o più tardi dietro pagamento in denaro, è sintomo di un abbassamento della condizione della plebe rurale. Se è vero che la piccola proprietà resiste in diverse parti d’Italia, anche in forma artificiale tramite la creazione di colonie e le assegnazioni a veterani e cittadini privati, si tratta di un modello in declino, e soppiantato per rilevanza all’interno della produzione di beni. Questo sia quando si parla della produzione cerealicola, ora appannaggio delle province, sia della produzione di beni per la vendita. La produzione di sussistenza è in grado di generare al massimo come surplus merci quali ortaggi o erbe selvatiche da vendere al mercato[20], nulla a che vedere con la potenza economica delle villae. In contemporanea, la presenza di plebei in condizione di affittuari, o peggio braccianti a giornata, indica se non altro l’impossibilità per queste persone di trovare in campi di loro proprietà mezzi per la loro sussistenza. Di fatto, questa manodopera libera vive in condizioni estremamente precarie: a seguito di conquiste sempre più grandiose, soffre la concorrenza di un numero sempre maggiore di schiavi, il cui prezzo sicuramente si riduce ai minimi ogni qualvolta una nuova iniezione di esseri umani-merce ha luogo nel mercato.
I fondi dei piccoli proprietari continueranno ad esistere nelle aree di fatto scartate per la loro bassa produttività, o alle periferie del sistema villa. Foraboschi[21] fornisce una panoramica della situazione in Italia alla fine del II secolo a.C. che riporto di seguito, cui vanno aggiunte le assegnazioni fondiarie extra-italiche. L’Etruria è spaccata a metà tra un sud più vicino ai mercati dell’Urbe dominato dalle grandi tenute, e un nord caratterizzato dai piccoli possedimenti dei tugurini. In Campania il punto riguardo ai diversi orientamenti produttivi della piccola e della grande proprietà è lampante: le grandi villae si concentrano sulle colline, ottime per i vigneti, e lasciano i coloni nelle aree meno desiderabili per le coltivazioni più profittevoli. L’Apulia è divisa tra la grande transumanza e le piantagioni di Ulivi. La Sicilia, già su modello delle tenute puniche e greche[22], la grande proprietà domina il territorio, impiegando abbastanza schiavi da dare vita a una rivolta di duecentomila persone, prima che l’area subisca un netto spopolamento. Una questione che senza dubbio blocca la dominazione assoluta delle villae nei mercati mediterranei, ma anche in quelli dell’interno italico, sono i costi e le difficoltà di trasporto dei beni. Questo soprattutto per quanto riguarda le rotte commerciali terrestri: durante l’impero, nonostante il sistema stradale avanzato, i costi di trasporto via mare, fiume e terra si presentano in una proporzione 1 : 4,9 : 28[23]. Le rotte marittime non a caso sono estremamente profittevoli, e fanno la fortuna dei grandi proprietari tanto da dover essere limitate nel loro impiego dalla Lex Claudia[24] già nel 218 a.C. Legge di interpretazione controversa, che in ogni caso ha come causa di fondo la considerazione del valore estremo delle merci (perlopiù liquide, vino e olio) trasportate dalle flotte commerciali romane, ancora in un periodo in cui queste sono afflitte da guerre, mercati stranieri e pirateria. Le difficoltà nel commercio interno, invece, limitano l’espansione e il predominio della villa nell’entroterra, creando le condizioni per il mantenimento di mercati locali per beni il cui valore non vale i costi dell’esportazione di massa.
Ma è il vilicus, che vediamo sia nel già menzionato trattato catoniano, sia tratteggiato dalle commedie plautine, che consente un vero salto di qualità nel processo di espansione del latifondo[25]. Si tratta di uno schiavo vicario con responsabilità organizzative e di comando presente sempre all’interno del fundus, figura chiave per lo sviluppo dell’organizzazione del lavoro e dell’accentramento fondiario romano. Il padrone può possedere più villae e terreni, anche molto distanti tra loro o dall’Urbe, senza occuparsi per nulla della gestione degli stessi. Ovvero, la nuova organizzazione della Villa codificata da Catone nel De Agricoltura consentiva ai possidenti più ricchi di continuare a espandere le proprie tenute, liberando il dall’onere della gestione. La moltiplicazione dei fundi posseduti non era neppure d’intralcio alla possibilità di rimanere nel centro del potere a esercitare la carica di senatore o magistrato. Allo stesso modo, l’aumentato sfruttamento delle terre pubbliche per il pascolo delle mandrie e l’incremento del numero dei capi vede la nascita di una figura comparabile, quella del magister pecoris. La transumanza è gestita da schiavi diretti da questo corrispettivo in allevamento del vilicus, in comunità ben organizzate, spesso armate e per lungo tempo autonome, per questioni logistiche, dal controllo del padrone. Gruppi come questi avranno un ruolo fondamentale nelle guerre servili[26].
La modifica degli indirizzi dell’agricoltura italica porta all’aumento dell’uso di schiavi e all’espansione del latifondo, e in contemporanea alla proletarizzazione della plebe rurale. Il crescente contrasto tra il ceto di contadini liberi ma impoveriti e la grande disponibilità e impiego di schiavi sarà la problematica affrontata dai gracchi e dai legislatori della tarda repubblica[27]. Il problema non è solo economico ma anche militare: la plebe rurale, in passato fonte primaria di militi per l’esercito, non ha più i fondi per armarsi autonomamente[28]. Allo stesso tempo, l’aumento nell’uso di schiavi crea le condizioni per imponenti rivolte servili in Italia e Sicilia.
3. Schiavismo: costi, benefici?
La figura dello schiavo è oggetto di dibattito nel campo della storiografia antica. In particolare, è stata posta in questione la possibilità di definire una persona ridotta in schiavitù un lavoratore. Sicuramente lo schiavo non è la figura del lavoratore contemporaneo, che vende il suo lavoro come merce[29]. Lo schiavo è esso stesso la merce, venduta da un primo padrone, che ha ridotto la persona in schiavitù tramite il rapimento, la cattura oppure un procedimento legale, a un secondo padrone, e così via. Lo schiavo non ha controllo sulla natura della mansione che avrà da compiere, o sul luogo in cui opererà. Un netto contrasto con la figura del lavoratore libero plebeo, che, come abbiamo visto, non solo ha la possibilità ma anche la volontà di andare a cercare migliori occupazioni nelle aree maggiormente urbanizzate. Una comparazione tra la figura dello schiavo e quella del lavoratore moderno, e quindi del capitale moderno con il sistema di organizzazione del lavoro antica, è assolutamente fuori luogo. Dall’altro lato sicuramente però lo schiavo non può nemmeno essere associato a un mezzo di produzione, quasi come a ironicamente confermare la definizione di instrumentum vocalis donatagli dai romani stessi. Lo schiavo a tutti gli effetti è un essere umano, che con il suo lavoro è responsabile della creazione di valore per il proprio padrone. Stipendio a parte, la sua sussistenza e la riproduzione della sua forza lavoro dipendono dal padrone, che è tenuto a fornire i mezzi minimi per questo scopo e che si appropria del valore prodotto dallo schiavo una volta sottratti questi. Abbiamo capito, dunque, che la figura è comparabile a quella del corrispettivo libero, il lavoratore plebeo, salvo alcune differenze, di cui due spiccano. Primo: lo schiavo non vende una merce, la propria forza lavoro, ma è venduto in qualità di merce in grado di lavorare; secondo: lo schiavo non è in grado di scegliere la sua occupazione e il luogo in cui sarà impiegato.
Secondo alcune stime[30], tra la seconda guerra Punica e la guerra Gallica di Cesare circolano in Italia da 1 200 000 a 3 000 000 schiavi, circa uno ogni due liberi. Catturati in guerra, stando alle fonti, sono più di mezzo milione[31], a cui si aggiungono quelli catturati dalla pirateria e quelli nati in schiavitù. La pirateria, contrastata dalla Repubblica con operazioni militari ad hoc, è allo stesso tempo vitale per la tenuta dell’economia schiavista, fornendo un flusso di schiavi anche in tempo di pace. L’innalzamento repentino della quantità di schiavi, soprattutto in alcune aree quali il meridione italiano e la Sicilia, unite al generale clima di violenza del tempo, segnato dalla guerra Sociale, dalle guerre Puniche e da quelle Mitridatiche in oriente diedero presto vita alla stagione delle cosiddette guerre Servili. Di queste, trattiamo la più imponente e famosa, anche per le eco che avrà nella storia contemporanea, cioè la rivolta di Spartaco.
L’insurrezione ha inizio nel 73 a.C., come noto, all’interno di ambienti gladiatori, e conta sul supporto iniziale di schiavi di origine gallica, di cui notiamo i luogotenenti Crisso ed Enomaco, tracia, tra cui Spartaco stesso, e germani. L’attrattiva della ribellione, tuttavia, si spinge ben oltre questi confini professionali ed etnici e sorpassa perfino le divisioni giuridiche tra schiavi e liberi. Le fila di Spartaco sono ingrossate dalla stessa plebe rurale italica che proprio negli anni della rivolta vive l’apice della sua crisi: uomini liberi di estrazione agricola, ma anche mandriani e pastori, uniti a tutto lo strato proletarizzato e ai sottoproletari che popolavano le campagne, cittadini romani compresi[32]. Verso le città, la rivolta sembra mantenere una certa diffidenza, contraccambiata dalla scelta di nessun centro urbano rilevante di supportare Spartaco. L’armamento e i rifornimenti di cui l’esercito spartachista ha bisogno sono ottenuti, stando ad Appiano, tramite la razzia sul campo di battaglia, il commercio con negozianti locali, oppure, nel caso delle armi, producendole all’interno del campo stesso[33]. Le città sono occupate, saccheggiate, oppure evitate del tutto.
Esistono alcune differenze rilevanti tra Spartaco e le precedenti rivolte di schiavi[34]. Analizzando quella del 133 a.C. in Asia sotto la guida di Aristonico si possono sottolineare in particolare due fattori. Il primo è la possibile consapevolezza dell’ideologia di Blossio da Cuma[35], che teorizzava una società di “cittadini del sole”. Il secondo è che la rivolta fu strumentalizzata, e quindi supportata e abilitata, in una lotta di successione antiromana. In Sicilia sotto la guida di Euno gli schiavi instaurano un regno, influenzato nella sua concezione dagli stati ellenistici, con adeguate capacità militari. I seguaci di Spartaco, al contrario, non si fanno stato, e impongono all’interno del proprio campo principi egualitari[36]: non sembrano influenzati da ideologie, dottrine politiche, che tuttavia non mancavano di certo in ambiente ellenistico[37]. Questa è sicuramente la regola più che l’eccezione: nel mondo romano ancora nessuna concezione del mondo è in grado di raccogliere i punti di vista degli schiavi, organizzarli e condurre anche solo tentativi di insidiare l’ordine costituito. Questo si esprime anche nella natura frenetica dei movimenti delle forze di Spartaco. Rifiutato l’ordine romano, e rifiutate le alternative poste dalle rivolte precedenti, ma senza una forma chiara di direzione politica o strategica, Spartaco si trova alla guida di forse 120 000 uomini senza vie di uscita, fisiche e teoriche. Gli eserciti dei rivoltosi si muovono costantemente durante il periodo dell’insorgenza, privi di obiettivi a lungo termine, l’impossibilità della fuga inizialmente sognata al di fuori di Roma dovuta anche alla natura ormai “mondiale” dello stato romano, da cui era di fatto impossibile fuggire[38]. Bloccati dalle mura dell’Urbe, era impossibile una pugnalata al cuore della repubblica; fermati a nord dalle alpi e dalla presenza militare romana ai valichi era impraticabile uscire dall’Italia. Un tentativo di sbarco in Sicilia fu tentato, senza successo, forse nel tentativo di congiungersi al territorio che aveva prodotto le precedenti grandi rivolte di schiavi.
Soppressa la rivolta di Spartaco, le insurrezioni schiavili non si presenteranno più sotto forma di un movimento di massa, ma acquisiranno modalità più individuali o disorganizzate. I monti e le aree più lontane dal centro imperiale garantiranno rifugio a bande di fuggitivi divenuti briganti. Nelle ville, fughe, omicidi e suicidi saranno le forme di ribellione adottate dagli schiavi infelici delle loro condizioni. A impedire forme di rivolta organizzate concorrono diversi elementi[39]: primo tra tutti, la repressione. Al termine della rivolta di Spartaco, Appiano riporta che seimila tra i prigionieri catturati da Crasso furono crocifissi sulla via Latina, da Roma a Capua, la città in cui era scoppiata la rivolta[40]. Nella vita di ogni giorno, lo schiavo era sottoposto a un impianto sistematizzato di violenza oppressiva, che vedeva addirittura figure specializzate, appaltatori che si incaricavano di supplizi e uccisioni[41]. Questa violenza repressiva era stata senza dubbio la causa delle successive violenze liberatorie degli schiavi contro i padroni nel corso delle guerre servili, ma nella quotidianità era una forza che mortificava gli intenti di insubordinazione.
Inoltre, gli schiavi erano impiegati in contesti e lavori molto diversi tra loro, dotati inoltre di una chiara gerarchia che vedeva alcuni comandare sugli altri, anche se in vece del padrone. All’interno della villa, come abbiamo visto, il vilicus aveva potere di dirigere, e punire, tutti gli altri schiavi. La questione della provenienza etnica informa molto spesso i padroni sull’uso e sul valore che uno schiavo può avere: non è un caso che una ribellione di gladiatori come quella di Spartaco consistesse soprattutto di Galli e Traci, mentre nelle case dei romani trovavano posto maestri schiavi greci, usati come pedagoghi per i giovani patrizi e medici. Altri schiavi erano invece impiegati come contabili, in contesti rurali e cittadini. La differenza tra servitù urbana e servitù rurale era inoltre vasta, per la differente opportunità che gli schiavi potevano avere di guadagnare denaro e riconoscimento presso il padrone. Non sono rare le iscrizioni che riportano storie di successo di liberti in contesti urbani, mentre sono rarissime le epigrafi riferite a liberti, o anche schiavi, in contesti rurali: un segnale del minore tasso di alfabetizzazione, delle minori disponibilità economiche e probabilmente di un minor tasso di manomissione.
Infine, la società romana permetteva allo schiavo di aspirare realisticamente di essere liberato dal proprio padrone e ottenere anche un certo successo economico. Gli schiavi liberati, detti liberti, rimanevano legati al padrone, assumendo un ruolo simile a quello dei clientes. Spesso mantenevano il proprio impiego presso il patronus, oppure ne guadagnavano uno di rilevanza sociale ed economica. Liberti sono molti grandi commercianti, proprietari di manifatture, funzionari imperiali. Di origine servile è il panettiere M. Vergilius Eurysaces, che si fa erigere uno stravagante monumento funebre a forma di cesto per il pane[42] simbolo del suo successo come appaltatore e impresario. Come anche il medico Decimo Merula di Assisi, che impiegò la cifra esorbitante di 67 000 sesterzi per rinnovare la pavimentazione delle strade cittadine e abbellire il tempio di Ercole[43]. Libertà e schiavitù a Roma sono condizioni giuridiche: lo status dello schiavo è prima di tutto giuridico, e solo secondariamente sociale. Tramite la manumissio, la linea di confine tra libertà e non libertà si dimostra estremamente permeabile, fatto che pone in questione il modo in cui intendiamo il problema stesso della schiavitù nell’antica Roma. Una figura né di classe né di casta, ma uno status giuridico variabile, che già nel I secolo a.C. vive della dialettica schiavo-liberto[44].
Il modo in cui concepiamo queste due figure si complica ulteriormente quando si considera il loro rapporto ai mezzi di produzione e il ruolo che assumono nella società. Se infatti è vero che la maggioranza degli schiavi è in stato di lavoro dipendente – coatto – è anche corretto dire che diversi liberti sono liberi professionisti, come i gemmarii della Sacra Via menzionati nella epigrafe di CIL VI, 9435. Altri ancora, tra cui con ogni probabilità M. Vergilius Eurysaces, impiegano loro stessi forza lavoro. I vilici, pur agendo per conto del padrone, hanno alle loro dipendenze decine di schiavi, ma soprattutto sono tenuti a gestire, assumere e pagare gli operarii liberi a complemento della forza lavoro schiava. Un tipo di lavoro di gestione che non cambia la loro relazione alla proprietà dei mezzi di produzione in maniera sostanziale ma che pone, sorprendentemente, uno schiavo a un livello superiore rispetto a un libero. Dall’altro lato del confine legale, i plebei liberi si trovano nella stessa triplice condizione sociale, con masse di lavoratori dipendenti, alcuni liberi professionisti, ma anche imprenditori e bottegai. I proletarii liberi si trovano, soprattutto nei contesti rurali, praticamente sullo stesso piano degli schiavi a livello economico. Seppur protetti legalmente, ad esempio, dalle punizioni corporali e dai risvolti più disumani dello schiavismo, come abbiamo visto la plebe rurale allo stremo non esita a schierarsi con gli schiavi di Spartaco. Nei contesti urbani dove le classi più basse vedono servizi pubblici gratuiti ed elargizioni di pane, la situazione cambia.
Parliamo inoltre di una età in cui non tutti i rapporti sociali sono stati pienamente, o consciamente, ridotti a rapporti economici. Nessuna ideologia o teoria sa descrivere a pieno la condizione dello schiavo e illustrarla alle classi subalterne, e come conseguenza di ciò molto spesso i conflitti di classe che riescono a insorgere nonostante i limiti di cui abbiamo trattato si fondono coi legami interpersonali, assumendo una forma personale e contraddittoria[45]. Foraboschi cita alcuni esempi: Gaio Gracco, riporta Appiano[46], offre la libertà agli schiavi ma non riceve il loro supporto, sarà proprio uno schiavo fidato a seguirlo nei momenti finali e a ucciderlo, su suo ordine, per evitare la cattura. Un padrone nel 43 a.C. è nascosto da uno schiavo in una stalla, ma è scoperto dopo il tradimento di un altro. Il primo, fedelissimo al padrone, indossa i suoi abiti e va incontro ai nemici, facendosi uccidere e permettendo la sua fuga[47]. Soltanto 30 anni prima, Spartaco aveva guidato 120 000 schiavi e proletarii, massacrando migliaia di cittadini romani.
Il tasso di manomissione nella Roma antica è fonte di dibattito costante, ma è probabile che, per uno schiavo vissuto attorno al I secolo a.C., la liberazione entro la durata della propria vita fosse una prospettiva realistica[48], tanto da necessitare misure restrittive, quali la già sottolineata tassa del 5% sul valore. Secoli dopo, e in un periodo appena successivo a quello che stiamo trattando, la liberazione in massa degli schiavi tramite il testamento, invece, fu fortemente ristretta dalla lex Fufia Caninia del 2 a.C, che imponeva un tetto massimo di 100 schiavi liberati[49]. La legge poneva tuttavia la vistosa lacuna di non limitare le manomissioni in vita, presto corretta dalla lex Aelia Sentia[50] del 4 d.C. Tra il 209 e il 49, l’imposta sulle manomissioni frutta alle casse statali l’ammontare esorbitante di circa 15 000 lingotti d’oro, 30 000 d’argento e 30 milioni di sesterzi[51], indice di migliaia di liberazioni. È possibile scorgere sotto le norme a limitazione della manumissio riportate da Gaio due forze materiali. Si parte da una questione oggettiva, ovvero l’aumento delle liberazioni di schiavi, fatto che non può essere ignorato. Ciò indica che i padroni romani non avvertivano un incentivo economico nella semplice detenzione di masse crescenti di schiavi, anzi, affrontavano senza problemi la tassa del 5% sul valore della persona liberata pur di procedere. Dall’altro lato, le leggi per contenere il fenomeno, che possono anche aver visto il contributo delle esortazioni di Dionigi di Alicarnasso[52], presuppongono un interesse economico materiale nel mantenere in catene il maggior numero di schiavi possibile. La domanda sorge spontanea: esiste un reale incentivo economico a impiegare manodopera schiavile piuttosto che libera?
Incredibilmente la risposta è no, perlomeno se ci si limita al profitto immediato. La seguente tabella è frutto degli studi di D. W. Rathbone[53], e indica il rateo di profitto percentuale sul valore totale dell’azienda derivato dall’impiego di manodopera di diversa natura. Il tipo di coltura ipotizzata è quella più profittevole della vigna, mentre come vedremo la dimensione della villa è compresa tra i 62 e i 125 ettari.
Tipo di gestione della forza-lavoro | Profitto (% del valore della tenuta) | Caso |
libera bracciantile | 8,6 | A |
mezzadria | 7,3 | B |
braccianti e schiavi | 7,2 | C |
schiavi | 3,5 | D |
Rathbone parte dalla necessità della manodopera di sostenersi e quindi di riprodurre la propria forza-lavoro. Sebbene infatti come abbiamo detto lo schiavo antico come moderno non può essere ascritto pienamente alla categoria del lavoratore in senso proprio, necessita comunque di una quantità di viveri, soprattutto grano, per sostenersi. Allo stesso modo, una simile quantità è richiesta anche per la manodopera di tipo libero, bracciantile come mezzadra. Da qui, si può intendere molto bene come sia possibile estrarre un profitto così alto da una gestione di tipo A, ovvero in cui la forza-lavoro è in forma libera bracciantile. Il sostentamento della manodopera libera è infatti solo in parte a carico del padrone dell’azienda, che si occupa solo del pagamento dei salari degli operarii nel momento in cui lavorano presso la villa. Proprio per questo, è possibile allocare anche i 3/5 dei terreni alla produzione di vino, cioè alla coltura più redditizia, tralasciando invece quella del grano: i lavoranti sono pagati in denaro, non in materie prime. E dal momento che il loro lavoro è ora concentrato sulla produzione di merci vendibili ad alto prezzo sul mercato, cioè che generano profitto in forma di denaro, si vede come sia possibile portare al massimo, in questo modo, la tendenza alla coltivazione della coltura più redditizia teorizzata dai tecnici dell’agraria Catone e Varrone. Questo tipo di proprietà, però, non può semplicemente sostenersi da sola, ma si regge sull’esistenza di forme alternative di sussistenza per i lavoranti non impiegati. Sono ascrivibili a questa esigenza i modelli di spartizione dei terreni che abbiamo visto in Campania, ma anche in Lucania. Entrambe vedono la piccola proprietà chiusa negli spazi interstiziali e meno ambìti per la produzione di vino oppure di olio, o comunque vaste popolazioni nei centri abitati come riserve di manodopera. Detto questo, è possibile che i braccianti si muovessero in cerca di lavoro altrove, oppure che utilizzassero il denaro per sopravvivere durante i mesi di fermo, oppure che trovassero impieghi alternativi in contesti non agricoli. Queste difficoltà sicuramente limitano la possibilità di incentrare la produzione solo sulla manodopera bracciantile libera.
La mezzadria descritta dal caso B assume che tutti i costi per eventuale manodopera libera extra siano assolti dal mezzadro, e che il padrone non abbia essenzialmente da pagare nulla per il mantenimento del campo o della sua forza-lavoro. È altresì considerato che parte del campo del mezzadro fosse comunque utilizzata per la coltura meno redditizia del grano, e che altri tipi di coltura, oltre quello della vigna, fossero praticati per l’autoconsumo e per la vendita. L’affitto, che non è considerato da Rathbone, non è trattato da Catone, ma presenta alcuni benefici rispetto alla mezzadria, dal punto di vista del padrone. Primo tra tutti, la cifra dell’affitto del terreno rientra nei contratti di locazione, non è dunque affetta dalle fluttuazioni dei raccolti o della manodopera, è una costante, che si tratti di affitti in denaro o in natura. Per quanto riguarda gli affitti in denaro, uno dei vantaggi maggiori è quello di non doversi più occupare dello smercio dei prodotti sul mercato[54]. In un contratto di questo tipo è proprio l’affittuario a doversi assumere le spese di trasporto fino al mercato più vicino, e l’affitto in denaro è liquidità immediatamente investibile in altre imprese. Come abbiamo già visto, sono i costi di trasporto tra gli oneri più gravosi che impediscono il dominio del sistema villa: questo vantaggio non è trascurabile. Non è un caso dunque che De Neeve, citato da Rosafio[55] ha riportato alla luce l’utilizzo non indifferente di questa forma di contratto anche in epoca tardorepubblicana e del Principato.
Il tipo di gestione del caso C è invece quello raccomandato da Varrone e Catone, ovvero l’utilizzo di manodopera mista, schiavile e bracciantile. In particolare, l’uso degli schiavi è principalmente quello di lavoratori specializzati, mentre i liberi sono perlopiù braccianti da assumere nei periodi di maggiore lavoro. Per un vigneto, il tipo di coltura presa a campione da Rathbone, Catone consiglia di impiegare 16 persone, direte da un vilicus. Gli schiavi specializzati sono un bovaro (bubulcus), un asinaio (asinarius), un addetto al saliceto (salictarius) e un porcaro (subulcus), mentre la manodopera bracciantile è costituita da ben 10 operarii non specializzati[56], da impiegare anche tramite un redemptor, o appaltatore, per meglio gestire la manodopera. Questa modalità permette di avere un nucleo di forza-lavoro stabile e, soprattutto come vedremo, legata indissolubilmente alla mansione e all’azienda, e un certo numero di braccia extra che non sono legate per il loro sostentamento durante l’anno direttamente alla villa, liberando spazio per le viti.
Il tipo finale di gestione trattato da Rathbone è il caso D, ovvero la gestione che fa pienamente uso della manodopera schiavile. Singolarmente l’autore ha raddoppiato da 250 a 500 iugeri (da 62 a 125 ettari) l’estensione della villa ipotetica presa in esame. Mantenendo costante l’estensione delle vigne come da caso A, è infatti necessario per il padrone sostituire il picco di braccia necessarie nei momenti di maggior lavoro, cioè la cifra stimata di 40 lavoranti liberi, con schiavi. E per questo, è necessario aumentare gli iugeri di terreno allocati alla produzione di grano e altre coltivazioni per la sussistenza del personale della villa, ora raddoppiato. Stando sempre a calcoli dell’autore, senza nemmeno contare gli oneri di gestione, le cure mediche, e l’eventuale peculium garantito allo schiavo (una sorta di minima paga) il costo della manodopera schiavile appare simile a quello della manodopera libera. Questo soprattutto nel caso in cui lo schiavo abbia una vita lavorativa inferiore ai 20 anni, mentre sotto i 10 si tratta direttamente di una perdita di denaro da parte del padrone.
Non è dunque strano vedere una forte spinta verso la manomissione degli schiavi, specie quando questi abbiano di fatto ripagato il loro acquisto, ovvero dopo i 20 anni prima riportati. Significativamente, da diversi studi citati da M. Harrsch emerge che proprio dopo minimo 20 anni di lavoro, o meglio 30-35 anni di età, inizi a diventare esponenziale per lo schiavo la possibilità di essere liberato dal padrone[57].
Perché allora il grande latifondo scelse la manodopera schiavile come tipo principale di forza-lavoro da impiegare sui propri campi? Lungo tutto il I secolo a.C. dopo serie di guerre continue, migliaia e migliaia di cittadini romani, veterani dell’esercito, sono ricollocati in appezzamenti di terra in colonie sparse per il mediterraneo, in Cisalpina, ma anche Acaia e Macedonia, e fino al territorio dei Cimbri. Questi ex-soldati, soprattutto provenienti dai proletarii e molti dalla plebe rurale, ammontano al numero spaventoso di minimo 120 000 persone tra Silla e il 25 a.C., in altre parole circa il 30 per cento dei cittadini maschi adulti italici viene costretto a migrare. Dal 111 a.C. con l’abolizione del vincolo di inalienabilità, si apre la possibilità per i nuovi riceventi di appezzamenti di terra di vendere i terreni ai grandi latifondisti[58]. Questi processi privano fisicamente di manodopera le campagne italiane proprio nel periodo già segnato dal declino della plebe urbana che abbiamo descritto in precedenza. Il vuoto di manodopera è aggravato dalla migrazione verso i centri urbani della plebe, soprattutto verso l’Urbe, in cui i poveri godono di servizi pubblici superiori e grano calmierato o gratuito. Altri plebei, appunto, si uniscono all’esercito, che ora provvede armamento e salario, cibo e un appezzamento di terra a fine carriera, ed è una valida alternativa al bracciantato o al lavoro agricolo in condizioni di povertà. Sono proprio dunque gli schiavi a sopperire a queste migrazioni: il loro flusso costante di manodopera, seppure sia meno profittevole, offre un vantaggio unico: lo schiavo, anche quando non è in catene, è vincolato a una mansione e a un luogo, non può decidere di arruolarsi o di migrare, oppure di lasciare la tenuta per una che paga di più. Questa la tesi di Foraboschi[59], ovvero che la spiegazione principale del continuato uso della schiavitù, la sua utilità principale, è proprio la possibilità che garantisce di controllare razionalmente i flussi demografici in funzione della disponibilità di lavoro e della necessità di manodopera. Proprio per questo, prima di ogni altro elemento è possibile concludere che la schiavitù fu meglio definibile come una forza-lavoro completamente sotto il controllo del padronato per quanto riguarda i suoi scopi, i suoi impieghi e i luoghi in cui essa era costretta a lavorare. Ed è in questo vantaggio che trova fondamento la seconda spinta materiale trattata inizialmente, la tensione al mantenimento del maggior numero di persone possibili in schiavitù. La figura del liberto alla luce di questa definizione appare sempre più come quella di un semi-schiavo, a cui è donata la libertà, ma che rimane legato al padrone e, spesso, a una mansione. Anzi, tramite la clientela e le prestazioni gratuite dovute al patronus, quasi è suggerita l’ipotesi del liberto come di uno schiavo, meno gli oneri di gestione per il padrone. Come la gestione mista della villa, una forma mista della forza-lavoro, espressa in uno status giuridico intermedio.
Conclusione
Lungi dall’essere lineare, quella dei rapporti tra le classi lavoratrici dell’antichità romana è una storia complessa, contraddittoria, che lega i destini della plebe e degli schiavi dalla loro nascita fino alla loro dissoluzione in ulteriori forme di organizzazione del lavoro. Oggi non esiste più il bisogno di idealizzare le rivolte degli schiavi o di fornire una visione schematica dei conflitti di classe nella Roma antica, allo spirito del Manifesto si è sostituito quello delle Lotte di Classe in Francia. Scritti a solo due anni di distanza, i due testi marxiani utilizzano categorie di classe differenti per fini diversi, più che una evoluzione mostrano due diversi atteggiamenti di fronte al problema dell’analisi. La visione semplificata della storia sociale, utile all’individuazione di tendenze generali nella storia umana, lascia il passo allo studio della complessità, su cui si possono basare analisi e concrete strategie. Stratificata e complessa proprio come lo era la società francese del 1800, e come lo è la nostra, la civiltà antica deve essere studiata a partire da questo presupposto: restituire dignità alle contraddizioni e alle dinamiche che la costituiscono e la innervano, sia per quanto riguarda la sua articolazione economica che quella sociale. La normalizzazione dell’antico deve spazzare via ogni forma di concezione idealistica della storia e ogni tipo di revisione in chiave “monumentale” per fare spazio all’analisi materialistica come riflesso dell’analogo sguardo che serve rivolgere all’oggi. Sebbene al tempo qui trattato l’economico nelle sue forme più immediate e dirette non avesse ancora preso il controllo di ogni aspetto della storia, è solo sulla base della storia economica e sociale che si possono interpretare le storie dei fatti. Ogni esercito deve essere armato, alimentato, un surplus di beni accumulato per sfamare le truppe, ogni generale è stato istruito da un servo greco, la natura della cui schiavitù è frutto delle lotte economiche della prima repubblica. Non è la storia sociale ed economica un accessorio a quella dei fatti, ma quella dei fatti a poter essere spiegata sulla base della prima, e questa è una verità sempre maggiore più si va avanti nel tempo. Quando le lotte di classe raggiungono i loro apici di tensione, quando le classi dominanti lottano per estendere il loro dominio, cioè quando le contraddizioni di ogni società e della civiltà umana in generale raggiungono il loro picco, le personalità e le aspirazioni degli uomini, il caso e la natura vanno perdendosi sempre più negli ingranaggi del calcolo economico e delle necessità materiali della macchina produttiva. Trattiamo di produzione e di lavoratori quando trattiamo dell’antico perché la stragrande maggioranza degli esseri umani mai esistiti fu lavoratore o schiavo. Solo tramite la trattazione materiale, analitica e non schematica della loro esistenza possiamo iniziare a comprendere le dinamiche reali della storia, che spesso sono definite come “storia profonda” ma che furono le uniche di cui davvero la maggioranza delle persone nel passato fece mai esperienza diretta.
[1] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 92, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[2] Storia di Roma, II, 22, 5-7.
[3] Notti Attiche, XX,1,7-8.
[4] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 93, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 95.
[7] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia del II secolo, p. 274, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[8] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 103, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[9] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II Secolo, pp. 275, 276, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[10] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 97, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[11] Ibidem.
[12] Rosenstein, 2004, citato in Carlsen, Le attività agricole e l’allevamento, p. 255, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[13] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II Secolo, pp. 275, 276, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[14] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 97, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[15] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II Secolo, pp. 276-277 in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[16] Ibidem.
[17] Foraboschi, Dinamiche e contraddizioni economiche, p. 821, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[18] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 103, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[19] Varrone, L’Agricoltura, I,17,1.
[20] Carlsen, Le attività agricole e l’allevamento, pp. 255-258, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[21] Dinamiche e contraddizioni economiche, p. 827, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[22] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II Secolo, p. 275, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[23] Foraboschi, Dinamiche e contraddizioni economiche, p. 820, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[24] Tito Livio XXI, 63.
[25] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 101, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[26] Carlsen, Le attività agricole e l’allevamento, pp. 259-264, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[27] Gabba, Il processo di integrazione dell’Italia nel II Secolo, p. 278, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[28] Gabba, Il declino della milizia cittadina, p. 692, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[29] Karl Marx, il Capitale I, Editori Riuniti, pagine 184-185.
[30] citate da P. De Martino, Storia Economica, p. 74.
[31] citato da Foraboschi, Dinamiche e contraddizioni economiche, p. 828, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[32] Foraboschi, La rivolta di Spartaco, pp. 718-719, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[33] Guerre Civili, 1.541, 1.547.
[34] Foraboschi, La rivolta di Spartaco, p. 715-717, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[35] II secolo a.C., Filosofo stoico, già sostenitore dei fratelli Gracchi.
[36] Appiano, Guerre Civili, 1,541.
[37] Foraboschi, La rivolta di Spartaco, p. 719, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[38] Ivi, p. 717.
[39] Ivi, p. 722.
[40] Guerre Civili, 1,120.
[41] Foraboschi, La rivolta di Spartaco, p. 717, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[42] CIL I2, 1203-1205.
[43] CIL XI, 5400.
[44] Foraboschi, Dinamiche e contraddizioni economiche, pagina 829, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[45] Foraboschi, La rivolta di Spartaco, pagina 723, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[46] Guerre Civili 1.114-17.
[47] Cassio Dione, 47.10.
[48] Harrsch, Roman Slavery and the Rate of Manumission, Roman Times, 2016.
[49] Gaio, Institutiones, I, 42-43
[50] Ivi, I,13.
[51] Plinio, Storia Naturale, 33.56.
[52] Gabba, Roma arcaica: storia e storiografia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2000, p. 122.
[53] Rathbone, D. (1981). The Development of Agriculture in the ‘Ager Cosanus’ during the Roman Republic: Problems of Evidence and Interpretation, in Journal of Roman Studies, 71, pp. 10-23.
[54] Rosafio, Lavoro e status giuridico, p. 107, in Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L’età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna, Arnaldo Marcone (Curatore), Castelvecchi, 2016.
[55] Ivi, pp. 106-107.
[56] Catone, de Agricoltura, 8,10-11.
[57] Harrsch, Roman Slavery and the Rate of Manumission, Roman Times, 2016.
[58] Foraboschi, Dinamiche e contraddizioni economiche, pp. 824-825, in Storia di Roma. Vol. 2: L’Impero mediterraneo. La repubblica imperiale, E. Gabba (Curatore), A. Schiavone (Curatore), Einaudi, 1990.
[59] Ivi, pp. 825-830.