ILVA, FCA e declino dell’industria italiana

Il vento della crisi soffia sempre forte sul nostro paese: stagnazione, paletti europei, deindustrializzazione e crisi sociale.
Gli stabilimenti Fiat in Italia sono a rischio dopo la fusione tra Psa-Fca, frutto dell’enorme ritardo accumulato dagli Agnelli e dai francesi nel campo dell’auto elettrica.

Fca mette sul piatto le proprie auto d’alta gamma e di lusso, oltre al mercato nordamericano, mentre Psa offre la propria tecnologia nel campo delle auto elettriche ed ibride. Il gruppo che nascerà sarà il quarto costruttore mondiale di auto (8,7 milioni di auto vendute) e si inscrive nel progetto di costruzione dell’UE come polo imperialista autonomo, in competizione con le altre macroaree del pianeta, in primis Stati Uniti e Cina. Da valutare con attenzione il peso dello stato francese, il quale detiene il 12% di Psa, che sicuramente farà valere i propri interessi mentre il nostro governo parla di normale operazione di mercato.
Inevitabilmente ci saranno sovrapposizioni tra le produzioni e il governo francese si impegnerà a tutelare l’occupazione nel proprio paese. In Italia rischiano Mirafiori, che doveva essere coinvolta nello sviluppo da parte di Fca dell’auto elettrica, inevitabilmente verranno usate le piattaforme avanzate in mano ai francesi, e Pomigliano, dove viene prodotto il Suv Alfa. Ad essere al sicuro è lo stabilimento di Melfi dove viene prodotta la Jeep per il mercato nordamericano.

Altro dramma su cui riflettere è il nostro Mezzogiorno. Secondo il rapporto Svimez 2019 dal 2000 hanno lasciato il Sud Italia più di 2 milioni di persone, di cui la metà giovani compresi tra i 15 e i 34 anni, un quinto dei quali laureati. Tra 50 anni altri 5 milioni di cittadini lasceranno il Mezzogiorno italiano. Emergenza che viene aggravata dai processi di deindustrializzazione, smantellamento dello stato sociale che produce il fenomeno della migrazione ospedaliera verso il Nord Italia e una carenza cronica di investimenti che saranno accentuati dal progetto dell’autonomia differenziata.
A questo aggiungiamo un continuo calo demografico che si traduce in un peso sempre minore del Sud sul totale della popolazione italiana, oggi pari al 34,1%.
Un dramma che deve essere affrontato con la massima intelligenza da una classe dirigente al momento inesistente. La fuga dal Sud si somma ad una serie di vertenze sindacali che riempiono le pagine dei nostri giornali.

Dalla Whirpool di Napoli all’Ilva di Taranto, emerge la necessità di una pianificazione statale per dare nuova vita al Sud. L’Ilva di Taranto è il simbolo delle sfide di una nuova e possibile stagione della pianificazione economica. Non può essere assolutamente tutelata una realtà produttiva inservibile che produce morte ed inquinamento. L’acciaieria sta chiudendo a causa della sovrapproduzione mondiale dell’acciaio e dall’eliminazione dello “scudo” che avrebbe garantito un vantaggio competitivo ad ArcelorMittal senza innovare i processi produttivi, come ha scritto sul Manifesto del 09 XI 2019 Marco Bersani. ArcelorMittal sta abbandonando Taranto e le soluzioni alla questione scarseggiano, tra una popolazione in rivolta, sindacati che difendono un punto di vista superato da quarant’anni, un governo inesistente e i deliranti parametri di Maastricht.

Ecco allora l’attualità della sfida della pianificazione: come bonificare l’area e renderla capace di garantire l’occupazione?

Si può parlare di nazionalizzazione, ormai vista come ultima spiaggia dai più, addirittura solo parziale, al 20%-30% come suggerisce Landini, di Green New Deal o di Green Bond ma il nodo gordiano sono i vincoli esterni dell’UE. Senza il superamento dei folli parametri europei, rinunciando al pilota automatico, sarà impossibile rilanciare qualsiasi autonoma politica industriale.
Non è questione di mercato l’Ilva o Fca ma di idea di paese: o si decide di diventare un paese sempre più periferico o si rilancia l’industria nazionale con dei chiari progetti politici.

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