Questo è il primo di due articoli preparati dal Collettivo Le Gauche in vista delle elezioni europee. Si tratta di due analisi riguardanti due temi centrali per il futuro dell’Europa. Il primo è la lotta per un’Europa sociale, per riaprire quella finestra di superamento del neoliberismo che avevamo intravisto durante la gestione della pandemia. Il lavoro di Bellofiore e Garibaldo L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria ci ricorda cosa abbiamo perso e cosa dobbiamo riconquistare.
- Introduzione
Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo nel loro libro L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria ricostruiscono la crisi in cui versa l’Europa dopo il 2007-2008 a partire dalle sue cause profonde che affondano negli anni ’80. Durante questo decennio collassa il socialismo reale, portando con sé anche l’alternativa socialdemocratica del capitalismo, e al contempo emerge un nuovo stadio del capitalismo chiamato neoliberismo di cui Bellofiore respinge le spiegazioni convenzionali, preferendo il concetto elaborato da Hyman Minsky di capitalismo dei money manager funzionale alla sussunzione del lavoro alla finanza e al debito. In questo contesto la domanda effettiva viene spinta verso l’alto dal consumo a debito, favorito dall’inflazione delle attività-capitale, case incluse. Contemporaneamente la quota del risparmio sul reddito corrente veniva compressa e il valore del risparmio si gonfiava. Questo scenario era sostenuto da politiche economiche che Bellofiore definisce keynesismo privatizzato di natura finanziaria.
2. Lo sviluppo industriale dell’UE
Il contesto storico dove inquadrare l’UE e la nascita della moneta unica è la concorrenza distruttiva dei grandi attori globali del capitalismo che hanno prodotto un eccesso di offerta. Si formano catene trans-nazionali del valore dove troviamo delle stratificazioni in base al potere delle sue singole componenti. Questa trasformazione è resa possibile dalla liberalizzazione dei movimenti dei capitali nel Mercato Comune Europeo. In questo modo viene creato un sistema industriale europeo integrato, tramite fusioni, acquisizioni e nuove attività all’estero, dove spiccano le Original Equipment Manufacturers (OEM), ovvero le aziende più dinamiche e competitive di un settore che creano una rete di fornitori a più livelli.
“I sistemi integrati di produzione evolvono incorporando progressivamente l’area dei servizi e dando vita a sistemi misti, ormai noti come ecosistemi industriali. È importante comprendere che questa nuova configurazione non è soltanto strutturata gerarchicamente: in essa sono anche, per così dire, consolidate importanti relazioni orizzontali.
Si tratta in sostanza di ciò che è stato definito il processo di forte centralizzazione senza concentrazione che caratterizza la struttura industriale del nuovo capitalismo a cavallo tra secondo e terzo millennio3. Ne consegue, evidentemente, che in ogni settore industriale e anche nel connesso settore dei servizi un numero limitato di imprese trans-nazionali è in grado di controllare il mercato”1.
Questa struttura industriale determina differenze salariali, nelle protezioni legislative e sindacali, nelle infrastrutture e nei sistemi di tassazione. Per alcuni di questi elementi, come le infrastrutture, l’UE spinge per l’omogeneizzazione mentre per altri, come le condizioni di lavoro, si tende a comprimere i costi di produzione e aumentare i profitti. Gli OEM tendono a dispiegare le loro reti a partire dalle difformità nei paesi europei in termini fiscali, sociali, legislativi e di competenze e capacità. Il risultato è lo sviluppo di una divisione europea del lavoro che ha generato aree con aziende innovative e fornitori specializzate ed altre con poca innovazione tecnologica e produzioni industriali a basso valore aggiunto. Ciò ha dei riflessi sulla capacità di influenzare la dimensione sociale delle diverse aree e sul loro diverso peso politico. Il tutto è negativamente influenzato dall’assenza di un governo politico centrale nell’UE. Anche i sindacati escono indeboliti da questa trasformazioni che hanno determinato la nascita di poteri transnazionali e la decostruzione della classe lavoratrice. Questo contribuisce alle note difficoltà nella contrattazione di migliori condizioni di lavoro.
“Il modello di crescita del sistema industriale europeo è stato disegnato a partire dall’elaborazione del Libro Bianco di Delors su crescita, concorrenza e (dis)occupazione: un documento che è stato determinante nel percorso verso il Trattato di Maastricht. In breve, l’idea principale ivi contenuta era che l’unica autentica strategia competitiva per l’economia dell’UE fosse quella di spostarsi “a monte” nella catena del valore, e allo stesso tempo di mirare a un’elevata mobilità dei fattori e un’accresciuta flessibilità nel combinare i fattori di produzione, secondo le necessità specifiche non soltanto di ogni industria, ma anche, e sempre più, delle singole imprese. Questo tipo di struttura industriale si costruisce attorno a una base primaria data da un settore avanzato che, sia tecnologicamente che organizzativamente, si posiziona al vertice della catena del valore e raggiunge una forte posizione competitiva che permette di conquistare i mercati mondiali secondo uno schema export-led“2.
Questo schema, per essere sostenibile, richiede dei settori altamente e redditivi, efficienti, protetti dalla concorrenza internazionale ma con minore intensità occupazionale che hanno lo scopo di sostenere i settori meno produttivi, redditivi, concentrati sul mercato interno ma con una maggiore intensità occupazionale. Il consumo interno, invece, è scollegato dalla crescita della produttività e dell’efficienza per favorire la crescita economica. Nelle fasi congiunturali negative l’economia è sostenuta da politiche fiscali espansive oppure politiche monetarie di riduzione dei tassi d’interesse. L’integrazione industriale europea, bisogna ribadirlo, è stata resa possibile dall’integrazione finanziaria che ha creato un mercato unico per i capitali e i servizi finanziari. Questo modello di crescita ha prodotto sacche di capacità produttive inutilizzate per un tasso di utilizzo inferiore agli standard minimi di redditività, come nel settore automobilistico.
“Da un punto di vista macroeconomico, ciò si è tradotto nel rischio ricorrente di crisi di sovrapproduzione di merci. In secondo luogo, il sistema è stato esposto ai cicli dei mercati internazionali in loro segmenti estremamente significativi, cosa che in periodi economici sfavorevoli dava solitamente luogo a ripercussioni negative, il che naturalmente – dentro una crisi globale come quella iniziata nel 2007 ed esplosa nel 2008 – non poteva non determinare esiti distruttivi ancor più drammaticamente amplificati. In terzo luogo, e da un punto di vista analitico, una struttura trans-nazionale così densamente intrecciata non può essere compresa impiegando vecchi e onorati schemi interpretativi incentrati quasi esclusivamente sull’analisi della bilancia dei pagamenti e degli squilibri nelle partite correnti. Infatti, per un verso, le nuove catene del valore sono caratterizzate da un continuo andirivieni dei flussi di prodotti e servizi che attraversano i confini nazionali, e per l’altro verso la stessa struttura industriale ha origine e si modifica in funzione degli investimenti finanziari che hanno origine in un Paese ma si realizzano in uno o più altri Paesi”3.
3. L’euro
L’introduzione della moneta unica nell’UE ha un’origine politica. Il progetto, molto influenzato dalla Francia, doveva nascere dalla combinazione tra industria manifatturiera tedesca, finanza inglese e forza militare francese. Tuttavia la Germania non voleva rinunciare facilmente al marco e per aderire all’euro pretese delle pesanti regole fiscali per limitare il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo, fissando un tetto alla quota del debito pubblico. Si tratta dei tristemente famosi parametri di Maastricht. L’introduzione dell’euro trovò nuova forza nella situazione economica degli anni ’90 che coincide con una crescita economica dipendente dagli USA e in parte dalla domanda proveniente da Russia e America Latina. L’elemento che non cambia mai è l’opposizione tedesca ad ogni spinta verso una maggiore unione economico-politico a cui la Germania risponde sempre con nuove regole restrittive e draconiane di bilancio pubblico. Accadde altre due volte, dice Bellofiore. La seconda coincise con il Patto di stabilità e crescita di Amsterdam-Dublino che chiedeva bilanci pubblici tendenzialmente in pareggio, puntualmente non rispettato senza sanzioni da Francia e Germania. La terza volta fu il tentativo di costituzionalizzare il pareggio di bilancio con il Fiscal Compact.
“Ancora una volta, però, nulla si è concretizzato secondo le previsioni, e nel corso del 2019 si discuteva di una qualche revisione del Fiscal Compact. Nonostante tutto ciò, a inizio 2020, prima della pandemia, la spinta alla stagnazione dovuta alle politiche ‘disciplinatrici’ di austerità era fortissima. L’obiettivo di tagliare il disavanzo e rientrare dal debito pubblico è però un vincolo politico, non tecnico: è sciocco combatterlo sul secondo terreno, senza tener conto del primo”4.
Bellofiore prosegue le sue riflessioni cercando di analizzare il rapporto tra l’euro e la crisi economica del 2007-2008. Il modello economico europeo è neomercantilista e genera profitti grazie profitti via esportazioni nette che rende la crescita del continente dipendente dalla domanda estera, in particolare dal capitalismo anglosassone, crollata con la crisi economica. Tuttavia la crisi non dipende dall’euro essendo una crisi di natura finanziaria e transatlantica. Le contraddizioni dell’euro sono rimaste latenti negli anni passati ma alle fine sono emerse. I problemi sono legati all’assenza di un governo politico esplicito e democratico e alle artificiose e inutili restrizioni alle politiche monetarie e fiscali ben rappresentate dalla mission della BCE, pregiudizialmente ostile all’inflazione di prezzi e salari. La crisi economica del 2007-2008, quando giunse in Europa, fu aggravata dall’assenza di un governo federale. Questa mancanza è ben rappresentata dall’ex presidente della BCE Mario Draghi che nel 2012 aveva ideato l’OMT, annunciandolo senza mai attuarlo, per salvare l’investimento politico sull’euro. Il solo annuncio ebbe un effetto benefico sulle aspettative ma arrivò solo allo zenit della crisi e per questo motivo Draghi si lamentò della debolezza solitudine della politica monetaria, poco sostenuta dal versante politico e di conseguenza meno efficace.
“Tutto ciò conferma che la crisi dell’eurozona non è una crisi delle partite correnti, come nella narrazione corrente degli ‘squilibri globali’. In un’area a moneta unica, gli squilibri interni non possono che essere la norma. Una delle ragioni principali per cui l’UEM è stata costruita è stata quella di permettere ai Paesi di accumulare squilibri di conto corrente verso altri membri senza dover essere costretti a deflazionare le loro economie nazionali. I Paesi dell’area della moneta unica condividono un sistema di compensazione e regolamenti dei conti, il Target 2: i pagamenti transfrontalieri tra banche dei Paesi della zona euro generano automaticamente crediti di compensazione tra le rispettive banche centrali nazionali (BCN) e la BCE. È un meccanismo che unifica irrevocabilmente le precedenti valute nazionali, convertendo un insieme di valute con tassi di cambio fissi in una moneta unica. Il Target 2 è stato ben costruito, come ha sottolineato Marc Lavoie. Anche se le banche del Nord europeo rifiutassero alle banche del Sud di fornire prestiti attraverso il mercato overnight o altri mercati all’ingrosso a più lungo termine, il sistema di compensazione e regolamento continuerebbe a funzionare. E così è stato. Il punto è stato compreso anche da Randall L. Wray: ‘imbalances balance’, gli squilibri si equilibrano, se si tiene conto dell’insieme dei bilanci settoriali in una prospettiva alla Wynne Godley. Gli squilibri gravi sono semmai quelli nascosti dietro gli squilibri finanziari, ossia quelli nei rapporti di potere e ancora di più, aggiungiamo, gli squilibri nel rapporto di classe, da inquadrare esso stesso sempre più come una realtà trans-nazionale”5.
Lo scoppio e la generalizzazione della crisi hanno spinto la BCE a comportarsi, con l’assenso di Draghi e la copertura della cancelliera tedesca Angela Merkel, come prestatore di ultima istanza di banche e stati sia in modo diretto che attraverso lo shadow banking. La tendenza è la costruzione di un soggetto politico su scala continentale ben definita, con una governance unitaria e con la capacità di riconfigurare la costituzione materiale del modello sociale europeo in un processo non privo di contraddizioni e violenza, come accaduto spesso in passato quando si sono costituite delle nuove unità monetarie.
4. La pandemia
Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo sostengono che l’Europa stava rischiando l’implosione prima dell’arrivo della pandemia nel 2020. Le incoerenze interne all’UE derivano dal modo in cui sono stati sostenuti gli squilibri delle partite correnti dentro l’eurozona, una tesi che è l’esatto opposto di quella sostenuta da molti economisti eterodossi di sinistra secondo cui la crisi dell’eurozona dipende da questi squilibri. Un altro elemento di tensione è fornito dalla ristrutturazione del capitale oligopolistico tedesco che ha generato catene del valore transnazionali capaci da un lato di assorbire la periferia orientale del continente e dall’altro di contenere il ruolo e l’importanza della periferia meridionale nella realizzazione e produzione del plusvalore. Tutto ciò viene rafforzato dalla tendenza tedesca nel ricercare nell’Asia, soprattutto l’Estremo Oriente, il mercato di riferimento per le esportazioni di macchinari e beni di consumo di alta qualità. L’Europa sopravvive alla Grande Recessione successiva alla crisi del 2007-2008 proprio perché il modello tedesco basato su austerità ed esportazioni nette, dopo il 2012-2013, si generalizza alla periferie del continente rendendolo più fragile agli shock esterni perché dipendente da una domanda esterna in un contesto dove si stavano rafforzando tensioni geopolitiche e derive protezionistiche. Per gli autori la crisi che stava arrivando avrebbe potuto comportare una revisione dell’architettura dell’euro con degli esiti, però, imprevedibili.
La pandemia ha imposto una rapida, soprattutto se paragonata alla gestione della crisi del 2007-2008, trasformazione della politica economica dell’Unione Europea. Il Patto di stabilità e crescita viene sospeso mentre la BCE agisce da prestatore di ultima istanza e di conseguenza non ci sono limiti effettivi all’indebitamento. Il COVID-19 è riuscito dove hanno fallito decenni di stagnazione e bassa crescita.
“Nella zona euro, come altrove, c’è stato un vivace dibattito su come finanziare i disavanzi pubblici crescenti. In questi casi, una possibilità poteva essere quella di un aperto e diretto finanziamento monetario delle spese dei governi attraverso anticipi sul conto del Tesoro: si dovrebbe decidere, evidentemente, quanto significativo e quanto temporaneo. Nella stessa linea di pensiero un’altra prospettiva sarebbe stata quella di offrire un finanziamento diretto a fondo perduto degli investimenti per la salute, degli interventi a sostegno dei redditi delle famiglie e delle entrate delle imprese, e così via, da parte dell’istituto che emette moneta. Si è parlato anche di una riduzione dei disavanzi attraverso un prelievo fiscale progressivo. È vero che in linea di principio, e del tutto astrattamente, l’autorità di politica economica che emette moneta può spendere prima e indipendentemente dalle tasse. Un governo ha il potere di spendere “autonomamente” ex ante, raccogliendo le tasse ex post. È un’altra applicazione, in fondo, dello schema del circuito monetario. Ma questo non significa che un prelievo fiscale di una certa consistenza non possa essere opportuno, come troppo facilmente si scrive, al fine di ridurre la disuguaglianza, o di modellare la struttura dei consumi, o di condividere il peso dei costi dei lockdown; o anche di regolare nel tempo la dinamica del debito pubblico, influenzandone così i costi e i benefici della gestione, compresi quelli distributivi”6.
Durante la prima ondata della pandemia il dibattito è andato avanti. Si è parlato di un Meccanismo europeo di stabilità (MES) privo delle sue pesanti condizionalità ma con il rischio di un loro successivo ripristino a causa dei tratti europei invariati. In alternativa sono stati proposti gli eurobond emessi dalla Comunità Europea condividendo il rischio per ottenere finanziamenti a tassi d’interesse bassi. Prima della crisi sanitaria i governi dovevano finanziare i propri disavanzi emettendo titoli da vendere, ad esempio, a fondi pensione o fondi d’investimento in cambio del pagamento di interessi a lungo termine. Il rendimento dipende dalla valutazione del rischio del paese da parte del mercato. Dopo un’iniziale forte opposizione, parte di queste idee vengono fatte proprie dai governi europei seguendo tre fasi.
La prima fase coincide con il non-paper spagnolo dell’aprile 2020 che proponeva l’emissione europea di titoli irredimibili per finanziare grant e non prestiti nella misura del 10% del proprio bilancio per i prossimi 2-3 anni a partire dal gennaio 2021. Le risorse sono assegnate in base alla popolazione contagiata e una valutazione dell’impatto economico e sociale negativo della pandemia. Le risorse sono usate per le transizioni ecologica e digitale per costruire un’autonomia europea industriale e tecnologica. Il capitale raccolto non deve essere rimborsato ad eccezione degli interessi.
La seconda fase è legata al rifiuto della proposta spagnola e alla formulazione della proposta franco-tedesca del maggio 2020. Gli importi sono inferiori rispetto a quelli presentati nella prima fase ma sorprende l’atteggiamento tedesco. “La Commissione, a nome dell’Unione Europea, avrebbe dovuto emettere titoli garantiti sul bilancio europeo direttamente sul mercato, con gli Stati che avrebbero dovuto spendere in eccesso rispetto ai loro contributi e in modo redistributivo e solidale. Si trattava anche qui di “regali”, non di prestiti, e il principio della mutualizzazione del debito era assente solo nel nome. La proposta prevedeva anche una forte centralizzazione del bilancio pubblico a livello comunitario per la realizzazione di un progetto di investimento europeo”7.
Con la terza e ultima fase, tra fine maggio e fine luglio 2020, viene ribadito il principio dell’indebitamento comune a bassi tassi d’interesse. Le somme sono maggiori della proposta franco-tedesca ma soltanto un terzo è grant e il rimanente sono prestiti. La mutualizzazione del debito è indebolita ma rimane in piedi. Si intravede, inoltre, l’embrione di un bilancio comune europeo. Non ci si sofferma solo sul debito ma anche sugli investimenti che per quanto possano essere inadeguati quantitativamente e qualitativamente sono una svolta epocale. Questo cambiamento si incarna nel Next Generation EU di fine luglio con i successivi PNRR che ogni paese dovrà presentare per accedere ai fondi europei.
Bellofiore suggerisce nel libro di rafforzare ulteriormente il processo d’integrazione economica e monetaria europea con la gestione comune del debito pubblico e la creazione di asset sicuri. Inoltre, occorre sostenere i disavanzi pubblici con un congruo bilancio comune europeo. Infine suggerisce la cancellazione del debito contratto durante la pandemia o la sua riconversione in titoli a lunga scadenza e con un tasso d’interesse minimo.
5. Il Next Generation EU
Il Next Generation EU è stato concepito, per il periodo 2021-2026, come uno stimolo senza precedenti per le nostre economie sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il piano è quantificabile in 723,8 miliardi di euro che, sommati alle risorse di altri fondi europei, possono arrivare fino a 806,9 miliardi. Dal punto di vista qualitativo metà delle risorse sono sovvenzioni e non prestiti mentre la Commissione Europea reperirà le risorse economiche necessarie contraendo prestiti per tutta l’UE sui mercati finanziari che includono obbligazioni per 250 miliardi per le politiche ambientali e 100 miliardi per la coesione sociale. Infine, oltre alla mutualizzazione del debito, c’è un trasferimento asimmetrico delle risorse per superare le diseguaglianze nello sviluppo sorte prima della pandemia.
Per Francesco Garibaldo uno dei principali limiti del piano è l’assenza di un significativo coordinamento su scala europea. L’uso delle risorse è in capo ai singoli stati che interpretano diversamente le priorità da perseguire. Non si prende atto dell’esistenza di un’unica struttura industriale europea composta da diverse capacità produttive interdipendenti. Questo implica che la transizione di interi settori verso un’economia verde non è declinabile a livello nazionale ma se ne dovrebbe fare carico una struttura sovranazionale europea oggi assente.
I piani dei singoli paesi presentano tre tipologie di intervento:
- Sostegno a riforme ed investimenti privati
- Incentivi agli investimenti privati
- Investimenti per preparare l’Europa a future pandemie
L’obiettivo non è solo recuperare il gap con il PIL perso durante la pandemia ma anche rendere l’Europa competitiva a livello internazionale attraverso le transizioni ecologica e digitale. Entrambe sono impostate come una difesa dell’industria europea e di conseguenza dei singoli stati.
Il piano europeo è strutturato intorno a sei pilastri fondamentali: transizione verde; trasformazione digitale; crescita intelligente, inclusiva e sostenibile; coesione sociale e territoriale; resilienza sanitaria, economica, sociale e istituzionale e politiche per la prossima generazione. Il calcolo delle risorse è fatto tenendo in considerazione il calo reale del PIL nel 2020 e la disoccupazione tra il 2015 e il 2019.
“L’Unione Europea ha deciso giustamente di lanciare un programma che affiancasse all’inderogabile esigenza di porre riparo ai danni economici e sociali provocati dalla pandemia anche l’ambizione, da un lato, di trasformare la struttura economica con un progetto europeo condiviso, e, dall’altro, di ridurre le forti diseguaglianze sociali tra nazioni e regioni. Il primo obiettivo andrebbe portato avanti non sulla base delle sole capacità imprenditoriali di alcuni “campioni” ma in virtù di obiettivi definiti dal potere pubblico. Ciò richiede, a sua volta, la definizione di vere e proprie missioni con finalità definite. Difficile condividere però l’opinione che incentivi orizzontali all’offerta consentano di raggiungere entrambi gli scopi. Non a caso, il piano europeo chiarisce che, per quanto riguarda i suoi pilastri portanti, i fondi devono produrre un effetto leva, evitando di “spiazzare” gli investimenti privati. Di qui, il ritorno di un armamentario a lungo dimenticato, come quello legato alle politiche industriali e ai suoi strumenti”8.
Garibaldo sottolinea la problematicità dell’assenza di piani europei coordinati e mirati che sono sostituiti da tanti piani nazionali da cui dipende la ristrutturazione del sistema produttivo europeo. Inoltre manca un ripensamento del modello tedesco basato sulle esportazioni nette e destinato ad entrare in crisi con le nuove tensioni geopolitiche.
La differenza con quanto fatto da Biden negli USA è enorme. La risposta americana alla pandemia è stato il più grande piano d’investimenti dalla fine della Seconda guerra mondiale con l’obiettivo non solo di ripristinare il PIL perso ma anche di modificare la politica economica con un progetto simile al New Deal. In termini di quota percentuale del PIL parliamo del 10% contro il 7% europeo e con uno stimolo all’economia distribuito su un decennio con una spesa annuale rispetto alla produzione annuale di un quarto. Il piano doveva includere molte misure sociali come anni di college e scuola materna gratuiti e riduzione dei costi di assistenza all’infanzia. I fondi per le infrastrutture sono stati approvati mentre gli aspetti sociali hanno incontrato l’ostilità dei repubblicani e di quei democratici che reputavano uno stimolo del 10% eccessivo per una perdita del PIL del 3% o 4%.
“Mariana Mazzucato, citata da Chris Giles sul “Financial Times”16, osserva, a ragione, che il problema non è quello della proporzione tra perdita e stimolo ma della finalità dello stimolo. Se lo scopo è quello di creare una base industriale più solida per espandere la capacità produttiva e prevenire così anche l’inflazione futura, allora la dimensione del piano Biden è la dimensione giusta e la sua estensione temporale per un decennio è quella doverosa.
A tutto ciò è seguita la preoccupazione per la ripresa dell’inflazione, e quindi la decisione della Federal Reserve di aumentare i tassi di interesse (di cui si può discutere l’opportunità), e di procedere a uno sgonfiamento del proprio stato patrimoniale”9.
La tesi sostenuta da Bellofiore e Garibaldo è che dalla pandemia sta emergendo una nuova forma di keynesismo privatizzato, chiamato di seconda generazione, dove il ritorno di un certo attivismo nella spesa pubblica si accompagna ad una valorizzazione di criteri e priorità privatistici, a cui si aggiunge un generico sostegno alle imprese, senza intaccare la precarietà nel lavoro e nella società. Occorrerebbe invece riqualificare a sinistra questo nuovo intervento attivo dello Stato.
6. La proposta di un’economia della produzione sociale
Bellofiore e Garibaldo sostengono che la sinistra europea dovrebbe farsi promotrice, nel mondo post-pandemia, di un nuovo New Deal dove lo Stato interviene sulla composizione dell’output e svolge il ruolo di datore di lavoro di prima istanza. Il modello è il Piano del Lavoro della CGIL del 1949-1950 che rappresenta una radicalizzazione della socializzazione degli investimenti di Keynes come proposta da Minsky. L’intervento statale si basa sui disavanzi buoni e attivi di Alain Parguez. I primi devono essere pianificati in anticipo mentre i secondi devono essere legati ad un contenuto capace di stimolare l’economia e riassorbirli. Nel breve periodo il rapporto disavanzo/PIL viene spinto in alto mentre nel medio-lungo periodo tende a diminuire grazie alla crescita economica. Da una prospettiva marxiana sia i disavanzi che la socializzazione degli investimenti sono una creazione intenzionale di valore d’uso immediatamente sociali. Si tratta di un New Deal di classe in dialogo con ecologismo e femminismo. Non si tratta di un semplice ritorno a Keynes: ” Vi è indiscutibilmente bisogno di una “riforma”, ma molto diversa da quella propugnata dal pensiero dominante. Si deve incidere sulla qualità del prodotto e sulla allocazione dell’occupazione: e in questo la prospettiva di Roosevelt, se rivisitata, mantiene una sua attualità. E abbiamo altrettanto indiscutibilmente bisogno di una “ripresa”, che non può che passare attraverso la gestione politica della domanda effettiva: e in questo la prospettiva di Keynes, se anch’essa rivisitata, mantiene un suo valore parziale. Per questi motivi, l’accento deve essere posto su un programma mirato di spesa, invece di limitarsi a innescare la pompa come nel “keynesismo idraulico”. Una politica del genere non può essere scandita in due tempi: “riforma” e “ripresa” devono essere simultanee“10.
L’unica dimensione possibile per attuarlo è quella europea, con tutti i problemi politici che ne conseguono come la necessità di un’autorità fiscale comune che emetta debito in valuta sotto il suo controllo.
Questa tesi viene radicalizzata nel concetto di economia della produzione sociale. Per Bellofiore i controlli centrali per l’approvvigionamento sociale della pandemia devono essere mantenuti per la trasformazione del sistema produttivo e la realizzazione di una social production economy in cui la socialità è già iscritta immediatamente nella produzione e circolazione di ciò che costituisce la ricchezza. Una simile rivoluzione ha bisogno del protagonismo sociale della classe lavoratrice e delle soggettività anticapitalista ma anche una riforma delle istituzioni europee. Partendo dal legame tra pandemia, cambiamento climatico e capitalismo, Bellofiore afferma che: “la socializzazione a cui mi riferisco con la locuzione “economia della produzione sociale” non è uno stato ma un processo che si deve distendere su un’intera fase storica. I modi concreti in cui l’approvvigionamento sociale viene fornito – e con cui l’emergenza sanitaria e lo stesso cambiamento climatico vengono affrontati, qui e ora – sono i primi passi fondamentali. Si potrà trattare solo di primi passi – “riforme”, se volete – anche se impegnativi. Una lista non esaustiva include: una propulsione su larga scala degli “investimenti” pubblici in “beni” sociali, come salute e istruzione, ben al di là della distinzione attuale tra spesa corrente e spesa in conto capitale; la conversione a una produzione ecologica sostenibile; la fine della precarizzazione; il blocco dei licenziamenti; l’istituzione di salari più alti e “decenti” (nel senso anglosassone del termine); una “buona” piena occupazione guidata dalla spesa pubblica; una economia più attenta alla “cura” della natura esterna e di quella umana; una salvaguardia della salute all’interno stesso dei processi di lavoro, che sia rigorosa e senza compromessi; l’avvio di una sostanziale riduzione delle ore di lavoro con l’abbassamento dell’età pensionabile. Tutto ciò richiede un approccio non solo nazionale ma integrato, con un coordinamento macroeconomico e di politica industriale in senso lato (di governo della struttura produttiva) esteso all’intera area europea”11.
Questo schema non è compatibile alla lunga con il capitalismo e apre ad un nuovo terreno di lotta e tensioni.
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