- Introduzione
Il libro Le capitalism cognitif. Le nouvelle grande trasformation di Yann Moulier Boutang offre una riflessione profonda e articolata sull’attuale fase del capitalismo, mettendo in luce un contrasto evidente tra la dinamicità del capitalismo e la stagnazione della politica. Negli ultimi decenni il sistema capitalistico ha subito una trasformazione radicale, espandendosi globalmente e penetrando in contesti un tempo considerati impermeabili, come la Cina, che pur mantenendo una struttura politica comunista, ha abbracciato un modello economico capitalista. Questo capitalismo non si limita a sopravvivere ma prospera, spostando confini e ridefinendo le regole del gioco. La sua forza risiede nella capacità di reinventarsi continuamente, di sfruttare nuove tecnologie e di creare nuovi mercati, anche in aree precedentemente inesplorate. La risposta della politica, invece, sembra paralizzata. La caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, eventi che avrebbero potuto aprire la strada a nuove idee e visioni politiche, hanno invece coinciso con una sorta di “pensiero unico” dominante, in cui il capitalismo è diventato l’unico sistema di riferimento. La politica si è ridotta a una gestione tecnica delle cose, perdendo la sua capacità di immaginare un futuro diverso. Autori come Fukuyama, con la sua teoria della fine della storia, hanno contribuito a diffondere l’idea che il capitalismo rappresenti il punto finale dell’evoluzione umana, un’era in cui i conflitti ideologici sarebbero stati sostituiti da una pacifica amministrazione tecnica. Questa visione si è rivelata illusoria: le guerre e i conflitti continuano a proliferare e il mondo è tutt’altro che pacificato. La politica, invece di rispondere a queste sfide con nuove idee, sembra ripiegarsi su se stessa, ripetendo vecchi schemi e rifugiandosi in nostalgie del passato. Si assiste a un ritorno ai nazionalismi, ai fondamentalismi religiosi e a forme di socialismo che sembrano più un’evocazione del passato che una proposta per il futuro. Questo ripiegamento è particolarmente evidente nei movimenti contestatari e nelle teorie alternative che hanno perso la loro capacità di innovare e di proporre visioni credibili. Invece di guardare avanti, si guarda indietro, come se l’unica risposta possibile fosse un ritorno a modelli già superati. Il capitalismo, per quanto potente, non è onnipotente e potrebbe ancora esistere uno spazio politico alternativo da esplorare. Questo spazio non è dato ma deve essere costruito, attraverso un lavoro di immaginazione e di proposta. Boutang fa riferimento a Lenin e a Keynes che parlavano del grado di libertà lasciato alle future generazioni. Questa scelta è significativa perché l’autore ci vuole dire che la politica non deve essere solo una gestione del presente ma anche una proiezione verso il futuro. Boutang invita a un ottimismo razionale, basato sulla possibilità di costruire un nuovo pensiero politico che superi le vecchie ideologie e le nostalgie del passato. Non si tratta di abbandonare la ragione per abbracciare un romanticismo sterile perché occorre costruire su un fondamento solido che riconosca le contraddizioni del presente ma sia capace di immaginare un futuro diverso. La citazione di Gramsci, “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, viene rovesciata: meglio un ottimismo della ragione, che riconosca le possibilità di cambiamento, e un pessimismo della volontà, che eviti le illusioni e le facili speranze. Per questo motivo Boutang invita a liberarsi degli strumenti concettuali che non sono più in grado di aprire nuove porte o di offrire soluzioni innovative. La vecchia ragione, basata su categorie come il valore del tempo di lavoro, l’utilità o la scarsità delle risorse, non è più adeguata per comprendere una ricchezza che oggi dipende dal tempo di vita e dall’abbondanza di conoscenze. Insistere su questi vecchi schemi significa rischiare di navigare in cerchio, bloccati in un pensiero binario che non riesce a cogliere la complessità del reale. L’autore cita l’esempio di Mario Tronti e del movimento operaista italiano degli anni ’60 che con l’articolo Lenin in Inghilterra aveva anticipato la crisi del movimento operaio nei suoi punti più forti. Mentre il socialismo reale crollava, il capitalismo si rinnovava, adottando la logica del “cambiare tutto per non cambiare nulla”, come nel romanzo Il Gattopardo. Questa trasformazione non è stata accompagnata da una corrispondente evoluzione del pensiero politico ed economico. Il marxismo, in particolare, è rimasto ancorato a vecchie categorie, incapace di comprendere le nuove forme di produzione e di lotta di classe emerse con il capitalismo cognitivo. Boutang sostiene che il centro di gravità del capitalismo si è spostato verso ovest, dalla vecchia Manchester industriale alla Silicon Valley californiana, dove si sta sviluppando un nuovo capitalismo basato sulla conoscenza, l’innovazione e la produzione immateriale definito come capitalismo cognitivo. Purtroppo la maggior parte degli analisti e dei teorici politici non è riuscita a cogliere questa trasformazione, continuando a guardare al capitalismo industriale come al modello dominante e cercando di riproporre vecchie soluzioni, come il ritorno al fordismo. Questa miopia viene criticata sottolineando come il capitalismo cognitivo sia ormai il cuore dell’economia mondiale, con la sua capacità di generare valore attraverso la conoscenza, l’informazione e la creatività. La produzione immateriale non è una semplice rendita parassitaria ma il motore della nuova economia. Per comprendere appieno questa trasformazione è necessario abbandonare le vecchie categorie del marxismo tradizionale e sviluppare un nuovo programma di ricerca.
- Lo sviluppo dell’economia politica nel capitalismo cognitivo
L’economia politica, intesa come l’insieme di dottrine, principi, precetti e modelli che cercano di spiegare e guidare l’attività economica, si trova oggi ad affrontare una sfida determinata dalle nuove frontiere che ridisegnano i contorni dell’economia-mondo. A partire dal 1975, il ritmo della crescita economica nei paesi sviluppati ha subito un significativo rallentamento, tornando ai livelli precedenti al Trentennio Glorioso (1945-1975), un’epoca di forte espansione economica. In alcuni anni la crescita è stata quasi nulla, un fenomeno che sarebbe stato impensabile negli anni ’60, quando si dava per scontato un progresso economico costante. Parallelamente, la disoccupazione è diventata una realtà strutturale e pervasiva, segnando una rottura rispetto al passato. Il modello di crescita delle economie occidentali nel dopoguerra si basava su diversi pilastri: energia a basso costo, importazione di manodopera straniera, materie prime a buon mercato, quasi pieno impiego, tassi di cambio fissi tra le valute, tassi di interesse reali negativi e un’inflazione controllata, con aumenti salariali che seguivano la produttività con un ritardo di circa sei mesi. Questo modello era sostenuto da una rapida trasformazione in lavoratori salariati di una popolazione di origine agricola e da una domanda trainata inizialmente dalla ricostruzione postbellica e successivamente dalle guerre localizzate nel Terzo Mondo, come quelle in Corea e Vietnam. Questo sistema ha iniziato a mostrare segni di esaurimento a partire dagli anni ’70, perdendo slancio in Europa, negli Stati Uniti e persino in Giappone. Nonostante il rallentamento della crescita, a differenza degli anni ’30, non si è verificata una crisi finanziaria generalizzata fino al 2007-2008. Le istituzioni finanziarie internazionali, riformate secondo i principi del monetarismo, e il deficit della bilancia dei pagamenti americana hanno permesso il riciclo degli eccedenti europei, arabi e asiatici in dollari, evitando un collasso del sistema. Inoltre, il commercio mondiale, invece di contrarsi come era avvenuto durante la Grande Depressione, è cresciuto, aumentando l’interdipendenza globale tra Nord e Sud Globale e tra i continenti. Questo ha portato alla nascita di nuovi blocchi economici, come il Mercato Comune europeo e il Mercosur in Sud America, che hanno ridefinito le configurazioni politiche degli Stati-nazione. Negli anni ’50 e ’60 l’internazionalizzazione della produzione si era manifestata attraverso l’aumento delle imprese transnazionali. Negli anni successivi, le economie nazionali sono diventate sempre più esposte al mercato globale. Questo processo si è concluso negli anni ’90 con la scomparsa del blocco socialista e l’integrazione nell’economia capitalista mondiale di ex-URSS, Europa dell’Est, Cina e India. La globalizzazione ha portato a un’extraversione delle economie nazionali trasformando profondamente le condizioni di esercizio delle politiche fiscali e industriali a livello nazionale. Le economie nazionali sono oggi caratterizzate da interdipendenze complesse, con partecipazioni incrociate e legami finanziari che coinvolgono il sistema bancario e gli investitori istituzionali. Questo ha ridefinito le basi materiali del potere sovrano, ponendo nuove sfide alla governance e alla sovranità degli Stati-nazione. Le teorie tradizionali della sovranità indivisibile dello Stato-nazione appaiono sempre più inadeguate di fronte a queste trasformazioni. Bisogna ricordare, però, che la mondializzazione non è un fenomeno esclusivo dell’epoca contemporanea avendo radici storiche profonde. Già nel XVI secolo, poi alla fine del XVIII secolo e infine dalla fine del XIX secolo fino al 1914, si sono formati diversi spazi-mondo a partire dall’emisfero occidentale. Il primo e l’ultimo di questi spazi corrispondono alla costituzione degli imperi coloniali mentre il secondo coincise con l’apogeo del mercantilismo schiavista che crollò sotto i colpi delle rivoluzioni americana, francese e haitiana. La mondializzazione odierna, invece, è spesso definita come finanziarizzazione neoliberale, un termine che racchiude una serie di principi e pratiche coerenti tra loro che hanno ridisegnato le norme economiche globali e gli strumenti di governance. Tra questi principi troviamo la deregolamentazione delle economie, i tassi di cambio flessibili, il libero scambio come modalità predefinita del commercio internazionale e la contro-rivoluzione antikeynesiana promossa dalla scuola di Chicago, applicata dai governi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Questi ultimi, seguendo il monetarismo, hanno dato la priorità alla lotta contro l’inflazione mentre riducevano il ruolo dello Stato nell’economia. Il peso crescente della finanza in questa nuova configurazione è in parte ereditato dai disequilibri precedenti, in particolare dal deficit strutturale e permanente della bilancia dei pagamenti americana. Quando un paese accumula debiti elevati è inevitabile che i creditori, come le banche, influenzino la gestione delle sue finanze pubbliche o valutino il rischio di fallimento. L’ascesa della finanza è anche legata a una patrimonializzazione dell’economia, ovvero a una crescente importanza degli asset finanziari rispetto all’economia reale. Tuttavia il fattore decisivo che ha permesso questa trasformazione è stato lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che hanno reso possibile la creazione di un mercato globale dei capitali, molto vicino ai modelli teorici descritti da economisti come Léon Walras e Stanley Jevons. Oggi gli investitori operano su scala globale, confrontando la redditività dei capitali a breve e lungo termine mentre le aziende possono raccogliere capitali in borsa a condizione di fornire informazioni trasparenti sulle loro performance. Anche gli Stati hanno dovuto adattarsi, finanziando i loro deficit attraverso la deregolamentazione dei sistemi finanziari nazionali, l’adozione di tassi di cambio flessibili, la privatizzazione di parte del settore pubblico e l’emissione di titoli negoziabili in borsa. Nonostante l’importanza crescente della finanza, questa non è la prima volta nella storia del capitalismo che il settore bancario e finanziario assume un ruolo così strategico e redditizio. Boutang sostiene che le analisi sulla finanziarizzazione e sulla mondializzazione neoliberale, pur offrendo una descrizione accurata dei fenomeni in atto, lasciano molta insoddisfazione riguardo alla comprensione delle ragioni profonde di queste trasformazioni. Al di là della ricerca del profitto, non è chiaro perché il capitalismo si sia ritirato nella finanza, quasi come in un rifugio sicuro. Questo spostamento ha portato a un cambiamento radicale nel modo in cui il lavoro e le imprese sono organizzati. Il lavoro è diventato sempre più immateriale mentre si è dispiegata una frammentazione delle strutture aziendali. I manager, un tempo focalizzati sulla logica industriale, devono ora rispondere agli azionisti e ai gruppi finanziari mentre gli Stati si trovano a trattare con investitori nomadi, più interessati alla liquidità immediata che alla redditività a lungo termine. Il capitalismo del Trentennio glorioso era basato su un mix di taylorismo, fordismo, compromesso keynesiano e un forte welfare state. Questo modello ha permesso la ricostruzione postbellica dell’Europa e del Giappone, garantendo una crescita economica annua vicina al 5%. Bisogna però ricordare che questo sistema era limitato ai paesi occidentali e del Nord del mondo, lasciando i paesi del Sud in una condizione di dipendenza economica. La decolonizzazione, infatti, non ha portato a un vero sviluppo autonomo ma ha sostituito il dominio coloniale con una nuova forma di dipendenza economica, spesso aggravata dal debito estero. I paesi del blocco socialista, pur con notevoli sforzi politici, hanno gradualmente perso terreno rispetto all’Occidente, anche a causa della mancanza di libertà civiche e politiche necessarie per lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. A partire dalla fine degli anni ’60 questo modello di capitalismo è entrato in crisi e di conseguenza i principi che avevano garantito la crescita del dopoguerra sono stati progressivamente abbandonati. La risposta del capitalismo a questa crisi è stata quella di spostarsi verso la finanza, abbandonando parzialmente il modello industriale e keynesiano che aveva dominato nel dopoguerra. Questo cambiamento ha portato a una nuova fase del capitalismo, caratterizzata da una maggiore integrazione globale e da una crescente instabilità e disuguaglianza. La finanza, con la sua capacità di proiettarsi nel futuro attraverso strumenti come i tassi di attualizzazione e la gestione del rischio, ha assunto un ruolo centrale creando anche nuove sfide per la governance globale e per la stabilità economica. In questo contesto emerge quello che Boutang definisce come lavoro immateriale e lo colloca in un quadro teorico più ampio, confrontandolo con la nozione marxiana di lavoro astratto. Secondo Marx il valore di un bene o di un servizio è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrlo, indipendentemente dalla sua utilità concreta. Questo lavoro astratto rappresenta una spesa di forza umana in generale, misurata in termini di tempo di lavoro semplice, che funge da unità di misura per calcolare il valore di scambio delle merci. Marx distingue chiaramente tra valore d’uso (l’utilità di un bene) e valore di scambio (il suo valore economico), e il lavoro astratto si riferisce esclusivamente a quest’ultimo. Questo approccio è stato spesso frainteso, portando a confusioni simili a quelle che oggi circondano il concetto di lavoro immateriale, il quale non implica la scomparsa del lavoro in generale ma piuttosto un cambiamento nella natura del lavoro e nella creazione di valore. Mentre il lavoro tradizionale si concentrava sulla produzione materiale e il dispendio di forza fisica, il lavoro immateriale si basa su elementi come la creatività, il sapere, l’innovazione e la condivisione di idee. Ad esempio, il valore di una scarpa da ginnastica non deriva solo dal costo di produzione e trasporto (che potrebbe essere di pochi euro) ma soprattutto dal valore immateriale della marca (come Nike o Adidas), che può far lievitare il prezzo fino a centinaia di euro. Questo valore immateriale è il risultato di ore di lavoro di designer, stilisti, avvocati specializzati in proprietà intellettuale e del consenso dei consumatori a pagare di più per un prodotto di marca considerato premium. Di conseguenza per Boutang il lavoro immateriale diventa centrale nel processo di accumulazione capitalistica, poiché è qui che si genera la maggior parte del valore di scambio. Questa trasformazione non è una fuga nell’idealismo o una negazione del materialismo ma un aggiornamento della categoria marxiana del lavoro astratto. Il capitalismo contemporaneo, quindi, si basa sempre più su elementi immateriali che pur essendo intangibili sono diventati egemonici nel determinare il valore di scambio delle merci. Le norme contabili internazionali, come gli IFRS (International Financial Reporting Standards), hanno iniziato a riconoscere e quantificare questi elementi immateriali, ad esempio attraverso la norma IAS 38 che richiede la contabilizzazione del capitale immateriale delle aziende. Anche i conti nazionali stanno iniziando a integrare spese come quelle in ricerca e sviluppo, riconoscendo il loro ruolo cruciale nella creazione di valore. Questa evoluzione ha implicazioni profonde per l’economia e la società. La delocalizzazione della produzione materiale, ad esempio, è un problema serio per i lavoratori ma non per le aziende, poiché il valore aggiunto si concentra sempre più negli elementi immateriali. La flessibilità e la varietà diventano essenziali per rispondere ai cambiamenti rapidi dei gusti dei consumatori, come dimostra l’”économie de variété” descritta da Robert Boyer. Le economie di scala tradizionali sono sempre più integrate da economie di apprendimento e di rete che mirano a catturare e mantenere il maggior numero possibile di utenti, offrendo servizi gratuiti o esternalità positive in cambio della fedeltà a standard tecnici o normativi. Ne consegue che il capitalismo contemporaneo cerca di appropriarsi dell’intelligenza collettiva e della creatività diffusa nella popolazione. Parliamo di una risorsa quasi illimitata e gratuita che le aziende cercano di incorporare nel processo produttivo. Questo cambiamento richiede una revisione delle categorie economiche tradizionali. Secondo l’economia politica classica, che include sia i neoclassici sia Keynes, l’ascesa dell’immateriale potrebbe essere interpretata come una forma di estorsione di rendita da parte della finanza che gestisce il risparmio e il patrimonio proveniente dai paesi sviluppati ed è alla ricerca di investimenti sicuri, magari, come nel caso dei fondi pensione, per garantire pensioni basate sulla capitalizzazione. Questa visione rischia di essere riduttiva e può portare a un ritorno nostalgico all’industria tradizionale, con il pericolo di cadere in politiche protezionistiche, nazionaliste o addirittura reazionarie, come il sostegno incondizionato alle industrie belliche, invece di investire in innovazione e sviluppo ecologicamente sostenibile. Per Boutang, in realtà, il passaggio dalla produzione materiale a quella immateriale riflette un cambiamento profondo e strutturale nel mondo economico. Stiamo lasciando un’epoca in cui la produzione di beni materiali richiedeva grandi investimenti in macchinari e lavoro poco qualificato, per entrare in un’era in cui la riproduzione di beni complessi (come la biosfera e la noosfera, ovvero la diversità culturale e l’economia della mente) e la produzione di conoscenza e innovazione richiedono investimenti in capitale intellettuale, formazione e lavoro altamente qualificato, spesso organizzato collettivamente attraverso le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Questo spostamento non è temporaneo né destinato a scomparire con l’esplosione di una bolla finanziaria perché rappresenta una trasformazione strutturale del capitalismo nel suo continuo adattamento per poter sopravvivere. Nel passato, durante il Secondo Impero e la Terza Repubblica in Francia, il capitalismo industriale ha affrontato crisi finanziarie e fallimenti bancari che alcuni interpretarono come segni di una crisi insormontabile. Tuttavia queste crisi facevano parte di un processo di adattamento e trasformazione che portò alla creazione di nuove istituzioni finanziarie e alla socializzazione del capitale, come le società per azioni e i sistemi bancari moderni. Allo stesso modo, oggi la globalizzazione finanziaria deve affrontare la sfida della governance del lavoro immateriale e dei conseguenti rischi politici e sociali, non solo quelli economici. Il capitalismo cognitivo non è semplicemente una forma speculativa o parassitaria di capitalismo. Si tratta di una risposta alle nuove condizioni ambientali e sociali che fanno emergere problematiche come la mutazione ecologica, la quale impone una ridefinizione del rapporto tra economia e ambiente, oppure la trasformazione dell’essere umano stesso che non è più solo un homo sapiens dotato di una certa manualità ma anche un individuo con un cervello potenziato da computer e reti digitali. Questa intelligenza collettiva, amplificata dalla tecnologia, sta ridefinendo i confini della produzione, della conoscenza e della vita stessa, ponendo nuove sfide alla governance globale che sono anche figlie delle conquiste storiche del movimento operaio, come l’accesso all’istruzione, alle tecnologie digitali e alla mobilità globale. Da tutto ciò per Boutang ne consegue che il capitalismo cognitivo non è solo una fase di crisi o di declino ma anche un’opportunità per nuove forme di organizzazione sociale ed economica. La sfida principale è gestire la produzione e l’estrazione di valore dal lavoro vivo in rete che richiede una ridefinizione delle relazioni di potere e delle istituzioni in un contesto dove il capitalismo non è più solo basato sulla dissipazione di energia fossile e sul lavoro muscolare ma anche sulla forza cognitiva collettiva e sulla creatività diffusa. Questo cambiamento apre nuove possibilità e contraddizioni che devono essere affrontate con strumenti teorici e politici adeguati.
- Definiamo il capitalismo cognitivo
Per Boutang la trasformazione in atto nell’economia capitalista e nella produzione di valore è globale e segna il passaggio dal capitalismo industriale, nato con la grande fabbrica manchesteriana basata sul lavoro materiale operaio e sulla trasformazione di risorse fisiche, a una nuova fase definita come capitalismo cognitivo. Questo nuovo paradigma non rappresenta una rottura totale con il passato ma piuttosto una riorganizzazione profonda delle dinamiche economiche, in cui la produzione materiale non scompare però viene riadattata e riformattata, con la finanziarizzazione che ne è una delle espressioni più evidenti. La tesi di Boutang non si limita a celebrare l’avvento di un’era postindustriale né ad abbracciare acriticamente l’entusiasmo per la New Economy che prometteva una società pacificata e senza crisi. Al contrario, si tratta di analizzare le trasformazioni strategiche già in atto, che, prese singolarmente, sono significative e nel loro insieme formano un sistema coerente e radicalmente nuovo. La rivoluzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) è stata paragonata da Peter Drucker e altri alla rivoluzione delle ferrovie in termini di scala del cambiamento. Questo paragone non coglie appieno la mutazione qualitativa che riguarda sia la sostanza che la forma del valore. Le ICT stanno portando a un cambiamento di paradigma totale, paragonabile solo alla dilatazione del mondo avvenuta tra il 1492 e il 1660 ma con una differenza cruciale: l’intensità e la rapidità del progresso tecnologico nei campi del digitale, delle nanotecnologie e delle biotecnologie superano persino i periodi più fertili del capitalismo industriale. Questo cambiamento non si limita a modificare i parametri di spazio e tempo perché ridefinisce anche le rappresentazioni del fare, del soggetto che agisce, del produrre e delle condizioni di vita sulla Terra. La natura stessa del lavoro, della produzione e della vita umana viene trasformata in modo radicale.
L’insistenza sul carattere inedito di questa grande trasformazione è condivisa da autori come Lawrence Lessig, Yochai Benkler, Richard Stallman, Eben Moglen e James Boyle negli Stati Uniti, e da pensatori europei come Michel Bauwens, Philippe Aigrain e Philippe Quéau. Richard Barbrook ha notato come l’ideologia californiana della rivoluzione digitale flirta stranamente con il cybercomunismo. I pionieri della Silicon Valley, che hanno creato nuove imprese globali, sono i moderni fisiocratici: invece di deridere la loro presunta ingenuità è necessario riconoscere che hanno scoperto e inventato una nuova forma di valore. E dove c’è una nuova forma di valore, c’è anche un impatto profondo sul valore d’uso e sulle relazioni umane e quindi sui modi e sui rapporti di produzione. La descrizione fenomenologica della globalizzazione è ormai ampiamente condivisa: la sua caratteristica principale è il radicale restringimento delle distanze e i bassi costi di trasmissione dell’informazione codificata in sistemi binari. Questi cambiamenti non sono semplicemente strumenti al servizio delle vecchie unità produttive, essi infatti operano una mutazione radicale delle strutture di potere. I livelli amministrativi che si erano sviluppati lentamente dalla decomposizione del Medioevo (città-stato, Stato moderno, nazione e, più recentemente, organizzazioni internazionali) perdono sostanza e pertinenza nel trattare problemi e prendere decisioni in modo autonomo e coerente. La globalizzazione non dilata semplicemente lo spazio, come avvenne durante le grandi scoperte geografiche, ma deterritorializza e riterritorializza gli spazi, disarticolando le omogeneità e le coesioni sia al centro che alla periferia. Al giorno d’oggi, infatti, l’accumulazione non avviene più attraverso una lenta diffusione perché agisce rapidamente a livello globale, lasciando spazio a sotto-sistemi locali solo come reazione a questa dinamica generale. Boutang prosegue il ragionamento descrivendo tre configurazioni principali del capitalismo: il capitalismo mercantilista, basato sull’accumulazione di tipo mercantile e finanziario, che si sviluppa tra il XVI e il XVII secolo; il capitalismo industriale, fondato sull’accumulazione di capitale fisico e sul ruolo centrale della grande fabbrica manchesteriana nella produzione di massa di beni standardizzati e infine il capitalismo cognitivo, basato sull’accumulazione di capitale immateriale, la diffusione del sapere e il ruolo centrale dell’economia della conoscenza. Questo nuovo capitalismo si adatta paradossalmente a un universo di concorrenza esacerbata del postfordismo e dell’industria ma ne modifica profondamente i tratti, spostando il fulcro della creazione di valore verso l’immateriale, il sapere e la cooperazione umana. Uno degli aspetti più evidenti del capitalismo cognitivo è la virtualizzazione dell’economia, ovvero il ruolo centrale dell’immateriale e dei servizi legati alla sua produzione. Questo fenomeno non riguarda solo settori specifici perché permea l’intera attività economica, dall’agricoltura all’industria, fino ai servizi più comuni. Ad esempio, anche un’attività tradizionale come quella di un parrucchiere oggi si avvale di strumenti digitali per gestire clienti, fornitori e pagamenti. La digitalizzazione delle informazioni e l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono fondamentali per questa trasformazione poiché permettono la raccolta, l’elaborazione e lo stoccaggio di dati in forma numerica, diventando essenziali sia per la produzione di conoscenza che per la produzione in generale. Tra gli elementi immateriali, l’innovazione assume un ruolo decisivo nella crescita economica. Le imprese, i mercati e le istituzioni pubbliche cercano di catturare i processi cognitivi e i saperi taciti presenti nella cooperazione sociale. La conoscenza e la scienza, che un tempo erano incorporate nel capitale industriale ma rimanevano distinte da esso, diventano ora il fulcro strategico del sistema. Da un lato, la scienza e la conoscenza sono condizioni necessarie per l’innovazione (valore d’uso), dall’altro, cristallizzano nei prodotti e nei servizi la parte essenziale del valore di scambio. Il lavoro materiale non scompare però perde il suo ruolo centrale mentre l’attività strategica delle imprese si concentra sul controllo del processo di valorizzazione, non più sul processo tecnico e materiale in sé. Il progresso tecnico non è più una risorsa esogena che le imprese possono acquisire sul mercato visto che diventa un sistema sociotecnico caratterizzato dalle ICT. L’appropriazione delle conoscenze e l’uso delle tecniche sono le variabili determinanti per l’innovazione, come sottolineato dalla teoria evoluzionista. Questo cambiamento ridefinisce anche la divisione del lavoro: il modello taylorista, basato sulla separazione tra esecuzione manuale e concezione intellettuale, viene messo in discussione. In un’economia basata sulla varietà e sull’innovazione, la specializzazione eccessiva diventa un ostacolo mentre i guadagni di produttività derivano sempre più dalle economie di apprendimento e dalla cooperazione attiva degli agenti.
La complessità crescente dei mercati richiede un passaggio dalle economie di scala alle economie di apprendimento che permettono di differenziarsi in un contesto di concorrenza globale. Le sequenze produttive tradizionali (concezione/produzione/commercializzazione) vengono invertite, come dimostrano i modelli di produzione flessibile e del just in time, sviluppati nell’industria automobilistica e applicati anche in settori come la moda e le industrie culturali. Il consumatore finisce per diventare co-produttore, contribuendo all’innovazione attraverso l’uso di dispositivi digitali. La mercificazione universale mette in discussione i tradizionali parametri di misura del valore basati sul capitale e sul lavoro. Le distinzioni tra lavoro qualificato e non qualificato, tra capitale e lavoro, si sfumano ed emergono nuove forme di valore legate al capitale umano e intellettuale. L’economia evoluzionista propone di distinguere i beni e i servizi in tre livelli: hardware (la componente materiale), software (la componente logica) e wetware (la componente cerebrale e vivente). A questi si aggiunge una quarta componente, il netware (la rete), che diventa essenziale nella società digitale, dove l’intelligenza collettiva si sviluppa attraverso reti interconnesse.
Il capitalismo cognitivo segna anche un cambiamento di paradigma nel lavoro: non è più la forza lavoro fisica a dominare ma la forza-invenzione, ovvero la capacità creativa e innovativa degli individui. Questo spostamento coincide con il superamento del modello energetico e entropico del capitalismo industriale che ha raggiunto i limiti della biosfera. La fine del lavoro, teorizzata da autori come Jeremy Rifkin, va intesa come il declino dell’egemonia del lavoro industriale a favore di un nuovo paradigma basato sul lavoro cognitivo. Il capitalismo cognitivo si caratterizza anche per il declino delle performance individuali e l’emergere di indicatori di produttività globale, come il surplus di produttività e il “fair value” (valore equo) valutata dai mercati finanziari. L’innovazione non è più confinata all’interno delle imprese e si diffonde nei territori e nelle reti produttive, dando vita a cluster e sistemi locali di innovazione. Infine, il capitalismo cognitivo è una forma di bioproduzione, in cui la conoscenza e il vivente vengono prodotti attraverso l’attività collettiva dei cervelli umani interconnessi in reti digitali. In questo modo viene ridefinito il concetto di potere come biopotere, ovvero il controllo sulla produzione della vita stessa. Le biotecnologie, ad esempio, stanno trasformando il vivente in un vettore di produzione più potente e adatto alle sfide della biosfera. Boutang sostiene che per comprendere questa nuova fase del capitalismo è necessario considerare tre elementi fondamentali: un tipo specifico di accumulazione, un modo di produzione e una forma di sfruttamento del lavoro vivo. L’accumulazione non si limita alla formazione di capitale fisso, come tradizionalmente inteso dagli economisti, perché include gli investimenti effettuati sia dalle autorità pubbliche che dai privati, siano essi imprese o famiglie. Il sistema di accumulazione del capitalismo cognitivo si caratterizza per il fatto che l’accumulazione non si concentra più principalmente sulle macchine e sull’organizzazione del lavoro, come nel capitalismo industriale, perché prevalgono la conoscenza e la creatività, ovvero forme di investimento immateriale. In questa nuova fase la cattura dei guadagni derivanti dalla conoscenza e dall’innovazione diventa l’obiettivo centrale dell’accumulazione e gioca un ruolo determinante nella formazione dei profitti. Il capitalismo cognitivo è quindi una modalità di accumulazione in cui l’oggetto principale è costituito dalla conoscenza che diventa la risorsa chiave per la creazione di valore e il luogo principale del processo di valorizzazione. Di conseguenza, i diritti di proprietà, la posizione nelle reti, le alleanze e la gestione dei progetti diventano fattori istituzionali e organizzativi cruciali. Le strategie delle imprese si orientano verso un posizionamento spaziale, istituzionale e organizzativo che permetta di aumentare la capacità di partecipare a processi creativi e di catturarne i benefici. La trasformazione meccanica della materia, tipica del capitalismo industriale, non scompare ma perde il suo ruolo centrale a favore della cooperazione dei cervelli nella produzione del vivente attraverso il vivente, resa possibile dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come il digitale, i computer e Internet, che diventano i nuovi emblemi di questa fase, così come la miniera di carbone, la macchina a vapore e il treno lo furono per il capitalismo industriale. Il modo di produzione del capitalismo cognitivo si basa sul lavoro di cooperazione dei cervelli, connessi in rete attraverso i computer. Questa trasformazione si manifesta empiricamente nella crescente importanza della ricerca, del progresso tecnico, dell’educazione, della circolazione dell’informazione, dei sistemi di comunicazione, dell’innovazione, dell’apprendimento organizzativo e del management strategico. La gestione per progetti, l’articolazione di piccole unità in rete e la diffusione di contratti di subappalto e partnership sono espressioni concrete di questa nuova organizzazione produttiva. Anche la domanda si orienta verso tecnologie che coinvolgono le facoltà mentali, come l’audiovisivo, i computer, Internet e le console di gioco, riflettendo una crescente integrazione tra consumo e innovazione tecnologica. Per Boutang il capitale umano e la qualità della popolazione diventano i fattori cruciali per la ricchezza delle nazioni. Le infrastrutture delle telecomunicazioni, base materiale delle ICT, permettono una dematerializzazione della cooperazione, abolendo le distanze e mettendo in discussione le gerarchie tradizionali ereditate dai modelli produttivi precedenti, come il monastero, la piantagione, la manifattura, la grande fabbrica e la multinazionale. La ridefinizione dei diritti di proprietà e dei diritti sociali, che determinano la posizione giuridica dei lavoratori, degli ingegneri, degli inventori e dei creatori, è parte integrante di questa grande trasformazione. Il capitalismo cognitivo mira a integrare pienamente nella sfera economica, sia mercantile che non mercantile, risorse che in precedenza ne erano esterne. Questo processo richiede l’istituzione di regole e meccanismi istituzionali per regolare attività, relazioni e diritti di proprietà. Due linee guida fondamentali per l’instaurazione di un regime stabile di capitalismo cognitivo sono: far emergere le esternalità positive in un contesto di globalizzazione che permetta anche di risolvere le esternalità negative, eliminando le fonti di squilibrio duraturo nella crescita della produzione di conoscenza, e catturare le esternalità positive e trasformarle in profitto privato. Questa trasformazione spiega anche i movimenti finanziari apparentemente erratici. Come ha osservato Alan Greenspan, ex governatore della Federal Reserve, l’economia si sta spostando sempre più verso una dimensione concettuale piuttosto che fisica, ponendo l’accento sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale rispetto a quelli fisici. Greenspan si interroga anche se sia giusto soddisfare le rivendicazioni dei creatori di idee allo stesso modo dei proprietari terrieri o se invece le idee debbano essere rese più accessibili per massimizzare il benessere sociale. Questo dibattito riflette la necessità di sviluppare un quadro analitico per comprendere un’economia sempre più dominata da prodotti concettuali.
Prima di approfondire la divisione sociale ed economica del lavoro, le variabili chiave della produzione di nuove conoscenze e del vivente, e il nuovo paradigma dell’attività umana che sta emergendo, per Boutang è necessario chiarire un malinteso metodologico legato al digitale. Il punto di partenza deve essere la trasformazione del lavoro a livello macroeconomico, evitando un errore classico dell’empirismo: quello di estrapolare dall’osservazione di una forma concreta di lavoro un sistema generale del lavoro, per poi passare al capitalismo e infine alla società nel suo complesso. Questo approccio riduzionista rischia di reintrodurre, attraverso la finestra, tutto ciò che era stato escluso dalla porta, limitandosi a una descrizione fenomenologica superficiale. Per evitare questo errore ci sono due buone ragioni. In primo luogo, l’emergere del capitalismo cognitivo, come quello delle precedenti modalità di accumulazione storiche, non può essere compreso solo attraverso fatti stilizzati. È necessario avanzare un’ipotesi sulla tendenza in corso, privilegiandola e spingendola fino alle sue estreme conseguenze, anche a costo di forzare un po’, per far emergere l’evoluzione dall’ombra in cui rimarrebbe se ci si limitasse a una prudente raccolta di fatti. Ogni dato può essere interpretato in modo diverso, come il classico esempio della bottiglia mezza piena o mezza vuota. Molti ricercatori scettici sul concetto di capitalismo cognitivo sottolineano la persistenza e il predominio numerico del lavoro tradizionale, dello sfruttamento e delle lunghe ore di lavoro, simili a quelle descritte da Marx nella teoria del plusvalore assoluto, oggi osservabili nelle fabbriche asiatiche. Ricordiamoci però che le osservazioni empiriche sono selezionate da un insieme caotico di informazioni e ciò che conta è identificare le variabili pertinenti che determinano la tonalità complessiva o permettono di prevedere le traiettorie evolutive. Il genio di Marx ed Engels non fu quello di studiare la popolazione lavoratrice più numerosa in Inghilterra ma i 250.000 operai delle fabbriche di Manchester perché erano loro a rappresentare la tendenza emergente.
Il secondo motivo per evitare un approccio empirico che si pretende neutro è che le trasformazioni del lavoro non possono essere il punto di partenza per dedurre il capitalismo e poi la società come suo appendice. Una tale sequenza sarebbe doppiamente riduzionista: ridurrebbe la divisione sociale del lavoro a una divisione tecnica e farebbe della società una conseguenza “automatica” del tipo di capitalismo dedotto dalla tecnica o dalla dimensione del mercato. Una costruzione del genere può essere elegante e adatta a regressioni econometriche ma non corrisponde alla realtà. Inoltre condannerebbe l’azione sociale e politica a essere un mero teatro di ombre di un determinismo basato sullo sviluppo delle forze produttive e sull’accumulazione. A questo punto Boutang può analizzare la trasformazione della divisione del lavoro nel contesto del capitalismo cognitivo, mettendo in discussione il modello classico descritto da Adam Smith e perfezionato da Taylor che ha dominato il capitalismo industriale. La divisione del lavoro, come teorizzata da Smith nella Ricchezza delle nazioni, è stata un pilastro dell’economia politica classica e ha influenzato pensatori come David Ricardo e Karl Marx, oltre a sociologi come Émile Durkheim. Questa concezione tradizionale della divisione del lavoro, basata sulla specializzazione tecnica e sulla massimizzazione della produttività attraverso la parcellizzazione delle mansioni, viene oggi messa in discussione dal capitalismo cognitivo basato sulla conoscenza, sull’innovazione e sulla cooperazione sociale. Nel capitalismo industriale la divisione del lavoro era strettamente legata alla dimensione del mercato: più un paese commerciava, più poteva specializzare la produzione per ridurre i costi e dominare il commercio mondiale. Marx, tuttavia, invertì i termini del problema, sostenendo che era la gerarchia sociale tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi li valorizzava a determinare la specializzazione tecnica. In entrambi i casi la divisione del lavoro era vista come un meccanismo per massimizzare l’efficienza produttiva, riducendo il lavoro complesso a compiti semplici e separando l’esecuzione manuale dalla concezione intellettuale. Nel capitalismo cognitivo, invece, la divisione del lavoro assume una forma completamente diversa. La produzione non parte più dal lavoro parcellizzato ma dall’attività cooperativa umana e dall’oggetto di conoscenza. La divisione del lavoro non è più pianificata a priori da un dipartimento dei metodi perché emerge dalla cooperazione tra individui che condividono conoscenze e competenze. L’organizzazione per progetti sostituisce quella gerarchica e matriciale dell’era industriale, rendendo il processo più rapido, reattivo e innovativo. Questo cambiamento è reso possibile dalle reti digitali che permettono una coordinazione decentralizzata e in tempo reale, in cui ogni agente può modificare la propria azione in base alle informazioni condivise. Yochai Benkler, nel suo celebre testo The Penguin of Coase, ha analizzato come le reti digitali e l’economia peer-to-peer abbiano trasformato la divisione del lavoro. Benkler mostra che, in un contesto di conoscenza distribuita e di costi di transazione quasi nulli, la produzione in rete diventa un’alternativa più efficiente rispetto al mercato decentralizzato, all’impresa privata o allo Stato. La dimensione del mercato perde importanza mentre la dimensione della rete diventa cruciale: più una rete è ampia e specializzata, maggiore è la probabilità di trovare soluzioni innovative rapidamente. Questo genera un surplus di valore, noto come esternalità positive di rete, che beneficia tutti i partecipanti senza costi aggiuntivi. La divisione cognitiva del lavoro si distingue da quella smithiana e tayloriana su tre piani principali. In primo luogo, la specializzazione non è più determinata dalla riduzione del lavoro complesso a compiti semplici bensì dalla capacità di innovare e apprendere in contesti incerti. In secondo luogo, la dimensione del mercato perde rilevanza in un’economia basata sulla varietà e sull’incertezza della domanda, dove i guadagni di produttività derivano dalle economie di apprendimento piuttosto che dalle economie di scala. Infine, la divisione cognitiva del lavoro sfida la legge dei rendimenti decrescenti, tipica dell’economia industriale, favorendo invece rendimenti crescenti grazie alla circolazione e alla condivisione della conoscenza. La produzione di software è un esempio emblematico di questa nuova divisione del lavoro. A differenza della produzione industriale, che richiede standardizzazione e omogeneizzazione, la produzione di software si basa su una coordinazione decentralizzata e modulare funzionale ad innovazioni sequenziali senza ritorni decrescenti. Nel caso del software libero, la cooperazione in tempo reale e la condivisione delle conoscenze senza restrizioni legali rappresentano un ulteriore passo avanti rispetto ai modelli tradizionali. Il ruolo delle reti digitali, come l’Internet, è fondamentale in questo contesto. A differenza delle reti centralizzate e gerarchiche del passato, l’Internet è un sistema “stupido” a livello tecnico ma intelligente a livello periferico, dove gli utenti possono cooperare e innovare liberamente. Questo modello favorisce l’interoperabilità e la circolazione delle conoscenze, superando i limiti delle vecchie strutture gerarchiche.
A questo punto Boutang introduce il concetto di attenzione nel contesto del capitalismo cognitivo, evidenziando come, nonostante l’apparente abbondanza di beni materiali, informazioni e conoscenze, emergano nuove forme di scarsità: l’attenzione cognitiva, il tempo e l’attenzione affettiva. Queste risorse sono diventate preziose in un’epoca in cui il cervello umano è costantemente sollecitato da un flusso incessante di stimoli e informazioni. A differenza dei muscoli del corpo, il cervello è sempre attivo però funziona con modalità diverse a seconda del tipo di attività. Quando è impegnato in compiti logici come la lettura, la scrittura o la guida, consuma attenzione, una risorsa limitata che si esaurisce rapidamente. Ad esempio, la capacità degli studenti di mantenere l’attenzione durante una lezione frontale è stimata in circa cinquanta minuti. L’attenzione, tuttavia, non è un concetto univoco: può assumere forme diverse, come l’attenzione fluttuante dello psicanalista, l’attenzione uditiva di un gatto che ascolta i movimenti di un topo o l’attenzione dedicata all’ascolto di un brano musicale. Nel contesto della sovrabbondanza informativa, l’attenzione si trasforma in una capacità di selezione, di filtraggio tra ciò che è rilevante e ciò che è semplicemente rumore.
Il lavoro al computer esemplifica questa complessità. L’operatore deve gestire simultaneamente diversi livelli di attenzione: il funzionamento automatico della macchina, la gestione dei programmi e l’elaborazione dei contenuti. Mentre i sistemi operativi sono generalmente preimpostati, i software applicativi richiedono un intervento più attivo da parte dell’utente. La gestione dei contenuti, in particolare, richiede un’attenzione intensa e multifunzionale, poiché l’operatore deve memorizzare dati, applicare conoscenze specifiche e interagire con l’interfaccia del computer. A differenza della concentrazione fisica, che cerca di eliminare le distrazioni, l’attenzione richiesta dal lavoro al computer è multitasking e multiorientata. Inoltre non tollera la monotonia. Questo tipo di attenzione è guidata dal desiderio e dall’intenzionalità poiché il computer automatizza le operazioni ripetitive, lasciando spazio alla creatività. Quando l’attenzione si frammenta su troppi elementi disparati si perde in una massa di immagini e relazioni multiple, portando a un senso di dispersione. Nel contesto lavorativo, soprattutto in ambienti digitali e in rete, l’attenzione richiesta è sempre più complessa. Gli operatori devono essere in grado di contestualizzare dati provenienti da fonti diverse, risolvere problemi non standard e proporre soluzioni innovative. Ad esempio, un operatore di un call center deve gestire domande frequenti con l’aiuto di menù a tendina e deve anche identificare casi eccezionali trovando soluzioni non previste dai protocolli standard. Questo tipo di lavoro richiede connettività, reattività, autonomia e inventività, qualità che possono entrare in conflitto con gli obiettivi di riduzione dei costi ma essenziali per garantire un servizio di qualità e fidelizzare i clienti. Il lavoro al computer, quindi, sollecita costantemente l’attenzione in modo più complesso rispetto alla semplice concentrazione su un’unica attività. Con l’aumento della velocità e dell’efficienza dei computer, il tempo di attività si è intensificato, rendendo più difficile trovare momenti di pausa. Questo ha portato a una forma di esaurimento nervoso simile a quello sperimentato dai lavoratori manuali con una differenza cruciale: mentre l’operaio può distrarsi mentalmente durante il lavoro ripetitivo, il lavoratore al computer è costantemente impegnato in attività cognitive complesse, il che rende la fatica più intensa e totale. Questo contrasta con il modo in cui l’attenzione viene gestita nella sfera del consumo, specialmente nell’ambito delle immagini e dei media, dove il pubblico cerca spesso una forma di “riposo cerebrale”, lasciandosi trasportare passivamente da flussi di immagini senza un filo logico.
Un secondo aspetto cruciale riguarda l’incompletezza del lavoro cognitivo e la difficoltà di misurarlo in unità di tempo. A differenza del lavoro manuale, che ha un inizio, una fase intermedia e una fine ben definiti, il lavoro cognitivo è spesso vago e resiste a una suddivisione netta. Prendersi cura di bambini, anziani o persone dipendenti, ad esempio, è un’attività che non ha mai fine, poiché richiede un’attenzione continua e personalizzata. Allo stesso modo, la produzione di conoscenze è un processo in costante evoluzione che non può essere misurato semplicemente confrontando obiettivi iniziali e risultati finali. Invece di valutare prodotti o procedure, è necessario valutare processi, il che crea un senso di incompletezza e ansia, tipico del lavoro artistico o accademico. Possiamo quindi dire che il capitalismo cognitivo rappresenta una trasformazione radicale anche del paradigma stesso del lavoro. Questo cambiamento è particolarmente evidente nelle comunità che adottano modelli di produzione basati sul peer-to-peer, come le comunità di sviluppatori di software libero o i collaboratori di progetti come Wikipedia. Queste forme di lavoro digitale hanno attirato l’attenzione per la loro capacità di generare conoscenza in modo decentralizzato e cooperativo, sfidando i modelli tradizionali di produzione industriale. Simili mutamenti nascono a partire da una duplice evoluzione. In primo luogo la crisi del paradigma del lavoro industriale, emersa con il rifiuto del lavoro negli anni ’60 e ’70, e secondariamente l’emergere di un nuovo paradigma basato sulla conoscenza e sulla creatività. Questo nuovo paradigma non si limita alle tradizionali motivazioni del lavoro, come l’interesse materiale (libido sentiendi) o il desiderio di potere (libido dominandi) perché introduce una terza passione: la libido sciendi, ovvero il desiderio di apprendere, di conoscere e di giocare con la conoscenza. Questa passione diventa centrale nel capitalismo cognitivo, dove la creatività e l’innovazione sono valori sia individuali che collettivi. Il lavoro si ispira sempre più a modelli provenienti dall’arte e dall’università, dove la condivisione della conoscenza e la cooperazione intellettuale sono fondamentali. La produzione di conoscenza nel capitalismo cognitivo richiede una cooperazione molto più profonda e continua rispetto alla semplice coordinazione ottenuta attraverso la divisione tecnica e sociale del lavoro, come teorizzato da Adam Smith o Émile Durkheim. L’interesse materiale o il desiderio di potere non sono sufficienti a spiegare perché individui e collettivi condividano conoscenze implicite e collaborino in modo creativo. La motivazione nel capitalismo cognitivo si sposta quindi verso la creazione di organizzazioni autoreferenziali e auto-sviluppate, dove gli individui cooperano e innovano. La domanda chiave diventa: cosa motiva l’intelligenza collettiva? Nonostante l’interesse economico e il desiderio di potere continuino a guidare l’azione umana, questi motivi non sono sufficienti a spiegare perché ricercatori, artisti o sviluppatori di software libero lavorino con passione e dedizione, spesso senza una remunerazione adeguata.
Un aspetto cruciale del capitalismo cognitivo è la produzione di esternalità positive, ovvero benefici che vanno al di là dei risultati immediati del lavoro. L’attività umana innovativa, specialmente nell’era digitale, genera nuove forme di conoscenza e creatività che possono essere incorporate in nuovi dispositivi e sistemi. Queste esternalità positive sono particolarmente evidenti in settori come la scienza, l’arte e le forme collettive di legame sociale. Bisogna ricordare che la libido sciendi, pur essendo un potente motore di innovazione, può anche portare a sfruttamento, poiché il desiderio di conoscere e creare può far dimenticare le mediocri remunerazioni materiali. Questo è particolarmente vero in settori come la biotecnologia, dove il desiderio di dominare la creazione e produrre vita umana è un potente motore. Un altro elemento chiave è l’importanza della fiducia e la sua fragilità. La gestione delle risorse intangibili, come le risorse creative, organizzative e umane, richiede un alto grado di cooperazione e implicazione personale. Questa implicazione non può prescindere dalla fiducia che diventa una risorsa strategica in un’economia basata sulla conoscenza. A differenza del capitalismo industriale, che si limitava a regolare l’uso della forza lavoro senza richiedere un coinvolgimento profondo del lavoratore, il capitalismo cognitivo richiede la mobilitazione delle capacità cognitive e creative degli individui. Un simile cambiamento è il risultato di un movimento storico di ribellione operaia che ha portato alla democratizzazione dell’accesso all’istruzione superiore e alla formazione. Oggi la cooperazione dei cervelli non può essere ottenuta senza un declino delle forme più autoritarie di comando e senza la costruzione di un rapporto di fiducia. Ciò ha portato alla proliferazione di dispositivi volti a garantire la lealtà dei nuovi lavoratori digitali, spesso percepiti come intrusivi e stressanti.
- Le contraddizioni del capitalismo cognitivo
Boutang critica le teorie contemporanee che descrivono le trasformazioni sociali ed economiche senza considerare il carattere capitalistico della società dell’informazione e dell’economia basata sulla conoscenza. Queste teorie, spesso ottimiste, dipingono il capitalismo cognitivo come una liberazione dal capitalismo industriale rischiando di cadere in una forma di apologetica neoliberale. In realtà il capitalismo cognitivo non elimina lo sfruttamento perché lo trasforma e lo adatta alle nuove condizioni produttive. Il capitalismo cognitivo è descritto come un sistema instabile, simile ai capitalismi che lo hanno preceduto. Due sono i tratti principali che lo caratterizzano: l’onnipresenza dello sfruttamento e il carattere antagonistico dei rapporti sociali. Lo sfruttamento non è più solo legato alla forza lavoro fisica (come nel capitalismo industriale). Esso si estende alla forza-invenzione, cioè alla capacità creativa e intellettuale dei lavoratori. I nuovi rapporti di produzione generano conflitti, spesso latenti ma a volte espliciti, come quelli legati ai diritti di proprietà intellettuale e alla crisi del lavoro salariato. Boutang introduce una distinzione tra due livelli di sfruttamento: lo sfruttamento di livello 1, che è lo sfruttamento tradizionale della forza lavoro fisica, tipico del capitalismo industriale, e lo sfruttamento di livello 2, che è lo sfruttamento della forza-invenzione, cioè della capacità creativa e intellettuale dei lavoratori. Questo tipo di sfruttamento è caratteristico del capitalismo cognitivo e si basa sull’utilizzo dell’intelligenza collettiva e della conoscenza. Nel capitalismo cognitivo, lo sfruttamento di livello 2 diventa predominante, anche se quello di livello 1 non scompare del tutto. I due livelli possono coesistere e, in alcuni casi, rafforzarsi reciprocamente. Man mano che lo sfruttamento di livello 1 diventa più difficile (a causa della resistenza dei lavoratori o della loro fuga dai tradizionali luoghi di lavoro), si assiste a un aumento dello sfruttamento di livello 2. Boutang paragona la transizione dal capitalismo industriale a quello cognitivo alla precedente transizione dal capitalismo mercantilista a quello industriale. In entrambi i casi le resistenze dei lavoratori (schiavi, poveri, operai) hanno accelerato il passaggio a un nuovo sistema. Nel capitalismo cognitivo la pressione sui rapporti di produzione tradizionali spinge verso una maggiore valorizzazione della conoscenza e della creatività. La distinzione tra livello 1 e 2 riguarda anche la tipologia di lavoratori. Nel primo livello trovano spazio i lavoratori tradizionali, simili agli operai del capitalismo industriale, sfruttati principalmente per la loro forza lavoro fisica. Nel secondo livello ci sono invece i lavoratori cognitivi, il cui sfruttamento si basa sulla loro capacità intellettuale e creativa. Questi lavoratori, definiti cognitariato, sono caratterizzati da una maggiore libertà rispetto ai lavoratori tradizionali pur essendo soggetti a forme di sfruttamento legate alla loro conoscenza e innovazione. Ci sono anche lavoratori autonomi, che pur non essendo sfruttati come quelli del livello 1, possono essere sfruttati come i lavoratori del livello 2 attraverso la produzione di esternalità positive che superano il loro consumo. A questo punto Boutang affronta la profonda trasformazione in atto nel sistema dei diritti di proprietà, un pilastro fondamentale del modo di produzione capitalista che include non solo i diritti sui beni materiali e sulle persone perché ingloba anche quelli sui beni immateriali, come la proprietà intellettuale, e persino i metadiritti che regolano il rapporto tra l’uomo e la natura, gli animali, la terra o il cosmo. Questa trasformazione è sintomatica della grande transizione verso il capitalismo cognitivo in cui la questione dei diritti di proprietà assume un’importanza cruciale, riaprendo dibattiti simili a quelli delle enclosures all’alba del capitalismo industriale. Oggi, con l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il processo di trasformazione dei diritti di proprietà è accelerato, riprodotto e allo stesso tempo bloccato, generando nuove contraddizioni e quando si analizza la crescita e la dinamica economica, l’interazione tra tecnologia e diritti di proprietà diventa centrale. Le norme giuridiche possono limitare i comportamenti degli agenti economici come possono far emergere nuove regole e innovazioni che ridefiniscono i rapporti di proprietà. Si presenta, allora, una scelta fondamentale: sostenere i diritti di proprietà oppure superarli? Sostenere i diritti di proprietà può essere visto come un modo per mantenere l’equilibrio mentre il loro superamento può favorire la crescita e l’innovazione. I diritti di proprietà sono definiti da Boutang come un insieme di norme e convenzioni sociali che trasformano ciò che ha valore per una società o un individuo in beni economici, siano essi scambiati sul mercato (beni privati) o no (beni pubblici). Questa definizione va oltre la visione neoclassica che limita i diritti di proprietà alla scelta individuale su un bene già definito economicamente. La questione dei diritti di proprietà emerge spesso in periodi di crisi o di trasformazione, quando le norme esistenti non sono più in grado di regolare efficacemente i rapporti sociali ed economici. Ciò può avvenire perché le classi dominanti cercano di modernizzare i rapporti sociali per favorire l’accumulazione del capitale, oppure perché nuove forme di resistenza sociale spingono per un cambiamento delle regole. Durante i periodi di stabilità i diritti di proprietà non sono messi in discussione ma in momenti di crisi o di trasformazione, come quello attuale, diventano oggetto di dibattito e conflitto. La crisi dei diritti di proprietà nel capitalismo cognitivo è legata alla difficoltà di adattare le norme esistenti alle nuove forme di produzione basate sulla conoscenza e sull’informazione. Questo processo è reso più complesso dalla diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che da un lato favoriscono la condivisione e la circolazione della conoscenza ma dall’altro spingono verso nuove forme di controllo e di chiusura, come nel caso della proprietà intellettuale. Un precedente storico di questa trasformazione è rappresentato dalle enclosures all’alba del capitalismo industriale, quando i diritti consuetudinari sulle terre comuni furono aboliti e sostituiti da un sistema di proprietà privata. Questo processo, che ha portato alla proletarizzazione della popolazione rurale, è stato accelerato dall’applicazione del progresso tecnico in agricoltura e dalla crescente mercificazione dei beni e dei servizi. Oggi, nel capitalismo cognitivo, assistiamo a un fenomeno simile, in cui i diritti di proprietà intellettuale e l’accesso alla conoscenza sono al centro di conflitti e dibattiti. Nel capitalismo cognitivo il bene conoscenza con le sue caratteristiche uniche, come l’uso, l’ammortamento, l’arricchimento e il carattere non esclusivo, pongano sfide significative ai paradigmi tradizionali dell’economia politica, sia nella sua versione neoclassica che in quella critica. Il primo problema riguarda l’applicabilità delle leggi tradizionali dei prezzi ai beni-conoscenza, che non sono più caratterizzati dalla scarsità e si avvicinano piuttosto ai beni pubblici. La natura di questi beni, che possono essere riprodotti a costi marginali quasi nulli e sono spesso non esclusivi, mette in discussione i principi di base del mercato, come l’unicità dei prezzi e la capacità di riequilibrio del mercato stesso. Questo è particolarmente evidente nei mercati della net economy, dove la raccolta di dati sui consumatori e la facilità di riproduzione dei beni digitali sfidano le logiche economiche tradizionali. Il secondo problema è legato alla natura degli asset che possono essere scambiati sul mercato. La crescente natura pubblica dei beni-conoscenza solleva dubbi sulla possibilità di produrli attraverso il sistema di mercato. Inoltre, le innovazioni tecnologiche, come la riproduzione e lo stoccaggio quasi infinito di beni immateriali, rendono difficile l’applicazione dei diritti di proprietà su questi nuovi beni. L’esecuzione dei diritti di proprietà diventa sempre più problematica, come dimostrano i numerosi casi legali relativi ai diritti d’autore sulla musica scaricata da Internet.
La risposta a questa crisi è stata l’introduzione di misure tecniche di protezione (DRM, Digital Rights Management), che cercano di limitare la diffusione dei contenuti digitali. Queste azioni sono spesso viste come una violazione delle libertà pubbliche e dei diritti dei cittadini, come il diritto all’istruzione, alla ricerca e alla libera espressione. Inoltre, la natura stessa del capitalismo cognitivo, che si basa sulla conoscenza e sull’innovazione, richiede una certa libertà di accesso e condivisione delle informazioni. Senza questa libertà, la produttività e l’innovazione rischiano di essere compromesse. Boutang esplora anche le implicazioni più ampie di questa trasformazione, suggerendo che il capitalismo cognitivo potrebbe portare a una riforma radicale del sistema salariale e della protezione sociale. Abbiamo già detto che nel capitalismo cognitivo la subordinazione del lavoratore non è scomparsa, anzi si è aggravata, portando molti a rimpiangere il periodo del Trentennio Glorioso, quando il lavoro era più stabile e protetto. Inoltre la frammentazione degli interessi e la difficoltà di ricomporre fronti di resistenza efficaci rendono complessa la lotta sociale, lontana dalla semplicità del passato, quando la classe operaia era un’entità più omogenea e riconoscibile. Non bisogna però idealizzare il passato. Già Marx ed Engels parlavano di classi lavoratrici al plurale, sottolineando la diversità e le divisioni interne al movimento operaio che non era affatto monolitico. Le lotte ideologiche, le differenze regionali e le varie forme di capitalismo industriale rendevano il quadro molto più complesso di quanto spesso si ricordi. Il capitalismo sta attraversando una fase di transizione analoga a quella vissuta tra il XVIII e il XIX secolo, quando il capitalismo industriale si affermò tra rivoluzioni, progresso tecnico e profonde disuguaglianze. Allo stesso modo, oggi assistiamo a una biforcazione tra un capitalismo cognitivo globale e innovativo e un capitalismo più autoritario, basato su industrie delocalizzate nel Sud del mondo. Gli Stati Uniti, ad esempio, oscillano tra queste due tendenze, cercando di mantenere la loro egemonia mentre affrontano nuove contraddizioni. Guardano al capitalismo cognitivo come un mezzo per ristabilire la loro leadership globale mentre, di fronte alle incertezze di questa transizione, si rifugiano in un macro-nazionalismo in partnership con la Cina, un approccio che ricorda vecchi modelli di potere e che era valido quando Boutang ha scritto questo libro. L’aumento delle disuguaglianze e la precarizzazione del lavoro non sono semplicemente segni di caos perché diventano strumenti per gestire la delicata transizione dal capitalismo industriale a quello cognitivo. Quest’ultimo, basato sulla cooperazione dei cervelli connessi in rete, rappresenta una sfida senza precedenti per le imprese, il mercato e lo Stato poiché richiede nuove forme di organizzazione e di democrazia. La capacità di coordinare le menti in rete, infatti, non può basarsi sulle vecchie ricette del capitalismo industriale o del socialismo reale. La spinta verso una trasformazione radicale delle relazioni umane, emersa già alla fine degli anni ’60, anticipò questa transizione, rifiutando sia il movimento operaio tradizionale che la borghesia keynesiana. Questa spinta, che si manifestò nelle proteste studentesche e nei movimenti sociali dell’epoca, non fu un’appendice del socialismo realizzato o del capitalismo industriale ma un salto verso l’ignoto, un tentativo di immaginare nuove forme di organizzazione sociale. Il capitalismo cognitivo ha anche introdotto nuove dinamiche sociali, rendendo obsolete molte delle vecchie categorie di classe. La divisione cognitiva del lavoro valorizza il capitale intellettuale e la mobilità mentale, piuttosto che l’origine sociale o il patrimonio. La mobilità, sia geografica che sociale, è un altro criterio fondamentale nel capitalismo cognitivo, dove la capacità di connettersi e cooperare con persone di diversi background è più importante dell’appartenenza a una specifica classe sociale. Questo cambiamento è particolarmente evidente nel modo in cui i giovani, gli studenti e i lavoratori creativi fuggono dalle strutture rigide delle grandi aziende per cercare maggiore libertà e collaborazione nelle start-up e nelle comunità digitali. Per Boutang le disuguaglianze non sono solo economiche ma anche legate a fattori come il genere, l’etnia, la religione e la storia coloniale. Le vecchie categorie di classe, ereditate dal capitalismo industriale, non sono più sufficienti per comprendere le dinamiche sociali contemporanee. La lotta di classe, nel capitalismo cognitivo, si manifesta in forme più complesse e frammentate, dove i percorsi di mobilità e le connessioni tra individui sono più rilevanti delle posizioni sociali statiche. La sociologia tradizionale, basata su categorie rigide come “borghesia” o “proletariato”, fatica a cogliere queste nuove realtà, che richiedono un approccio più fluido e dinamico. Ad esempio in molti paesi ricchi, così come in quelli in via di sviluppo, si assiste alla ricomparsa dei cosiddetti working poor, persone che, pur avendo un impiego, vivono in condizioni di povertà. Questa nuova fascia di poveri non include solo i tradizionali emarginati della società industriale, come gli alcolisti, o della società dell’abbondanza, come i tossicodipendenti cronici, ma anche molti giovani. Si assiste ad una crescente vulnerabilità alla povertà che, come l’esclusione, è uno stato percepito soggettivamente. Alcune persone con redditi molto bassi non si considerano povere, mentre altre, pur avendo redditi più alti, si sentono escluse e vulnerabili. Questo fenomeno è legato alla crescente disuguaglianza e alla frammentazione del sistema di protezione sociale. Lo Stato sociale, che un tempo offriva una rete di sicurezza, oggi lascia scoperti molti lavoratori, soprattutto quelli impiegati in forme di lavoro atipiche o precarie. Anche le misure di sostegno, come la copertura sanitaria universale, sono spesso insufficienti e stigmatizzanti, creando categorie di cittadini di serie B. La percezione dell’insicurezza sociale è amplificata dalla crescente visibilità delle disuguaglianze. In un contesto di bassa crescita economica, le differenze di reddito e di patrimonio diventano più evidenti, alimentando un senso di impoverimento anche tra chi, in termini assoluti, non è diventato più povero. Questo sentimento è ulteriormente aggravato dalla cultura del rischio, promossa dal capitalismo cognitivo, che esalta l’incertezza e la competizione ma lascia molti cittadini in una condizione di precarietà esistenziale. La rottura del patto sociale si manifesta su tre livelli. Il primo riguarda il principio di uguaglianza che è alla base delle società repubblicane. Le politiche neoliberali hanno eroso questo principio, promuovendo una visione dell’uguaglianza come mera uguaglianza di opportunità mentre il sentimento popolare richiede una maggiore uguaglianza sostanziale. Il secondo livello di rottura riguarda il compromesso salariale: il lavoro dipendente, che un tempo era compensato da una relativa sicurezza del posto di lavoro e da una protezione sociale contro malattie, infortuni e disoccupazione, oggi è sempre più precario. Le nuove forme di lavoro, tipiche del capitalismo cognitivo, sono spesso quelle meno protette, creando una frattura tra chi gode di diritti e chi è lasciato ai margini. Il terzo livello di rottura è legato alla valorizzazione della conoscenza che è diventata la principale risorsa nel capitalismo cognitivo. In paesi come la Francia, i titoli di studio nazionali sono diventati un potente strumento di stratificazione sociale, creando nuove forme di esclusione. La competizione accademica e artistica, un tempo riservata a una ristretta élite, è ora parte integrante del funzionamento del capitalismo cognitivo e rischia di diventare un meccanismo di esclusione per chi non ha accesso a queste risorse. Nonostante l’evidente crescita della povertà e della precarietà, queste problematiche non vengono affrontate con la determinazione necessaria. I governi, spesso reattivi solo di fronte a crisi o rivolte, faticano a rappresentare gli interessi delle classi più vulnerabili. Allo stesso modo, le imprese, che potrebbero svolgere un ruolo riformista, preferiscono sfruttare la forza lavoro in modo predatorio, applicando forme di sfruttamento che, sebbene poco produttive, servono a disciplinare e umiliare i lavoratori, scoraggiando qualsiasi velleità di emancipazione. Tuttavia la precarietà nel contesto del capitalismo cognitivo non è solamente una strategia padronale per ridurre i costi perché è strettamente legata alla natura stessa del lavoro cognitivo e culturale. Per sfruttare al meglio la forza-invenzione di artisti, tecnici e creativi, è necessario che questi professionisti sviluppino competenze multiple e siano liberi di muoversi tra diversi progetti e contesti. Un lavoro fisso e stabile non solo sarebbe più costoso ma limiterebbe la loro capacità di innovare e collaborare in modo creativo. Il regime di intermittenza, spesso criticato per i suoi abusi, permette di ampliare il perimetro della produzione culturale e di moltiplicare le opportunità di lavoro. La garanzia di un reddito minimo per gli intermittenti, legato ai contratti di lavoro temporanei, è un modo per mantenere attiva una vasta rete di professionisti che, altrimenti, non avrebbero accesso al mercato del lavoro. Questo sistema, sebbene imperfetto, dimostra che la precarietà non è solo un problema ma anche una risorsa per il capitalismo cognitivo, che si basa sulla capacità di attingere a una moltitudine di lavoratori creativi e flessibili. Con meno intermittenti, ci sarebbe meno lavoro per tutti, compresi quelli meglio pagati, perché la divisione cognitiva del lavoro richiede una vasta rete di collaboratori che si muovono liberamente tra progetti e competenze. Per Boutang la precarietà non può essere affrontata semplicemente cercando di convertire i lavori intermittenti in impieghi stabili e a tempo pieno, come ha tentato di fare il movimento sindacale tradizionale. In questo modo, infatti, non si tiene conto della specificità del lavoro cognitivo che richiede flessibilità e libertà di movimento. La soluzione proposta è invece quella di ripensare completamente il sistema di protezione sociale, passando da un modello basato sull’occupazione stabile a uno basato su un reddito universale o garantito. Questo approccio, già sperimentato in alcune forme, permetterebbe di proteggere i lavoratori precari senza limitare la loro capacità di innovare e collaborare. Nel capitalismo cognitivo, dove il lavoro è sempre più caratterizzato da flessibilità e precarietà, un sistema di protezione sociale universale e incondizionato potrebbe essere la chiave per garantire sia la sicurezza dei lavoratori che la loro capacità di contribuire alla produzione di conoscenza e culture. Su questo obiettivo potrebbero nascere alleanze tra le nuove e le vecchie classi lavoratrici come anche sul legame dei diritti sociali alla persona piuttosto che al posto di lavoro, un retaggio tossico del capitalismo industriale. Tuttavia una incomprensione della natura del capitalismo contemporaneo tende a scavare divisioni tra le nuove classi lavoratrici e quelle tradizionali. Ad esempio, si assiste a una difesa assurda dei posti di lavoro a tutti i costi, anche quelli più dequalificati e dannosi per l’ambiente, a un protezionismo catastrofico per i paesi del Terzo Mondo e a un elogio insensato del “valore del lavoro”. Il cognitariato, a differenza del proletariato tradizionale, pensa e agisce in modo globale, rappresentando una nuova forma di classe lavoratrice che deve ancora trovare il suo posto e la sua voce nel panorama sociale ed economico contemporaneo. La sfida è quindi quella di superare le divisioni e costruire nuove forme di solidarietà tra le diverse classi lavoratrici, riconoscendo le specificità del lavoro cognitivo e promuovendo un sistema di protezione sociale che garantisca sicurezza e dignità a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro condizione occupazionale.
- Ripensare il neoliberismo alla luce della teoria del capitalismo cognitivo
Per Boutang la finanziarizzazione dell’economia, spesso interpretata come la causa principale delle trasformazioni economiche contemporanee, non è in realtà la causa ultima ma piuttosto un sintomo e uno strumento attraverso cui il capitalismo si trasforma per adattarsi alle nuove condizioni produttive. La finanziarizzazione, quindi, non è la radice del problema ma una risposta alle contraddizioni e alle instabilità generate dal passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo. Questo nuovo capitalismo si caratterizza per l’importanza crescente degli asset immateriali, come la conoscenza, l’informazione e le esternalità, e per il ruolo centrale delle reti e della cooperazione nella produzione di ricchezza. Questi elementi rendono obsoleti i vecchi accordi istituzionali e le convenzioni del capitalismo fordista, spingendo il sistema verso nuove forme di governance, tra cui la finanziarizzazione che emerge come un meccanismo per gestire l’instabilità intrinseca del capitalismo cognitivo, pur introducendo a sua volta nuovi fattori di instabilità. La finanza diventa uno strumento per governare le esternalità e gli asset immateriali che sono sempre più centrali nella produzione di valore. Questo processo non è privo di contraddizioni. La finanza permette di mobilitare risorse e di gestire l’incertezza mentre amplifica i rischi e le disuguaglianze, creando nuove forme di instabilità a livello globale. La finanziarizzazione, quindi, è un fenomeno speculativo e una risposta strutturale alle nuove esigenze del capitalismo cognitivo che richiede forme di governance più flessibili e globali.
Le analisi tradizionali della finanziarizzazione spesso la interpretano come una “distorsione” rispetto al modello fordista e non tengono conto delle trasformazioni profonde che hanno interessato il regime di accumulazione capitalista prima del suo avvento. In particolare non si tiene in considerazione il passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo che ha portato a una ridefinizione della produzione di ricchezza, la quale non può più essere compresa solo in termini di beni materiali e di lavoro fisico. Un esempio di queste trasformazioni è la patrimonializzazione dell’economia, ovvero il processo attraverso cui una parte crescente della popolazione è diventata proprietaria di asset finanziari, come azioni, fondi pensione e immobili. Questo fenomeno, accelerato dalle politiche neoliberali degli anni ’80 e ’90, ha cambiato profondamente il rapporto tra lavoro, capitale e risparmio. L’ampliamento dell’accesso ai mercati finanziari ha permesso a molti di beneficiare della crescita economica ma contemporaneamente ha creato nuove forme di dipendenza e di rischio, legate alla volatilità dei mercati e alla precarietà del lavoro. La patrimonializzazione ha anche spinto le imprese e gli Stati a considerare tutti gli asset, anche quelli immateriali, come fonti di reddito e di valore, introducendo una logica di rendita che si sovrappone alla tradizionale logica del profitto. Nonostante queste trasformazioni, molte analisi della finanziarizzazione continuano a vedere il sistema produttivo come un’appendice della logica finanziaria, senza cogliere le profonde interconnessioni tra i due ambiti. La finanza è uno strumento per gestire le nuove forme di produzione e di accumulazione del capitalismo cognitivo. Questo processo non è privo di contraddizioni perché se la finanza permette di mobilitare risorse e di gestire l’incertezza amplifica anche i rischi e le disuguaglianze, creando nuove forme di instabilità a livello globale. Le trasformazioni del capitalismo cognitivo hanno reso obsoleto o destabilizzante il sistema finanziario e monetario del fordismo poiché il nuovo paradigma richiede modalità di accumulazione e di gestione del valore radicalmente diverse. Nel capitalismo cognitivo, la produzione flessibile e la finanziarizzazione sono strettamente legate alla necessità di generare un’innovazione permanente che diventa il cuore del processo di creazione del valore. Questa dinamica ha anche portato a una crisi nei rapporti di esecuzione dei diritti di proprietà che sono sia la condizione che la forma attraverso cui il valore viene catturato e distribuito. Le trasformazioni nel ruolo della moneta e della finanza riflettono una nuova governamentalità del capitalismo, ovvero un nuovo modo di governare e gestire i processi economici, legato ai problemi generati dalla mutazione verso il capitalismo cognitivo. Uno degli aspetti centrali di questa transizione è il cambiamento nel profilo del lavoro produttivo. Nel capitalismo cognitivo, il lavoro non è più semplicemente legato all’esecuzione di compiti definiti da macchine e da un orario fisso, come avveniva nel modello fordista. Al contrario, il lavoro diventa sempre più immateriale, basato sull’implicazione soggettiva, sull’attenzione, sulla creatività e sulla cooperazione tra individui connessi attraverso reti digitali. Questo nuovo tipo di lavoro, che coinvolge non solo le capacità cognitive ma anche gli aspetti affettivi e relazionali, sfida le convenzioni tradizionali del lavoro salariato che si erano consolidate nei secoli XIX e XX. La ricchezza delle aziende nel capitalismo cognitivo non è più legata principalmente ai beni materiali o al capitale fisico ma al potenziale di innovazione, alla conoscenza e alla capacità di cooperazione dei lavoratori. Le convenzioni contabili tradizionali, sviluppate per un’economia basata sull’accumulazione di capitale materiale, non sono in grado di cogliere adeguatamente il valore di questi asset immateriali. La questione dell’immateriale, ovvero degli asset intangibili come la conoscenza, la reputazione aziendale, i network di collaborazione e il potenziale innovativo, diventa quindi centrale. Questi elementi, che spesso si trovano al di fuori dei confini geografici e giuridici dell’azienda, sono difficili da identificare e valutare. La contabilità tradizionale, basata su criteri sviluppati per un’economia industriale, fatica a rappresentare il valore reale delle aziende nel capitalismo cognitivo. Questo disallineamento tra il valore reale delle aziende e la sua rappresentazione contabile è evidente in fenomeni come i scandali finanziari (ad esempio, Enron, Parmalat, Crédit Lyonnais) e nelle riforme delle convenzioni contabili che cercano di adattarsi a questa nuova realtà. Un esempio è la legge Sarbanes-Oxley, introdotta negli Stati Uniti dopo lo scandalo Enron, che ha cercato di regolamentare l’uso delle stock options, strumenti di remunerazione legati al valore delle azioni aziendali, obbligando le aziende a contabilizzarle come costi e non come risorse. La difficoltà di valutare gli asset immateriali si riflette anche nella nozione di goodwill, che rappresenta la differenza tra il valore di mercato di un’azienda e il suo valore contabile. Il goodwill cerca di catturare elementi come la reputazione, i network e il potenziale innovativo, che sfuggono alle tradizionali metriche contabili. La sua valutazione è estremamente volatile e soggetta a fluttuazioni, riflettendo l’instabilità intrinseca del valore nel capitalismo cognitivo. Questo disallineamento tra il valore reale e la sua rappresentazione contabile è particolarmente evidente nei settori che producono beni immateriali, come i beni-informazione o i beni-conoscenza, dove il valore non è legato al capitale fisico accumulato ma alla capacità di generare e capitalizzare conoscenza e innovazione in modo dinamico. L’instabilità nella valutazione degli asset immateriali ha portato a una crescente finanziarizzazione dell’economia, in cui i mercati finanziari svolgono un ruolo chiave nel determinare il valore delle aziende. Questa finanziarizzazione è spesso di natura speculativa, poiché il valore degli asset immateriali è difficile da stabilire in modo oggettivo e stabile. Gli investitori, di fronte a questa incertezza, cercano meccanismi che permettano loro di disimpegnarsi rapidamente dalle transazioni, aumentando ulteriormente l’instabilità dei mercati. Questo fenomeno riflette la natura stessa del capitalismo cognitivo, in cui il valore è legato a processi viventi e dinamici, come la conoscenza e la cooperazione, che non possono essere facilmente codificati o misurati. Infatti Boutang sostiene che sia difficile l’imputazione della produttività a fattori di produzione isolabili e individualmente retribuibili. Nel capitalismo cognitivo le nuove conoscenze e i prodotti innovativi sono il risultato di una combinazione complessa di lavoro collettivo, reti di collaborazione e sviluppo sociale, rendendo difficile attribuire il merito e la retribuzione a singoli individui o fattori specifici. La retribuzione individuale all’interno delle aziende diventa un problema complesso, poiché si scontra con la natura collaborativa e collettiva del lavoro cognitivo. Questo sistema di retribuzione, basato su criteri tradizionali, rischia di diventare arbitrario e demotivante per i lavoratori, ai quali viene invece richiesto di mantenere un alto livello di autonomia, iniziativa e capacità di apprendimento, soprattutto nell’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La gestione delle risorse umane si orienta sempre più verso la promozione della competenza, contrapposta alla tradizionale qualifica o al ruolo lavorativo specifico, il tutto non senza contraddizioni. Il modello classico del salariato, basato su una gerarchia verticale e su un controllo rigido, diventa sempre meno adatto a gestire un lavoro che richiede flessibilità, creatività e cooperazione. Le figure di controllo tradizionali, come i capisquadra o i responsabili delle risorse umane, vedono il loro ruolo messo in discussione o ridefinito. Emerge una tendenza alla desalarizzazione, con la ricostruzione di lavoratori autonomi di seconda generazione che operano in un contesto in cui il mercato e il credito bancario sostituiscono il controllo gerarchico. Questo nuovo modello di lavoro, definito para-subordinato, elimina formalmente il legame di subordinazione tipico del salariato ma mantiene una dipendenza indiretta attraverso contratti di prestazione che rientrano nel mercato commerciale piuttosto che nel mercato del lavoro regolato dal diritto del lavoro. La precarietà dei contratti, sia temporanei che a progetto, diventa una caratteristica comune, con una gestione forfettaria dei costi e una disciplina del lavoratore che deve rispettare i budget previsti, indipendentemente dalle difficoltà del lavoro. La finanza assume un ruolo centrale nella governance delle esternalità, ovvero degli effetti collaterali della produzione che non sono direttamente contabilizzati. Nel capitalismo cognitivo, la produzione di conoscenza e innovazione, spesso basata su saperi non codificati e su reti di collaborazione, richiede una gestione complessa delle interdipendenze tra attori economici. La finanza permette di identificare e mappare queste esternalità, rendendole endogene al sistema economico o governandole dall’esterno. Questo processo include anche la captazione di lavoro gratuito che diventa una nuova forma di appropriazione dell’innovazione senza sostenere i costi di riproduzione delle condizioni che la generano. La finanza, quindi, non solo facilita la gestione delle esternalità ma diventa uno strumento per governare i processi di innovazione e di creazione di valore in un contesto sempre più complesso e interconnesso. L’instabilità intrinseca del capitalismo cognitivo deriva dalla natura dei beni immateriali, come i beni-informazione e i beni-conoscenza, che sono difficili da appropriare privatamente e spesso assumono caratteristiche di beni pubblici. Questi beni sono indivisibili, non rivali e non escludibili, il che rende complicata la loro trasformazione in merci tradizionali. La digitalizzazione e le TIC eliminano molte barriere alla violazione dei diritti di proprietà, portando a una tendenza alla concentrazione monopolistica da parte delle grandi aziende tecnologiche. Queste aziende cercano di stabilizzare il valore dei beni immateriali attraverso strategie di monopolio ma il risultato è un’oscillazione tra prezzi elevati e quasi nulli, con una forte instabilità dei mercati. La volatilità dei prezzi e la difficoltà di valutare i beni immateriali rendono il capitalismo cognitivo un sistema intrinsecamente instabile, in cui la formazione del valore è strettamente legata alla formazione di un’opinione comune, simile ai meccanismi della speculazione finanziaria. La reputazione, la moda e l’attenzione del pubblico diventano fattori determinanti per il valore di un’azienda, influenzando la sua capitalizzazione borsistica e la capacità di indebitamento. Questo modello si riflette anche nel finanziamento della scienza e dell’innovazione, dove il rischio è trasferito ai risparmiatori attraverso i mercati finanziari, creando un sistema instabile ma capace di generare risorse per attività ad alta incertezza, come la ricerca biotecnologica. La finanziarizzazione, tuttavia, richiede nuove forme di regolazione dei diritti di proprietà e di gestione digitale, che possono avere un effetto depressivo sull’innovazione. Alternative a questo modello includono la creazione di spazi pubblici e beni comuni digitali, finanziati attraverso sovvenzioni pubbliche.
- Le proposte politiche di Boutang
La tensione tra la ricchezza potenziale generata dalla società della conoscenza e l’incapacità delle strutture sociali e organizzative esistenti di gestire e distribuire equamente questa ricchezza è uno dei temi centrali nella conclusione del libro. Questa tensione non è nuova visto che ha sempre caratterizzato i periodi di transizione nella storia del capitalismo, ma oggi si manifesta in forme inedite e complesse. Uno degli aspetti più significativi di questa trasformazione è il passaggio da un potere basato sul controllo della vita (biopotere) a una politica che si occupa della vita stessa (biopolitica). Il capitalismo cognitivo si distingue per la sua capacità di intervenire direttamente sulla vita. Non si tratta più solo di sfruttare le risorse naturali o di educare l’individuo ma di modificare la vita stessa attraverso la clonazione di animali, la creazione di piante geneticamente modificate, la produzione di corpi umani-cyborg e l’uso di interventi chimici sofisticati sul cervello. Questo nuovo potere sulla vita, un tempo riservato agli dei, è ora nelle mani dell’uomo, con rischi significativi di derive eugenetiche e di abusi. Il biopotere, esercitato attraverso il controllo della popolazione e della qualità della vita, rappresenta una forma di potere molto più pericolosa e pervasiva rispetto al potere tradizionale degli Stati che si basava sul diritto di vita e di morte. La biopolitica, quindi, diventa una forma di politica urgente e necessaria per limitare e controllare questo potere, garantendo che le decisioni sulla vita e sulla sua qualità siano prese in modo democratico e responsabile. La produzione di conoscenza, che è al centro del capitalismo cognitivo, non è più confinata nelle aziende tradizionali perché si diffonde attraverso reti e istituzioni diverse: università, laboratori di ricerca, organizzazioni non profit e, soprattutto, la rete digitale. Internet, in particolare, diventa uno strumento fondamentale per la creazione e la condivisione di conoscenze e allo stesso tempo un terreno di scontro tra interessi commerciali e statali. La difesa della rete come bene comune è essenziale per garantire la libertà e la creatività nella società della conoscenza. Tuttavia il capitalismo cognitivo è intrinsecamente instabile poiché si basa su beni immateriali come l’informazione e la conoscenza che sono difficili da controllare e da valutare economicamente. Questa instabilità non è solo finanziaria visto che riguarda anche la legittimità del sistema stesso che fatica a trovare un equilibrio tra la necessità di innovazione e la giustizia sociale. Boutang propone l’idea di un New Deal per il capitalismo cognitivo, basato su un nuovo compromesso salariale. Il modello tradizionale del salariato, ereditato dal capitalismo industriale, non è più adatto a gestire il lavoro cognitivo che richiede flessibilità, autonomia e cooperazione. La precarietà del lavoro, sempre più diffusa, rischia di creare una società di “lavoratori Kleenex”, facilmente sostituibili e privi di diritti. Per superare questa crisi viene suggerita l’introduzione di un reddito garantito che non sia legato al lavoro salariato e permetta ai lavoratori cognitivi di partecipare alla produzione di valore senza essere costretti in schemi rigidi e precari. Il reddito garantito, individuale e incondizionato, potrebbe diventare la base per un nuovo equilibrio sociale ed economico, in cui la ricchezza prodotta dalla conoscenza e dall’innovazione sia distribuita in modo più equo. Il reddito garantito non è una semplice misura di assistenza sociale. Esso è uno strumento per riconoscere e valorizzare il contributo di tutti i membri della società alla produzione di conoscenza e di ricchezza. Questo approccio si distingue dalle proposte liberali o caritatevoli che tendono a ridurre il reddito garantito a una forma di sussidio per i più poveri. Al contrario, il reddito garantito proposto è concepito come un diritto universale che permette a tutti di partecipare attivamente alla vita sociale ed economica, indipendentemente dal loro status lavorativo. Il modello proposto si basa sull’idea che la ricchezza prodotta dalla società della conoscenza non sia il risultato del lavoro individuale ma di un processo collettivo e cooperativo che coinvolge reti di persone, istituzioni e tecnologie.