Lavoro creativo, lavoro digitale e globalizzazione nel pensiero di Ursula Huws

  1. Introduzione

Ursula Huws inizia il volume Il lavoro nell’economia digitale globale. Il Cybertariato diventa maggiorenne sostenendo che in ogni momento di crisi del capitalismo avviene l’espansione della aree in cui può generare valore. In questo modo vengono creati nuovi mercati e nuove merci. Questo processo è spesso associato all’introduzione di nuove tecnologie. Per esempio, la diffusione di massa dell’elettricità nel XX secolo ha prodotto nuovi beni, come gli elettrodomestici, e nuove forme di consumo che hanno reso il lavoratore sempre più dipendente dal capitale per potersi permettere il consumo di queste merci. Oggi questo processo investe settori un tempo esclusi dalla produzione per il capitale o solo in parte inclusi, ad esempio la cultura o il welfare state, investendo diverse categorie di lavoratori. Nel primo caso troviamo i cosiddetti lavoratori creativi, la cui sopravvivenza dipende dalla capacità di contrattare il salario con editori, case discografiche o multinazionali che hanno come scopo massimizzare la vendita dei loro prodotti, dai CD ai supporti per leggere gli ebook, piuttosto ché ricavare il massimo del guadagno dalla vendita di una singola opera.

Nel secondo caso troviamo invece il pubblico impiego che ha storicamente rappresentato, grazie all’erogazione dei servizi del welfare state, una funzione essenziale nella riproduzione della forza lavoro. Si tratta del cosiddetto salario sociale di classe, ovvero ciò che con le sue lotte il lavoro è stato in grado di recuperare dal capitale. Questi servizi sono stati, con l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, progressivamente smembrati per essere esternalizzati o privatizzati. Un altro ambito di espansione del capitalismo è quello che Huws chiama della socialità. Parlare al telefono, navigare in rete sui social network o sui browser di ricerca sono tutte attività mediate da sistemi di telecomunicazione che producono dati messi a valore attraverso la creazione di annunci pubblicitari sempre più mirati e volti a trasformare internet in un gigantesco centro commerciale.

“Uno sviluppo meno atteso della mercificazione della socialità è stato l’aumento fenomenale delle aziende che realizzano i loro profitti estraendo rendite sia dalle aziende produttrici che dai loro clienti online, fornendo da un lato gli strumenti per far comunicare tra loro agli utenti del web (ad esempio utilizzando Facebook o Gmail) e dall’altro persuadendoli a rivelare i loro segreti più intimi agli inserzionisti per consentire lo sfruttamento delle loro vulnerabilità”1.

Queste trasformazioni hanno inciso anche sulle caratteristiche del lavoro. Aspetti o richieste un tempo considerate atipiche ora sono scontate e considerate una normalità grazie alla svolta impressa dall’uso sistematico delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) che hanno portato all’idea di un lavoro sempre più virtuale e illimitato, senza confini tra tempo di vita e tempo di lavoro, con una sua misurazione flessibile e basata sui risultati. Il tutto è stato accelerato dalla crisi economica globale del 2007-2008 che fece aumentare la disoccupazione, erodendo i diritti dei lavoratori e finendo per produrre assurdità come l’obbligo del lavoro gratuito per sperare di accedere ad un vero lavoro pagato. Le TIC, inoltre, consentono una semplificazione dei processi produttivi che favorisce una loro standardizzazione indispensabile per delocalizzare la produzione o esternalizzarne alcuni segmenti.

Ursula Huws

2. Lavoratori della conoscenza e distruzione delle identità professionali

Il capitalismo tende a generare una massa indistinta di lavoratori generici privi di abilità e facilmente sostituibili e dotati di scarso potere contrattuale. Questo tema ci porta all’identità professionale che può rappresentare un ostacolo per la coscienza di classe, generando solidarietà interna tra i lavoratori della stessa categoria ma esclusione per coloro che sono fuori dal gruppo. A volte l’identità professionale può avere un ruolo progressivo, contribuendo all’aumento dei salari, come in Germania dove ha portato alla contrattazione di settore. Nel corso della loro storia:

“le organizzazioni dei lavoratori differivano nei diversi paesi; erano o esplicitamente basati sull’occupazione, come nei sindacati artigianali che erano prevalenti nel Regno Unito, o basati su sindacati più generali guidati da élite del lavoro con forti identità professionali”2.

L’identità professionale è chiaramente legata alle competenze dei lavoratori, le quali hanno un ruolo centrale nei processi di innovazione del capitale. L’automazione necessita delle competenze e dell’esperienza di chi è capace di svolgere l’attività da automatizzare. Senza di ciò è impossibile anatomizzare ogni fase del processo, standardizzarla e programmare una macchina per ripetere i medesimi passaggi. Di conseguenza, per rendere i lavoratori più economici e fare a meno dei lavoratori qualificati è necessario espropriare le loro competenze. Esse sono necessarie perché tramite l’ingegno e la creatività vengono progettati nuovi processi produttivi e prodotti. Alcune di essere sono state incorporate in database o programmi informatici utilizzabili da lavoratori poco qualificati. Si tratta del caso, per esempio, dei corsi di e-learning dei docenti universitari oppure dei servizi di help desk per aiutare i clienti.

Ogni sviluppo della divisione tecnica del lavoro significa una nuova divisione tra testa e mani.

“Per sistemare i lavori di un gruppo di lavoratori, è necessario un altro gruppo generalmente piccolo con una sorta di panoramica del processo. Man mano che i lavoratori resistono o si adattano al cambiamento e si organizzano per proteggere i loro interessi, si formano continuamente nuove occupazioni e si riformano quelle più vecchie. Così come si può dire che le identità occupazionali sono sia esclusive che invasive, si può anche dire che sono in un processo continuo di costruzione e decostruzione. I datori di lavoro devono bilanciare il loro interesse a ridurre il valore del lavoro con la loro esigenza di garantire che ci sia un’offerta rinnovabile di lavoratori ben istruiti e creativi con nuove idee fresche. In alcune situazioni, le aziende vogliono anche mantenere il controllo proprietario su competenze e conoscenze che danno loro un vantaggio competitivo rispetto ai loro concorrenti”3.

Le ristrutturazioni del mercato del lavoro producono un forte cambiamento nel posizionamento dei lavoratori al suo interno. A partire dal modello di Doeringer e Piore, Huws costruisce uno schema generale per studiare la struttura del mercato del lavoro e le dinamiche della sua ristrutturazione. Del modello originale riprende la distinzione tra mercato del lavoro interno tutelato e mercato del lavoro esterno non tutelato. A questo punto di partenza aggiunge le competenze e tratta i concetti di lavoro interno ed esterno come due poli estremi che consentono, nel mezzo, una serie di combinazioni e contaminazioni inedite. In base al funzionamento del welfare state e alla regolamentazione del mercato del lavoro si possono generare spostamenti causati dalla precarizzazione o dalla disoccupazione. Coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro finiscono nel marxiano esercito industriale di riserva che però oggi non ha alcuna utilità se non possiede delle competenze molto più articolate rispetto al mero sforzo muscolare. Sono una conseguenza del modo in cui le TIC hanno trasformato il lavoro. I padroni non vogliono dover contrattare con pochi lavoratori capaci di usate un PC e non vogliono neanche farsi carico della loro formazione. Esattamente come avvenne per la diffusione della capacità di leggere, scrivere e far di conto nel XIX secolo, avvenuta grazie allo Stato che venne incontro alle esigenze dei padroni promuovendo l’istruzione universale, oggi gli interessi dei capitalisti possono essere tutelati con la creazione di un bacino globale di lavoratori della conoscenza a buon mercato, anche tramite i programmi di cooperazione internazionale, oppure facendosi carico della riqualificazione dei disoccupati.

“I datori di lavoro vogliono persone che siano ‘digitalmente alfabetizzate’, ‘automotivate’, ‘buoni giocatori di squadra’ e possiedano ‘competenze trasversali’, ‘occupabilità’ e ‘imprenditorialità’. Richiedono anche persone che siano preparate a continuare ad apprendere nuove competenze man mano che la tecnologia o il mercato cambiano, a volte descritti come ‘un impegno per l’apprendimento permanente’. E hanno bisogno di persone che abbiano familiarità o siano in grado di padroneggiare una gamma di pacchetti software specifici e che possano comunicare con clienti distanti in un mercato globale. Inutile dire che queste ‘abilità’, ‘competenze’, ‘attitudini’ e ‘conoscenze’, mescolate in qualsiasi combinazione ‘pick-and-mix’ (‘scegli e mescola’), non si sommano in identità occupazionali stabili. In effetti, implicano un mondo in cui non ci sono limiti, nel senso di poter affermare che ‘questo è quello che faccio, ma questo è quello che non faccio, come parte del mio lavoro’, dove ogni descrizione del lavoro è infinitamente elastica e non c’è mai un punto in cui il lavoratore può sedersi e dire: ‘Finalmente sono addestrato. Ho un’occupazione riconosciuta. Ora posso rilassarmi e andati avanti con il lavoro'”4.

3. La globalizzazione e le trasformazioni urbane

I cambiamenti tecnologici e la globalizzazione hanno generato un doppio sradicamento nella nostra società. Il primo corrisponde ai processi migratori verso il lavoro mentre il secondo corrisponde al trasferimento dei posti di lavoro in giro per il mondo grazie alla libera circolazione dei capitali. Questi cambiamenti producono delle trasformazioni radicali delle nostre città che erano pensate per essere vissute da lavoratori con identità professionali stabili e coerenti venute meno con le TIC a causa dei cambiamenti indotti nei vecchi lavori e le nuove competenze richieste che sono più mutevoli rispetto al passato. Huws analizza le trasformazioni delle città partendo dalla tipologia di lavoro: fisso, indipendente o una combinazione tra questi due.

Il lavoro fisso comporta la necessità di una vicinanza fisica al luogo di lavoro perché richiede la produzione di qualcosa, la pulizia di un locale oppure fornire un servizio alle persone. Questi lavori oggi sono altamente razzializzati e/o svolti da donne. Le città sono state trasformate dalle delocalizzazioni delle produzioni industriali. Nel Terzo Mondo ciò ha prodotto insediamenti urbani altamente inquinanti che attirano la popolazione rurale in cerca di un lavoro e che portano con sé nuovi bisogni spesso insoddisfatti. Nei paesi a capitalismo avanzato, invece, le vecchie città industriali si convertono ad un’economia basata sui servizi oppure diventano metropoli in declino come le città della Rust Belt americana. Le esternalizzazioni coinvolgono anche i colletti bianchi. A partire dalle indagini condotte da Huws nel settore dell’elaborazione telematica dell’informazione viene fatto notare come, nel 2001, il 43% delle imprese inglesi delocalizzavano in India lo sviluppo dei software, potendo sfruttare un’offerta enorme di laureati in informatica di lingua inglese a basso costo. Dopo la bolla delle dot-com le imprese indiane del settore sono riuscite ad avanzare in posizioni intermedie della catena globale del valore, esternalizzando alcune attività verso altre nazioni come Russia e Filippine. Le attività a minor valore aggiunto, come l’immissione di dati, sono state spostate in paesi attrattivi per il basso costo del lavoro come Madagascar e Sri Lanka. In generale, le attività meno qualificate, rileva Huws, è molto probabile che vengano svolte da donne mentre quelle maggiormente qualificate sono principalmente svolte da uomini.

Con lo sviluppo della divisione internazionale del lavoro, le imprese possono scegliere tra molti paesi dove delocalizzare e prenderanno queste decisioni anche in base alla specializzazione di queste nazioni. Dal 2000 assistiamo alla costruzione di catene del valore lunghe e complesse con sempre più intermediari che si dividono il lavoro esternalizzato. Il lavoratore inserito in queste catene fa parte di una classe lavoratrice internazionale, espressione di quel lavoro indipendente che non è vincolato ad un luogo fisico per essere svolto e capace di modificare la città dove vive in molti modi. Ad esempio, può fare pressione sulle infrastrutture urbane, contribuisce all’aumento dei prezzi delle case oppure può diffondere la cultura aziendale scegliendo di avviare una propria attività oppure facendosi assumere nelle imprese locali. Questi lavoratori sono precari perché il loro lavoro può essere trasferito facilmente altrove.

Huws si sofferma sui processi di globalizzazione che hanno portato a frammentare lungo le catene del valore transnazionali il lavoro. Per comprendere questa ristrutturazione globale viene adottato uno schema concettuale in cui le imprese sono viste come aggregati di funzioni aziendali e non come realtà divise per settore. Ogni aggregato di funzione è suddivisibile in mansioni sempre più intercambiabili, composte a loro volta da compiti modularizzati su cui il capitale agisce per elaborare una nuova divisione del lavoro.

Com’è stato possibile? Partendo da Harry Braverman è possibile studiare come le attività dei lavoratori sono sistematizzate e standardizzate per essere ridisegnate e disperse nella catena del valore. Inizialmente abbiamo la conoscenza tacita dei lavoratori che deve essere esplicitata e codificata. Nella seconda fase i compiti sono standardizzati mentre in quella successiva diventa possibile quantificare e misurare i risultati. Con la quarta fase i lavoratori possono essere gestiti a partire dai risultati, consentendo una loro gestione anche da remoto, senza vincoli legati allo spazio e al tempo reali. Questo rende possibile la quinta fase, ovvero la riorganizzazione del lavoro spazialmente, con il suo trasferimento presso un altro sito produttivo, oppure contrattualmente, con le esternalizzazioni.

“I processi di lavoro sono, in effetti, modularizzati e tale modularizzazione rende possibile un’ampia gamma di diverse permutazioni e combinazioni spaziali e contrattuali: aggregazioni o disaggregazione; centralizzazione o decentralizzazione; processi lavorativi basati su singole attività o su più attività. La modularizzazione dell’occupazione non porta necessariamente a un determinato risultato in termini di delocalizzazione o esternalizzazione; piuttosto, moltiplica le opzioni a disposizione dei datori di lavoro per l’organizzazione spaziale e contrattuale”5.

Queste trasformazioni una volta erano confinate all’industria manifatturiera ma oggi coinvolgono, in una misura statisticamente significativa, anche i servizi.

4. Il lavoro creativo

Il lavoro creativo occupa una posizione contradditoria nell’economia capitalista. I padroni hanno bisogno del costante flusso creativo di questi lavoratori che devono allo stesso tempo essere controllati assieme a ciò che producono, il quale deve essere ingabbiato dalla proprietà intellettuale su cui le imprese mettono le mani. I lavoratori creativi, invece, devono bilanciare l’espressione di sé e la necessità di guadagnarsi da vivere. Queste contraddizioni generano tensioni che possono produrre complicità o conflitto. Davanti alla ristrutturazione produttiva questi lavoratori dotati, almeno potenzialmente, di un forte potere negoziale rispetto a clienti e padroni hanno dato via a risposte difensive individuali e personali, non collettive, con l’eccezione di alcuni gruppi studiati da Huws nelle sue ricerche.

La creatività di questi lavoratori è fondamentale perché l’innovazione è essenziale per la competitività dell’economia capitalista. Tuttavia non è facile, per via delle interconnessioni e la complessità della divisione del lavoro, distinguere lavoro creativo e il restante dei lavoratori. Huws sostiene che le attività di base umane per soddisfare i nostri bisogni erano creative ma lo sviluppo della divisione del lavoro, con le sue gerarchie, ha tolto questa libertà.

“Sotto il capitalismo, i cambiamenti in questa divisione del lavoro sono stati altamente dinamici: un processo continuo, anche se irregolare, di decomposizione e ricomposizione di settori, organizzazioni, processi lavorativi e competenze, guidato dall’imperativo di massimizzare l’estrazione di valore da qualsiasi data unità di lavoro. In questo processo c’è stata una separazione continua dei compiti, in particolare una separazione delle attività di routine da quelle che richiedono iniziativa e immaginazione”6.

Seguendo Braverman, con lo sviluppo della separazione del lavoro manuale e mentale si generano attività più qualificate che sono legate alla semplificazione dei compiti di routine.

“Man mano che i risultati della passata divisione del lavoro vengono sempre più incorporati nelle tecnologie, nei sistemi sociali e nelle infrastrutture fisiche, e l’attuale divisione del lavoro diventa più complessa ed estesa geograficamente e contrattualmente, c’è spesso una separazione tra queste attività ‘mentali’ e quelle ‘manuali’, che rendono difficile la percezione delle loro interconnessioni. Quando i lavoratori sono in aziende diverse, in continenti diversi, collegati forse solo attraverso una piattaforma software condivisa, incontri occasionali tra intermediari, o la presenza dello stesso logo, l’interdipendenza delle loro attività (e le loro origini condivise in una descrizione del lavoro precedentemente integrata) vengono resi invisibili. Tuttavia, è difficile comprendere il ruolo del lavoro creativo nel processo di sviluppo globale senza un’analisi delle interconnessioni tra le diverse componenti delle catene di valore globali. Solo allora diventa possibile comprendere la relazione funzionale tra lavoro creativo e sviluppo capitalista e, in tal modo, le pressioni contradditorie che danno forma e rimodellano il lavoro creativo. Ciò genera simultaneamente nuove aperture per l’innovazione e nuovi set di competenze associati alle tecnologie emergenti, mentre determina la routine e la dequalificazione, o addirittura rende obsolete le vecchie occupazioni”7.

La creatività viene catturata dal capitale in modi diversi. Esso può prendere possesso di produzioni artigianali, può assorbire la produzione di un’impresa più piccola o di un libero professionista, le imprese possono sviluppare un reparto di ricerca e sviluppo oppure possono ottenere i risultati della ricerca prodotti dalle università pubbliche. Ogni possibilità influenza i rapporti di potere tra lavoro creativo e capitale, come ad esempio la possibilità di incidere sul modo in cui le merci vengono migliorate, personalizzate o adattate per nuovi scopi e mercati. In questo ambito Huws inserisce i creatori di contenuti per diversi media.

La tipologia di lavoratore creativo più importante è il creativo che inventa nuovi sistemi e processi produttivi o adotta per nuovi scopi quelle vecchi. Senza di loro non sarebbe possibile l’attuale divisione globale del lavoro.

“Battezzato living think work (vivere, pensare, lavorare) da Mike Hales, questo è il lavoro che analizza i processi lavorativi degli altri, elabora come standardizzarli, automatizzarli, esternalizzarli, gestirli e reclutare e formare i lavoratori. I suoi professionisti possono essere progettisti di sistemi o manager, ma è sempre più probabile che includono tecnici, formatori, responsabili delle risorse umane, manager che collaborano con clienti e fornitori e rappresentati dello Stato locale, esperti di logistica, avvocati e una miriade di altri specialisti. Le loro abilità ‘leggere’ e ‘basate sulla conoscenza’ non vengono utilizzate solo per sviluppare nuovi sistemi e perfezionare e risolvere i problemi di quelli più vecchi; sono anche essenziali per la gestione di questi sistemi una volta che sono attivi e funzionanti, inclusa la ‘gestione della conoscenza’”8.

Il lavoratore creativo è tale sé nell’attività che svolge non si preoccupa solo della ricompensa monetaria ma anche del contenuto dell’opera anche dopo essere stata venduta. Questo può generare l’illusione di essere ancora proprietari dell’opera anche quando i diritti su di essa sono ormai persi. L’espropriazione può assumere caratteri molto più forti rispetto a lavori considerati più alienanti.

“Nella misura in cui è veramente innovativo, si può dire che il lavoro creativo è permanentemente posto al momento dell’alienazione, e il lavoratore creativo è ripetutamente presente al centro di un contradditorio dramma di esproprio: il lavoro, così come viene posto in essere, appartiene e nello stesso tempo viene strappato al suo generatore. Parte di questa appartenenza è relativa al rischio di fallimento; nessuna innovazione può essere conosciuta prima che venga posta in essere (se lo facesse, non sarebbe un’innovazione), quindi ogni volta c’è il rischio che non funzioni, o che venga trovata brutta o comunque inaccettabile. Poiché in quel momento di creatività il lavoratore non si è ancora separato dalla sua creazione, tali fallimenti possono essere vissuti come il risultato di una inadeguatezza personale. Il potenziale di rifiuto si annida sempre sullo sfondo del dramma della creatività e della espropriazione. Questo è ovviamente più acuto nelle forme di lavoro creativo che sono apertamente affettive e richiedono un’esposizione personale (ad esempio, le arti dello spettacolo, la narrativa o la regia cinematografica), ma si libra in modo meno visibile su molti altri tipi”9.

La forza del lavoro creativo risiede nella sua difficile intercambiabilità e importanza per i processi innovativi ma potrebbero essere messa in pericolo dal bacino globale del lavoro creativo nell’ambito della ristrutturazione delle catene del valore in cui troviamo delle trasformazioni estese ad ogni altro lavoratore:

“una tendenza generale alla intensificazione del lavoro, che non è data solo da un allungamento delle ore di lavoro, ma anche da una saturazione del tempo, una accelerazione del ritmo, delle scadenze più strette, una pressione maggiore, e talvolta una ‘colonizzazione’ delle altre sfere della vita dell’individuo. In alcuni casi, ciò viene percepito come una pressione continua, 24 ore su 24. In altri casi, l’intensificazione assume la forma della richiesta che i lavoratori aggiungano nuovi compiti alle loro attività principali esistenti, un concetto che può essere considerato come ‘intensificazione delle competenze’, in opposizione a un loro semplice miglioramento”10.

Le competenze richieste sono sociali e riguardano, ad esempio, il problem solving o la gestione delle risorse. Tutte ciò va oltre le competenze professionali e si somma ad esse.

La regolamentazione del lavoro è sempre meno basata sull’orario di lavoro e sempre più sul lavoro svolto. L’aumento dei ritmi di lavoro comporta, per il lavoro creativo, l’erosione di quelle fasi di progettazione che fanno parte della soddisfazione per il proprio lavoro. Una terza tendenza è la standardizzazione del lavoro di ricerca, con il rischio di semplificare il lavoro creativo e facilitandone il trasferimento lungo la catena del valore.

5. Il lavoro immateriale

Huws sostiene che categorie come quella di lavoro immateriale sono sintomo di una maggiore complessità della divisone del lavoro con la parallela espansione di attività manuali di routine e attività mentali creative che sono una minoranza rispetto alla maggioranza del lavoro globale. In questo modo si rischia di vederlo oscurato e di negare che senza il suo apporto non esisterebbe alcun lavoro digitale/immateriale.

Il lavoro digitale non invalida la teoria del valore-lavoro. La produzione di una merce immateriale andrebbe messa in relazione a forme tradizionali di generazione del valore.

  1. Affitto: aziende come Facebook e Google realizzano profitti grazie alla pubblicità sempre più targettizzata rispetto agli utenti a cui è rivolta. Huws sostiene che imprese come Google facciano soldi come le ditte che affittavano una bancarella o un cartellone nelle aree più trafficate delle città o le arterie stradali maggiormente percorse durante il giorno. Più la zona è trafficata, maggiore sarà il costo dell’affitto. Così si spiegano i guadagni generati dai motori di ricerca. Il plusvalore si trova nelle merci prodotte e vendute tramite queste piattaforme.
  2. Commercio: società come Amazon replicano online le modalità con cui viene svolto il commercio offline.
  3. Produzione di merci: il lavoro di ricerca e sviluppo o la progettazione forniscono input per lo sviluppo di nuove merci o il loro adattamento. Il lavoro creativo invece fornisce input per lo sviluppo di CD, libri e film. Queste tipologie di lavoro svolgono una funzione “classica” in rapporto al capitale sé il loro lavoro è incorporato in una merce riproducibile. Questo lavoro può essere più o meno digitale e può essere coinvolto nei processi produttivi, ad esempio con la gestione degli strumenti digitali, dei software fino alla generazione di prodotti immateriali. Inoltre lo sviluppo del capitalismo delle piattaforme ha creato tutta una serie di micro-lavori, inclusi quelli “pay-per-click” che sono svolti da utenti del Terzo Mondo pagati per mettere mi piace o che operano tramite Mechanical Turk di Amazon.

A partire dai confini sfumati tra produzione, distribuzione e consumo, Huws ritorna ai Grundrisse di Marx per sostenere che ormai l’intero processo di immissione sul mercato di un prodotto deve essere considerato lavoro produttivo e di conseguenza molti lavori come quelli legati al marketing, alla logistica, alla vendita al dettaglio o alla consegna, sono direttamente produttivi.

Per quanto riguarda il lavoro non retribuito, Huws parla di quattro categorie.

  1. Produzione di valori propri in casa: è improduttivo per il capitale ma utile per la riproduzione della forza lavoro. Comprende l’acquisizione di competenze utili per l’occupabilità o il corteggiamento per costruire una famiglia. Molte di queste attività sono ormai svolte online.
  2. Il lavoro di consumo: il consumatore si assume alcuni compiti un tempo propri del lavoratore salariato nel campo della distribuzione della produzione di merci. Anche queste attività sono svolte online ma non generano reddito per il lavoratore.
  3. Lavoro creativo: partendo da Marx, viene fatta questa distinzione per capire se inquadrarlo come produttivo o meno. Qualora una bravissima cantante decidesse di vendere a qualcuno la propria opera, svolgerebbe un lavoro marxianamente produttivo. Altrimenti è un lavoro improduttivo come quello svolto online gratuitamente dai programmatori di software open source.
  4. Tirocinio: aumenta la possibilità di essere occupati ma non genera reddito. Può essere intrapreso con la forza, vedasi il caso del lavoro gratuito a cui sono obbligati i disoccupati per non perdere il proprio sussidio, ma resta sempre lavoro gratuito.

Il lavoro gratuito del web non permette a chi lo svolge di sopravvivere. Necessita di altre fonti di reddito per essere svolto. Su questo Huws assume una posizione polemica rispetto agli operaisti.

“L’insieme delle diverse forme di lavoro non retribuito sopra descritte ha un impatto sul lavoro retribuito, dando luogo potenzialmente a tensioni e fratture all’interno della classe operaia. Gli stagisti, lavorando gratuitamente per rendersi occupabili, erodono la posizione contrattuale dei lavoratori retribuiti che svolgono gli stessi ruoli. L’esecuzione di lavori di consumo non retribuiti influisce sui lavoratori dei servizi riducendo i livelli occupazionali complessivi e intensificando il lavoro attraverso l’introduzione di nuove forme di standardizzazione e taylorizzazione, che portano al deterioramento delle condizioni lavorative. Scrivere voci di Wikipedia, bloggare o pubblicare video clip o fotografie online senza pagamento minaccia il sostentamento di giornalisti, ricercatori o altri lavoratori creativi che non hanno un sussidio da uno stipendio accademico o da altre fonti e fanno affidamento sul loro lavoro creativo per guadagnare un reddito. In molti casi, le stesse persone occupano diversi di questi compiti retribuiti e non retribuiti con ruoli diversi. Ancora più comunemente, possono farlo diversi membri della stessa famiglia. Considerare i lavoratori non pagati come dei crumiri che stanno minando i lavoratori pagati è ovviamente troppo semplicistico, ignorando gli imperativi che spingono a questi comportamenti e la realtà più ampia che lo sfruttamento determina in tutti loro, anche se in forme diverse. Ma un’analisi che equipara uno sfruttamento comune a un ruolo identico nella generazione del plusvalore e fa collassare tutte queste posizioni separate in un’identità collettiva comune come una ‘moltitudine’ rende impossibile identificare il punto di produzione: il punto in cui i lavoratori hanno il potere di sfidare il capitale: il centro del sistema”11.

  1. Ursula Huws, Il lavoro nell’economia digitale globale. Il Cybertariato diventa maggiorenne, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, p.22 ↩︎
  2. Ivi, p.35 ↩︎
  3. Ivi, pp. 36-37 ↩︎
  4. Ivi, p.47 ↩︎
  5. Ivi, pp.101-102 ↩︎
  6. Ivi, p.112 ↩︎
  7. Ivi, p.113 ↩︎
  8. Ivi, p.116 ↩︎
  9. Ivi, p.118 ↩︎
  10. Ivi, p.121 ↩︎
  11. Ivi, pp.186-187 ↩︎

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