Le basi economiche di Impero

  1. I limiti del concetto di imperialismo nell’attuale fase del capitalismo

Negri e Hardt in Impero, per analizzare il passaggio dall’imperialismo all’Impero, iniziano le loro riflessioni a partire dalla critiche anticipatorie di questo mutamento dei teorici dell’imperialismo nel XX secolo. Ad esempio uno degli argomenti maggiormente dibattuti è stato il rapporto tra espansione del capitalismo e imperialismo che possiamo ricollegare ad alcune teorie marxiane. Nonostante Marx non abbia mai parlato di imperialismo, è possibile utilizzare le sue analisi per spiegare l’espansione del capitalismo come riconfigurazione dei confini tra dentro e fuori ad opera del capitale. Esso, inoltre, non può esistere senza dei confini che delimitano un territorio oppure una popolazione ma questi limiti vengono costantemente oltrepassati per acquisire il controllo di nuovi spazi. Questo spiega anche la tendenza del capitale ad espandersi con l’obiettivo, già inscritto nella sua stessa natura, di creare il mercato mondiale. L’espansione è anche legata alla crisi perché è un tentativo sempre destinato a non placare la sua insaziabile sete di nuovi spazi da integrare. La crisi, per evitare derive crolliste, non determina la fine del capitalismo ma la tendenza e un certo modus operandi. Quindi, il capitalismo costruisce l’imperialismo e ne consente lo sviluppo attraverso un complesso gioco di limiti e barriere.

A questo punto viene introdotta una complessa analisi dei testi marxiani sulla necessità del capitale di espandersi a partire dal processo di realizzazione, soffermandosi sulla relazione ineguale tra il lavoratore in quanto produttore e il lavoratore in quanto consumatore di merci. Questo problema spinge il capitale verso il mercato mondiale e oltre i suoi limiti e confini. Partendo dai Lineamenti fondamentali dell’economia politica, Negri e Hardt affermano che il salario dovrà essere sempre inferiore al valore di ciò che il lavoratore produce e, per avere un plusvalore realizzato, dovrà trovare un mercato di sbocco adeguato ma non basta la domanda dei lavoratori per ottenere questo scopo poiché producono sempre più valore di quanto ne consumano. I capitalisti, invece, si trovano nella situazione di non poter consumare tutto il plusvalore prodotto perché altrimenti non ne avrebbero più da reinvestire. Devono praticare l’astinenza e accumulare. Il valore non potrà essere realizzato qualora la classe operaia, i capitalisti e i suoi dipendenti non siano in grado di generare un mercato adeguato per le merci prodotte, nonostante si sia realizzata l’estrazione del plusvalore. Questa barriera, dice Marx, può essere infranta da una maggiore produttività del lavoro che complessifica la composizione del capitale e il capitale variabile diventa diventa una componente meno centrale nella produzione del valore delle merci, portando ad avere un potere d’acquisto dei lavoratori inferiore a quello delle merci prodotte. Per evitare la svalutazione per sovrapproduzione e realizzare il plusvalore generato, il capitale deve espandersi creando un circolo della circolazione continuamente allargato. Questo scopo viene realizzato attraverso il potenziamento dei mercati esistenti con la creazione di nuovi bisogni e desideri ma tutto ciò incontra il limite nella quantità del salario che possiede il lavoratore per consumare e nella necessità del capitalista di accumulare. Non è sufficiente neanche l’integrazione di nuove popolazioni nelle relazioni capitalistiche per lo stesso motivo che abbiamo individuato all’inizio del ragionamento di Negri e Hardt. L’unica soluzione diventa individuare nuovi mercati capitalistici dove realizzare il valore delle merci e scambiarle. Il capitale si espande anche come risposta al momento successivo dell’accumulazione, ovvero il processo di capitalizzazione. Una volta che è stato realizzato sotto forma di denaro il plusvalore occorre investirlo nella produzione e nella trasformazione del capitale, altrimenti non può prendere il via il successivo ciclo di produzione. Per fare ciò il capitalista ha bisogno di acquisire merci addizionali per riprodurre il capitale costante e ottenere altro capitale variabile. Questo porta alla logica conclusione dell’allargamento del mercato per una nuova realizzazione. Per ottenere capitale costante addizionale, il capitalismo genera una prima forma di imperialismo che si manifesta sotto la forma del saccheggio e del furto. Per fare ciò entra in contatto con l’ambiente capitalistico ma senza integrarlo, resta qualcosa di esteriore rispetto al capitalismo. Quando invece si sommano acquisizione di capitale variabile addizionale, creazione del proletariato e reclutamento di nuova forza lavoro, abbiamo l’imperialismo. L’estensione della giornata lavorativa nei paesi capitalistici non è sufficiente per creare tutta la forza lavoro necessaria al capitale, allora si estende il processo di proletarizzazione anche ai paesi non capitalistici, generando una continua riapertura del processo di accumulazione originaria che porta alla capitalizzazione di questi nuovi spazi che sono trasformati in società capitalistiche. Il capitale, dicono Negri e Hardt, non ricrea l’aree non capitalistiche a propria immagine e somiglianza:

“Quando la critica marxista dell’imperialismo parla dei processi di internalizzazione di ciò che sta fuori il capitale, ha pressoché sempre sottovalutato il significato della disuguaglianza dello sviluppo e delle differenze geografiche che essi implicano. Ogni segmento dell’ambiente non capitalistico viene trasformato “differentemente”, mentre tutti sono integrati “organicamente” nell’espansione del corpo del capitale. In altri termini, i differenti segmenti del fuori non vengono internalizzati in base a un modello precostituito ma in qualità di organi differenti che funzionano insieme in un solo corpo”1.

Il capitale si appoggia su qualcosa di esterno ad esso per realizzare il plusvalore ed entra in conflitto con i processi di internalizzazione dei paesi non capitalistici che hanno bisogno della capitalizzazione per realizzare il plusvalore. Storicamente si sono svolti in senso diacronico con il territorio e la popolazione resi inizialmente accessibili allo scambio e alla realizzazione e secondariamente sono assorbiti nella sfera della produzione capitalistica, smettendo di essere qualcosa di esterno al capitale. In questo modo la capitalizzazione diventa un limite alla realizzazione e viceversa. Questi processi entreranno prima o poi in contrasto netto a causa della finitezza del mondo, trasformando, seguendo gli insegnamenti di Rosa Luxemburg, un conflitto logico in una contraddizione reale. Per quanto riguarda Lenin, il suo classico L’imperialismo, fase suprema del capitalismo è una sintesi di analisi provenienti da altri autori, come Hilferding e Kautsky. Del primo riprende la tesi secondo cui nella misura in cui il capitale si espande grazie all’imperialismo, emergono ostacoli nell’equalizzazione dei saggi di profitto tra le varie branche e settori produttivi. Lo sviluppo pacifico del capitalismo finisce per dipendere da una tendenziale perequazione delle condizioni economiche come prezzi uguali per merci uguali o profitti uguali per capitali uguali. Secondo Hilferding l’imperialismo impedisce l’equalizzazione tra i tassi di profitto e la possibilità di un’efficace mediazione capitalistica dello sviluppo internazionale perché nel frattempo erano sorti i monopoli che impedivano questi processi a meno che non fosse operativa una banca centrale mondiale per impedire la trasformazione delle guerre commerciali in guerre guerreggiate. Lenin accetta la prima parte del discorso ma respinge l’utopia di una banca centrale mondiale. Kautsky invece propone l’unificazione politica ed economica del mondo ad opera del capitalismo come esito dello sviluppo di questo modo di produzione. I grandi padroni del capitale si sarebbero uniti in un unico trust mondiale per porre fine alle loro reciproche rivalità e lotte tramite un grande capitale finanziario internazionale unificato. Lenin era d’accordo con la tendenza allo sviluppo di una cooperazione tra i capitali finanziari nazionali ma rifiutava la tesi politica di Kautsky che in nome di questa tendenza di pace futura finiva per negare le dinamiche della realtà presente. Le critiche di Lenin erano di stampo politico con l’intento di organizzare il proletariato per inserirsi nelle contraddizioni dello sviluppo capitalistico e opporsi al tentativo di costruire un’equalizzazione effettiva dei saggi di profitto imperialistici e per impedire la realizzazione di quell’ultraimperialismo fantasticato da Kautsky.

“Uno degli aspetti più salienti dell’analisi di Lenin è la sua critica del concetto politico di imperialismo. Lenin collegava la problematica della sovranità moderna a quella dello sviluppo capitalistico ricorrendo a un’unica ottica e, tessendo insieme le differenti linee della critica, fu in grado di gettare uno sguardo al di là della modernità. In altri termini, più di ogni altro marxista, con la sua rielaborazione del concetto di imperialismo, Lenin fu in grado di anticipare il passaggio a una nuova fase del capitale che andava oltre l’imperialismo e fu capace di individuare il luogo (o il non-luogo) dell’emergente sovranità imperiale”2.

Per Lenin l’imperialismo era una tappa strutturale dell’evoluzione dello stato moderno. Ogni fase storica dello stato prevedeva determinati strumenti per ottenere il consenso popolare e trasformare la moltitudine in popolo e imbrigliare la lotta di classe. Progressivamente lo sviluppo capitalistico stava superando la distinzione tra dentro e fuori di esso. Tendenzialmente non sarebbe stato più possibile porsi al di fuori dello sviluppo capitalistico e quindi la critica non poteva più essere fatta partire dall’esterno, come in Rosa Luxemburg, ma all’interno e dentro la crisi della sovranità moderna. Oggi l’imperialismo è finito per essere un limite del capitale, i confini continuamente creati dalla pratica imperialista sono diventati degli ostacoli allo sviluppo del capitalismo e alla realizzazione del mercato mondiale. Il capitale, quindi dovrà sbarazzarsi dell’imperialismo e distruggere le barriere che distinguono il dentro dal fuori dello sviluppo capitalistico.

  1. I passaggi che hanno portato alla crisi dell’imperialismo

Con la Prima guerra mondiale e la successiva crisi del ‘29, entra in crisi un determinato modo di regolazione liberale dello sviluppo. In questo contesto emerge il New Deal negli USA, l’unico tentativo riuscito all’epoca di ristrutturazione dei rapporti di produzione capitalistici e di potere che per Negri e Hardt rappresenta anche un tentativo di superamento dell’imperialismo a livello mondiale. Con il New Deal assistiamo alla costituzione dello Stato come mediatore dei conflitti e imprenditore delle trasformazioni sociali. Venne applicato a livello di politiche monetarie e del lavoro il keynesismo che fece diventare il capitalismo americano un regime di alti salari, di grandi consumi ma anche di forte conflittualità. Su queste basi emerge il moderno sistema di Welfare, ovvero taylorismo nell’organizzazione del lavoro, fordismo nei salari e keynesismo nelle politiche monetarie. Gli autori sottolineano le differenze rispetto al Welfare europeo basato su politiche economiche e sociali capaci di combinare assistenza sociale e incentivi imperialisti. Il New Deal si basava su altri principi, in primo luogo l’investimento diretto del Welfare sulle relazioni sociali per introdurre un regime disciplinare temperato da una partecipazione alla gestione dei processi di accumulazione. La tesi è che questo progetto politico nasce da una soggettività politica operante in direzione dell’Impero e del superamento delle barriere poste dall’imperialismo.

“Il New Deal produsse la forma più avanzata di governamentalità “disciplinare”. Con questa espressione non si vogliono indicare soltanto le forme giuridiche e politiche dell’organizzazione della disciplina. Vogliamo dire che, in una società disciplinare, l’intera società, in tutte le sue articolazioni produttive e riproduttive, è sussunta sotto il comando del capitale e dello stato e che la società tende – gradualmente, ma con irriducibile continuità – a essere governata esclusivamente dalle norme della produzione capitalistica. “Una società disciplinare è dunque una società-fabbrica”. La disciplina è sia una forma della produzione, sia una forma del governo, di modo che la società disciplinare e la produzione disciplinare tendono a coincidere perfettamente. In questa nuova società-fabbrica, le soggettività produttive vengono fabbricate come funzioni unidimensionali al servizio dello sviluppo capitalistico. Le figure, le strutture e le gerarchie della divisione del lavoro vengono massicciamente socializzate e minuziosamente definite nella misura in cui la società civile viene assorbita dallo stato: le nuove norme della subordinazione e i regimi della disciplina capitalistica vengono estesi su tutto il sociale. Quando il regime disciplinare viene radicalizzato al massimo, nel momento in cui si compie la sua più vasta applicazione, esso diviene il limite estremo di una organizzazione sociale, di una società che si trova coinvolta nel processo del suo superamento”3.

Con l’entrata nella Seconda guerra mondiale degli USA assistiamo alla creazione di un legame tra New Deal e imperialismo europeo che portò il primo a diventare un modello alternativo al secondo su scala mondiale. Non a caso tutti i modelli di ricostruzione successivi al conflitto si basarono sul modello americano di società disciplinare. Nel passaggio dall’imperialismo all’Impero si configurano, di conseguenza, tre dispositivi che operano per rafforzare questo cambiamento. Il primo è quello della decolonizzazione che si concluse con la sconfitta americana in Vietnam aprendo la strada all’organizzazione del mercato mondiale capace di distruggere tutte le frontiere e le gerarchie edificate dall’imperialismo europeo creando nuove gerarchie di dominio con al centro gli USA e il dollaro americano. Il secondo dispositivo è il decentramento degli insediamenti e dei flussi produttivi nell’ex Terzo Mondo che avviene in due fasi. La prima è neocolonialista e si basa su alcuni elementi di continuità con la precedente fase imperialista come gli scambi ineguali tra le regioni dipendenti e le metropoli. La seconda fase vede la delocalizzazione delle attività delle multinazionali nelle regioni dipendenti dove diventano vettori di trasformazione economica e politica. In questo momento, iniziato approssimativamente alla fine degli anni ‘70, avviene il trasferimento delle tecnologie essenziali per la trasformazione dei sistemi produttivi locali e mobilitare capacità produttive e forza lavoro. I flussi di denaro coinvolti convergevano sempre verso gli USA che finirono spesso a dirigerli direttamente al posto delle multinazionali. In questo modo è sorta una nuova divisione globale del lavoro anche se non eravamo ancora davanti ad un nuovo ordine globale. Il terzo dispositivo è la diffusione delle forme disciplinari di governo e produzione in tutto il mondo. In poche parole si tratta della combinazione tra taylorismo nell’organizzazione, fordismo nei salari e welfare paternalistico. Ovviamente non ci fu una diffusione speculare della variante occidentale di questo sistema nell’ex Terzo Mondo, venne realizzato solo in forma frammentaria ma bastava la promessa del suo funzionamento per far partire la modernizzazione di questi paesi. In questo modo il mercato mondiale diventa il fattore decisivo in tutte le aree un tempo dominate dall’imperialismo e divenne la pietra angolare di un sistema capace di dirigere le reti globali della circolazione. Tuttavia avevamo ancora un’unificazione del sistema posta ancora in termini formali.

“I processi che si svolgevano sugli scenari delle lotte di liberazione e che ampliavano la circolazione capitalistica non erano né necessariamente, né immediatamente compatibili con le nuove strutture del mercato mondiale. L’integrazione procedeva ovunque irregolarmente. In diverse regioni – e, spesso, in una medesima area – coesistevano regimi di lavoro, tipologie della produzione e modalità della riproduzione sociale molto eterogenee. Quello che pretendeva di imporsi come l’asse di una ristrutturazione unificata della produzione globale, si disintegrava in mille frammenti, di modo che il processo di unificazione si manifestava ovunque in modo diverso. Lungi dall’essere unidimensionale, la ristrutturazione e l’unificazione imposte dal potere sulla produzione esplosero irradiando innumerevoli sistemi produttivi. L’unificazione del mercato mondiale si attuava, paradossalmente, accentuando la diversità e la diversificazione”4.

Così assistiamo all’entrata nel mondo del lavoro salariato di nuova forza lavoro che finisce anche dentro un nuovo regime disciplinare favorevole allo sviluppo di nuove forme di resistenza e desideri di liberazione. Assieme alla mobilità di questa forza lavoro, troviamo maggiori difficoltà da parte dei mercati nazionali nella gestione del proletariato. Il comando capitalistico deve essere applicato ad un livello superiore a fronte di un rimescolamento di Primo e Terzo Mondo che possono convivere nello stesso luogo, pensiamo alla caste indiane che convivono con la più importante industria di vaccini del pianeta oppure ai nostri ghetti nelle campagne dove si produce il Made in Italy e il fatto che il nostro paese sia la seconda industria manifatturiera d’Europa, rendendo più fluide e mobili le frontiere. In definitiva, solo il mercato mondiale diventa la forma coerente per applicare il comando nel mondo capitalista.

  1. Due, tre mille Vietnam

Abbiamo già detto che la genesi di questi processi va fatta risalire agli anni ‘70, quando il modo di produzione capitalistico entra in crisi che, come ha suggerito Marx, non è altro che una situazione congiunturale che impone al capitale una sua svalutazione e lo porta ad una riorganizzazione completa dei rapporti di produzione. Questa è una reazione alla pressione esercitata dal basso dal proletariato sul saggio di profitto. La crisi capitalistica non dipende mai solo dalla dinamica del capitale ma può essere provocata dall’antagonismo proletario. Negri e Hardt, con questa lettura operaista della crisi possono spiegare quella di fine anni ’70 che porta ad una salto di qualità nel modo di produzione capitalistico come il prodotto della convergenza delle lotte operaie e gli attacchi anticapitalistici al capitalismo internazionale, minando i rapporti di potere e provocando la caduta del saggio di profitto. Questo esito è figlio della convergenza delle lotte nei paesi capitalisticamente maturi, dove gli operai esprimo tramite il rifiuto del lavoro la loro ostilità verso il regime disciplinare del lavoro basato sullo sviluppo incentrato sugli aumenti di produttività del lavoro di fabbrica. In questo contesto si afferma sempre di più la sfera del non-lavoro che porta a nuove forme di vita. Un altro effetto prodotto da queste lotte è la sovversione della divisione capitalistica del mercato del lavoro basata su tre fondamentali caratteristiche: la separazione tra gruppi sociali, la fluidità del mercato del lavoro e le gerarchie proprie del mercato del lavoro astratto. Tutte furono minacciate dalla rigidità e uniformità dei bisogni della forza lavoro favoriti dal rapporto tra socializzazione del capitale e unificazione sociale del proletariato. Tutto ciò permise anche una messa in discussione radicale del comando capitalistico del lavoro, con la sua organizzazione coercitiva e le sue strutture disciplinari. Le lotte nel Terzo Mondo, invece, fecero crescere il bisogno di un salario proletario che doveva essere fornito dai vari regimi socialisti e nazionalisti emersi con la decolonizzazione. Anche quando essi fallirono nei loro processi di modernizzazione, comunque ci fu l’emersione di nuovi bisogni e desideri capaci di eccedere le relazioni di produzione e di minacciare la riproduzione sociale. Le pratiche imperialiste, anche in questa fase di transizione all’Impero, ponendo tutte le attività produttive sotto il comando del capitale gettavano le basi per una potenziale unificazione globale del proletariato che non si tradusse in un’unificazione politica effettiva ma nonostante ciò esisteva un’oggettiva coincidenza delle lotte contro il regime disciplinare imposto dal capitale a livello mondiale producendo quella che Negri e Hardt chiamano accumulazione delle lotte. Questo elemento di novità mise fuorigioco le fondamenta su cui poggiava la strategia imperialista di divisione del proletariato tramite i vantaggi forniti dall’imperialismo all’aristocrazia operaia delle metropoli capitalistiche a danno dei proletari della periferia. Questi vantaggi stavano scomparendo grazie alle lotte di liberazione nazionale mentre le lotte annunciavano l’unificazione politica a livello globale del proletariato e la fine della divisione tra Primo e Terzo Mondo, ponendo all’ordine del giorno il problema dell’organizzazione politica di questo proletariato multinazionale. In questo modo ad essere messo fuori dalla storia è anche il terzomondismo su cui si basano tante teorie sulla dipendenza, il sottosviluppo o i sistemi-mondo, miopi davanti alla convergenza delle lotte nei paesi dominanti e subalterni.

Il capitale non restò a guardare e davanti alla crisi dell’imperialismo e alla crisi economica che mandò in frantumi il sistema istituito a Bretton Woods nel 1944. Il ‘68, in combinazione con la stagflazione, furono letali. Ciò portò ad una seconda fase dell’egemonia americana sul mondo iniziata il 17 agosto del 1971 con lo sganciamento del dollaro dall’oro e la sua inconvertibilità de iure a cui si aggiunse il caricamento del 10% di tutte le importazioni dall’Europa verso gli USA. Al capitale serviva una ristrutturazione completa delle relazioni economiche e un nuovo paradigma del comando mondiale.

“Dal punto di vista del capitale, la crisi non era tuttavia un evento esclusivamente negativo. Marx sosteneva, infatti, che il capitale è sempre molto interessato alle crisi economiche, in cui vede una leva per ristrutturare il suo potere. Di fronte al sistema nel suo complesso, l’atteggiamento dei singoli capitalisti è generalmente conservatore. Essi sono infatti soprattutto preoccupati di massimizzare i loro profitti nel breve periodo anche se, nel lungo periodo, questa scelta comporta effetti rovinosi per il capitale collettivo. Le crisi economiche possono disgregare le loro resistenze con la distruzione dei settori improduttivi, la riconfigurazione dell’organizzazione produttiva e il rinnovamento della tecnologia. In altri termini, le crisi economiche possono sollecitare trasformazioni che ristabiliscano un alto saggio di profitto medio e, in tal modo, siano in grado di reagire efficacemente sullo stesso terreno definito dall’attacco operaio. La svalutazione complessiva del capitale e gli sforzi per distruggere le organizzazioni operaie hanno il compito di trasformare la sostanza della crisi – ossia, gli squilibri della circolazione e la sovrapproduzione -nella riorganizzazione di un sistema di comando in grado di riarticolare le relazioni tra sviluppo e sfruttamento”5.

Il capitale, davanti alle lotte degli anni ‘60 e ‘70, si trovava davanti ad un bivio con due strade per sedare e ristrutturare il comando, entrambe tentate una dopo l’altra. La prima era la repressione, con l’intento di disarticolare, separare, disgregare il mercato del lavoro e ristabilire il controllo sul ciclo produttivo salvando solo un piccolo segmento di forza lavoro, garantito dal regime salariale e distaccato dal resto della popolazione. Vengono ricostruite delle gerarchie a livello nazionale e mondiale mentre si irrigidiscono i controlli sulla mobilità e la fluidità sociale. La tecnologia viene usata in senso repressivo attraverso l’informatizzazione della produzione e l’automazione portando all’estremo dei propri limiti l’organizzazione del lavoro basata sulla catena di montaggio e la grande fabbrica massificata, cioè il sistema taylorista-fordista che si stava dimostrando sempre più incapace di controllare le dinamiche delle forze produttive e sociali. La repressione, nel quadro delle precedenti strutture di controllo, era in grado solamente di mettere un coperchio sulle forze distruttive della crisi e dell’attacco operaio, minacciando la stessa produzione capitalista.

Per questo motivo fu necessario intraprendere la seconda strada, cioè applicare la trasformazione tecnologica non solo alla produzione ma anche al mutamento della composizione del proletariato per dominarlo e integrarlo capitalizzando sulle sue forme e pratiche. Questa risposta nasce come reazione alla lotta anticapitalista. Riprendendo la lezione trontiana, Negri e Hardt sostengono che normalmente il capitalismo non avrebbe motivi per abbandonare un determinato regime di profitto. Le trasformazioni avvengono unicamente se costretto dall’ingestibilità del regime vigente.

“Per osservare il processo dal punto di vista del suo elemento interno più attivo, è necessario spostarsi dall’altra parte, dalla parte del proletariato e da quella del mondo non ancora capitalistico progressivamente attratto nelle relazioni di potere dominate dal capitale. Il potere del proletariato è il limite del capitale e, dunque, non solo è il fattore che determina la crisi ma, soprattutto, è il potere che detta i termini e la natura della trasformazione. E’ il proletariato che inventa le forme produttive e sociali che il capitale sarà costretto ad adottare in futuro”6.

Per comprendere meglio questa strada Negri e Hardt propongono una tesi molto importante. Il capitale ha fatto un salto di qualità nel processo di accumulazione attraverso la sussunzione del ciclo espansivo della riproduzione. Quello che sta integrando, però, non è l’ambiente non capitalistico ma il terreno stesso del capitale. Non siamo più nell’ambito della sussunzione formale ma in quello della sussunzione reale. Il capitale non getta più il suo sguardo sul mondo esterno ad esso con un’espansione quantitativa ma al suo interno con una intensiva. Questa fase è caratterizzata da una nuova organizzazione tecnologica del capitale con l’introduzione di macchine che producono beni alimentari e materie prime, macchine che producono la natura ed altre che generano invece cultura. Le tecnologie meccaniche e industriali sono generalizzate e hanno investito il mondo interno al termine della modernizzazione e nel momento in cui la sussunzione formale dello spazio non capitalistico ha raggiunto i suoi limiti. Si tratta del passaggio dall’accumulazione moderna a quella postmoderna che avviene attraverso la sussunzione reale dello spazio capitalistico.

  1. Le trasformazioni nel lavoro

Negri e Hardt nel capitolo La postmodernizzazione o l’informatizzazione della produzione tracciano un quadro esaustivo delle trasformazioni incorse, con il passaggio all’Impero, nel mondo del lavoro. A partire dal Medioevo individuano tre paradigmi economici che si sono succeduti uno dopo l’altro. Il primo coincide con l’agricoltura e lo sfruttamento delle materie prime, con il secondo prevale l’industria e la fabbricazione di beni durevoli e infine, con il terzo, troviamo la centralità nella produzione economica dei servizi, della comunicazione e dell’informazione. Il passaggio dal primo al secondo paradigma si chiama modernizzazione economica mentre quello che vede la successione del terzo al secondo paradigma si chiama informatizzazione o postmodernizzazione della produzione. Per analizzare queste trasformazioni esistono parametri quantitativi che riguardano la popolazione impiegata in ogni settore economico e il valore complessivo prodotto dai vari settori. Tuttavia questi strumenti non permettono di cogliere la trasformazione qualitativa che si verifica nel passaggio da un paradigma all’altro e i mutamenti nella gerarchia tra i vari settori economici. Ad esempio, nella fase della modernizzazione l’agricoltura non solo vede il numero di impiegati ridursi ma viene sconvolta dall’industria, imponendo la sua industrializzazione. Allo stesso modo l’industria subisce gli effetti dell’informatizzazione nel paradigma della postmodernizzazione della produzione. Questo significa che settori come l’agricoltura o l’industria non sono destinati a sparire ma sopravviveranno influenzati dal paradigma del momento. Pensiamo solamente all’agricoltura di precisione o all’applicazione degli algoritmi per controllare la forza lavoro nell’Industria 4.0. L’affermazione della produzione postmoderna o economia postindustriale/economia dell’informazione può avvenire secondo due distinte modalità. La prima è il modello dell’economia dei servizi, predominante in Gran Bretagna, Canada e negli Stati Uniti. Qui troviamo un pesante ridimensionamento dell’occupazione nell’industria e una crescita esponenziale dei servizi, in particolare quelli legata alla finanza. Il secondo modello è quello informatico industriale, presente in particolar modo in Germania e Giappone. L’occupazione nell’industria decresce ad un ritmo più lento e i processi di informatizzazione sono più integrati con il comparto industriale. Negri e Hardt sostengono che i servizi legati all’industria, in questo modello, siano più importanti degli altri. In ogni caso, si tratta di due diverse strategie per ricavare un vantaggio dalla transizione economica all’economia postmoderna e per sfruttare al meglio i processi di informatizzazione. Ovviamente questi processi riguardano principalmente le economie capitalisticamente più sviluppate. Le altre si dividono in economie intermedie che si trovano ad un primo livello di subordinazione, le quali accolgono le industrie delocalizzate dai paesi più sviluppati e quelli più marginali dove prevale ancora l’agricoltura. Nel primo caso le industrie che vi troviamo sono già al livello più alto possibile dal punto di vista tecnologico perché lo sviluppo economico si dà sempre a livello mondiale. Di conseguenza non sono costrette a ripercorrere le tappe di sviluppo dei paesi più avanzati per poter lavorare con le fabbriche tecnologicamente più avanzate o nei settori di punta dello sviluppo economico. Anche le economie intermedie sono sostenute dai processi di informatizzazione dell’economia ma, soprattutto paesi enormi come Brasile e India, possiedono un’economia talmente articolata da poter gestire contemporaneamente tutti i livelli evolutivi della produzione: dall’agricoltura e l’estrazione di materie prime alla fabbrica di vaccini più avanzata del mondo, come accade in India.

Queste trasformazioni nella produzione hanno dei riflessi anche nella natura del lavoro e nella sua qualità. Lo possiamo notare nell’industria automobilistica con il passaggio dal fordismo al toyotismo.

“La prima differenza strutturale tra questi due modelli riguarda il sistema di comunicazione tra la produzione e il consumo, lo scambio di informazioni tra la fabbrica e il mercato. Il modello fordista era basato su una sorta di tacita relazione tra produzione e consumo. Nell’era fordista, il regime della produzione di massa di merci standardizzate, generalmente, poteva contare su una domanda adeguata e, quindi, non aveva alcuna necessità di «ascoltare» il mercato. Un circuito di retroazioni, dal consumo alla produzione, consentiva al mercato di stimolare le innovazioni dell’ingegneria produttiva, e tuttavia, questo circuito era troppo ristretto (soprattutto a causa dei canali rigidi e compartimentati della pianificazione e della progettazione) e troppo lento (a causa della scarsa flessibilità delle tecnologie e delle procedure della produzione di massa). Il toyotismo è fondato sul rovesciamento della struttura fordista della comunicazione tra produzione e consumo. Secondo i modelli ideali di questo sistema, la pianificazione produttiva deve comunicare costantemente e istantaneamente con i mercati. Dato che i beni vengono prodotti direttamente in funzione della domanda dei mercati, le industrie non dispongono più di alcuno stock di riserve. Questo sistema implica dunque non solo un circuito di retroazione più rapido, ma anche un’inversione completa del rapporto poiché, almeno in teoria, la decisione di produrre è realmente conseguenza e reazione degli orientamenti del mercato. Nei casi più estremi, la produzione viene messa in moto soltanto quando il consumatore ha già scelto e acquistato la merce. In linea generale, sarebbe però più esatto definirlo come un sistema che tende a realizzare una continua interattività – o, perlomeno, una comunicazione estremamente rapida – tra produzione e consumo. Questo nuovo contesto industriale dimostra in che senso la comunicazione e l’informazione sono giunte a giocare un ruolo cruciale che ha innovato da cima a fondo la produzione. L’azione strumentale e quella comunicativa sono diventate strettamente interdipendenti nei processi industriali informatizzati; va tuttavia aggiunto che, se viene intesa come una semplice trasmissione di dati di mercato, la comunicazione viene ridotta a una nozione inadeguata”7.

Queste trasformazioni si possono analizzare meglio nei servizi visto che sono basati su un continuo scambio di informazioni e conoscenze. Non producendo beni durevoli, questo lavoro viene definito immateriale. Questa tipologia di lavoro spesso presuppone una buona conoscenza del funzionamento dei computer per poter essere svolto. Anche quando non c’è un suo effettivo utilizzo comunque ci sono di mezzo la manipolazione dei simboli e dell’informazione secondo il modello informatico. Se nel fordismo ogni attività umana era interpretata come un’attività meccanica, oggi ragioniamo come computer mentre le tecniche della comunicazione assumono un ruolo sempre più centrale nella produzione.

I processi di informatizzazione della produzione hanno prodotto, inoltre, anche una nuova omogeneizzazione dei processi lavorativi, riducendo sensibilmente l’eterogeneità del lavoro perché tende ad allontanare sistematicamente il lavoratore dall’oggetto del lavoro. Si impone uno strumento universale che consente lo svolgimento di tante operazioni un tempo analogiche, cioè il computer attraverso cui passa ogni attività. Con l’informatizzazione, dicono Negri e Hardt, tutto il lavoro si sta trasformando in lavoro astratto. Il lavoro immateriale non si esaurisce nel rapporto con l’informatica, infatti troviamo anche il cosiddetto lavoro affettivo, cioè svolto nei contatti e nelle interazioni umane che possono essere reali o virtuali. In questa categoria troviamo tutti i servizi alla persona. Questo tipo di lavoro può essere compreso meglio tramite la categoria prodotta dagli studi femministi chiamata lavoro femminile, cioè lavoro svolto attraverso la dimensione della corporeità. Il lavoro affettivo, aggiungono gli autori, produce delle reti sociali, delle forme di comunità e biopotere.

Infine, il lavoro immateriale possiede la cooperazione come qualcosa di immanente ad esso. Questa tipologia di lavoro presuppone immediatamente cooperazione ed interazione sociale. La cooperazione non viene imposta e organizzata dall’esterno come accadeva con altre forme di lavoro. La cooperazione, nel lavoro immateriale, è immanente alla stessa attività lavorativa. Ad essere messo in discussione è il concetto marxiano di capitale variabile, cioè una forza attivata unicamente dall’azione del capitale. La cooperazione, ormai, fa parte della forza lavoro e le consente di valorizzarsi da sola. Il lavoro immateriale ha bisogno di corpi e cervelli per produrre valore e non necessariamente questi vengono forniti e organizzati dal capitale. Essi interagiscono attraverso una cooperazione che si sviluppa lungo reti di linguaggi, affetti e comunicazioni capaci di far intravedere un comunismo spontaneo ed elementare.

  1. L’impero

Le trasformazioni nel paradigma produttivo, con il modello della rete che sostituisce quello della fabbrica, porta ad un aumento del potere delle multinazionali che supera quello degli stati-nazione. Negri e Hardt inquadrano in una prospettiva storica il rapporto tra stato e capitalisti a partire da Marx ed Engels, i quali hanno sempre rappresentato lo stato come il comitato esecutivo che amministra gli interessi dei capitalisti.

“Con questa espressione intendevano dire che, malgrado l’azione dello stato potesse occasionalmente ostacolare gli interessi più immediati dei singoli capitalisti, nel lungo periodo esso avrebbe sempre preso le parti del capitalista collettivo, ossia del soggetto collettivo del capitale sociale considerato nel suo complesso (1). La concorrenza tra i capitalisti – così prosegue il ragionamento di Marx ed Engels – che è sempre libera, non sempre rappresenta un beneficio per il capitalista collettivo, in quanto l’interesse egoistico immediato per il profitto è irrimediabilmente miope. La prudenza suggerisce l’intervento dello stato per mediare gli interessi dei singoli capitalisti e per indurli ad agire in sintonia con gli interessi collettivi del capitale. I singoli capitalisti combattono dunque contro il potere dello stato, anche nel caso in cui quest’ultimo agisca nel loro interesse collettivo”8.

La dialettica tra stato e capitale è cambiata in base alle fasi di sviluppo del capitalismo. Nella prima fase in Europa lo stato gestiva il capitale sociale attraverso poteri di intervento relativamente discreti. Era il periodo caratterizzato dal libero scambio tra pochi stati europei capitalisticamente sviluppati mentre nello spazio extraeuropeo trovava terreno fertile l’amministrazione coloniale della varie Compagnie delle Indie che consentiva al capitale di agire senza particolari vincoli statali. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo iniziano ad spirare venti di crisi sullo sviluppo capitalistico. La nascita dei monopoli, dei trust e dei cartelli minacciava il capitalismo attraverso la riduzione della concorrenza e intaccava la capacità manageriale dello stato facendo prevalere i propri interessi su quelli del capitalista collettivo. Ciò portò alla promulgazione di leggi antitrust e, attraverso dazi e tariffe, furono rafforzate le politiche pubbliche e vennero regolate le attività statali. Nelle colonie furono spazzate via le Compagnie delle Indie, ristabilendo su questi territori il controllo di un’articolata amministrazione statale. Ora ci troviamo nella terza fase del rapporto con le multinazionali capaci di surclassare l’autorità e la giurisdizione degli stati-nazionali. Questo non significa che le funzioni statali siano scomparse assieme ai dispositivi costituzionali, semplicemente sono portate su altri livelli e ambiti. Questo porta alla morte dell’autonomia del politico grazie alla crisi della sovranità nazionale. Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma capace di organizzare il consenso attraverso la mediazione dei conflitti tra le forze sociali sono finite. Oggi il consenso viene determinato con maggiore facilità dalle bilance commerciali e dalle speculazioni sui titoli in borsa che non sono controllabili dalle forze politiche tradizionalmente associate alla sovranità. Essi sono infatti legati al sistema del comando globale attraverso corpi e funzioni internazionali e su questo livello avvengono le possibili mediazioni politiche. Non scompare, quindi, la politica ma una sua idea di autonomia. Questo declino porta Negri e Hardt a non pensare alla rivoluzione come qualcosa di attuabile entro i confini dello stato-nazione. Le riflessioni qui proposte ci portano alla definizione della piramide della costituzione globale su cui sono ricollocati i poteri statali tradizionali ed è composta da tre piani con numerosi livelli ciascuno. In questo schema troviamo al primo piano la superpotenza americana sopravvissuta alla Guerra Fredda che ha l’egemonia globale sull’uso della forza. In questo piano c’è un secondo livello in cui ci sono gli stati-nazione che controllano gli strumenti monetari capaci di regolare gli scambi internazionali e si riuniscono intorno ad organismi come il G8 e Davos. Questo piano viene definito comando unificato globale al di sotto del quale c’è il secondo piano dove troviamo le multinazionali che articolano il comando unificato globale in maniera più estensiva e articolata. Le società transnazionali, sotto l’egida del primo piano, creano e alimentano mercati distribuendo a livello globale capitali, merci, tecnologie, popolazione e, attraverso una rete di comunicazione, riescono a soddisfare i bisogni. In un livello inferiore del secondo piano possiamo trovare il complesso degli stati-nazionali che agiscono come organizzazioni territorializzate.

“Gli stati-nazione svolgono svariate funzioni come, ad esempio, la mediazione politica nei confronti dei poteri egemoni su scala globale, i negoziati con le multinazionali, la redistribuzione delle risorse in ordine ai bisogni biopolitici che emergono nel quadro dei loro territori. Gli stati-nazione fungono da filtri della circolazione mondiale e da regolatori dell’articolazione del comando globale. In altri termini, gli stati-nazione catturano e distribuiscono i flussi di ricchezza da e verso il potere globale e disciplinano le popolazioni, per quanto è ancora possibile”9.

Infine troviamo il terzo piano, composto dalle organizzazioni che rappresentano gli interessi popolari nella strutturazione del potere globale. Sono i filtri che consentano a quest’ultimo di integrare indirettamente la moltitudine. Qui trovano ampio spazio realtà come le ONG che esprimono le istanze di una società civile sempre più globale. Uno spazio sempre più ridotto, con le medesime funzioni, viene lasciato agli organismi statali.

  1. Michael Hardt, Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002, p.216 ↩︎
  2. Ivi, p.220 ↩︎
  3. Ivi, p.230 ↩︎
  4. Ivi, p.238 ↩︎
  5. Ivi, pp.250-251 ↩︎
  6. Ivi, p.252 ↩︎
  7. Ivi, pp.271-272 ↩︎
  8. Ivi, p.285 ↩︎
  9. Ivi, p.291 ↩︎

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