- Introduzione
Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano è un libro che offre uno spaccato molto chiaro e preciso sulle condizioni di lavoro di chi è impiegato nel mondo della cultura in Italia. Il tanto decantato “petrolio italiano” nasconde tanta precarietà e tanto sfruttamento e, in definitiva, il pesante disinteresse per i diritti di questa categoria di lavoratori da parte del nostro Stato.
Mi Riconosci? nasce come movimento nel 2015. L’obiettivo iniziale era sviluppare una campagna di sensibilizzazione sulle professioni e i titoli di studio legati ai beni culturali. Nel 2014 venne approvata la Legge Madia:
L’approvazione di tale legge aveva introdotto delle novità importanti per il settore degli operatori dei beni culturali: per la prima volta figure professionali quali archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte venivano istituzionalmente e legalmente riconosciute a integrazione del Testo Unico del 2004 tramite un apposito articolo, il 9 bis. Tuttavia la legge mancava della parte attuativa: non conteneva infatti i requisiti per accedere agli elenchi nazionali e rimandava a decreti successi che avrebbero dovuto essere pubblicati entro pochi mesi, ma di cui nel 2015 ancora non si vedeva l’ombra1.
Il gruppo presenta il suo primo documento nella propria pagina Facebook proponendo una visione dei beni culturali contrapposta alla loro gestione privatistica e manageriale difesa dal ministero. Le loro rivendicazioni riguardavano maggiori investimenti nel settore, requisiti più chiari e vincolanti per l’esercizio delle professioni e una riforma generale dei corsi di laurea.
La notorietà venne raggiunta attraverso un post su Facebook in cui veniva denunciato l’utilizzo da parte del MiBACT, nell’ambito del Giubileo della misericordia, di 29 volontari del servizio civile attraverso un bando in cui venivano specificate mansioni e titoli proprie dei professionisti dei beni culturali come gli archeologi e gli storici dell’arte. La notorietà trasforma il gruppo in un interlocutore credibile del ministero che lo coinvolge nella scrittura dei decreti contenenti i requisiti professionali per le 7 professioni riconosciute dalla legge Madia. Nel 2016 parte il primo tour di incontri pubblici che consente di viaggiare per tutta l’Italia e toccare con mano le problematiche del settore: “dalla condivisione delle esperienze e dai diversi interventi emergeva chiaramente come il lavoro culturale, nonostante anni di formazione universitaria e di specializzazione, non fosse affatto valorizzato nella sua funzione sociale ma ridotto al rango di passione o di hobby”2.
La successiva evoluzione del gruppo porta all’elaborazione di proposte concrete per difendere i professionisti dei beni culturali. La prima è di natura simbolica, il cosiddetto patto per il lavoro culturale, che ha come scopo quello di dimostrare come lo sfruttamento nel settore potesse essere superato facendo rispettare delle semplici regole di condotta morale sia ai lavoratori che ai datori di lavoro. Ovviamente i rapporti di forza nei settori in cui questi lavoratori si trovano ad operare non permettono l’attuazione di soluzioni così semplici. Molto più interessante sul piano normativo è la proposta di legge sulla regolamentazione del volontariato culturale che puntava a modificare la regolamentazione del settore culturale colpendo il codice dei beni culturali e del paesaggio, la Legge Ronchey e il D.P.R. 10 novembre 1966 n.1356 in merito al regolamento delle attribuzioni e delle carriere del personale delle biblioteche pubbliche statali. Il fine era “delegittimare l’uso sistematico da parte dello Stato del volontariato come mezzo sostitutivo del lavoro retribuito nel settore culturale”3.
La prima partecipazione di Mi Riconosci? ad una manifestazione di piazza risale al 2016. Il collettivo si unisce alla manifestazione Emergenza Cultura – in difesa dell’articolo 9 contro la riforma Franceschini. Riescono, autonomamente, ad organizzare una prima manifestazione con tutti i lavoratori del comparto cultura nel 2018, con la partecipazione di duemila persone da tutta Italia giunte a Roma.
Durante la pandemia hanno tenuto in vita le loro lotte attraverso campagne mediatiche sviluppate sui social network per poi tornare in piazza dal novembre del 2020. Molti sono i punti rilevanti messi sul tavolo da queste attività.
In primo luogo, la rivendicazione di salari e contratti proporzionali alle competenze di un professionista dei beni culturali in sostituzione del lavoro gratuito. Queste condizioni di lavoro sono un disincentivo alla formazione per lavorare in questo settore perché vi può rimanere solo chi ha la possibilità di accettare anni di lavoro gratuito o sottopagato.
Secondariamente, il collettivo dimostra di non chiudersi in una logica corporativa. I lavoratori del settore sono state vittime privilegiate della precarizzazione del mercato del lavoro e con le loro lotte puntano ad unire tutti coloro che hanno un lavoro sottopagato o addirittura non pagato. La lotta non si incentra solo sul salario ma anche sulla possibilità da parte dei cittadini italiani di poter usufruire degli istituti culturali. Per questo motivo hanno denunciato la priorità accordata ai supermercati per quanto riguarda le aperture post-lockdown rispetto ai musei, ai teatri o ai cinema. Oppure hanno partecipato alla manifestazione a Venezia contro il posticipo di quattro mesi delle aperture dei Musei Civici per aspettare il ritorno dei turisti.
2. Le condizioni di lavoro
Le condizioni di lavoro nei musei italiani vengono fotografate perfettamente nel capitolo 3 su cui ci soffermeremo. L’Istat, nel 2019 ma in un rapporto relativo al 2017, afferma che:
Il settore mobilita circa 38.300 operatori tra dipendenti, collaboratori esterni e volontari: in media un operatore ogni 3106 visitatori. Per quanto riguarda le varie professionalità, il 60% dei musei non ha un direttore, il 63% non ha addetti ai servizi didattici, il 36% non ha amministrativi e oltre il 70% non ha addetti alla conservazione e manutenzione. Eppure il 65% dei musei impiega volontari (il 15% degli istituti ha più di 5 volontari al suo interno): un chiaro sistema per restare a galla. Infatti il 58,2% degli istituti ha non più di cinque addetti, solo il 32,7% ne impiega più di dieci4.
Gli autori passano in rassegna alcuni nodi problematici del lavoro culturale che in qualche modo possono essere ricondotti a questi dati.
2.1 La legge Ronchey 4/1993
Con questa legge furono introdotti nei musei italiani i servizi aggiuntivi, come ad esempio il bookshop, che però dovevano essere obbligatoriamente esternalizzati. Inoltre venne introdotto il volontariato, cioè lavoro gratuito, come strumento per integrare il personale mancante non solo nei musei ma anche nelle biblioteche e negli archivi. Con il venir meno degli investimenti sulla cultura è dilagato l’abuso del lavoro gratuito in sostituzione dell’assunzione dei professionisti dei beni culturali. L’Istat ci informa che nel 2018 “risulta che il volontariato dei settori “cultura, sport e ricreazione” tocchi il 57% di tutte le forme di volontariato in Italia. Apprendiamo inoltre che per ogni dipendente di una no-profit dei settori nominati, vengono impiegati ben 67 volontari”5 .
Sono numeri di un settore in cui il lavoro volontario supera il lavoro retribuito. A tutto ciò dobbiamo aggiungere l’esternalizzazione anche di servizi essenziali per un museo come la biglietteria.
Il sistema così creato ha generato ben otto società concessionarie che gestiscono il 90% dei servizi dei musei supersfruttando la forza lavoro.
Lo Stato ha creato “una classe imprenditoriale totalmente dipendente da commissioni pubbliche e allo stesso tempo arrogandosi il diritto di tenere i lavoratori in costante stato di precarietà a ogni cambio d’appalto”6.
2.2 Alcuni dati sulle condizioni di lavoro
Nel 2019 Mi Riconosci? realizza un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore con oltre 1500 risposte.
Metà dei lavoratori guadagna meno di 8 euro l’ora mentre l’11% non arriva a 4 euro. Un altro problema emerso è la sottoccupazione. La maggior parte dei lavoratori è impiegato, non per scelta, meno di 8 ore al giorno. “In sintesi il 63% degli intervistati dichiarava di guadagnare meno di 10.000 euro l’anno, trovandosi dunque al di sotto della soglia di povertà. Tra questi, addirittura il 38% non arrivava a 5000 euro annui. Mentre soltanto meno del 20% degli intervistati ne guadagnava più di 15.000”7.
Le condizioni contrattuali sono le più disparate. Abbiamo il finto libero professionista costretto ad aprire una partita Iva per lavorare, il 78% dei partecipanti all’inchiesta, oppure un 25% di intervistati che dichiara di non avere un contratto di lavoro e viene pagato con ritenuta d’acconto, rimborso spese o partita Iva. Inoltre, appena il 7% degli intervistati lavora con il contratto di Federculture. La maggior parte degli intervistati lavora con il Multiservizi (23%) e il Commercio Terziario e servizi (18,5%). Il 34% degli intervistati dichiarava di avere un contratto a tempo indeterminato per il MiBACT.
Nel 2022 è stata ultimata una nuova indagine sulle condizioni di lavoro nel settore. Sul Manifesto del 18 gennaio del 2023 leggiamo che:
Al questionario ha risposto un campione di 2.526 persone: il 76,1% donne; oltre la metà ha almeno la laurea triennale (15,1%) o la specialistica (39,9%), un ulteriore 10% la scuola di specializzazione. Quindi soprattutto donne e altamente formate ma, come vedremo, costrette alla precarietà, con diritti scarsi e paghe da fame. Il campione è stato diviso in tre categorie: disoccupati non oltre un anno, lavoratori dipendenti e liberi professionisti. Nel primo ambito, la disoccupazione è dovuta nel 44% dei casi al mancato rinnovo del contratto. Il 20% ha scelto di cessare la collaborazione e un ulteriore 11,25% di non rinnovare il contratto. Negli ultimi casi i motivi sono ambienti ostili, salari bassi, mancanza di tutele o di prospettive. Il 68,7% del campione ha un impiego dipendente: il 30,21% in musei, il 16,2% in biblioteche, il 21,88% presso la Pa. Solo il 42% ha un contratto a tempo indeterminato, il 26,54% ha il tempo determinato. Da qui in poi le possibilità si moltiplicano tra stage, tirocini, Co.co.co., stagionali, apprendistato, interinale, a chiamata, a progetto, in nero. Solo il 6,1% ha il contratto di categoria, il federculture. Il 23,5% ha il multiservizi, il 3,3% i servizi fiduciari (dichiarato incostituzionale in più tribunali), il 12% il commercio, il 2,5 edilizia e così via. La conseguenza è che solo il 41% dichiara di svolgere mansioni che corrispondono a quelle del contratto. Un terzo del campione ha due o tre occupazioni. Perché? il 68,93% guadagna meno di 8 euro netti all’ora. Il 50,37% raggiunge meno di 10mila euro all’anno. Il 72,28% meno di 15mila. Autonomi. Il 23% lavora per coop o imprese, il 26,7 non ha un committente principale. Circa il 40% ha rapporti con ministeri, università, la Pa in genere, fondazioni o società partecipate, Associazioni. Il 61% è a Partita Iva e il 29% utilizza la ritenuta d’acconto. Per il 63,8% è una condizione obbligata e infatti il 75,47% non stabilisce la propria tariffa e il monte ore. Il 40,2% guadagna meno di 8 euro nette all’ora. Il 60,43% ha più di due collaborazioni. Il 55,88% guadagna meno di 10mila euro all’anno. Le condizioni nell’ambiente di lavoro sono simili indipendentemente dal tipo di inquadramento: il 39,97% ha subito mobbing o è stato vittima di atteggiamenti intimidatori da parte del datore di lavoro o dai colleghi. Il 39% durante i colloqui ha dovuto rispondere a domande sulla vita privata. Solo al 32% è stato garantito il congedo di maternità/paternità8.
A distanza di anni, quindi, non sembrano minimamente migliorate le condizioni di lavoro dei lavoratori dei beni culturali.
2.3 La formazione universitaria
Queste condizioni di lavoro obbligano a scegliere tra la sopravvivenza o accettare l’idea di dover lavorare per anni gratis. Di conseguenza viene innescato un meccanismo di selezione in base alla classe che allontana da determinati percorsi di laurea chi non può permettersi anni di precarietà.
Spesso le studentesse e gli studenti si sentono dire “metti in conto che per qualche anno dovrai lavorare gratis”, ed ecco che c’è una prima selezione, poco dopo i vent’anni: chi sa che non potrà farlo lascia il settore. Ma poi la selezione continua anno dopo anno, offerta di lavoro gratuito o sottopagato dopo offerta di lavoro gratuito o sottopagato. “No, non posso più stare a queste condizioni” o “non posso continuare a dipendere dai miei” si dice il neolaureato, ma anche chi ha qualche anno di lavoro alle spalle, o ancora “Se voglio diventare madre devo lasciare il settore”. Lavoro gratuito e sottopagato sono un problema per l’intero lavoro culturale, non solo per quello di cui noi ci siamo occupati: professioni tradizionalmente svolte dai ricchi nel tempo libero, con meccanismi escludenti che quindi tendono a riprodursi meccanicamente”9.
La formazione universitaria per accedere a queste professioni è molto complessa e lunga. Ad esempio, diventare un funzionario del ministero richiede almeno 7 anni di studio che comprendono una laurea triennale, una laurea magistrale e una scuola di specializzazione che è prevista solamente per archeologici e storici dell’arte, senza una corrispettivo in altre nazioni europee. Inoltre, diversamente dalla specializzazione medica, non è pagata e non è sufficiente per lavorare. Per questo motivo molti professionisti dei beni culturali proseguono gli studi con un dottorato che porta a 10 gli anni complessivi di studio.
Poi esistono delle differenziazioni dei percorsi di studio in base al riconoscimento da parte del ministero della propria professione. Ad esempio gli archivisti, riconosciuti dal ministero, hanno un chiaro percorso di laurea 3+2 da compiere per svolgere il proprio lavoro. I paleontologi o gli educatori museali non sono riconosciuti dal ministero e di conseguenza non hanno percorsi chiari da seguire per svolgere la propria professione. Questo li obbliga a conseguire un dottorato o svolgere percorsi d’istruzione di terzo livello a pagamento. Ci sono, infine, altre professioni che richiedono solamente un’abilitazione e possono essere svolte anche con un diploma. Parliamo delle guide turistiche e ambientali che diventano una valvola di sfogo per molti lavoratori del settore culturale espulsi dalla selezione classista.
Un ultimo punto sottolineato dal libro riguarda la creazione di percorsi di studio fondamentalmente inutili. Vengono portati gli esempi della laurea in turismo culturale che non consente di fare la guida ma neanche di accedere a posizioni manageriali nella promozione del turismo culturale. Oppure ci sono le alternative al dottorato rappresentate da costosi master di primo e secondo livello legati a professioni prive di riconoscimento ministeriale.
In conclusione, questo sistema per la formazione dei professionisti dei beni culturali comporta “una sistematica scomparsa, negli anni tra i 20 e i 40, di tutte le persone meno abbienti, prima durante il percorso che porta all’esercizio della professione e poi dopo aver raggiunto quel traguardo”10.
2.4 La discriminazione di genere
La precarietà non pesa per tutti allo stesso modo. Le donne sono maggiormente penalizzate perché più esposte al ricatto del precariato e a tutti gli ostacoli che genera per conciliare lavoro e maternità. Nel 2019 Mi Riconosci? organizza un questionario sulle discriminazioni di genere nel settore. Dai risultati emerge che il 60% si sente ostacolata nella carriera perché donna e il 55% ha assistito ad atteggiamenti sessisti e discriminatori sul luogo di lavoro. Oltre il 30% ha subito molestie sessuali fisiche e/o verbali ma chi le commette all’85% non ha subito conseguenze. Circa l’80% di chi ha subito molestie non ha denunciato l’autore, anzi, spesso le conseguenze di questi atti ricadono interamente sulle vittime, sia dal punto di vista del lavoro che della salute psicofisica.
3. Il problema delle fondazioni
Mi Riconosci? afferma che le fondazioni sono un’evoluzione del sistema delle esternalizzazioni perché consentono al privato di arrivare a controllare teatri o musei attraverso una dirigenza nominata dai soci. L’organizzazione assume una posizione molto critica rispetto alla riorganizzazione del Ministero dei Beni culturali e del Turismo tra il 2013 e il 2014. L’obiettivo, sostengono, è trasformare i grandi musei in fondazioni di partecipazione. Con i cambiamenti dell’allora ministro Franceschini avviene una separazione tra tutela e valorizzazione dei musei. Assistiamo alla nascita delle Soprintendenze unitarie che devono tutelare i musei e controllare i loro magazzini ma fuori dal loro raggio d’azione troviamo gli istituti dotati di autonomia e i poli museali. I primi arrivano a possedere un direttore selezionato tramite curriculum e colloquio ma, soprattutto, possono gestire in autonomia il 70% delle entrare contro il precedente 30%. I poli museali, invece, raccolgono tutti i musei statali non gestiti dalle Soprintendenze in ogni singola regione. Sono danneggiati da questi cambiamenti dal momento in cui perdono i finanziamenti strutturali che erano garantiti dalla condivisione dei fondi con gli istituti autonomi della propria regione. Questa trasformazione è dettata dalla necessità di controllare i flussi del turismo di massa da parte dei grandi musei e dei grani parchi archeologici. Mi Riconosci? sostiene che il modello adottato sia quello della gestione dei musei di Venezia. Nella città lagunare gli 11 musei civici sono gestiti da una fondazione partecipata al 100% dal comune e arriva ad accorpare realtà molto diverse che secondo l’organizzazione meriterebbero una gestione autonoma. L’accorpamento che abbiamo descritto non assomiglia alla creazione di una rete di istituti culturali. Si tratta di una subordinazione dei siti minori a quello principale che finisce per attirare la maggior parte delle risorse e dei flussi turistici. Viene portato l’esempio del Parco archeologico di Pompei.
Questo modello ha immediate conseguenze pratiche: mentre Pompei scoppia per un numero di turisti abnorme (+300 mila all’anno circa dal 2014), negli altri siti aperti al pubblico e accorpati al Parco archeologico di Pompei (Boscoreale, Oplontis, Stabia) il numero di visitatori è sostanzialmente stabile11.
4. Passiamo alle proposte: il Sistema Culturale Nazionale
Alla fine del libro, Mi Riconosci? propone una soluzione a tutti questi problemi, ovvero la creazione, sul modello del Servizio Sanitario Nazionale, del Sistema Culturale Nazionale (SCN).
L’obiettivo della proposta è coordinare le attività di tutti gli istituti e gli spazi culturali del paese per offrire a tutti i cittadini dei servizi culturali gratuiti e di qualità per garantire la crescita sociale e culturale della popolazione. La cultura, di conseguenza, assume la forma di un diritto da garantire a tutti e per riuscire in questo scopo devono essere fissati degli standard minimi e dei livelli essenziali che ogni realtà del SCN dovrà rispettare. Questi requisiti riguardano le professionalità minime impiegate, la regolamentazione del lavoro volontario, del lavoro dei tirocinanti oppure la garanzia sulla tutela, la catalogazione e la ricerca. Inoltre deve essere organizzato un sistema di accreditamento per gli enti non statali che dovranno rispettare questi standard per accedere alle risorse del SCN.
Viene messo in secondo piano lo sfruttamento economico legato al turismo perché vengono individuati nei cittadini i principali fruitori del patrimonio culturale italiano. Il SCN dovrà essere sostenuto dalle tasse dei contribuenti italiani come avviene per la scuola e la sanità e non con i biglietti. In questo modo verrà creato un Fondo Unico per il Sistema Culturale Nazionale rinnovato ogni anno in base alle esigenze del sistema. Il fondo aiuterà anche i lavoratori autonomi accreditati nei momenti di disoccupazione.
5. Conclusioni
Il libro offre la possibilità di approfondire molte questioni estremamente attuali. Innanzitutto, l’estrema precarietà che contraddistingue il settore non è confinato, nel vasto mondo del pubblico impiego, ai soli beni culturali. Recentemente sono balzate alla cronaca le storie di docenti precari della scuola pubblica italiana che non ricevono alcuno stipendio da settembre. Oppure le storie dei lavoratori interinali dei nostri tribunali che spesso si occupano dei rinnovi dei permessi di soggiorno12. Si tratta di una tipologia di rapporto di lavoro che è sinonimo di precarietà e che potrebbe conquistare spazio nella pubblica amministrazione anche grazie al PNRR13. In definitiva, il settore dei beni culturali ha fatto da apripista a tutta una serie di cambiamenti peggiorativi nel pubblico impiego. In secondo luogo, questo libro ci interroga sul turismo e come questo settore economico trasforma il nostro territorio. Si tratta di una questione facilmente intersecabile con il declino economico del paese e con i processi di gentrificazione delle nostre città che sicuramente approfondiremo in altra sede.
- Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, p.10 ↩︎
- Ivi, p.18 ↩︎
- Ivi, p.21 ↩︎
- Ivi, p.37 ↩︎
- Ivi, p.50 ↩︎
- Ivi, p.42 ↩︎
- Ivi, p.45 ↩︎
- Beni culturali, l’associazione Mi riconosci: «Precari, sotto pagati e senza diritti, solo il 6% ha il contratto di categoria», https://ilmanifesto.it/beni-culturali-lassociazione-mi-riconosci-precari-sotto-pagati-e-senza-diritti-solo-il-6-ha-il-contratto-di-categoria, Il Manifesto 18/01/2023 ↩︎
- Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp.55-56 ↩︎
- Ivi, p.58 ↩︎
- Ivi, p.74 ↩︎
- In fila dall’alba davanti alla Questura. A Roma accoglienza in tilt, https://ilmanifesto.it/in-fila-dallalba-davanti-alla-questura-a-roma-accoglienza-in-tilt, Il Manifesto 23/12/2023 ↩︎
- Pnrr, per la Pubblica amministrazione il governo pensa agli interinali. Ecco perché il ricorso alla somministrazione è un’illusione, https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/04/11/pnrr-per-la-pubblica-amministrazione-il-governo-pensa-agli-interinali-ecco-perche-il-ricorso-alla-somministrazione-e-unillusione/7122830/, Il Fatto Quotidiano 11/04/2023 ↩︎