Paolo Cinanni e l’analisi marxista del fenomeno migratorio

  1. Introduzione

Paolo Cinanni, operaio calabrese, partigiano e dirigente del PCI, nel suo classico Emigrazione e imperialismo prova ad esporre una teoria marxista dei processi migratori. La motivazione dietro questi studi viene dallo sviluppo di questi fenomeni nel mondo in proporzioni sempre più vaste che impongono di indagare le loro cause e le connessioni tra fenomeni migratori e sviluppo economico. Cinanni si concentra sui problemi dei paesi e delle zone d’emigrazione, sugli interessi degli emigranti e sulla possibilità di unire le loro lotte con quelle del resto del proletariato, andando oltre qualsiasi distinzione di professione e nazionalità. L’emigrazione dei lavoratori, partendo dalla definizione di Marx del lavoratore come portatore vivente di capacità di lavoro, è un trasferimento di capacità di lavoro da una regione all’altra del mondo capitalista che riduce le capacità produttive dei paesi e delle zone d’emigrazione e aumenta quelle delle zone e dei paesi d’immigrazione. L’emigrazione all’estero finisce per produrre la fuoriuscita del lavoro dal sistema che l’ha prodotto, con conseguente rinuncia di specifici diritti di cui gode nel proprio paese e nella comunità a cui appartiene, e l’entrata nel sistema del paese d’immigrazione in cui è solamente un portatore di capacità di lavoro. Se è fortunato nel rapporto di lavoro avrà riconosciuta la parità salariale ma incontrerà comunque degli ostacoli nella possibilità di usufruire dei diritti e dei servizi sociali e civili di cui gode pienamente l’operaio locale con la propria famiglia che tendenzialmente lo vedrà non come un membro della sua stessa classe sfruttata ma come un concorrente. In questo modo viene indebolita l’unità del proletariato. Cinanni sostiene che i processi migratori indeboliscano anche l’iniziativa proletaria nelle zone d’emigrazione, dove viene meno la possibilità di adottare quelle misure di equilibrio necessarie a tamponare l’emigrazione e senza le quali aumenterà ancora di più questo esodo verso altre terre e il generale decadimento di questi territori. Allo stesso tempo, i paesi e le regioni d’immigrazione potranno avvantaggiarsi di forza lavoro supplementare prodotta da altri sistemi, risparmiando sulla spesa della loro formazione e aumentando il proprio saggio di accumulazione capitalistica, accorciando anche i tempi della sua espansione. Il fenomeno migratorio analizzato dall’autore, che scrive il libro alla fine degli anni ‘60, nasce a partire dalla rivoluzione industriale del XIX secolo che vede uno stretto legame tra afflusso dei lavoratori stranieri e processi di industrializzazione dei paesi d’immigrazione. Questo spiega la trasformazione negli anni ‘50 e ‘60 dei paesi del bacino del Mediterraneo in serbatoio per alimentare il mercato del lavoro dell’Europa industriale assieme alle migrazioni interne. Un’altra motivazione risiede nella decrescita, nelle società industrializzate, del tasso di natalità e, per mantenere il ritmo di sviluppo imposto dal modo di produzione capitalistico, c’è bisogno di compensare il minor numero di figli con l’immigrazione dei lavoratori da altri paesi che hanno a disposizione enormi masse di disoccupati e sottoccupati da trasformare in forza lavoro supplementare e funzionale al proprio sviluppo. Questa forza lavoro viene impiegata principalmente nei lavori meno qualificati. All’epoca ancora esisteva una gerarchizzazione del mercato del lavoro in base alla razza che riservava esclusivamente agli immigrati i lavori più sfruttati e gravosi. Un simile meccanismo per Cinanni si riflette inevitabilmente nell’ostilità degli immigrati nei confronti dei paesi di arrivo e per questa via giunge ai rapporti tra i paesi progrediti e sottosviluppati, configurando un rapporto di sfruttamento dei secondi da parte dei primi. Da questo ragionamento viene la proposta comunista di cessare lo sfruttamento delle risorse materiali e umane del fu Terzo Mondo da parte del Primo e sul fronte del lavoro migrante questo si traduce nella restituzione a questi lavoratori del superprofitto realizzato sulla loro pelle che si salda ad una lotta per la sua integrazione nel paese d’immigrazione, per la conquista di un nuovo potere contrattuale e una migliore tutela del proprio lavoro. Infine, per Cinanni l’emigrazione non deve essere più vissuta come un dramma. Dal momento in cui il progresso della produzione porta all’esigenza di una manodopera sempre più mobile e l’ineguale sviluppo dei sistemi economici è un dato oggettivo, si tratta della prima causa dietro i processi migratori, bisogna impedire che il sistema più forte utilizzi l’immigrazione per accentuare gli squilibri esistenti. Per questo motivo serve stabilire un giusto compenso per la mobilità della forza lavoro da un sistema all’altro e garantire al migrante un regime di vita normale.

2. Gli svantaggi dell’immigrazione

All’epoca in cui Cinanni scrisse il libro l’Italia era un tipico paese di emigrazione di lavoratori e in alcuni momenti della sua storia questo fenomeno assunse anche la dimensione di un processo patologico dipendente dai problemi della sua formazione come nazione e del suo sviluppo. L’economia italiana si trova per questo motivo in una posizione di doppio svantaggio rispetto alle economie che importano la forza lavoro formata all’estero per trarne il massimo profitto. Il primo svantaggio riguarda i guasti prodotti dall’esodo nelle regioni di emigrazione che non sono compensati dai vantaggi ottenuti dalle regioni di immigrazione. Il problema più grave, però, riguarda il piano nazionale dove l’emigrazione aumenta il divario tra l’Italia Settentrionale ricca, sviluppata e importatrice di forza lavoro e l’Italia Meridionale povera, arretrata ed esportatrice di forza lavoro. Questo divario nasce con la formazione dello Stato italiano dal momento in cui i preesistenti rapporti di produzione, diversificati in ogni regione, non sono stati unificati e adeguati allo sviluppo delle forze produttive da una rivoluzione sociale che è mancata. Qui trova la sua origine la questione agraria di cui, per Cinanni, la questione meridionale non è che un aspetto. Ad essere mancata è la distribuzione delle terre ai contadini che è stata sostituita dall’accentramento della proprietà fondiaria in poche mani capace di deformare il naturale processo di sviluppo delle campagne italiane influenzando in questo modo il ritardo o l’impedimento del parallelo sviluppo del processo di industrializzazione e di conseguenza la possibilità di assorbire progressivamente la forza lavoro liberata dalla trasformazione dell’agricoltura. L’arretratezza feudale ha prodotto ostacoli tali da impedire l’accumulazione originaria e qualsiasi processo di trasformazione. Di conseguenza, i contadini, privati della possibilità di impiego che avrebbero dovuto creare le classi dirigenti, sono stati costretti a trovare i loro mezzi di vita altrove. In una situazione normale si avrebbe una situazione in cui l’emigrazione si lega al processo di industrializzazione. L’accentramento delle forze produttive nelle zone in cui si sta sviluppando l’industria richiama la forza lavoro liberata dalle trasformazioni delle campagne. Con uno sviluppo equilibrato di questo tipo si arriva al momento in cui le forze lasciate libere dalla campagna non sono più sufficienti per soddisfare le richieste sempre maggiori del settore industriale e allora si genera la necessità di importare e impiegare forza lavoro straniera. Questo mutamento permette all’economia che impiega questa forza lavoro di ottenere un saggio di accumulazione elevato, grazie al risparmio sulla sua formazione, e determina ritmi di sviluppo accelerati che portano questa economia a differenziarsi e acquisire una posizione dominante rispetto alle altre. La conclusione che ne trae Cinanni è che l’emigrazione secolare dall’Italia ha contribuito all’arricchimento e alla conquista di posizioni di dominio da parte delle economie più forti del mondo. Questa conclusione teorica prenda la forma di un totale di espatriati dall’Italia che nell’ultimo secolo, a partire ovviamente dalla fine degli anni ‘60, ha eguagliato l’intera popolazione italiana censita a partire dal primo anno di vita del nostro paese e allo stesso tempo è stato pari ai tre quarti dell’incremento naturale registrato nel secolo preso in considerazione. I bilanci annuali della popolazione italiana residente registrano un saldo migratorio attivo soltanto in 18 anni su centro che coincidono con gli anni dei due conflitti mondiali e con i primi anni dell’unità nazionale fino al 1869. Pur calcolando i rimpatri di alcuni dei migranti, nel secolo preso in considerazione il saldo migratorio è passivo di 7 milioni e 880 mila unità. Di questi migranti la maggior parte sono uomini, infatti il rapporto tra maschi e femmine passa da 100,5 uomini ogni 100 donne del 1881 a 96 ogni 100 del 1961.Si tratta di un danno economico notevole sofferto dall’Italia che ha contribuito allo sviluppo di altri paesi mentre alcune sue regioni venivano sconvolte da questo esodo che produce assenza di sviluppo a causa del mancato impiego in loco delle forze creative dei migranti per avanzare sulla via del progresso e dello sviluppo. Questa via ora rischia di essere preclusa a causa della fuga disordinata delle forze produttive. L’esodo produce anche un degrado della vita politica delle regioni di partenza, prevalentemente dell’Italia Meridionale, con il conseguente ritorno delle antiche tradizioni del trasformismo e del clientelismo. Il Mezzogiorno, come hanno dimostrato le lotte contadine nel dopoguerra, poteva essere una componente vitale della rivoluzione democratica del paese ma il ritorno delle forze corrotte, corruttrici e trasformiste hanno portato alla rovina questa porzione di Italia aggravando la questione meridionale. Davanti all’esodo dei meridionali Cinanni propone la necessità di interventi politici per arrestare e invertire questo processo con la creazione di posti di lavoro al Sud. Bisogna rifiutare il destino che assegna ai lavoratori meridionali la funzione di bacino di riserva permanente dello sviluppo delle industrie dell’Italia Settentrionale ed europee e la prospettiva di uno sviluppo coloniale, allora molto pressante, basato sull’esportazione di prodotti agricoli, semilavorati agricoli e materie prime per l’industria del Nord. Allo stesso tempo non era e non è accettabile una prospettiva, come quella paventata dal professor Saraceno, di una vita basata sull’assistenza sociale come alternativa allo sviluppo produttivo del Mezzogiorno. Quello che allora volevano i comunisti era un diverso orientamento delle industrie del Nord in modo che il loro sviluppo non fosse basato sul saccheggio delle risorse umane e materiali del Mezzogiorno ma sulla compatibilità con lo sviluppo industriale del Sud. Un caso particolare per analizzare l’impatto dell’emigrazione sul Sud Italia è rappresentato dalla Calabria dove essa ha prodotto un quadro decisamente desolante fatto di campi deserti, assenza di braccia per coltivarli, salari aumentati ma in maniera insostenibile per i piccoli proprietari che, non riuscendo a pagarli, sono destinati a cadere nella miseria e sparire. I grossi proprietari, invece, mettono a pascolo le terre e tornano al latifondo e all’agricoltura estensiva. Addirittura vengono tagliati gli alberi d’ulivo per venderli come legname. Nell’ambito dell’esodo che ha prodotto tutto ciò, nel secolo analizzato da Cinanni, la Calabria ha il primato. Dalle 902 persone espatriate in cerca di lavoro nel 1876 si passa alle 62.290 unità del 1905, il record annuale registrato nel trentennio preso in considerazione. Il totale degli espatriati invece è di 478.146 unità, con una media annuale di 15938. Solamente nel decennio 1896-1905 gli espatri raggiungono quota 293000 su una popolazione che il censimento 1901 stabiliva essere di un 1 milione e 370 mila abitanti. Gli emigranti di questo primo trentennio, in breve, sono superiori al terzo della popolazione totale. L’esodo incontrollato ha interessato diversi settori economici della regione. Il 60,3% degli emigranti erano contadini, il 15,3% braccianti, l’8,9% artigiani, l’1,7% muratori, il 3,1% domestici e nutrici e lo 0,7% appartenevano ad altre professioni. L’emigrazione calabrese di questa fase è transoceanica e a tempo indefinito. L’80% di questi emigranti è composto da forza lavoro maschile e per il 91,7% è diretto verso le Americhe di cui gli USA hanno assorbito da soli il 40% del totale. La regione attira l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale con il terremoto del 1905 che, dopo la promozione di una serie di inchieste sulla situazione della Calabria, porta all’approvazione della legge speciale del 25 giugno 1906. Questa data apre il secondo periodo dell’emigrazione calabrese. La legge, non affrontando i problemi di struttura, ha prodotto solamente interventi settoriali senza produrre mutamenti sostanziali nella regione. Il secondo trentennio che va dal 1906 al 1935 vede l’emigrazione calabrese aumentare del 38% nonostante la Prima guerra mondiale e la crisi del 1929. Ovviamente, in occasione del conflitto, tende a diminuire per poi riprendere con maggiore virulenza subito dopo. La media annuale degli espatri è di 22.023 unità con un totale nel trentennio preso in considerazione di 660.714 unità. Il secondo trentennio va dal 1936 al 1965 e in mezzo troviamo la Seconda guerra mondiale e una serie di stravolgimenti politici che hanno investito l’Italia molto importanti oltre alle lotte sociali per la terra che hanno strappato alle classi dirigenti italiane una prima forma di riforma agraria. Tuttavia la riforma resta solo abbozzata e non ha la forza di modificare i rapporti di produzione e il panorama economico-sociale della regione. Non a caso il fenomeno migratorio riprende dopo la guerra e si fa più intenso durante il miracolo economico e nel primo decennio di applicazione della seconda legge speciale per la Calabria del 26 novembre 1955. Nel novantennio analizzato la cifra totale degli espatriati è di 1 milione e 915 mila unità. Si tratta di una cifra approssimata per difetto non avendo a disposizione statistiche sull’emigrazione complete. Questi risultati sono figli di una mancata riforma agraria che ha impedito l’emergere di nuove energie produttive che sarebbero state capaci di trasformare la terra e costruire il nuovo mercato di consumo capace di promuovere il processo di industrializzazione. La concorrenza dell’industria del Nord, più forte, ha avuto gioco facile della debole industria meridionale, facendola fuori dal mercato e distruggendo il vecchio equilibrio produttivo delle regioni. In questo modo si è determinato un processo di decadenza e regresso che ha eliminato ogni alternativa all’emigrazione della forza lavoro. Una grossa responsabilità è della classe dirigente meridionale che non ha saputo sviluppare le forze produttive nella propria terra e non ha saputo difendere l’economia meridionale dalle politiche del governo centrale contro le regioni più povere d’Italia. L’esempio più eclatante di tutto ciò è la politica doganale del 1887-1898 che fece fallire i primi processi di trasformazione delle colture distruggendo l’agricoltura meridionale mentre il protezionismo industriale faceva aumentare i costi dei beni strumentali e di consumo prodotti al Nord che servivano all’agricoltura e alle popolazioni meridionali, aggravando, di conseguenza, i precedenti squilibri.

3. I vantaggi dell’emigrazione

Con la nascita della Comunità economica europea, soprattutto dopo il 1956, il fenomeno migratorio italiano cambia profondamente. Smettono di essere battute le tradizionali rotte transoceaniche per fare posto alle migrazioni verso altri paesi europei industrializzati come la Germania dell’Ovest che, a partire dal 1957, inizierà a fare abbondante uso del mercato del lavoro europea. Infatti si stava formando nell’area centrale e nord-occidentale del continente europeo un vasto centro di attrazione per la manodopera dei paesi sottosviluppati che si andava ad affiancare ai tradizionali centri dell’America e dell’Oceania. Per Cinanni, quindi, la nascita della Comunità economica europea non faceva altro che rafforzare una tendenza già in atto. In questo contesto interviene il Trattato di Roma con l’unificazione del mercato della forza lavoro che sostituisce i precedenti accordi bilaterali che permettevano condizioni preferenziali o discriminatorie con il principio generale della libera circolazione utile per aprire ai lavoratori dei paesi membri il libero accesso all’occupazione nei paesi membri della Comunità. Questo trattato, tuttavia, si ferma alla superficie senza preoccuparsi di essere conseguente con i principi enunciati. Cinanni, ad esempio, contesta il parlare di mercato del lavoro comunitario senza discutere del costo e della remunerazione della forza lavoro. I termini dello scambio sono lasciati nel vago di una promessa di regolamentazione basata sulla completa parità di trattamento. In assenza di questo elemento l’adozione della libera circolazione della forza lavoro e l’unificazione del mercato della forza lavoro europea ha come scopo colmare le carenze di manodopera nei paesi europei industrializzati e impedire ai salari locali di aumentare eccessivamente, come sarebbe accaduto nel caso in cui fosse stata disponibile per le imprese solamente la forza lavoro locale. La libera circolazione dei lavoratori, infatti, si dimostra essere a senso unico. Parte dal bacino del Mediterraneo e si dirama verso Nord. In questo modo si alimenta lo sviluppo a buon mercato dei paesi dell’Europa Centrale e Settentrionale mentre si aggravano gli squilibri tra zone d’immigrazione e di emigrazione tramite l’alta concentrazione di industrie nelle prime e il degrado economico e civile nelle seconde.

Tra i paesi in cui si concentra in Europa l’emigrazione italiana che Cinanni analizza ci sono la Francia, la Germania dell’Ovest, i paesi del Benelux, la Svizzera e gli USA. Il primo è un tipico paese d’immigrazione. Sino al 1939 era l’unico paese europeo ad avere questa caratteristica e ad avere utilizzato da almeno inizio Ottocento con continuità la forza lavoro straniera. I motivi dietro questa situazione sono due. Il primo è di ordine demografico a causa della bassa natalità del paese e di conseguenza della necessità di ringiovanire la propria popolazione. Il secondo è di ordine economico date le necessità di uno sviluppo industriale che, attraverso i suoi centri più dinamici del settore del carbone e dell’acciaio, attraeva nel paese la forza lavoro migrante. Non si possono separare le cause demografiche da quelle economiche. Si tratta di un fenomeno unico dove alcuni aspetti, di volta in volta, possono prevalere su altri ma rimane costante la problematica demografica visto che la Francia era nel 1800 la seconda nazione d’Europa per passare, nel 1910, ad essere la settima nazione del continente. L’immigrazione è un dato permanente. Infatti, anche nell’epoca in cui scrisse il libro Cinanni, il paese prevedeva l’arrivo, tramite il quinto Piano quinquennale francese, di 180.000 lavoratori stranieri ogni anno da impiegare nei nuovi posti di lavoro creati nell’industria e nei servizi stimati in 935.000. Allo stesso tempo era prevista una disoccupazione frizionale di 300.000 unità a fronte di un’immigrazione netta di 325.000 unità, un esodo agricolo che fornirà 585.000 unità di forza lavoro e un incremento naturale francese di 325.000 unità. Da questi dati emerge che l’aumento naturale della popolazione equivale all’immigrazione di forza lavoro e alla disoccupazione frizionale. Questi dati fanno trarre una conclusione a Cinanni: la funzione assegnata dall’economia dei monopoli all’immigrazione è assicurare un’aliquota di disoccupazione essenziale per contenere il livello generale dei salari. Questo fa scattare il risentimento della classe operaia francese verso i lavoratori stranieri a cui addebitano ciò di cui sono in realtà vittime. Chiarendo questi fenomeni è possibile giungere ad una ricomposizione dell’unità della classe operaia, con il rafforzamento del suo potere contrattuale come precondizione essenziale per impedire che il vantaggio dell’immigrazione della forza lavora vada esclusivamente ai padroni a danno di tutti i lavoratori, indipendentemente dai lavoratori stranieri e nazionali. La subordinazione dei processi migratori agli interessi del capitale è lampante a partire dall’analisi delle cifre annuali dei flussi dei lavoratori stranieri in Francia che rispecchiano l’andamento dell’economia francese. I numeri sono elevati nei momenti di ripresa dell’economia francese, come al termine della guerra, per poi adeguarsi alla congiuntura economica generale e alla situazione dei vari settori produttivi con pesanti variazioni da un anno all’altro. Durante la ricostruzione post-bellica, tra il 1946 e il 1949, la Francia assorbe in 4 anni 289.012 lavoratori stranieri con una media annuale di 72.253 unità. Il successivo periodo di assestamento vede un rallentamento dell’incremento produttivo e dal 1950 al 1955 i migranti assorbiti sono 285.690 unità con una media annuale di 47.615 unità all’anno. Nel biennio 1956-1957, per sostituire gli uomini impegnati nella guerra d’Algeria, la Francia apre le porte a 177.121 lavoratori stranieri in due anni. Nel solo 1958, con una congiuntura economica favorevole, vengono assorbiti 82.818 unità. Per fare fronte al pericolo dell’inflazione, invece, nel biennio 1959-1960 l’immigrazione viene di colpo dimezzata. Nel quinquennio 1960-1964, la stabilità raggiunta e la ripresa economica conseguente, porta all’arrivo in Francia di 1.034.235 lavoratori stranieri con una media annuale di 206.847 unità. Le porte del paese, in breve, si aprono ai migranti in base alle esigenze dell’economia importatrice ignorando quelle degli emigranti. Una conferma ci viene data dai periodi di crisi, come quella del 1930-1931, quando, per tutelare la manodopera nazionale, vennero rispediti nei loro paesi d’origine i lavoratori stranieri organizzando i treni e pagando con la casse pubbliche il viaggio di ritorno. Per quanto riguarda le condizioni di lavoro, i lavoratori migranti sono relegati alle attività più insalubri, pericolose e meno remunerative. Sono tutti mestieri in cui si esige molta prestanza fisica e poca qualificazione professionale e che sono evitati dai lavoratori nazionali. A questa condizioni di partenza bisogna sommare le prepotenze da parte di imprenditori senza scrupoli che violano sistematicamente la legislazione del lavoro, i contratti collettivi e non rispettano le tariffe salariali e gli orari di lavoro. Inoltre, il lavoratore è sotto minaccia del licenziamento e dell’espulsione. Tutto ciò è particolarmente vero per i lavoratori clandestini, arrivati in Francia come turisti e che hanno scelto di rimanere nel paese, senza neanche passare per gli uffici di lavori. Questi lavoratori trovano un clima ostile impregnato di razzismo che li colpisce con le più odiose delle discriminazioni. Non è troppo diverso il trattamento ricevuto dai lavoratori dei paesi della CEE che possono far valere i loro diritti solo in caso di ricorso al magistrato. Il trattamento sociale dei migranti non è migliore. Essi pagano i contributi assicurativi come tutti gli altri ma le prestazioni di cui godono sono limitate dal periodo di validità della carta di soggiorno. Oppure gli assegni familiari per le famiglie rimaste nel loro paese hanno sempre un importo inferiore a quello dei loro colleghi francesi. I lavoratori italiani, dentro questo quadro, occupano una posizione particolare. Già nel 1886 i lavoratori italiani raggiungevano quota 264.000 unità e rappresentavano il 23% dell’intera immigrazione straniera. Sono concentrati prevalentemente nelle regioni confinanti con l’Italia ma dal 1913 venne creato un servizio di reclutamento di manodopera nel nostro paese che porterà i lavoratori italiani anche nelle regioni dell’est. I migranti italiani, da questo momento, iniziano a crescere costantemente fino ad arrivare a quota 808.000 nel 1931 diventando il gruppo nazionale d’immigrati più numeroso di Francia di cui rappresentava il 30% del totale dei lavoratori migranti. L’emigrazione italiana in Francia è un buon esempio di maturità sociale e politica del lavoro migrante. Alla fine dell’Ottocento, nell’ambito del Congresso socialista internazionale di Bruxelles, veniva fatto notare come i poveri operai italiani stavano svolgendo nell’economia mondiale il ruolo umiliante di contenitori di salario e turbatori di scioperi nei paesi dove emigravano, creando dei problemi alle organizzazioni socialiste dei paesi di arrivo. Bisognava sindacalizzare questa forza lavoro per impedire che rimanesse nel ruolo di massa sfruttata sempre a disposizione degli imprenditori. I socialisti italiani risposero a questa sfida intensificando la propaganda nelle regioni di partenza dei migranti e approvando una mozione che obbligava gli operai ad iscriversi ai sindacati di mestiere dei paesi in cui emigravano. Tutto ciò contribuì all’aumento delle adesioni dei lavoratori italiani ai sindacati rossi in Francia, come quelli dei dockers a Marsiglia o dei metallurgici a Longwy che erano quasi interamente composti da italiani e gli agitatori italiani furono decisivi per il successo degli scioperi indetti dagli anni ‘10 del Novecento. Si realizzava così il vecchio auspicio di Jules Guesde sull’immigrazione che da strumento di divisione e di contrasto stava diventando, in questo modo, un modo per affratellare i lavoratori di diversi paesi. Per quanto riguarda la Germania dell’Ovest, rispetto alla Francia dove l’accento venne posto sulla crescita demografica, l’immigrazione era vista soprattutto dal lato dei vantaggi prodotti in termini di aumento della produttività. Cinanni, infatti, sostiene che il miracolo tedesco debba molto all’immigrazione che nella Germania Occidentale è di due tipologie: immigrazione politica e immigrazione economica della forza lavoro. La prima nasce con gli spostamenti di popolazione tedesca dai territori di Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria a quelli interni ai confini delle due Germanie che sono stati tracciati dagli accordi di Potsdam del 1945. Saranno in totale 9 milioni e mezzo i tedeschi espulsi. 5 milioni e 948 mila di essi finiranno nelle zone di occupazione inglese, americana e francese mentre 3 milioni e 602 mila finiranno in quella sovietica. Nel 1957 questi dati sono modificati dai successivi rientri e spostamenti interzonali. Nella Germania Occidentale gli immigrati tra espulsi e rifugiati raggiungeranno quota 12 milioni 177 mila, con un aumento della popolazione del 30% mentre nella Germania Orientale saranno, alla fine del 1956, 4 milioni e 300 mila, con un aumento della popolazione del 25%. L’afflusso di questa popolazione nella Germania Occidentale, con un apparato produttivo a pezzi, rende la situazione del paese molto drammatica. Tuttavia questa nuova popolazione rappresenta anche una della cause principali dietro la ripresa economica del paese grazie al loro apporto di lavoro e alla pressione esercitata sul mercato del lavoro. A ciò bisogna aggiungere il ruolo giocato dalle potenze occupanti. Su questo punto Cinanni cita il mancato rispetto di quella parte degli accordi Yalta che prevedevano lo smantellamento delle industrie belliche della Germania e il pagamento in natura delle riparazioni di guerra tramite la confisca di fabbriche, macchinari, navi… La motivazione dietro il mancato rispetto degli accordi viene data dalla presenza di così tanti rifugiati nel paese senza un’occupazione. Così, nel 1947, la Germania Occidentale è il primo paese a ricevere gli aiuti finanziari americani e vede ridursi il divieto della ripresa della produzione dell’industria pesante. Questa ripresa è resa possibile sfruttando i rifugiati e le loro condizioni disperate. Senza la loro presenza la Germania Occidentale avrebbe avuto seri problemi a tappare il vuoto creato dalla guerra per quanto riguarda la penuria di manodopera. I rifugiati, inoltre, non solo colmano questo vuoto ma creano una sovrabbondanza di forza lavoro. Nel 1939 i territori della Germania Occidentale ospitavano 39 milioni e 350 mila tedeschi. Nel 1950, grazie ai rifugiati, la popolazione era già a quota 47 milioni e 696 mila, con un aumento del 21,2% rispetto al 1939. Questa abbondanza di forza lavoro venne sfruttata per comprimere i salari e soddisfare le esigenze dei padroni tedeschi. Il governo non si preoccupava minimamente delle disparità di trattamento e dello stato di inferiorità sociale e professionale in cui riversava la popolazione di rifugiati. Veniva assecondata una politica di bassi salari che portava alla crescita di quella parte di reddito nazionale indirizzata unicamente al capitale a danno del lavoro. Per esempio, la politica fiscale tedesca consisteva, con la scusa di stornare dai consumi e indirizzare la maggior parte del reddito nazionale verso gli investimenti, nel supertassare i salari e sgravare i profitti. Ad aiutare l’accumulazione del capitalismo tedesco non c’erano soltanto queste politiche governative ma anche la possibilità di impiegare della forza lavoro che, oltre ad allargare il mercato interno, non aveva formato direttamente lo Stato tedesco. Il risparmio sulle spese di formazione eleva il saggio di produttività e di accumulazione e di conseguenza incrementa gli investimenti della Germania Occidentale. Dopo il 1957 si esaurisce la fonte dell’immigrazione interna costringendo il capitalismo tedesco, per soddisfare le proprie accresciute necessità, ad attingere all’immigrazione straniera. Diversamente dai rifugiati, questi migranti economici non parlano tedesco e non portano con sé la propria famiglia. Sono solo forze produttive che aumentano la percentuale di popolazione attiva e la produttività generale del sistema. L’unico motivo dietro l’incoraggiamento dell’immigrazione è l’enorme vantaggio apportato all’economia tedesca. Gli immigrati servono unicamente all’espansione economica e in caso di difficoltà possono essere rimandati nel proprio paese scegliendo di non rinnovare il loro contratto di lavoro. Infatti, la precauzione presa dai padroni e dal governo tedesco è molto semplice: i contratti dei lavoratori migranti devono durare un anno. Come in altri paesi, i migranti in Germania sono confinati nei lavori più pesanti che i tedeschi non vogliono fare. Per quanto riguarda i lavoratori italiani, al momento della scrittura del libro essi sono il gruppo nazionale di immigrati provenienti dalla CEE più numeroso rappresentando circa il 30% del complesso dell’immigrazione straniera in Germania. La loro presenza inizia ad essere rilevante a partire dal 1955 quando erano in circa 7000. In quell’anno venne anche firmato il primo accordo diplomatico per disciplinare la nostra immigrazione nel paese, cosa che fece aumentare la presenza italiana in Germania. Nel 1959 si giunge a quota 50.000 su un totale di lavoratori migranti di 167 mila. Nel 1960 si passa a quota 143 mila e nel 1965 a 204 mila unità. Dal 1956 al 1966 i nostri migranti nella Germania Occidentale hanno raggiunto la cifra di 1 milione e 175 mila unità. La media annuale è di 100 mila unità ma bisogna tenere conto anche dei numerosi rimpatri che fanno sì che nel 1964 gli italiani in Germania fossero solo 299.378. La forza lavoro migrante, come dichiarato dai padroni tedeschi nel 1957, ha apportato all’economia tedesca un 15-20 per cento in più di produttività consentendo una più elevata accumulazione di capitali di investimento. Questo dimostra come l’immigrazione di manodopera straniera sia una delle particolarità distintive delle economie imperialiste. Occorre, dice Cinanni, accettare il discorso imposto dai padroni tedeschi per svelarne tutta la reale portata economica del fenomeno migratorio. L’immigrazione infatti non è altro che il trasferimento di forze produttive e di nuova ricchezza che il salario normale non compensa. Questa affermazione è facilmente dimostrabile. Qualore l’economia tedesca volesse un altro milione di lavoratori tedeschi per il proprio processo produttivo, dovrà attendere dai 15 ai 20 anni perché deve passare il tempo necessario al loro allevamento e alla loro formazione, sostenendo tutte le spese legate a questo processo. La Germania può risparmiare su un simile investimento importando manodopera da altri paesi e in questo modo lascia ai paesi di origine le spese per allevamento e formazione. Qui ha origine l’aumento di produttività prodotto dai migranti di cui parlano i padroni tedeschi e su queste basi nasce la rivendicazione dei lavoratori stranieri di un’indennità compensativa delle spese di allevamento e formazione sostenute dallo Stato di origine. Senza questo riconoscimento la stessa forza lavoro autoctona viene svalutata e il lavoratore migrante finisce per essere inteso come una forma di concorrenza sleale. L’esigenza, legata al progresso e all’espansione economica, di una nazione di importare forza lavoro migrante non deve portare alla spoliazione delle economie che hanno prodotto questa forza lavoro. Perciò è necessario un compenso del loro valore.

Un ultimo caso analizzato da Cinanni prima di passare alle conclusioni teoriche è rappresentato dagli USA. All’epoca della scrittura di questo libro, rappresentavano l’imperialismo più dinamico e prepotente. Alla base della sua straordinaria crescita economica e demografica c’era il fenomeno immigratorio, inizialmente sotto la forma della tratta degli schiavi provenienti dall’Africa e in seguito attraverso i flussi migratori provenienti dall’Europa. Per quanto riguarda il contributo offerto dagli schiavi, esso si concentra prevalentemente nel settore agricolo attraverso il dissodamento di vasti territori che permise la formazione di grandi aziende agricole essenziali per lo sviluppo economico americano. Per Cinanni la disponibilità del lavoro schiavista a basso costo, con i suoi effetti sulla determinazione dei livelli salariali del lavoro libero e sul saggio di riproduzione del capitale, è paragonabile alla presenza dei milioni di profughi in Germania alla fine della guerra. Tuttavia il contributo decisivo per popolare tutto il territorio americano e permettere la piena valorizzazione delle sue risorse naturali è stato fornito dai lavoratori europei che passano da 100.000 migranti l’anno del decennio 1830-1840 ad una media annua di 700.000 nel primo decennio del XX secolo. Dei 36.970.000 migranti negli USA del periodo 1851-1950, 31.180.000, cioè l’84,3%, provengono dai paesi europei e sono per la maggior parte forza lavoro giovane, formata e pronta per essere sfruttata dal processo produttivo americano. Ciò ha avuto effetti notevoli in campo economico e demografico, gettando le basi per l’espansione economica americana e l’ascesa degli USA come potenza mondiale attraverso l’estrazione di un superprofitto utile per ottenere un saggio di accumulazione di capitale eccezionale che trova la sua origine nel mancato costo pagato dagli USA per la formazione di questa forza lavoro. Per rendersi meglio conto del legame tra immigrazione e crescita eccezionale di questo paese basta vedere i dati dei fattori fondamentali della produzione nella seconda metà del XIX secolo. All’epoca non troviamo negli USA alcuna prevalenza sugli altri paesi in nessun campo, sia esso lo sfruttamento delle risorse naturali o la produzione di beni industriali. A distinguere gli USA dagli altri paesi è l’eccezionale afflusso di forza lavoro dal 1880 in poi. Il salto qualitativo della potenza americana avviene nei 50 anni tra il 1881 e il 1930 quando arrivano in America 28.490.000 migranti. Si tratta di un immenso esercito di forza lavoro che fornisce al capitale americano un alto saggio di plusvalore e un aumento della prole capace di trasformare gli USA nel più grande dei paesi sviluppati occidentali anche dal punto di vista demografico. I vantaggi dell’immigrazione, comunque, non sono solo circoscritti all’aumento del saggio di accumulazione capitalista o al risparmio delle spese per la formazione della forza lavoro, i migranti, infatti, contribuiscono ad aumento proporzionale ai flussi migratori dei consumi, della produzione e al potenziamento del mercato. In definitiva, l’immigrazione è stata determinante per lo sviluppo dell’economia americana ed esemplifica il concetto marxista del passaggio dalla quantità alla qualità tipico del capitalismo imperialista altamente sviluppato.

Per concludere questa analisi di diversi paesi che traggono vantaggio dai processi migratori, Cinanni ci propone un fondamentale confronto tra le scelte politiche di sviluppo di USA, Gran Bretagna e Italia. Gli USA hanno scelto di concentrare gli sforzi sullo sviluppo del proprio territorio nazionale utilizzando gli immigrati come massa di manovra per accrescere alcuni settori dell’economia che di volta in volta assumevano importanza. In questo modo era possibile accentrare la produzione in grandi complessi capaci di garantire costi inferiori indispensabili per conquistare posizioni di monopolio su scala nazionale e poi, per alcuni prodotti, su scala mondiale. Le potenze imperialiste europee, invece, hanno provato a formare nei loro territori coloniali dei mercati a circuito chiuso in cui godevano dell’esclusiva assoluta nell’accaparramento delle materie prime e nella collocazione dei loro prodotti con lo scopo di allargare il proprio mercato e sostenere lo sviluppo delle industrie metropolitane. Questo processo non avveniva sempre in maniera pacifica e necessitava di investimenti in mezzi, capitale e forze umane che dovevano essere sottratte al loro impiego produttivo in patria causando un ritardo nello sviluppo. Un simile risultato conferma la bontà delle tesi di Disraeli che dal 1852, ricorda Lenin, ammoniva un paese campione del colonialismo come l’Inghilterra sulla reale natura delle colonie, ovvero pietre attaccate al collo. Una simile linea politica venne sconfitta da quella di Cecil Rhodes che vedeva nel colonialismo l’unica arma per evitare una guerra civile nel paese sfamando i disoccupati e i poveri. Insomma, il colonialismo era l’arma finale per affrontare la questione sociale. Tuttavia, questa idea si rilevò una terribile illusione. La questione sociale non era risolta dal colonialismo, anche sé quest’ultimo tendeva a creare strati privilegiati di lavoratori metropolitani che vivevano dei risultati del saccheggio coloniale. Cinanni cerca di indagare perché il capitale investito nelle colonie non era stato indirizzato in patria per dare lavoro ai disoccupati inglesi. La risposta è semplice: il capitale avrebbe conseguito un incremento di produzione minore, un meno rapido ammortamento del capitale investito e un più basso interesse rispetto agli investimenti nelle colonie dove erano a disposizione risorse naturali intatte, dove l’immigrazione poteva compensare la scarsezza di lavoro ma solo in piccola parte quella di capitale. Si tratta della teoria dietro la giustificazione delle avventure coloniali che tuttavia è stata ampiamente smentita. I superprofitti generati provenivano dallo sfruttamento disumano della forza lavoro dei paesi colonizzati e dal sistematico saccheggio delle loro risorse ma questo meccanismo non poteva durare all’infinito per via della reazione inevitabile dei popolo assoggettati a cui vanno aggiunti i risultati negativi sulle strutture produttive nazionali o quelli prodotti dall’esportazione di capitale e il trasferimento di uomini nelle colonie. Alla fine della fiera, l’Inghilterra fu costretta a cedere l’indipendenza alla maggior parte delle sue colonie e capì che l’imperialismo oggi ottiene più risultati tramite l’esportazione di macchine tecnologicamente avanzate, brevetti e pezzi di ricambio rispetto al vecchio sfruttamento coloniale. Il nostro paese, invece, adottò inizialmente la politica di espansione coloniale sotto la forma di imperialismo straccione per venire incontro agli interessi dei grandi gruppi industriali italiani, sprecando in simili imprese le scarse risorse a disposizione che potevano essere impiegate in lavori pubblici e strutture economiche utili per promuovere uno sviluppo equilibrato tra le regioni italiane. Le nostre classi dirigenti, invece, hanno preferito sostenere la più vasta emigrazione transoceanica, privandosi in questo modo di ingenti quantità di ricchezza.

4. Le conclusioni economiche

Nel corso del saggio, analizzando il fenomeno migratorio, abbiamo visto come si generano conseguenze negative nei paesi di emigrazione mentre in quelli di immigrazione emergono un saggio eccezionale di riproduzione del capitale e un profitto aggiuntivo fornito dall’impiego di forza lavoro migrante per cui non si è speso nulla per il loro allevamento e per la loro formazione. Questi processi convalidano da una parte la legge del valore e dall’altra il principio marxista-leninista del passaggio dalla quantità alla qualità tipico del capitalismo imperialista altamente sviluppato che produce la selezione di pochi paesi finanziariamente forti e molti paesi subordinati al loro potere egemonico. Cinanni affronta a questo punto del discorso una serie di problemi teorici sollevati dalle sue indagini. Inizia la sua riflessione parlando della forza lavoro intesa da Marx come l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità della persona presa in considerazione e che mette in movimento ogni volta che si producono valori d’uso di qualsiasi genere. Quando questa forza lavoro è posta al servizio del capitalista e del sistema economico che la richiede, essa si presenta come merce sul mercato e in quanto tale possiede un valore. Esso è determinato, come per qualsiasi altra merce, dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione e riproduzione, cioè dal tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari al possessore della forza lavoro. I mezzi di sussistenza, ovviamente, devono bastare alla sua conservazione nel normale stato di vita e soddisfare tutti i suoi bisogni naturali, come il nutrimento, il vestiario, l’abitazione o il riscaldamento. Questo elemento varia da paese a paese e in base alle caratteristiche dell’ambiente in cui si vive mentre i bisogni da soddisfare mutano in base al grado di incivilimento della società. Su questa differenza si basa il reclutamento della forza lavoro dei paesi meno sviluppati da parte dei paesi più sviluppati che consente al capitalista del paese importatore di utilizzare una manodopera capace di generare un più elevato saggio di plusvalore e di portare un elemento oggettivo di concorrenza che condizioni il livello salariale dei lavoratori locali. Si tratta del primo vantaggio generato dall’uso del lavoro migrante nei paesi capitalistici sviluppati. Il secondo vantaggio deriva dalla peculiarità della merce forza lavoro di essere fonte di valore, di produrre, cioè, un valore superiore al suo prezzo che fornisce al capitale che la mette a lavoro un plusvalore quotidiano alla base dell’accumulazione capitalista. I sistemi economici che importano forza lavoro migrante riescono a produrre plusvalore da un maggiore numero di forza lavoro rispetto a quella creata dal sistema stesso. Tuttavia non si tratta solo di un problema di fornitura quotidiana di plusvalore perché siamo davanti ad un trasferimento di capacità di lavoro per le quali il sistema economico che le utilizza non ha speso nulla e questi costi non sono pienamente compensati dal salario percepito. Qui emerge il terzo vantaggio, il principale. cioè la possibilità per l’economia importatrice di forza lavoro di elevare e differenziare eccezionalmente il proprio saggio di accumulazione capitalista. La causa di ciò è proprio nella forma salariale inadeguata che non compensa e non corrisponde pienamente al valore della forza lavoro importata. Per spiegare questa mancata corrispondenza occorre tornare al primo volume del Capitale, dove Marx dice che il prezzo naturale della forza lavoro è una quantità di cose necessarie e di comodi della vita che mutano in base al paese preso in considerazione e che permettono al lavoratore di allevare la propria famiglia, mantenersi e conservare sul mercato un’offerta non diminuita di forza lavoro. Ricordiamoci inoltre cosa disse Marx in Salario, prezzo e profitto, cioè che il valore della forza lavoro è determinato dal valore degli oggetti d’uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla. Sussiste una differenza tra forza lavoro e lavoro, cioè fra la capacità di lavoro e la sua estrinsecazione. Di conseguenza c’è una differenza tra valore della forza lavoro e la forma comune dal salario. Nel Capitale Marx denuncia l’equivoco dell’economia classica sul presunto prezzo naturale del lavoro e di conseguenza l’importanza decisiva della metamorfosi del valore e del prezzo della forza lavoro nella forma del salario. Cioè in valore e prezzo del lavoro stesso. Si tratta di una forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra il suo opposto. A partire dalla trasformazione del valore della forza lavoro nella forma del salario e dalla loro non rispondenza si generano, nel caso delle migrazioni dei lavoratori, grandi squilibri fra sistemi economici che importano e sistemi economici che esportano gratuitamente forza lavoro, determinando un più elevato saggio di accumulazione capitalista a favore dei primi e un relativo impoverimento dei secondi. Queste differenze non vengono colmate dalle rimesse inviate dal migrante al paese di origine. Nello schema teorico dell’autore, esse sono la differenza fra il costo del tenore di vita normale dell’operaio locale, inteso come salario comune, e il costo del tenore di vita, di gran lunga più ridotto, che il lavoratore migrante si impone. La rimessa, quindi, è il frutto della rinuncia, del sacrificio e del super-lavoro con cui da una parte il lavoratore si priva di ogni cosa eccedente il soddisfacimento dei suoi bisogni elementari mentre dall’altra si sottopone all’orario di lavoro più estenuante andando ben oltre la comune giornata lavorativa. Questo perché senza il compenso delle ore straordinarie, capaci di allungare la giornata lavorativa di 8 ore al giorno fino alle 10, 12 ore o anche di più, non esiste la convenienza nel lavorare fuori dal proprio paese. Le rimesse inviate nel proprio paese servono a soddisfare le necessità immediate delle famiglie degli emigrati e nel caso italiano finiscono per tornare al Nord del paese dove vengono prodotti i beni di consumo che servono al Sud senza produrre sviluppo in quelle regioni. Oppure finiscono in piccoli risparmi postali e bancari impiegati negli investimenti produttivi nelle regioni già capitalisticamente sviluppate. Quindi, raramente le rimesse si inseriscono nello sviluppo del processo produttivo locale attraverso l’aumento dei capitali di investimento o iniziative di sviluppo già esistenti. Di conseguenza le rimesse non possono sostituirsi o compensare il processo normale di accumulazione che nelle zone di emigrazione è venuto a mancare per colpa della classe dirigente locale. Cinanni propone come soluzioni l’adozione di misure riparatrici per i danni provocati dall’esodo da parte dei paesi di immigrazione e in mancanza di una loro iniziativa, i lavoratori migranti dovranno rivendicare la conquista di un compenso effettivo e completo dell’apporto eccezionale fornito all’accumulazione capitalistica dei paesi importatori.

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