- La Meloni, la CISL e la prospettiva marxiana del sindacato
Recentemente la presidente del consiglio Giorgia Meloni è stata ospite dell’Assemblea Nazionale della CISL alla presenza del segretario uscente del sindacato cattolico Luigi Sbarra. Ricostruiamo la cronaca dell’incontro, sottolineano alcuni passaggi chiave, attraverso un articolo di Nunzia Penelope uscito su Il diario del lavoro1. Meloni descrive il rapporto tra il suo governo e la CISL come segnato da un clima di ottimismo e collaborazione. La presidente del consiglio elogia questo sindacato per il suo ruolo costruttivo e la sua capacità di rappresentare i lavoratori in modo franco e determinato. Nel suo intervento ha sottolineato il rispetto e l’attenzione posta dal governo alle istanze avanzate dalla CISL perché ritenute pragmatiche e di buon senso. Tra le linee la presidente Meloni attacca la CGIL messa in contrapposizione con il pragmatismo non ideologico della CISL. Il rapporto con il sindacato guidato da Maurizio Landini è descritto come conflittuale e problematico. Meloni attacca la visione conflittuale del sindacato definita come tossica, un ostacolo al progresso e al dialogo costruttivo. La critica viene ripresa a piene mani da Sbarra per sottolineare la diversità della CISL rispetto alla CGIL. Per il segretario uscente si tratta di due diverse idee di sindacato. Quella della CGIL sarebbe basata sull’antagonismo, la demagogia e il populismo mentre quella della CISL incarna il prototipo del sindacato riformista, pragmatico e concreto. Con questa differenziazione Sbarra intende superare il Novecento abbandonando le logiche del conflitto grazie ad un patto di responsabilità che coinvolge tutte le istituzioni e le forze sociali riformiste. Risulta evidente a tutti come, scegliendo di schierarsi dalla parte del governo, la CISL abbia prodotto una rottura, al momento insanabile, con la CGIL che sta avendo ripercussioni in alcune trattative per i rinnovi dei contratti. Pensiamo all’accordo2 firmato nel novembre 2024 dalla CISL per il rinnovo del contratto delle funzioni centrali della pubblica amministrazione che interessa circa 195.000 dipendenti pubblici. L’intesa prevede un aumento salariale del 5,78%, equivalente a un incremento di 160 euro lordi mensili, ben al di sotto dell’inflazione accumulata tra il 2022 e il 2024 pari al 15,4% motivo per cui CGIL, UIL e USB non hanno firmato l’accordo. Una situazione simile si potrebbe verificare in Poste Italiane, dove storicamente la CISL è molto forte, visto che nel settembre 2024, durante le trattative con l’azienda, la CISL, insieme ad altre tre sigle sindacali, ha richiesto tavoli di trattativa separati facendo irritare CGIL e UIL che hanno sottolineato l’importanza dell’unità sindacale in vista di future sfide, come la riorganizzazione logistica e la privatizzazione minacciata dal governo. Tornando agli attacchi della presidente Meloni e di Sbarra all’idea di sindacato conflittuale, bisogna rispondere in maniera adeguata. Sul Manifesto Roberto Ciccarelli3 sintetizza la reazione ironica di Maurizio Landini durante l’assemblea della CGIL svoltasi al Paladozza di Bologna. Per Landini il conflitto democratico è uno dei pilastri su cui si fonda la democrazia. I nostri diritti e le nostre libertà sono figli delle lotte dei lavoratori. Il conflitto, per Landini, è quindi uno strumento per bilanciare la libertà del mercato e del profitto e la libertà della solidarietà. A rincarare la dose ci pensa l’intervento del noto storico Alessandro Barbero, ospite della CGIL. Barbero ha citato Marc Bloch, uno dei più importanti storici del Novecento, definendolo una figura straordinaria che ha insegnato un nuovo modo di fare storia, basato sulla comprensione dei conflitti e delle dinamiche sociali. Le società, infatti, sono intrinsecamente caratterizzate da interessi contrastanti e di conseguenza il conflitto non è tossico ma anzi è necessario per raggiungere soluzioni condivise e progresso. Barbero ha poi tracciato un parallelo tra le lotte storiche per i diritti dei lavoratori e le battaglie odierne, evidenziando come, mentre in passato si lottava per conquistare diritti fondamentali, oggi si combatte per difenderli. Ha ricordato come dal Medioevo fino all’Ottocento era vietato ai lavoratori organizzarsi in associazioni. Solo attraverso lotte durissime sono stati conquistati diritti come quello di associazione, le otto ore lavorative e il diritto di sciopero. Nonostante questi diritti siano formalmente riconosciuti, Barbero afferma che il lavoro precario e frammentato li sta erodendo di fatto. I lavoratori sono sempre più isolati e le otto ore lavorative sono spesso un’utopia in un contesto di precarietà che dilata la giornata lavorativa. Anche il diritto di sciopero, pur esistente, ha perso gran parte della sua efficacia a causa delle trasformazioni del mondo del lavoro. Per Barbero la necessità di difendere questi diritti oggi nasce dal fatto che qualcuno cerca di toglierli, evidenziando come il conflitto sociale sia ancora uno strumento essenziale per preservare le conquiste del passato e avanzare nuove rivendicazioni. Noi vogliamo offrire una prospettiva puramente marxista alla vicenda. I sindacati sono emersi storicamente come una reazione alla legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato del lavoro capitalistico. Senza un’organizzazione collettiva, i lavoratori sono costretti a competere tra loro, accettando salari sempre più bassi e condizioni di lavoro sempre più dure. Marx spiega questo meccanismo in Salario, prezzo e profitto e nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dove afferma come il ruolo principale dei sindacati sia quello di limitare il potere del capitale sulla determinazione dei salari e delle condizioni di lavoro. Marx però non si limita a vedere i sindacati come strumenti di contrattazione, infatti devono servire come punto di partenza per una trasformazione più ampia. La lotta per migliori condizioni di lavoro e salari più alti è inevitabile e necessaria tuttavia Marx la considera solo un primo stadio della lotta di classe. I sindacati, se si limitano a negoziare con i capitalisti senza mettere in discussione il sistema capitalistico stesso, finiscono per legittimarlo anziché combatterlo. Questo ci porta alla differenza marxiana tra la lotta economica e la lotta politica: la prima si concentra sulla redistribuzione della ricchezza all’interno del capitalismo mentre la seconda mira alla sua abolizione attraverso la rivoluzione proletaria. Marx avverte che la funzione dei sindacati non può essere solo quella di migliorare le condizioni di lavoro all’interno del sistema esistente perché il capitalismo tende ciclicamente a erodere i guadagni ottenuti. Ogni conquista salariale può essere vanificata dall’inflazione, dalla crisi economica o dall’innovazione tecnologica che riduce il fabbisogno di manodopera. La contrattazione collettiva può garantire solo miglioramenti temporanei senza però alterare la logica di base del capitale, cioè massimizzare il profitto riducendo il costo del lavoro. Per questo, Marx insiste sul fatto che i sindacati devono assumere una funzione più ampia, diventando strumenti di organizzazione della classe operaia per la conquista del potere politico. Uno degli aspetti più innovativi della teoria marxiana del sindacato è il concetto di scuola di guerra di classe. In Salario, prezzo e profitto, Marx afferma che il valore principale dei sindacati è quello di insegnare ai proletari a lottare collettivamente contro il capitale. L’esperienza della lotta economica aiuta i lavoratori a comprendere come il loro interesse sia antagonista a quello dei capitalisti e come le istituzioni borghesi non sono strumenti neutrali perché servono a mantenere il dominio della classe dominante. Attraverso gli scioperi e le rivendicazioni collettive, i lavoratori acquisiscono una consapevolezza della loro forza e della necessità di un’azione politica coordinata. Questa visione distingue Marx da molti altri teorici del socialismo del suo tempo. Mentre alcuni socialisti utopisti e riformisti vedevano il sindacato come un mezzo per garantire una maggiore giustizia sociale all’interno del capitalismo, Marx lo considera un’istituzione destinata a evolversi in un’organizzazione rivoluzionaria. Nella teoria marxiana del sindacato c’è anche ampio spazio per il concetto di solidarietà internazionale tra i lavoratori. Marx comprese bene la natura globale del capitalismo e come la borghesia utilizzi la divisione nazionale e settoriale della classe operaia per indebolirne la forza. I sindacati, se limitati a una prospettiva nazionale o corporativa, rischiano di diventare strumenti di divisione piuttosto che di emancipazione. Per questo motivo Marx insiste sulla necessità di un coordinamento internazionale dei sindacati, anticipando le future organizzazioni del movimento operaio come la Seconda e la Terza Internazionale. Infine ci preme analizzare brevemente la relazione tra sindacati e crisi economiche nel pensiero di Marx. Gli economisti classici consideravano i sindacati un ostacolo al funzionamento del mercato. Secondo Smith, Ricardo e Malthus, il salario era regolato dalla legge della domanda e dell’offerta e i sindacati, interferendo con questo meccanismo, finivano per alterare artificialmente l’equilibrio del mercato del lavoro. I capitalisti, di conseguenza, avrebbero reagito alla pressione salariale con l’introduzione di macchinari e innovazioni per ridurre la necessità di manodopera, con il risultato di trasformare le rivendicazioni sindacali in danni per i lavoratori stessi. Marx sovverte questa impostazione dimostrando che i salari non sono determinati esclusivamente dalle leggi di mercato perché nascono dalla lotta tra capitale e lavoro. Per Marx il sindacato è la prima forma con cui i lavoratori tentano di sottrarsi alla logica dell’accumulazione capitalistica e di ottenere una quota più equa della ricchezza sociale. Infatti i sindacati sono necessari per impedire che i salari scendano al di sotto del valore della forza-lavoro e per garantire che i lavoratori non siano completamente schiacciati dal potere del capitale. Un confronto interessante emerge con la teoria di David Ricardo, il quale aveva elaborato la cosiddetta legge ferrea dei salari, ripresa poi da Ferdinand Lassalle. Secondo questa teoria, qualsiasi aumento salariale ottenuto dai sindacati sarebbe stato riassorbito dall’aumento dei prezzi, lasciando inalterato il potere d’acquisto dei lavoratori. Lassalle, basandosi su questa teoria, sosteneva che le lotte sindacali fossero inutili e che la classe operaia dovesse concentrarsi sulla conquista del potere politico per riformare il sistema produttivo. Marx confuta questa visione in Salario, prezzo e profitto, dove dimostra che un aumento dei salari non si traduce necessariamente in un incremento dei prezzi ma può ridurre il tasso di profitto capitalistico, mettendo in crisi il sistema. Marx entra in polemica anche con Malthus, il quale sosteneva che la crescita della popolazione operaia fosse responsabile della miseria delle classi lavoratrici. Per Malthus, la povertà era il risultato di un eccesso di forza-lavoro rispetto alla domanda di mercato e l’unico modo per evitarla era la limitazione della natalità. Marx respinge con forza questa teoria, dimostrando che la disoccupazione non è il risultato di una sovrappopolazione naturale perché è creata dal capitalismo stesso per mantenere alto il tasso di sfruttamento dei lavoratori. Il concetto marxiano di esercito industriale di riserva spiega come i capitalisti utilizzino la disoccupazione per abbassare i salari e disciplinare la classe operaia, mantenendola in una condizione di continua insicurezza. Marx supera la visione statica degli economisti classici e sviluppa una teoria dinamica del sindacato in cui la lotta economica si intreccia con la lotta politica. Se Smith, Ricardo e Malthus vedono il sindacato come un’anomalia o un elemento perturbatore, Marx lo considera un prodotto inevitabile delle contraddizioni del capitalismo e un primo passo verso la formazione di una coscienza rivoluzionaria da collegare a un movimento politico che punti al superamento del capitalismo.
- Il tema della democrazia economica nella polemica della CISL
Un tema passato in secondo piano rispetto alle polemiche tra Meloni e Landini è quello della legge sulla partecipazione promossa dalla CISL e appoggiata delle forze di maggioranza in Parlamento. Sbarra ha attaccato la CGIL che si oppone a questa legge definendo il suo atteggiamento come grottesco e pretestuoso, figlio di una visione ideologica e antagonista che vede la fabbrica e ogni altro luogo di lavoro come un terreno di scontro tra capitale e lavoro. In questo modo sarebbe danneggiato il progresso del Paese e il tessuto produttivo italiano. Landini sostiene che questa legge è stata scritta su misura per Confindustria senza garantire un reale diritto dei lavoratori alla partecipazione delle decisioni dell’impresa. Il segretario della CGIL afferma che la democrazia debba essere costruita dal basso attraverso i lavoratori che scelgono i propri rappresentanti senza meccanismi imposti da sindacati o imprese. La proposta4 della CISL merita di essere affrontata seriamente perché rappresenta un tentativo, fuori tempo massimo, di agganciare il treno della cogestione.
Con questo termine ci riferiamo al cosiddetto Mitbestimmung della Germania che è un pilastro centrale dell’ordinamento del lavoro tedesco. La prima importante legislazione in materia fu il Gesetz über den vaterländischen Hilfsdienst del 1916, emanato durante la Prima guerra mondiale, che rese obbligatoria la costituzione di comitati aziendali per le imprese con più di 50 dipendenti. Questo segnò un primo riconoscimento ufficiale della partecipazione dei lavoratori, anche se con diritti limitati. Successivamente, con la Repubblica di Weimar, la Betriebsrätegesetz del 1920 stabilì ufficialmente la presenza dei consigli di fabbrica (Betriebsräte) come organi di rappresentanza dei lavoratori, conferendo loro diritti di consultazione e informazione. Tuttavia la sua attuazione fu ostacolata dall’opposizione degli imprenditori e dai conflitti politici dell’epoca. Durante il regime nazista il sistema della Mitbestimmung fu smantellato e le strutture di rappresentanza operaia furono soppresse. La rinascita della Mitbestimmung è avvenuta nel secondo dopoguerra con una serie di leggi che hanno delineato il sistema attuale. La prima e più significativa è stata la Montanmitbestimmungsgesetz del 1951 che regolava la cogestione nelle industrie mineraria e siderurgica. Questa legge stabiliva una rappresentanza paritetica dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese del settore, con un meccanismo di voto neutrale per risolvere eventuali impasse decisionali. Inoltre prevedeva l’introduzione della figura dell’Arbeitsdirektor, un membro del consiglio di amministrazione responsabile delle questioni lavorative, la cui nomina doveva essere approvata dai rappresentanti dei lavoratori. Un’altra tappa cruciale fu la Mitbestimmungsgesetz del 1976 che estese la cogestione a tutte le grandi imprese con più di 2000 dipendenti. Questa legge garantiva ai rappresentanti dei lavoratori la metà dei seggi nei consigli di sorveglianza ma con la clausola che il presidente del consiglio, solitamente un rappresentante degli azionisti, avesse il voto decisivo in caso di parità. Questo elemento differenziava la legge del 1976 dal modello paritetico della Montanmitbestimmung, garantendo comunque un vantaggio al capitale nelle decisioni strategiche. Parallelamente, la Betriebsverfassungsgesetz del 1952, riformata nel 1972 e successivamente nel 2001, regolava la costituzione e il funzionamento dei consigli di fabbrica. Secondo questa normativa, ogni impresa con almeno cinque dipendenti ha il diritto di istituire un consiglio di fabbrica, i cui membri sono eletti dai lavoratori. Il Betriebsrat ha diritti di consultazione, informazione e, in alcuni casi, di codecisione su questioni relative alle condizioni di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, agli orari e alle modalità di licenziamento. Molto importante è anche il Drittelbeteiligungsgesetz del 2004 che regola la rappresentanza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese con un numero di dipendenti compreso tra 500 e 2000. In questo caso, la presenza dei rappresentanti dei lavoratori è limitata a un terzo dei seggi. Analizzando come funziona la cogestione tedesca vediamo che essa si dispiega su due livelli. Il primo è quello aziendale e riguarda la rappresentanza nei consigli di sorveglianza (Aufsichtsrat). Il secondo è al livello di stabilimento e coinvolge i consigli di fabbrica (Betriebsrat). I consigli di fabbrica sono disciplinati dal Betriebsverfassungsgesetz e rappresentano l’organo attraverso cui i lavoratori partecipano alla gestione aziendale a livello operativo. Ogni impresa con almeno cinque dipendenti ha il diritto di eleggere un consiglio di fabbrica attraverso elezioni a scrutinio segreto, con un numero di membri che varia in base alla dimensione dell’azienda. I rappresentanti eletti restano in carica per quattro anni e non possono essere licenziati arbitrariamente, una garanzia che mira a proteggerli da pressioni o ritorsioni da parte della direzione aziendale. La funzione principale del consiglio di fabbrica è quella di rappresentare gli interessi dei lavoratori nelle decisioni aziendali quotidiane e nella gestione delle risorse umane. L’azienda ha l’obbligo di informare il consiglio su tutte le decisioni che riguardano l’organizzazione del lavoro, i piani di ristrutturazione e l’introduzione di nuove tecnologie. Il consiglio di fabbrica deve essere consultato prima di ogni decisione che incida sulle condizioni di impiego, come licenziamenti, assunzioni, trasferimenti e modifiche contrattuali. In caso di mancata consultazione, l’azienda può essere chiamata a rispondere davanti a un tribunale del lavoro che può annullare le decisioni prese unilateralmente. In alcuni ambiti, il consiglio di fabbrica ha un vero e proprio potere di codecisione e può bloccare le scelte della direzione aziendale. Ciò avviene, ad esempio, nella definizione degli orari di lavoro, nella regolamentazione delle ferie, nella sicurezza sul posto di lavoro e nei programmi di formazione professionale. Se il consiglio di fabbrica e la direzione aziendale non trovano un accordo su questioni di competenza congiunta, la legge prevede che la controversia venga risolta attraverso un comitato di arbitrato interno chiamato Einigungsstelle, composto da rappresentanti di entrambe le parti e da un membro neutrale. L’interazione tra il consiglio di fabbrica e la direzione aziendale avviene attraverso incontri periodici, nei quali vengono discusse le problematiche aziendali e le proposte dei lavoratori. La legge stabilisce che l’azienda debba fornire al consiglio di fabbrica le risorse necessarie per svolgere la propria funzione, comprese ore di permesso retribuite per le attività sindacali, spazi per riunioni e accesso alla documentazione aziendale. Nei casi di licenziamento, il consiglio di fabbrica gioca un ruolo cruciale poiché l’azienda è obbligata a sottoporre al suo esame ogni decisione di questo tipo. Se il consiglio si oppone al licenziamento, l’azienda deve portare il caso davanti a un tribunale del lavoro che deciderà sulla legittimità della misura. Questa procedura rende i licenziamenti più complessi e costosi per le aziende, rafforzando la posizione dei lavoratori e incentivando la ricerca di soluzioni alternative, come la ricollocazione interna o il prepensionamento. Il consiglio di fabbrica non ha poteri di contrattazione salariale, poiché questa è una prerogativa dei sindacati nelle trattative collettive con le associazioni datoriali, ma può influenzare l’applicazione concreta dei contratti collettivi all’interno dell’azienda. La presenza del consiglio di fabbrica garantisce che i diritti previsti dai contratti collettivi siano rispettati e che eventuali violazioni vengano segnalate alle autorità competenti o ai sindacati. In molte grandi aziende, il consiglio di fabbrica lavora a stretto contatto con i rappresentanti sindacali e può nominare delegati specializzati per trattare questioni specifiche, come la parità di genere, l’automazione dei processi produttivi o l’integrazione dei lavoratori stranieri. Il consiglio di fabbrica può anche proporre iniziative aziendali per migliorare le condizioni di lavoro, come l’introduzione di misure per la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, programmi di welfare aziendale o strategie per ridurre i rischi professionali. Nei casi in cui l’azienda voglia riorganizzare la produzione, chiudere stabilimenti o delocalizzare, il consiglio di fabbrica ha diritto a negoziare piani sociali che prevedano indennità per i lavoratori licenziati o misure di reinserimento professionale. Il consiglio di sorveglianza rappresenta invece il livello più alto della Mitbestimmung, operando nelle grandi imprese con più di 500 dipendenti ed è regolato dalla Drittelbeteiligungsgesetz e dalla Mitbestimmungsgesetz del 1976. A differenza del consiglio di fabbrica, che si occupa della gestione quotidiana del lavoro, il consiglio di sorveglianza ha il compito di monitorare le strategie aziendali e controllare l’operato della direzione. La sua composizione varia a seconda delle dimensioni dell’azienda: nelle imprese con più di 500 dipendenti un terzo dei seggi è riservato ai rappresentanti dei lavoratori, mentre nelle imprese con più di 2000 dipendenti la rappresentanza è paritaria, con metà dei seggi assegnati ai lavoratori e metà agli azionisti. Abbiamo già detto che, nonostante la parità formale, la legge prevede che il presidente del consiglio, solitamente un rappresentante della proprietà, abbia il voto decisivo in caso di parità. Il consiglio di sorveglianza nomina e revoca i membri del consiglio di amministrazione, approva le strategie aziendali, le fusioni e le acquisizioni, esamina i bilanci e può intervenire in caso di cattiva gestione. I rappresentanti dei lavoratori eletti nel consiglio di sorveglianza non sono necessariamente membri del consiglio di fabbrica, ma spesso vengono scelti tra sindacalisti o esperti di relazioni industriali. Una figura chiave nel modello della Mitbestimmung è l’Arbeitsdirektor, un membro del consiglio di amministrazione responsabile delle questioni lavorative, la cui nomina deve essere approvata dai rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza. Questa figura ha il compito di mediare tra la direzione aziendale e il personale, garantendo che le decisioni aziendali tengano conto delle esigenze dei dipendenti e delle normative sul lavoro. Il consiglio di sorveglianza si riunisce periodicamente per esaminare l’andamento dell’azienda e può richiedere alla direzione di modificare le proprie strategie se ritiene che vadano contro gli interessi dell’impresa e dei lavoratori. Anche se nella pratica i rappresentanti dei lavoratori non hanno sempre la forza di influenzare le decisioni strategiche, la loro presenza garantisce una maggiore trasparenza e un controllo più equilibrato della gestione aziendale.
Molte di queste caratteristiche della cogestione tedesca si ritrovano nella proposta con cui la CISL intende dare attuazione concreta all’articolo 46 della Costituzione, il quale afferma il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende anche se nella pratica è rimasto largamente inapplicato. Il documento con cui il sindacato cattolico ha presentato la proposta sottolinea come questa mancanza di attuazione abbia impedito il pieno sviluppo di una democrazia economica in grado di conciliare gli interessi dell’impresa con quelli della società nel suo complesso e richiama l’esigenza di una revisione profonda dei modelli di governance aziendale, in modo da superare l’idea tradizionale secondo cui l’impresa è un’entità esclusivamente al servizio della proprietà e del management. La CISL propone un sistema in cui i lavoratori possano esercitare un ruolo attivo nelle scelte strategiche e organizzative delle aziende, nella redistribuzione degli utili e nel controllo dell’operato degli amministratori. Per quanto riguarda la partecipazione gestionale, la proposta prevede l’inserimento di rappresentanti dei lavoratori all’interno dei consigli di amministrazione e dei consigli di sorveglianza delle imprese. In particolare, si stabilisce che nelle aziende rette dal sistema dualistico di governance, regolato dagli articoli 2409-octies e seguenti del codice civile, una quota non inferiore a un quinto dei membri del consiglio di sorveglianza debba essere composta da rappresentanti dei lavoratori, individuati attraverso procedure definite nei contratti collettivi. Per le società che adottano il sistema monistico la partecipazione è prevista sia nel consiglio di amministrazione che nel comitato per il controllo sulla gestione, previsto dall’articolo 2409-octiesdecies del codice civile, con criteri di nomina che garantiscano la professionalità e l’indipendenza degli amministratori designati. La proposta prevede inoltre un obbligo specifico per le società a partecipazione pubblica, regolamentate dal decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, che dovranno necessariamente integrare nei loro organi decisionali almeno un rappresentante dei lavoratori, in modo da garantire che le decisioni aziendali tengano conto anche degli interessi della collettività. Invece la partecipazione economico-finanziaria si articola attraverso diverse misure finalizzate a garantire ai lavoratori un accesso più equo alla ricchezza prodotta dall’impresa. Si introduce la possibilità per le aziende di distribuire una quota di utili ai lavoratori non inferiore al 10% del totale, prevedendo su queste somme un’imposta sostitutiva agevolata del 5% fino a un massimo di 10.000 euro annui, riducendo così il peso fiscale rispetto alla normale tassazione dei redditi da lavoro. La proposta richiama la disciplina della previdenza complementare regolata dal decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 e dal regolamento UE 2019/1238, consentendo ai lavoratori di destinare le somme derivanti dalla distribuzione degli utili ai fondi pensionistici, senza che queste contribuzioni concorrano alla formazione del reddito imponibile. Oltre alla redistribuzione degli utili, la proposta introduce lo strumento dei piani di partecipazione finanziaria, attraverso cui i lavoratori possono accedere alla proprietà dell’impresa acquistando azioni o quote societarie secondo le disposizioni degli articoli 2349, 2357, 2358 e 2441 del codice civile. L’adesione a questi piani è volontaria e non può costituire motivo di discriminazione, con la possibilità per le imprese di destinare una parte della retribuzione aggiuntiva dei lavoratori al finanziamento di tali piani, nel limite del 15% della retribuzione globale. La proposta prevede incentivi fiscali per agevolare questi meccanismi, modificando l’articolo 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (DPR 22 dicembre 1986, n. 917), elevando il limite esentasse per l’acquisto di azioni aziendali da parte dei dipendenti da 4 milioni di lire (circa 2.000 euro) a 40.000 euro. Un elemento innovativo della proposta è l’introduzione di un accordo di affidamento fiduciario per la gestione collettiva dei diritti derivanti dalla partecipazione finanziaria, ispirato al modello anglosassone del voting trust. Questo strumento, regolato a livello internazionale dalla Convenzione dell’Aja del 1985 e in Italia dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza), consente ai lavoratori e ai piccoli azionisti di delegare la gestione del loro pacchetto azionario a un trustee, il quale esercita i diritti di voto secondo linee guida stabilite collettivamente. Si prevede inoltre l’istituzione di un registro dei voting trust presso la Consob, con obblighi di trasparenza per le società coinvolte. Sul piano della partecipazione organizzativa, la CISL spinge per il coinvolgimento diretto dei lavoratori nei processi di innovazione aziendale. Si stabilisce la possibilità per le imprese di costituire commissioni paritetiche composte da rappresentanti aziendali e dei lavoratori per elaborare piani di miglioramento dell’efficienza produttiva, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro. Questi piani devono contenere un’analisi della situazione di partenza, gli obiettivi da raggiungere, le modifiche organizzative previste, gli investimenti tecnologici necessari e il ruolo delle rappresentanze sindacali. Le aziende che adottano questi piani possono beneficiare di agevolazioni fiscali e contributive, analogamente a quanto previsto dalla normativa sulla detassazione dei premi di risultato introdotta dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 e regolata dal decreto interministeriale 25 marzo 2016. La proposta disciplina anche la partecipazione consultiva, prevedendo che le imprese con più di 50 dipendenti siano obbligate a consultare preventivamente le rappresentanze sindacali aziendali su decisioni strategiche, piani industriali, riorganizzazioni aziendali e transizioni digitali ed ecologiche. La consultazione è resa obbligatoria anche per le pubbliche amministrazioni, con modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e per istituti di credito, banche e imprese erogatrici di servizi pubblici essenziali, in conformità con il decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385. La proposta prevede inoltre una procedura strutturata di consultazione che impone alle aziende di fornire risposte motivate ai rappresentanti dei lavoratori e, in caso di mancato accordo, di sottoporre il verbale della consultazione a un organismo di garanzia. Per sostenere l’attuazione della riforma, la CISL vuole introdurre incentivi economici per le aziende che adottano meccanismi partecipativi, prevedendo la deducibilità fiscale delle spese sostenute per l’attuazione di piani di partecipazione finanziaria e di premi per l’innovazione. Inoltre, le imprese che istituiscono commissioni paritetiche per la partecipazione organizzativa possono beneficiare di un esonero contributivo totale per un periodo massimo di ventiquattro mesi. La proposta prevede infine l’istituzione di una Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, incardinata presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), con il compito di monitorare l’attuazione delle norme e risolvere eventuali controversie interpretative. Viene istituito anche il Garante nazionale della sostenibilità, un organo di controllo presso il Ministero del Lavoro, incaricato di certificare la condotta responsabile delle imprese in materia di partecipazione e sostenibilità sociale. Con questa proposta la CISL punta a superare il modello tradizionale di relazioni industriali basato sulla contrapposizione tra capitale e lavoro, promuovendo un sistema di governance inclusivo e orientato alla redistribuzione della ricchezza e alla crescita condivisa dell’impresa e della società. Il testo che abbiamo brevemente descritto è andato incontro ad un pesante stravolgimento da parte del governo, snaturandolo profondamente. Di tutto ciò dà conto Alex Giuzio sul Manifesto5. Il disegno di legge, infatti, è stato notevolmente depotenziato rispetto alla sua formulazione iniziale, con una riduzione da 22 a 15 articoli e modifiche sostanziali che ne hanno limitato la portata. Tra le principali modifiche introdotte dai relatori, Lorenzo Malagola di Fratelli d’Italia e Laura Cavandoli della Lega, vi è l’eliminazione della quota minima di lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese. Nella proposta originale della CISL abbiamo visto che questa quota era fissata a un quinto dei dipendenti mentre nella nuova versione si parla genericamente di “uno o più rappresentanti dei lavoratori”. I meccanismi premiali e le commissioni di consultazione con i rappresentanti dei lavoratori, inizialmente previsti come obbligatori, sono diventati facoltativi. Infine, è stata negata ai dipendenti la possibilità di influire sulle politiche gestionali degli istituti bancari ed è stata eliminata la figura del garante della sostenibilità sociale delle imprese. Questo spiega l’opposizione della CGIL alla proposta che viene motivata sul sito Collettiva con un articolo di Patrizia Pallara6. La proposta della CISL viene definita come pericolosa e inutile perché il testo approvato dalle forze di maggioranza rischia di indebolire la rappresentanza sindacale e di offrire meno garanzie rispetto a quanto già previsto dai contratti collettivi. Per il giurista Vincenzo Bavaro, docente di diritto del lavoro all’Università di Bari, il testo disconosce la funzione della rappresentanza sindacale come controparte e le misure proposte sono molto meno incisive di quelle già presenti nei contratti collettivi. Ad esempio, i diritti di consultazione e le commissioni paritetiche non vengono rafforzati ma resi facoltativi, lasciando alle aziende la discrezionalità di applicarli o meno. Questo approccio, secondo Bavaro, rappresenta un passo indietro rispetto alle conquiste sindacali già consolidate. In nessuna delle forme di partecipazione previste dalla proposta della CISL viene garantito un ruolo primario alla rappresentanza sindacale e le misure proposte sono spesso lasciate alla volontà delle aziende, senza obblighi concreti. Nella partecipazione economica, ad esempio, si ipotizza una distribuzione di utili e quote azionarie ai lavoratori senza un meccanismo chiaro e vincolante. Questo approccio, secondo Bavaro, rischia di trasformarsi in una forma di “beneficenza” aziendale, piuttosto che in un diritto contrattuale. La partecipazione gestionale, invece, prevede la possibilità (non l’obbligo) di includere rappresentanti dei lavoratori negli organi aziendali senza garanzie sul loro ruolo effettivo o sulla loro rappresentatività. Questo, secondo Bavaro, ha un valore più simbolico che sostanziale. Anche la partecipazione organizzativa e consultiva è stata criticata per essere inferiore rispetto a quanto già previsto dai contratti collettivi. La proposta della CISL modificata dal governo, secondo Bavaro, rischia di minare la contrattazione collettiva e di aprire la porta a una frammentazione della rappresentanza sindacale, favorendo sindacati meno rappresentativi. Siamo, in altre parole, davanti ad un involucro vuoto privo di qualsiasi reale abbozzo di una vera cogestione e il risultato non deve stupirci perché i primi a non volere questa modalità di regolazione delle relazioni industriali sono i padroni italiani. Questo ci porta a dover analizzare storicamente l’ascesa della cogestione in Germania per capire come mai non è possibile averla anche in Italia. Una simile operazione è resa possibile grazie al testo di Karl Heinz Roth L’altro movimento operaio che analizza la storia delle lotte operaie in Germania tra il 1880 e il 1973, soffermandosi sulle tensioni tra riformismo sindacale e movimenti di opposizione radicale. All’interno di questo quadro la Mitbestimmung emerge come un elemento chiave della politica economica del dopoguerra, soprattutto nel settore minerario e siderurgico, dove l’industria aveva un ruolo strategico nella ricostruzione nazionale. Roth mette in evidenza come questa riforma fu il risultato di un compromesso tra le forze sindacali e le grandi imprese, sostenuto dalle potenze occidentali occupanti, in particolare dagli Stati Uniti, che vedevano nella cogestione un mezzo per stabilizzare il sistema economico tedesco e contenere il rischio di un’espansione del comunismo nell’Europa occidentale. Tuttavia per capire come nasce la cogestione e perché in Italia non è replicabile occorre evidenziare il contesto politico in cui la Mitbestimmung venne attuata. Il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale fu caratterizzato da un acceso dibattito sulla struttura economica che la Germania avrebbe dovuto adottare. I sindacati, forti di una nuova legittimità conquistata nel dopoguerra, premevano per una forma di controllo operaio sulla produzione, spingendo per la nazionalizzazione dei settori chiave dell’industria. Queste richieste vennero progressivamente ridimensionate sotto la pressione delle forze conservatrici e delle esigenze di ricostruzione del sistema capitalistico tedesco. La cogestione, in questo senso, fu il compromesso raggiunto tra la necessità di riconoscere un ruolo istituzionale ai lavoratori e il mantenimento del controllo delle imprese nelle mani del capitale privato. Inoltre Roth mostra come abbia contribuito alla pacificazione delle relazioni industriali in Germania, trasformando il conflitto di classe in un modello di concertazione istituzionalizzata. Se da un lato ciò garantì ai lavoratori alcuni diritti e una maggiore stabilità occupazionale, dall’altro ridusse lo spazio per forme più radicali di lotta operaia, disinnescando la possibilità di un controllo più diretto della classe lavoratrice sulle strutture produttive. La Mitbestimmung è un esempio di come il sistema capitalistico tedesco sia riuscito a integrare e neutralizzare il conflitto sociale, incorporando elementi di partecipazione operaia senza alterare significativamente i rapporti di potere tra capitale e lavoro.
- N. Penelope, Meloni e Cisl, abbraccio sulla partecipazione, accuse alla Cgil: “conflittualità tossica”, per la premier, “zavorra ideologica” per Sbarra, https://www.ildiariodellavoro.it/meloni-e-cisl-abbraccio-sulla-partecipazione-accuse-alla-cgil-conflittualita-tossica-per-la-premier-zavorra-ideologica-per/ ↩︎
- T. Nutarelli, PA, accordo per il contratto delle funzioni centrali. Ma Cgil e Uil non firmano, https://www.ildiariodellavoro.it/pa-accordo-per-il-contratto-delle-funzioni-centrali-cisl-ottimo-risultato-ma-cgil-e-uil-non-firmano/ ↩︎
- R. Ciccarelli, Quando la rivolta passa anche da un voto: parte il referendum della Cgil, https://ilmanifesto.it/quando-la-rivolta-passa-anche-da-un-voto-parte-il-referendum-della-cgil ↩︎
- Per approfondire il tema si consiglia di consultare il sito: https://www.partecipazione.cisl.it/ ↩︎
- A. Giuzio, Partecipazione dei lavoratori nelle imprese, la destra svuota la legge, https://ilmanifesto.it/partecipazione-dei-lavoratori-nelle-imprese-la-destra-svuota-la-legge ↩︎
- P. Pallara, Partecipazione, questa legge non s’ha da fare, https://www.collettiva.it/copertine/italia/partecipazione-una-legge-pericolosa-k97oc6xi ↩︎