Savino Balzano sul salario minimo: la nostra critica

  1. Analisi del libro

Savino Balzano, nel suo libro Il salario minimo non vi salverà, espone immediatamente la tesi che sorregge l’impianto del suo lavoro: il salario minimo funziona dove l’offerta di lavoro viene assorbita efficacemente dal mercato, facendo aumentare i salari. Dove comanda la domanda di lavoro, invece, l’introduzione di un salario minimo legale farebbe crollare verso il basso tutte le retribuzioni.

Per Balzano i bassi salari italiani sono causati dal modo in cui funziona il nostro mercato del lavoro. Il tasso d’occupazione italiano, nel momento in cui è stato scritto il libro, è del 60%, sotto la media UE. Non sono migliori i dati sull’occupazione giovanile e femminile. Il mercato del lavoro è un mercato che si regola mediante l’intersezione tra domanda e offerta.

“Se c’è troppa offerta di lavoro succede quello che accade in qualsiasi altro mercato, crolla il prezzo dei beni offerti (in questo caso del lavoro) e il potere contrattuale del produttore dei beni medesimi (rappresentato nel mercato del lavoro dai lavoratori, ovviamente)”1.

Quindi, maggiore è la disoccupazione e maggiore sarà la svalutazione del lavoro che permetterà alle imprese di usufruire di un bacino di forza lavoro a buon mercato. Il mercato del lavoro non si autoregola. Balzano crede che servano dei correttivi a sostegno del lavoro perché parte sempre in svantaggio rispetto alle imprese. Uno dei modi per farlo è abbattere la disoccupazione attraverso gli investimenti. Propone come soluzione le classiche politiche economiche espansive keynesiane tramite lo Stato. Siccome sono venute meno, è caduta tutta l’impalcatura dei diritti dei lavoratori emersi durante il Trentennio Glorioso.

Balzano afferma che si tratta di una responsabilità dell’UE che ha privato gli stati membri della possibilità di fare politiche espansive, generando tagli al welfare e agli investimenti. Di conseguenza la domanda interna è stata indebolita, anche per poter attrarre i capitali esteri in virtù della libera circolazione dei capitali, rendendo la nostra economia sempre più orientata alle esportazioni che sono competitive grazie ad un basso costo del lavoro. I lavoratori sono danneggiati anche come consumatori perché con i loro salari potranno comprare sempre più merci di bassa qualità importate da paesi più poveri.

La conclusione è che risulta ridicolo, per i sostenitori del salario minimo, appellarsi all’UE e alla sua recente direttiva sul salario minimo perché parliamo delle stesse istituzioni responsabili della macelleria sociale che si è abbattuta negli ultimi 15 anni sul nostro paese. Inoltre la direttiva è affetta da molti limiti. In primo luogo non fissa un minimo legale ma invita gli stati membri ad introdurlo tenendo in considerazione le diversità nazionali e la produttività del lavoro. Quest’ultima, sostiene Balzano, è molto pericolosa poiché dipende da fattori che possono bruscamente calare in caso di crisi, generando trattenute sullo stipendio capaci di portarlo sotto il salario minimo legale. Oppure, sempre seconda la direttiva, può essere differenziato in base al settore produttivo e mancano i riferimenti ad integrazioni al salario fondamentali come i buoni pasto e il welfare. Per Balzano tutto ciò non è casuale: “non è detto che una misura apparentemente sociale lo sia davvero. Fu lo stesso Friedrich August von Hayek ad affermare che ‘serve un reddito minimo di cittadinanza a livello sufficiente affinché i poveri non raggiungano un grado di disperazione tale da rappresentare un pericolo fisico per le classi ricche’. Ecco, credo che il sostegno al salario minimo legale da parte dell’Unione Europea risponda precisamente a questa idea”.

Nel dibattito italiano i sostenitori del salario minimo ignorano queste argomentazioni e per rafforzare la loro proposta portano come prova i dati OCSE che mostrano come il nostro sia l’unico paese europeo dove, tra il 1990 e il 20202, le retribuzioni si sono contratte. Questi dati riguardano anche i settori economici dove le paghe sono già superiori ai 9 euro l’ora del salario minimo legale proposto dall’opposizione al governo Meloni tranne Italia Viva di Matteo Renzi. Inoltre Balzano sostiene che non esista alcuna correlazione tra presenza del salario minimo legale e aumento delle retribuzioni perché negli ultimi anni sono aumentate anche nei paesi del Nord Europa che ne sono privi come Austria e Svezia.

La sua introduzione in Italia andrebbe a vantaggio unicamente dei pochi lavoratori che hanno una paga inferiore ai 9 euro l’ora ma resterebbero esclusi i lavoratori informali come quelli in nero. Il rischio di un salario minimo nel medio e nel lungo periodo è l’appiattimento verso il basso delle retribuzioni. Balzano critica anche il governo che oppone al salario minimo il rafforzamento della contrattazione collettiva perché la maggior parte dei lavoratori sono già coperti da un CCNL ma alcuni di essi, pensiamo al multiservizi o alla vigilanza privata, hanno una paga oraria inferiore ai 9 euro. Quindi, parlare solo di salario minimo o contrattazione collettiva non basta sé il rapporto tra capitale e lavoro non cambia a favore di quest’ultimo. L’autore porta l’esempio del settore bancario e dell’ultimo rinnovo del CCNL di categoria dove “il sindacato ha ottenuto un incremento medio delle retribuzioni mensili di 435 euro. Questo dato risulta davvero significativo se paragonato a quello degli ultimi rinnovi di altri settori: ad esempio, è superiore del 34% all’aumento ottenuto dai medici a settembre 2023 […], del 56% rispetto a quello della scuola del giugno 2023, del 79% rispetto a quello registrato nella sanità con il rinnovo di giugno 2022 e del 75% conseguito con il rinnovo di marzo 2022 nel settore delle ferrovie. Si consideri poi che l’aspetto economico e strettamente retributivo rappresenta solo uno degli elementi cruciali di una trattiva: il nuovo Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro prevede, ad esempio, una riduzione dell’orario di lavoro, nuove e importantissime tutele per lavoratrici e lavoratori, il coinvolgimento degli stessi in importanti processi di trasformazione nell’organizzazione del lavoro”.

Tutto ciò senza avere bisogno di un salario minimo e in un settore dove il ruolo dei sindacati confederali è controbilanciato da un ricco pluralismo sindacale.

Il salario minimo non è capace di risolvere la questione salariale in Italia perché andrebbe a vantaggio di pochi lavoratori che hanno una paga sotto i 9 euro l’ora o che hanno un contratto pirata. La maggior parte delle imprese applica già un CCNL con paghe superiori ai 9 euro l’ora. Non a caso Confindustria afferma che non si tratta di un problema in cui si sente coinvolta. Allora perché per Balzano si tratterebbe di una trappola? Perché un minimo fissato per legge farebbe crollare verso il basso tutti gli altri salari. Le imprese sarebbero legittimate giuridicamente da una soglia minima retributiva a cui fare riferimento. Inoltre i sindacati verrebbero indeboliti perché la determinazione legale del minimo avrebbe la priorità rispetto alla contrattazione collettiva, danneggiando le relazioni sindacali.

“Il salario minimo legale, e questo lo affermano anche coloro i quali si battono da anni per una legge che lo individui, ha un senso solo se affiancato al rafforzamento della contrattazione collettiva. In quel caso svolgerebbe l’unica funziona che gli compete e che potrebbe assolvere positivamente, quella di correttivo marginale di tutte quelle deviazioni rispetto alle previsioni dei contratti collettivi. Detto in altri termini per semplificare il discorso, il salario minimo legale ha senso solo in un sistema nel quale la contrattazione collettiva è ben strutturata, le rappresentanze dei lavoratori sono forti e autorevoli, e dunque in grado di determinare ottimi livelli salariali, in coerenza con il dettato costituzionale. In un sistema siffatto, infatti, il salario minimo legale costituirebbe uno slancio in generale e, soprattutto, andrebbe a correggere i salari di quei settori (marginali e decisamente circoscritti) nei quali la contrattazione collettiva non funzioni, per assenza o debolezza dei rappresentati dei lavoratori”.

Balzano afferma che la contrattazione non si rafforza con una legge, per esempio con una sulla rappresentanza, ma con una politica economica a sostegno dei lavoratori che possa sostenere le leggi in loro difesa. Quindi la questione salariale non si risolve attraverso la fissazione politica del salario ma con la mobilitazione della comunità del lavoro.

2. Critica

Savino Balzano può essere inserito senza troppe difficoltà nella categoria della sinistra sovranista che andava molto di moda una decina di anni fa. Nel suo libro sembra ricondurre la maggior parte dei mali che affliggono il paese all’adesione all’UE. Non ci convince per niente questa ricostruzione che rischia di diventare un forte alibi per la classe imprenditoriale italiana che ha sempre avuto enormi difficoltà nel gestire il conflitto distributivo alimentato dal movimento operaio.

Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo ricostruiscono bene questo problema tipico dei sovranisti criticando uno dei loro capostipiti a sinistra, ovvero Alberto Bagnai.

Come per l’economista italiano anche per Balzano sembra esistere una storia economica prima della perdita della sovranità monetaria e una storia successiva che coincide con l’adesione all’euro e a tutti i processi preparatori come lo Sme.

Prima dell’euro c’era un modo di politiche espansive a sostegno delle rivendicazioni dei lavoratori, dopo l’euro c’è stata l’austerità e la macelleria sociale. Sentiamo come ricostruiscono la crisi del 1963-1964 nel nostro paese Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo. Si tratta di una fase storica contraddistinta dai cambi fissi di Bretton Woods, la Banca centrale non era autonoma dal Tesoro e c’era la tanto agognata sovranità monetaria.

“Le lotte salariali, conseguenza del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni ruggenti del miracolo economico di fine Cinquanta – primissimi Sessanta, rovesciarono in un anno solo il rapporto salario-produttività dal 1950. […] Il Governatore della Banca centrale […] optò per una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite di una strategia inflazionistica, sostenendola con la tesi che alti profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità erano andati in rosso anche i movimenti di capitale, per fughe illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180 gradi, verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi un aumento del tasso di interesse, una caduta degli investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani – questa purtroppo è una storia di lungo periodo e a nostro parere (che qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine delle traversie del nostro pae­se – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto distributivo in un’ottica di qualche respiro”3.

Per il movimento operaio la conseguenza fu una ristrutturazione del sistema produttivo senza investimenti e con un costante aumento dell’intensità del lavoro contro cui si sono sollevati con rabbia negli anni successivi determinando la ristrutturazione della fabbrica fordista. La vecchia lezione trontiana della lotta di classe che guida lo sviluppo del capitale è sempre valida.

Il secondo fenomeno inflattivo che permette di fare luce sul modo in cui il conflitto distributivo viene gestito nel paese risale agli anni ‘70. Parliamo delle svalutazione tra il 1973 e il 1979 in risposta ad aumento dei salari superiori agli aumenti di produttività che fu una prova di forza nei confronti del movimento operaio.

“Il ‘successo’ di quella manovra, se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di svalutazione che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la rendevano possibile. Il contesto internazionale era quello di un dollaro che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La scelta politica delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e dunque di svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal lato delle importazioni (dove la valuta significativa era per noi quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione (la nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del marco). Ciò consentì di dare una mano alle imprese nel conflitto distributivo con i salari. Una svalutazione ‘differenziata’ e non socialmente neutrale”4.

Queste svalutazioni fecero guadagnare un vantaggio competitivo alle nostre imprese perché eccedenti rispetto all’inflazione passata ma, come negli anni ‘60, non lo utilizzarono per aumentare le proprie quote di mercato all’estero. Preferirono aumentare i prezzi piuttosto che aumentare la produttività attraverso una strategia di investimenti.

L’adesione allo Sme viene letta da Bellofiore e Garibaldo come un tentativo di impedire le svalutazioni competitive per incentivare, in maniera fallimentare, la ristrutturazione produttiva del paese che, come afferma Augusto Graziani, in realtà produsse solo un adeguamento tecnologico.

Sarà questo il leitmotiv del periodo precedente l’adesione all’euro. Quello che ci interessa segnalare sono le modalità con cui queste azioni sono sempre state implementate. Hanno un preciso segno di classe e offrono un sostegno ad una classe imprenditoriale inadeguata che oggi, non potendo contare sulla svalutazione, comprime costi e diritti dei lavoratori per mantenere la competitività delle nostre produzioni e nel frattempo accumula profitti che si guarda bene dall’investire per competere attraverso gli aumenti di produttività garantiti dall’innovazione tecnologica o le economie di scala impossibili per le PMI.

Noi non le consideriamo delle vittime ma causa del problema dei bassi salari e della bassa crescita del paese e ci battiamo per delle leggi capaci di spingerle verso accorpamenti sempre maggiori.

Da quanto detto, è chiaro che i nostri problemi come paese non iniziano con l’UE ma sono decisamente precedenti e non siamo diventati un’economia orientata all’exoport aderendo all’euro.

Per quanto riguarda il salario minimo, Balzano fa notare dei giusti limiti di questa misura che effettivamente non sono stati sottolineati a sufficienza dai suoi sostenitori. Abbiamo anche noi avuto la sensazione che spesso viene presentata come la cura magica a tutti i problemi della nostra economia. Non è così e lo ricorda benissimo Salvo Leonardi facendo un bilancio pragmatico delle differenze, i pro e i contro tra salario minino e contrattazione collettiva:

“A lungo, sindacati mediamente più forti che non oggi, hanno rivendicato per sé la sovranità salariale, ritenendola parte incedibile del proprio core business, mediante la contrattazione collettiva. Italiani e scandinavi si attestano ancora oggi su questa linea interpretativa, timorosi di un depotenziamento dell’autonomia collettiva. Concepito per ovviare a talune debolezze del sindacato e della contrattazione, il SML potrebbe finire col suggellare definitivamente il declino di entrambi, come nel caso francese.

In termini generali, la legge ha l’indiscutibile pregio di fornire, rispetto alla contrattazione, maggiori garanzie riguardo alla universalità della sua copertura, come anche della certezza ed esigibilità dei trattamenti che dispone. Tende a ridurre i differenziali fra i vari settori e può sospingere verso l’alto l’intera dinamica salariale. Non vi sono contraccolpi sull’occupazione, come hanno dimostrato l’economia tedesca e l’ultimo Nobel per l’economia, laddove invece talune agevolazioni contributive volte a ridurre il costo per le imprese, provoca ricadute su pensioni e welfare. Al contempo, il SML tende ovunque ad attestarsi su livelli assoluti e relativi bassi, e anche molto bassi. Senza integrazioni del welfare e/o della contrattazione, e questo va sottolineato, nessun paese a minimo legale consente di uscire dalla condizione di working poor. Accentua la dimensione tecnocratica della determinazione salariale, nelle sedi tripartite. E’ più soggetta alla contingenza politica; che può si dare mano libera a governi come quello Sanchez o Scholtz, per fare in un balzo seri progressi. Ma può anche risentire dei congelamenti durante esecutivi ostili, come negli USA, o divenire la prima vittima delle restrizioni austeritarie, come in Grecia.

Di contro, i vantaggi e gli svantaggi del sistema contrattuale sono pressoché rovesciati. Stabilisce livelli minimi comparativamente più alti; è più duttile in rapporto alla qualifica dei lavoratori; preserva il ruolo delle parti sociali e del sindacato quale autorità salariale ed è relativamente meno esposto alla contingenza politica-economica; con o senza governi pro-labor. Ma offre minori garanzie di universalità, certezza ed esigibilità; patisce di una maggiore dispersione dei differenziali fra settori”5.

Leonardi conclude il ragionamento affermando come un possibile salario minimo non sia sufficiente per abbattere il lavoro povero perché devono essere colpite anche le leggi che lo hanno prodotto. Questa è evidentemente una questione politica che richiede uno sforzo congiunto delle forze di sinistra e dei sindacati. Credo che Balzano possa essere d’accordo con una simile conclusione vista l’enfasi con cui sottolinea la necessità di non soffermarsi sulle leggi ma sulla politica che le deve sostenere.

Quello che non ritorna nel suo ragionamento è perché parla di “trappola del salario minimo”. Non ha portato molte prove a sostegno di ciò. Ad esempio, perché dovrebbe abbattere i salari dove la disoccupazione è più alta e farli crescere dove la disoccupazione è più bassa?

Prendiamo l’esempio di un paese paragonabile al nostro per tassi di disoccupazione, ovvero la Spagna. Qualora la tesi di Balzano fosse vera, gli aumenti del salario minimo promossi dal governo Sanchez per affrontare l’inflazione si sarebbero dovuti tradurre in un calo degli aumenti salari derivanti dalla contrattazione collettiva perché i padroni spagnoli si sarebbero potuti appellare ad un minimo fissato per legge con cui garantire la riproduzione dignitosa della forza lavoro. Stando ai dati di maggio 2023, sindacati e imprese hanno contratto aumenti del 10% nei prossimi tre anni6. Certo, sono accordi non vincolanti che dovranno essere tradotti nei rinnovi dei contratti collettivi e questa è una questione di rapporti di forza ma resta il dato. Nessun padrone spagnolo si è appellato all’esistenza del salario minimo per tirarsi fuori dalla trattativa.

Noi crediamo che il salario minimo possa essere uno strumento molto utile per fissare, durante le trattative con la controparte, una soglia sotto la quale non è possibile scendere. Si tratta di uno strumento utile per costringere i padroni a competere investendo e non comprimendo il costo del lavoro. Per fare ciò serve la volontà politica, che non può discendere da un governo di estrema destra, non tecnocratico solo perché segue le direttive di Bruxelles mentre lavora per spostare tutte le istituzioni dell’UE a destra, basti vedere quali idee stanno prendendo piede per la gestione dei flussi migratori o sulla transizione ecologica, e corporativo come quello attuale, ma dalla capacità di cambiare i rapporti di forza in favore del lavoro.

  1. Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Roma 2024, tutte le citazioni del libro sono tratte da un ebook, pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎
  2. Openpolis, L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990, https://www.openpolis.it/numeri/litalia-e-lunico-paese-europeo-in-cui-i-salari-sono-diminuiti-rispetto-al-1990/ ↩︎
  3. Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, Mariana Mortágua, Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea, Rosenberg&Sellier, Torino 2019, p.140 ↩︎
  4. Ivi, p.142 ↩︎
  5. Salvo Leonardi, Opportunità e limiti del salario minimo legale: un raffronto europeo, https://eticaeconomia.it/opportunita-e-limiti-del-salario-minimo-legale-un-raffronto-europeo/ ↩︎
  6. Davide Orecchio, Salari più alti, in Spagna si può, https://www.collettiva.it/copertine/internazionale/salari-piu-alti-in-spagna-si-puo-t1sn83o0 ↩︎

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