1. Alle origini della moderna portualità
Sergio Fontegher Bologna nel libro Le multinazionali del mare. Letture sul sistema marittimo-portuale descrive il porto come una struttura di servizio complessa, un insieme integrato di attività rivolte a un mercato composito, formato sia da imprese che acquistano beni strumentali, materie prime, semilavorati e prodotti intermedi per le loro produzioni sia da famiglie che consumano beni di varia natura. Questa duplice domanda genera il flusso delle merci in entrata e in uscita, definendo il ruolo del porto come interfaccia critica negli scambi internazionali, una vera e propria “porta” tra economie locali e mercati globali. Oltre ad essere inteso come facilitatore di transiti assume la forma di un mercato autonomo, un microcosmo economico che si autoalimenta attraverso investimenti infrastrutturali e la presenza di attività industriali e logistiche insediate nel suo perimetro o nelle aree limitrofe.
La distinzione tra porto industriale e porto commerciale è fondamentale per comprenderne l’evoluzione. Il primo è legato a produzioni locali, dove le merci sono destinate a trasformazione o consumo immediato, con flussi determinati dalle industrie presenti nell’area portuale. Il secondo, invece, risponde alla domanda dell’Hinterland, il territorio retrostante, con merci gestite attraverso operazioni logistiche complesse, trasporto, stoccaggio, condizionamento, affidate al cluster marittimo-portuale. Il porto commerciale affonda le radici nella tradizione mercantile europea, quello industriale è un prodotto della rivoluzione industriale, sviluppatosi nel Novecento e poi entrato in crisi con la deindustrializzazione degli ultimi decenni del secolo scorso. La delimitazione del mercato portuale, sia in termini geografici che economici, è un problema complesso. Per definirne i confini territoriali si è storicamente fatto ricorso al concetto di Hinterland, elaborato nell’Ottocento dalla scuola economica tedesca, in particolare da Alfred Weber nella sua Standorttheorie (teoria della localizzazione). Weber inserì lo spazio tra i fattori strategici delle scelte produttive, analizzando come i costi di trasporto incidano sulla competitività delle imprese. La sua teoria distingue tra costi fissi (come materie prime e capitale) e costi variabili (come lavoro e logistica), anticipando concetti moderni come la globalizzazione e il supply chain management. Weber sosteneva, ad esempio, che un risparmio sul costo del lavoro potesse giustificare maggiori spese di trasporto, intuizione che prefigurava le delocalizzazioni industriali contemporanee. Questa visione, influenzata da pensatori come Schumpeter e Taylor, promuoveva una logica di rete, in cui infrastrutture e porti erano visti come nodi interconnessi per ottimizzare i flussi economici. Una simile prospettiva non attecchì nella cultura portuale tradizionale che rimase ancorata a un modello autoreferenziale, spesso gestito in regime di monopolio pubblico, con un’offerta di servizi rigidamente controllata e poco orientata alla domanda esterna. Il pensiero dominante vedeva il porto come un’entità chiusa, un centro di potere più che un facilitatore di scambi. Con l’industrializzazione i porti divennero poli di attrazione per industrie pesanti, come quelle siderurgiche, petrolchimiche, alimentari, che sfruttavano la vicinanza ai trasporti marittimi e la disponibilità di spazi. Questa trasformazione ridusse l’importanza dell’Hinterland commerciale poiché i traffici furono sempre più determinati dalle esigenze produttive locali. L’avvento del nazismo e delle politiche autarchiche interruppe lo sviluppo di queste teorie economiche, soppiantando la visione globale con un modello protezionista e nazionalista. Pensatori come Schumpeter, Drucker e Lazarsfeld, emigrati all’estero, contribuirono invece a diffondere le teorie manageriali e logistiche moderne mentre in Europa prevalsero sistemi economici chiusi, lontani dall’apertura mercantile che aveva caratterizzato secoli di storia portuale. La storia dello sviluppo portuale di Genova e Trieste si intreccia profondamente con le trasformazioni economiche e finanziarie che hanno segnato l’Europa dal Medioevo all’età moderna. Fernand Braudel e Carlo Cipolla hanno illuminato il ruolo civilizzatore dello shipping e delle borghesie mercantili mediterranee e nord-europee mentre David S. Landes ha offerto l’analisi più penetrante del rapporto tra rivoluzione industriale e rivoluzione dei trasporti. Già nella sua tesi di dottorato Landes individuava negli strumenti finanziari innovativi, come la lettera di cambio introdotta dai mercanti italiani nel Quattrocento, il motore della trasformazione dei commerci marittimi. Nei suoi successivi lavori, da Bankers and Pashas a The Unbound Prometheus, Landes dimostra come il capitale finanziario moderno, incarnato da istituzioni come il Crédit Mobilier dei fratelli Pereire, abbia reso possibili imprese titaniche quali il Canale di Suez e le grandi reti ferroviarie, ridefinendo i paradigmi del capitalismo. In questo contesto storico due figure emergono per il loro contributo decisivo allo sviluppo portuale mediterraneo: Pasquale Revoltella e Raffaele De Ferrari. Revoltella, triestino, investì ingenti capitali personali nella Compagnie Universelle du Canal de Suez di cui divenne vicepresidente, pur fallendo nel tentativo di coinvolgere l’Impero asburgico nell’impresa. De Ferrari, genovese, fu tra i fondatori del Crédit Mobilier e la sua donazione di 20 milioni di lire rilanciò il porto di Genova. Entrambi rappresentano l’archetipo del finanziere visionario. Revoltella, amico del ministro asburgico Carlo Ludovico de Bruck, fu tra i primi azionisti delle Assicurazioni Generali mentre De Ferrari attirò l’attenzione di Karl Marx come esempio del capitalismo azionario moderno. La loro eredità, resa possibile anche dalla circostanza che nessuno dei due ebbe eredi diretti, dimostra come lo sviluppo portuale richiedesse una visione globale, capace di superare i localismi e le logiche di rendita. Trieste visse la sua prima fase di sviluppo come porto franco istituito da Carlo VI d’Asburgo nel 1719, con ulteriori privilegi concessi da Maria Teresa nel 1769. Fu solo con l’abolizione del porto franco nel 1891 che la città poté compiere il salto verso la modernità. La costruzione della Südbahn, la ferrovia che collegava Vienna a Trieste attraverso le Alpi, e gli investimenti portuali successivi all’apertura del Canale di Suez incontrarono l’opposizione degli ambienti commerciali locali, legati ai privilegi del vecchio sistema. Revoltella e altri lungimiranti sostennero invece una visione innovativa: il porto doveva trasformarsi da emporio statico a gateway di transito veloce, integrato con la rete ferroviaria. Nonostante le carenze gestionali della Südbahn e i limiti della successiva Transalpina, Trieste raggiunse nel 1913 il sesto posto tra i porti europei per traffico merci, grazie anche alle innovative tariffe ferroviarie adriatiche che anticipavano il concetto moderno di nolo intermodale. Genova riconquistò invece il primato tra i porti italiani dopo il 1876 grazie agli ingenti investimenti pubblici stimolati dalla donazione del Duca di Galliera. Tuttavia la miopia degli armatori locali, legati alla navigazione a vela, rallentò l’adozione del vapore mentre il progetto Parodi, costato 63 milioni di lire, risultò presto obsoleto. Solo con gli interventi fascisti degli anni ’20, come la costruzione del bacino Vittorio Emanuele III e l’elettrificazione delle linee ferroviarie portuali, Genova assunse la configurazione moderna. Entrambe le storie rivelano dinamiche ricorrenti: il ruolo decisivo dello Stato (Asburgo per Trieste, sabaudo per Genova), l’importanza cruciale del collegamento ferroviario, la tensione tra interessi locali e logiche di mercato globale. Bologna affronta anche la storia dei porti tedeschi sostenendo che l’attuale assetto di Amburgo e Brema non può essere spiegato solo dal richiamo alle tradizioni anseatiche. Bisogna infatti ricorrere al ruolo svolto dall’industrializzazione, quando divennero centri manifatturieri e la classe operaia portuale si integrò nel movimento sindacale e socialdemocratico, rendendo queste città sue roccaforti. Tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, il Reich guglielmino potenziò strategicamente le infrastrutture portuali per proiettare la Germania sullo scenario mondiale, sacrificando interi quartieri urbani per far spazio all’espansione portuale. Si formò così un complesso commerciale-industriale che legò indissolubilmente i porti alle attività produttive circostanti. Lo sviluppo portuale fu anche una risposta anticiclica, infatti tra il 1880 e il 1895, durante una stagnazione del commercio marittimo, gli armatori compensarono le perdite con il trasporto di emigranti verso le Americhe, rendendo Bremerhaven un punto di partenza cruciale. Dopo la crisi del ’29 la stagnazione del commercio internazionale colpì la cantieristica, con un crollo particolarmente accentuato in Italia, mentre in Germania i vincoli di Versailles limitarono le compensazioni militari fino al 1933. Nonostante ciò, la tecnologia tedesca nei motori diesel e nella saldatura elettrica favorì una parziale ripresa. Durante la Repubblica di Weimar lo Stato intervenne direttamente nella manutenzione delle infrastrutture e ampliò i confini di Amburgo. Con l’avvento del nazismo i porti tedeschi e italiani seguirono modelli simili: stagnazione commerciale, sviluppo industriale legato alle commesse militari e retorica nazionalista marittima. La legge Gross Hamburg del 1937 accelerò l’espansione portuale ma la guerra trasformò queste città in obiettivi strategici, lasciandole in macerie nel 1945. Trieste, Amburgo e Brema subirono anche le conseguenze del nuovo ordine geopolitico postbellico, con la divisione della Germania e l’ascesa della Jugoslavia. Intanto l’isolamento autarchico nazista favorì i porti del Northern Range come Rotterdam e Anversa, che, risparmiati dai bombardamenti, consolidarono la loro egemonia nel dopoguerra. Rispetto ai porti tedeschi, quelli italiani mostrarono un ritardo tecnologico, soprattutto nelle tecniche di movimentazione e negli impianti specializzati, con Trieste in svantaggio rispetto a Genova a causa della minore propensione all’innovazione della borghesia imprenditoriale italiana. Il secondo dopoguerra segna una fase di ricostruzione in cui il modello industriale e commerciale precedente viene riproposto, mantenendo una continuità che si protrae fino agli anni ‘70, quando una serie di rivoluzioni nei trasporti marittimi sconvolge l’economia dello shipping, introducendo un cambiamento di paradigma radicale. I porti tedeschi vanno ad assumere un ruolo sempre più strategico e dipendente dalle scelte politiche e militari degli Stati Uniti. Bremerhaven, in particolare, diventa la sede della più grande base logistica americana in Europa, un hub cruciale per le operazioni militari e commerciali statunitensi nel continente. È proprio in questo scenario che, il 6 ottobre 1966, nel bacino del Freihafen di Brema, avviene un evento simbolico, infatti, per la prima volta, una gru di bordo deposita su una chiatta un’unità di carico destinata a cambiare per sempre il mondo dei trasporti marittimi: il container. Non si tratta della prima apparizione del container in un porto europeo. Già cinque mesi prima, il 3 maggio 1966, la motonave Fairland, della compagnia americana Sea-Land, aveva scaricato nel porto di Rotterdam duecento container da 35 piedi, utilizzando gru proprie che li posizionavano direttamente sui pianali dei camionisti in attesa sotto bordo. Questo sistema, già collaudato negli Stati Uniti, dimostrava l’efficienza rivoluzionaria del trasporto containerizzato, riducendo drasticamente i tempi di sosta e i costi operativi. Le compagnie di navigazione europee, consapevoli della portata di questa innovazione, non tardano a reagire. Tra le prime a investire in navi full container di prima generazione spiccano Hapag-Lloyd in Germania e Nedlloyd nei Paesi Bassi mentre in Italia è il Lloyd Triestino a distinguersi come pioniere del settore. Fino a quel momento il design delle navi da carico convenzionali, le cosiddette general cargo, era rimasto pressoché invariato dall’inizio del Novecento, così come le tecnologie di imbarco e sbarco delle merci. I porti, nel frattempo, avevano progressivamente ampliato gli spazi dedicati all’industria pesante, alle rinfuse e ai depositi costieri di greggio mentre le infrastrutture per il traffico passeggeri di lunga distanza, con le loro maestose Stazioni Marittime, avevano conosciuto un breve momento di gloria negli anni ‘30 per poi entrare in declino. Le operazioni portuali tradizionali richiedevano una manodopera numerosa e specializzata, concentrata soprattutto sulle banchine “a pettine” dove ormeggiavano le navi da carico. Con l’aumento del volume degli scambi commerciali e del traffico navale negli anni ‘60, i porti iniziarono a mostrare tutti i loro limiti. L’assenza di innovazioni nelle procedure di carico e scarico portò a un progressivo allungamento dei tempi di sosta, tanto che, tra il 1950 e il 1970, i costi portuali per una nave in rotta atlantica raddoppiarono, con le soste che arrivarono a coprire ben il 40% del tempo totale di un viaggio di andata e ritorno. L’introduzione delle portacontainer con gru di bordo, abbinate a una flotta di camion con pianali, avrebbe potuto risolvere molti di questi problemi, eliminando gran parte del lavoro manuale portuale. L’adozione su larga scala di questa tecnologia incontrò forti resistenze, sia da parte dei lavoratori portuali, timorosi di perdere il posto di lavoro, sia da alcuni settori imprenditoriali poco inclini all’innovazione. Ci vollero dieci anni prima che queste opposizioni venissero superate e che nei principali porti europei si sviluppassero aree specializzate nell’handling containerizzato, dotate di imponenti gantry cranes, le gru a portale in grado di movimentare rapidamente i container dalle navi ai mezzi di trasporto terrestri. Questo decennio di transizione coincise con una trasformazione ancora più profonda che avrebbe ridefinito non solo i porti ma l’intera struttura economica e sociale dell’Europa: il passaggio dal modello fordista a quello postfordista. Il nuovo paradigma si basava su un’organizzazione a rete delle imprese, con un’enfasi crescente sulla flessibilità, sulla riduzione delle dimensioni aziendali (downsizing), sull’esternalizzazione di interi segmenti produttivi, sulla personalizzazione del prodotto e sulla capacità di reagire rapidamente alle oscillazioni del mercato. Le tecniche di management subirono una rivoluzione senza precedenti, seconda solo a quella introdotta all’inizio del secolo con l’organizzazione scientifica del lavoro taylorista. L’attenzione si spostò dalla produzione in sé al marketing mentre gli aspetti finanziari assunsero un’importanza centrale nella gestione aziendale. In questo contesto, caratterizzato da un’economia mondiale in bilico tra stagflazione e regimi di cambi flessibili dopo il primo shock petrolifero del 1973, nacque e si sviluppò la logistica moderna, una disciplina volta a ottimizzare i flussi di merci, riducendo al minimo le giacenze di magazzino e gli immobilizzi di capitale. Le merci pesanti e a basso valore unitario, come carbone e acciaio, lasciarono progressivamente il posto a prodotti più leggeri ma ad alto valore aggiunto, come elettronica e beni di consumo. La Grande Distribuzione Organizzata (GDO), l’aumento del tasso di sostituzione dei prodotti e la crescente volubilità dei consumatori imposero ritmi di rotazione delle merci sempre più frenetici. Con queste trasformazioni si chiuse definitivamente un’epoca iniziata a metà Ottocento, quando l’industrializzazione aveva trasformato le aree costiere in poli economici strategici. Si concluse anche una storia millenaria della nautica commerciale, fondata sulle capacità di carico delle tradizionali navi volandiere. Al loro posto emerse una nuova concezione del trasporto merci, basata sull’intermodalità, cioè l’integrazione perfetta tra nave, treno e camion, e su una logistica sempre più sofisticata. Il declino dell’industria pesante e la riorganizzazione di ciò che ne rimase portarono a un’idea radicalmente diversa di cosa significasse movimentare le merci su scala globale, un’idea che avrebbe plasmato non solo i porti ma l’intera economia mondiale nei decenni a venire. Bologna prosegue la riflessione affrontando il dibattito su quale disciplina sia più adatta a interpretare le dinamiche dell’universo marittimo-portuale. Gli studi sui porti non costituiscono una disciplina autonoma ma un campo in cui convergono diverse teorie, molte delle quali economiche, alcune delle quali hanno una rilevanza pratica immediata. Kenneth Button, in una sintesi sugli ultimi 70 anni di shipping economics, mette in discussione l’autonomia di questa branca di studi, sostenendo che si tratti più di un settore economico analizzato attraverso le lenti dell’economista che di una scienza indipendente. La critica principale è che le teorie economiche dominanti, a partire da quelle neoclassiche, hanno trascurato la dimensione spazio-temporale, rendendole inadeguate a cogliere le specificità dello shipping, in particolare la sua natura di industria a rete. Button propone come alternativa l’economia istituzionale che si concentra non solo sulle organizzazioni ma sui rapporti tra di esse, offrendo strumenti più efficaci per analizzare le dinamiche delle network economies. Questo approccio si rivela particolarmente utile nello studio delle conferences marittime, delle alleanze tra compagnie di navigazione e delle supply chains, ma mostra limiti quando applicato a temi come la security e la safety che riguardano non solo la sicurezza operativa ma la stessa natura del mercato marittimo, spesso percepito come un territorio privo di regole sovranazionali condivise. Un altro punto critico sollevato da Button riguarda l’affidabilità dei dati statistici. Già nel 1999 aveva evidenziato l’inaffidabilità delle statistiche sul traffico aereo e nel 2005 estende la critica a quelle marittime, sottolineando la necessità di una raccolta dati più accurata, in grado di riflettere la struttura reticolare dei traffici e di mappare correttamente le origini e destinazioni dei flussi. Nonostante queste carenze, dal 1991 l’International Association of Maritime Economists (IAME) promuove l’autonomia della maritime economics, fornendo un supporto fondamentale per ricerche su porti e shipping. La questione può essere riformulata chiedendosi se sia più utile considerare l’economia marittima come un ramo dell’economia dei trasporti e questa, a sua volta, come parte della più ampia economia delle reti, attingendo a diverse metodologie a seconda del fenomeno analizzato. Una rassegna degli studi portuali pubblicati tra il 1997 e il 2008, presentata alla conferenza IAME del 2009, conferma questa tendenza multidisciplinare, classificando le ricerche in sette aree tematiche: ruolo dei porti nelle supply chains, politiche portuali e regolamentazione, pianificazione e sviluppo, governance, competizione e competitività, analisi spaziali e studi sui terminal. Gli studi sui terminal si concentrano soprattutto sulla valutazione dell’efficienza, spesso attraverso la Data Envelopment Analysis (DEA) che ha evidenziato una stretta correlazione tra produttività dei terminal e qualità dei servizi ferroviari. Altri lavori hanno esaminato il rapporto tra dimensione del terminal e produttività, confrontando modelli asiatici ed europei, o analizzando il trade-off tra costi operativi crescenti e riduzione dei costi per le navi grazie alle economie di scala. Un tema ricorrente è quello delle politiche delle compagnie marittime che acquisiscono terminal dedicati, ottenendo concessioni a lungo termine, una tendenza che ha ridisegnato la geografia portuale globale. Tuttavia sorprende la scarsità di studi su terminal non container, come quelli per prodotti siderurgici, automobili o gas liquefatto, nonostante il loro crescente peso nei mercati emergenti. Un filone di ricerca particolarmente influente è quello legato al cambiamento di paradigma introdotto da Robinson che ha ridefinito i porti come nodi all’interno di value-driven chain systems, dove il loro successo non si misura più solo in volumi di traffico ma nella capacità di generare valore per gli operatori logistici e i caricatori. Questo approccio ha stimolato studi sull’hinterland, sulle connessioni terrestri e sui dry ports, rivelando la complessità delle variabili in gioco quando si analizza l’impatto di un porto al di là dei suoi confini fisici. Ad esempio, un container in transito da Ningbo a Melzo (Milano) segue una catena del valore diversa rispetto a uno destinato a Genova, con implicazioni doganali, logistiche e decisionali che la letteratura tradizionale spesso trascura. Bologna affronta anche il problema della governance portuale, con particolare attenzione ai processi di privatizzazione, analizzati in contesti diversi come Asia, Europa e America Latina, e del lavoro portuale che è diventato più precario, con un calo del potere contrattuale dei dockers. La governance è un tema trasversale che emerge anche nelle discussioni su politiche tariffarie, sostenibilità e impatto ambientale, sebbene quest’ultimo sia spesso affrontato in modo retorico, senza un reale impegno normativo. La crisi finanziaria del 2007-2008 ha messo in luce ulteriori limiti della ricerca accademica che raramente aveva anticipato le criticità del sistema. Gli studi sulla pianificazione portuale, ad esempio, si sono concentrati su casi di successo come Hong Kong, trascurando i problemi di congestione e i limiti infrastrutturali in aree ad alta densità. Allo stesso modo, le analisi sull’impatto economico dei porti spesso utilizzano modelli input-output semplificati, senza riuscire a definire chiaramente i confini del cluster marittimo-portuale o a distinguere tra attività port-related e altre. Un ulteriore problema metodologico riguarda le statistiche. Il traffico containerizzato, pur rappresentando solo il 14% del tonnellaggio globale, domina le valutazioni di performance ma i dati sono spesso distorti. Drewry Shipping Consultants ha calcolato che nel 2007 il world container traffic (142,4 milioni di TEU) era circa un terzo del total port handling (496,6 milioni di TEU), a causa del transhipment e dei conteggi multipli. Ad esempio, un container da 40’ carico di giocattoli cinesi diretto a Milano può essere conteggiato fino a sei volte nei diversi scali intermedi, falsando le statistiche.
2. Rivoluzione intermodale
La storia della portualità moderna, dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, si articola attraverso cinque fasi evolutive ben distinte, fondazione, industrializzazione, ricostruzione, deindustrializzazione e globalizzazione, ciascuna delle quali ha lasciato un’impronta indelebile sullo sviluppo economico e infrastrutturale dei principali scali marittimi. La fase iniziale, quella della fondazione, coincide con il passaggio epocale dalla navigazione a vela a quella a vapore, un cambiamento tecnologico che richiese investimenti così ingenti da poter essere sostenuti soltanto dagli Stati nazionali in via di consolidamento. Non a caso in Italia si sviluppò un connubio tra porto e armamento, con lo Stato che non solo finanziò la costruzione di infrastrutture portuali ma promosse anche la creazione di una flotta mercantile di bandiera, affiancando così la Marina militare. Questo modello, basato su un rapporto spesso problematico tra la cultura municipale dei porti e quella internazionale delle compagnie di navigazione, entrò in crisi nel secondo dopoguerra, quando il legame tra porto e industria armatoriale si fece sempre più tenue. Un percorso diverso fu quello intrapreso da Rotterdam, dove lo sviluppo portuale fu guidato con tenacia dalle autorità municipali che acquisirono terreni, realizzarono opere di scavo, infrastrutture marittime e solo in un secondo momento, quando l’espansione divenne troppo rapida, coinvolsero lo Stato, cercando però di limitarne l’intervento al minimo indispensabile. La svolta decisiva per Rotterdam arrivò con la fusione dei comuni di Rotterdam e Delft, un processo simile a quello che interessò Amburgo con l’annessione di Altona, e con la realizzazione, nel primo decennio del Novecento, di una rete ferroviaria che collegò il porto al mercato tedesco. Fu in questo periodo che venne completato il bacino di Waalhaven, dando il via a una crescita ininterrotta che durò fino agli anni ‘70, favorita anche dalla debolezza economica della Germania di Weimar e dalle politiche autarchiche del regime nazionalsocialista che ridussero la competitività di Amburgo. Anversa, invece, seguì un percorso differente: nato come porto militare nel periodo napoleonico, assunse un ruolo centrale nei traffici con le Americhe e l’Europa centrale già a metà Ottocento ma la sua vera trasformazione in hub industriale avvenne solo negli anni ‘20 del Novecento. In questa prima fase la ricchezza generata dai principali porti europei derivava da quattro attività fondamentali: il commercio di intermediazione, con spedizionieri e operatori logistici che gestivano il trattamento delle merci; il trasporto marittimo, con compagnie di navigazione che sceglievano determinati porti come home port per le loro rotte postali e passeggeri; il ciclo navalmeccanico, comprendente cantieristica e siderurgia e infine le attività finanziarie di supporto al commercio e alla navigazione. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale e, ancor più, con la crisi del 1929 e l’avvento delle politiche autarchiche, il modello economico dei porti subì una radicale trasformazione. Il commercio internazionale si contrasse drasticamente e la produzione di ricchezza si spostò sempre più verso l’industria pesante, con stabilimenti siderurgici, petrolchimici e manifatturieri che sorsero nelle immediate vicinanze delle banchine, diventando il vero motore dei traffici portuali. Di contro, il settore armatoriale, ormai dipendente da pesanti sussidi statali, e quello della spedizione, rimasto ancorato a dimensioni medio-piccole, persero progressivamente importanza. Un aspetto spesso trascurato nella storia della portualità è il ruolo cruciale del cabotaggio che già nella fase di fondazione contribuì in modo significativo allo sviluppo dei traffici marittimi. Mentre si tende a pensare che i porti europei si siano sviluppati principalmente grazie al commercio internazionale, in realtà una parte consistente del movimento merci era legata a rotte costiere, come nel caso del trasporto di carbone dal Galles a Londra che diede impulso alla crescita del traffico dry bulk. La vera rivoluzione nella storia dei trasporti marittimi arrivò però con l’introduzione del container, un’innovazione che non solo trasformò radicalmente le operazioni portuali ma ridefinì l’intera catena logistica globale. L’idea di un’unità di carico standardizzata, in grado di passare da un mezzo di trasporto all’altro senza manipolazione diretta della merce, fu sviluppata in modo pionieristico da Malcom McLean, un imprenditore americano che, osservando nel 1937 i lunghi tempi di scarico dei camion nei porti, ebbe l’intuizione di caricare interi trailer direttamente sulle navi. La prima nave appositamente progettata per il trasporto container, la Clifford J. Rogers, entrò in servizio nel 1955 ma fu solo negli anni ‘60 che il sistema containerizzato decollò veramente, grazie alla standardizzazione delle dimensioni (20 piedi, TEU) e alla creazione di terminal dedicati. Rotterdam, ancora una volta in prima linea, fu il primo porto europeo a gestire uno sbarco container su larga scala, quando il 23 aprile 1966 la motonave Fairland scaricò 236 container da 35 piedi, prontamente trasferiti su camion in attesa. L’impatto del container sul lavoro portuale fu devastante: le operazioni di carico e scarico che per secoli erano state svolte manualmente dagli scaricatori, vennero meccanizzate, riducendo drasticamente la necessità di manodopera. Inoltre la containerizzazione favorì la nascita di servizi regolari di linea, con rotte fisse e frequenze prestabilite, e l’emergere di grandi alleanze tra compagnie di navigazione, come l’Overseas Containers Ltd. (OCL) che nel 1965 riunì quattro armatori britannici, o l’ACT (Associated Container Transportation), formato da Ellerman Lines, Blue Star e altre compagnie. La guerra del Vietnam diede un ulteriore impulso alla diffusione del container, dimostrandone l’efficienza nella logistica militare, e già nel 1972 venne varata la prima portacontenitori da 3.000 TEU, segnando l’inizio di una corsa al gigantismo navale che continua ancora oggi. Oltre ai container standard da 20’ e 40’, nel tempo si sono diffusi modelli specializzati, come i reefer per le merci deperibili, gli open top per carichi voluminosi, e gli high cube per aumentare la capacità di stivaggio. Nonostante gli standard ISO, i produttori hanno sviluppato container con caratteristiche sempre più diversificate, sottoposti a rigorosi controlli da parte di società di classificazione come il RINA, il Germanischer Lloyd o il Bureau Veritas. Oggi la competizione tra i porti globali si gioca sulla capacità di intercettare i flussi intermodali, con hub come Rotterdam che mantengono un vantaggio strategico grazie alla presenza di industrie pesanti mentre altri scali si specializzano nel transhipment o nei servizi feeder. L’evoluzione del container è un processo dinamico che si sviluppa lungo due assi principali: la progressiva specializzazione delle unità di carico, con soluzioni tecniche sempre più differenziate rispetto allo standard ISO originario, e il miglioramento strutturale per garantire maggiore resistenza e ottimizzazione degli spazi. Un esempio emblematico è rappresentato dai container da 45 piedi, il cui volume (circa 86 metri cubi) si avvicina a quello di un semirimorchio stradale standard (13,60 metri di lunghezza), rendendoli particolarmente competitivi nei flussi Ro-Ro, come quelli tra Gran Bretagna, Irlanda e i porti del Benelux, dove possono sostituire efficacemente il trasporto su gomma. Parallelamente i container da 40 piedi high cube, con un’altezza di 9,6 piedi (contro gli 8,6 dei modelli standard), offrono un volume interno superiore del 15%, risultando ideali per merci voluminose o deperibili, come prodotti refrigerati. La vera innovazione nella specializzazione va oltre queste varianti ormai consolidate e si spinge verso container progettati su misura per specifiche tipologie merceologiche, con rinforzi strutturali mirati, materiali avanzati (come acciai ad alta resistenza o compositi leggeri) e caratteristiche funzionali adattate alle esigenze del carico, come sistemi di ventilazione integrata per prodotti agricoli o doppie pareti isolate per sostanze chimiche sensibili. L’altro fronte evolutivo riguarda l’incremento della robustezza strutturale per consentire l’impilamento su più livelli (fino a 9-10 altezze nei terminal più avanzati), ottimizzando così lo sfruttamento degli spazi nei piazzali portuali. Questa tendenza ha accentuato la dicotomia tra due segmenti del parco container globale, cioè unità economiche, spesso prodotte in Cina con materiali di qualità inferiore e costi di fabbrica ridotti (intorno ai 1.800-2.000 dollari per un container standard da 20 piedi), e unità premium, con prezzi che possono superare i 4.000 dollari, dotate di tecnologie avanzate come sensori di deformazione, rivestimenti anticorrosione e strutture rinforzate per resistere a sollecitazioni estreme durante il trasporto multimodale. Bologna sostiene che il settore deve affrontare due sfide cruciali. In primis la crescente complessità della gestione logistica e secondariamente l’inasprimento delle normative sulla sicurezza. La logistica dei container è sempre più onerosa, con i network costs delle compagnie marittime che rappresentano ormai il 25-30% dei costi operativi totali, a causa dello squilibrio nei flussi commerciali (si stima che per ogni 3 container pieni movimentati, 2 viaggino vuoti) e delle divergenze strategiche tra società di leasing e operatori navali. Le prime, grazie alla flessibilità introdotta dall’outsourcing, gestiscono parchi di oltre 30 milioni di TEU a livello globale, allocandoli in base a logiche di profitto che non sempre coincidono con le esigenze delle compagnie. Pensiamo solamente al leasing dinamico, dove società come Triton o Textainer concentrano i container nei bacini asiatici (dove i tassi di noleggio superano i 0,50 dollari per TEU/giorno) trascurando rotte meno redditizie ma strategiche per gli armatori, creando tensioni nella catena di approvvigionamento. Per mitigare queste inefficienze, le tecnologie di tracciamento intelligente stanno assumendo un ruolo centrale. I sistemi RFID (Radio Frequency Identification), inizialmente sviluppati per contrastare la contraffazione, sono stati adattati al monitoraggio dei container, permettendo una riduzione del 40% dei tempi di ispezione doganale. Questi dispositivi, abbinati a sensori IoT per il monitoraggio in tempo reale di parametri come temperatura, umidità e shock meccanici, sono diventati indispensabili per rispondere alle stringenti normative di sicurezza introdotte dopo l’11 settembre 2001. L’ISPS Code (International Ship and Port Facility Security Code), entrato in vigore nel 2004, ha imposto investimenti per oltre 1,3 miliardi di dollari a livello globale per adeguare navi e porti, con obblighi specifici come l’installazione di sistemi AIS (Automatic Identification System) su tutte le unità superiori a 500 tonnellate e la nomina di ufficiali dedicati alla sicurezza sia a bordo che a terra. L’influenza degli Stati Uniti in questo ambito è stata determinante, con iniziative come il CSI (Container Security Initiative) che hanno rivoluzionato le procedure doganali. In Italia, l’adozione del sistema AIDA (Automazione Integrata Dogane e Accise) tra il 2007 e il 2008 ha introdotto il preclearing, permettendo alle merci di essere sdoganate fino a 48 ore prima dell’arrivo fisico della nave. A questo punto Bologna introduce il tema del gigantismo navale. L’evoluzione delle dimensioni delle navi portacontainer è stata oggetto di studi approfonditi da parte del Lloyd’s Register a partire dal 1999, quando si iniziò a indagare sistematicamente sui limiti fisici imposti dalle infrastrutture portuali e dalle tecnologie navali. In una prima fase si concluse che le grandezze massime erano vincolate principalmente dalla portata delle gru esistenti e dalla profondità dei fondali, oltre che da fattori tecnici come il rischio di cavitazione delle eliche a velocità elevate. Quando emersero i primi ordini per navi da 10.000 TEU, divenne chiaro che il settore si stava avviando verso un incremento progressivo delle dimensioni, accompagnato da un’espansione del transhipment a macchia d’olio. Le proiezioni di mercato iniziarono a segnalare anche un possibile deficit nel segmento dei feeder, navi più piccole che collegano gli hub principali con i porti secondari. Tra il 2002 e il 2005 si verificò un salto tecnologico significativo nelle attrezzature portuali, con l’introduzione di gru in grado di gestire navi di larghezza massima mentre dal punto di vista della propulsione si affermò l’elica singola come soluzione più efficiente per raggiungere velocità commerciali di 23-25 nodi, superando l’opzione delle eliche gemelle. Nonostante questi progressi, le infrastrutture portuali continuavano a rappresentare un vincolo critico poiché le dimensioni delle navi dovevano essere compatibili non solo con le operazioni di carico e scarico ma anche con la capacità dei terminal di smaltire rapidamente il carico attraverso efficienti reti di trasporto verso l’hinterland. Le dimensioni ideali per una Ultra Large Container Ship (ULCS) furono calcolate in 12.000 TEU di portata, con una lunghezza fuori tutto di 400 metri, una larghezza di 57 metri (per ospitare 22 file parallele di container sul ponte), un pescaggio di 14,50 metri e una velocità di crociera compresa tra i 23 e i 25 nodi. Queste misure dovevano essere ricalibrate per tenere conto della crescente diffusione dei container high cube da 40 piedi (9’6” di altezza) che avrebbero aumentato la capacità nominale delle navi: una nave progettata per 12.500 TEU standard avrebbe potuto trasportare fino a 13.970 TEU se carica di high cube, con un conseguente aumento del peso e del pescaggio. Anche i container da 45 piedi, sebbene più complessi da stivare, avrebbero influito sulle capacità di carico. Un ulteriore fattore critico era rappresentato dallo squilibrio nei flussi commerciali. Sulle rotte Asia-Europa le navi trasportavano principalmente container leggeri mentre sulle rotte inverse, a causa dell’elevato numero di vuoti, predominavano merci pesanti ma a basso valore, come materie prime e prodotti industriali di base. Ciò comportava pescaggi differenti a seconda della direzione del viaggio, con un rapporto sbilanciato tra headhaul (carico all’andata) e backhaul (carico al ritorno). Per far fronte a questa variabilità si stabilì un pescaggio medio di 13,50 metri, con un pescaggio light di 13,00 metri e un design draught massimo di 15 metri. Altri problemi tecnici includevano la profondità della chiglia, i carichi idrodinamici e gli effetti erosivi della cavitazione sul timone. Nonostante queste valutazioni tecniche, le compagnie di navigazione si lanciarono in una corsa al gigantismo, spinte dall’esempio della Emma Maersk, entrata in servizio nel 2006, e da una dinamica di emulazione competitiva. A settembre 2008, erano già state ordinate 200 navi di classe New Post-Panamax, alcune delle quali con una larghezza superiore ai 51 metri, oltrepassando persino i 49 metri previsti per le nuove chiuse del Canale di Panama. L’aumento dei prezzi del carburante e i primi segnali di recessione globale spinsero le compagnie ad adottare pratiche di low steaming, riducendo la velocità per risparmiare fino a 100 tonnellate di carburante al giorno, equivalenti a circa 70.000 dollari di risparmio giornaliero quando il prezzo del bunker raggiungeva i 700 dollari a tonnellata. Il Lloyd’s Register avviò nuovi studi per valutare l’impatto delle normative MARPOL sulle emissioni di zolfo, soprattutto nelle zone SECA, e per verificare se l’uso di motori a potenza ridotta (inferiore al 40-50% del loro massimo) potesse causare problemi tecnici. La crisi finanziaria del 2007-2008 rivelò con drammatica evidenza il divario tra le preoccupazioni ingegneristiche per la sicurezza e l’approccio irresponsabile del mercato, guidato da logiche speculative e dalla compressione dei costi. Nonostante decenni di sviluppo del trasporto containerizzato mancava ancora un quadro normativo uniforme, come dimostrava il fallimento della Convention for Safe Container (CSC), mai entrata in vigore per mancanza di ratifiche sufficienti. Al 1° gennaio 2009 la flotta mondiale full container contava 4.639 navi, per una stazza lorda complessiva di 161,9 milioni di tonnellate e una capacità di 12,1 milioni di TEU mentre la flotta general cargo includeva 17.949 navi, per un totale di 106,8 milioni di tonnellate. Tra il 2005 e il 2008 la capacità delle navi portacontainer era cresciuta a un tasso medio annuo del 14,1% in termini di TEU, con una stazza media passata da 1.180 TEU nel 1987 a 2.620 TEU nel 2009. Le prime 15 compagnie di navigazione controllavano il 66% della flotta globale, pari al 77% della capacità complessiva, con strategie di crescita aggressive come quelle di Maersk (+123,1%), MSC (+133,6%), CMA CGM (+153,7%) e Hapag-Lloyd (+160,2%) mentre Evergreen, un tempo seconda solo a Maersk, aveva adottato un approccio più prudente, crescendo solo del 45%. Il mercato dei noli subì un crollo del 75% tra il 2008 e il 2009, con 576 navi ferme e 78 ordini cancellati. Gli strumenti finanziari derivati, come i Freight Forward Agreements (FFA), che nel 2008 superavano del 10% il volume fisico degli scambi, persero gran parte del loro valore protettivo durante la crisi, colpendo duramente gli hedge fund e gli investitori istituzionali che vi avevano fatto ricorso. Le prospettive future indicavano una significativa sovracapacità, con 1.261 navi portacontainer e 1.799 general cargo in ordine, tra cui 142 ULCS da oltre 12.000 TEU e 34 da 14.000 TEU. Nel primo quadrimestre del 2009 non fu registrato alcun nuovo ordine per portacontainer, segnando una brusca frenata dopo anni di espansione incontrollata. Intanto, i traffici interasiatici continuarono a crescere nonostante il crollo dei flussi est-ovest, rivelando un cambiamento strutturale nel commercio globale, con l’Asia che diventava sempre più un mercato autonomo. La crisi mise inoltre in luce gravi criticità nel sistema finanziario dello shipping, con problemi irrisolti da decenni, come l’assenza di un modello contrattuale uniforme per il trasporto intermodale e l’eccessiva dipendenza da bandiere di comodo, sotto le quali era registrato il 56,3% del tonnellaggio general cargo mondiale. Al contempo, la quota di flotta sotto bandiere OCSE era scesa dal 24,2% nel 2005 al 20% nel 2008, segnando un ulteriore spostamento del potere navale verso Paesi con normative meno stringenti. Il tema del gigantismo ritorno spesso in Bologna, soprattutto nelle analisi del legame tra porti e finanza che vedremo a breve. Nel libro Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019 ripercorre l’origine di questo fenomeno partendo dagli anni ‘70, quando, a causa della crisi petrolifera del 1973 e dei conflitti in Medio Oriente che bloccarono il Canale di Suez, furono introdotte le superpetroliere da più di 400 mila tonnellate dette ULCC. Esse non generavano grossi problemi alle infrastrutture portuali, infatti si poteva rispondere alla loro presenza allungando i pontili se i fondali non erano sufficienti mentre la manovra e l’ormeggio avevano bisogno di molti rimorchiatori. Tutto ciò non toccava le infrastrutture terrestri. Quando oggi parliamo di navi giganti, invece, ci riferiamo alle navi portacontainer le cui dimensioni sono notevolmente aumentate a partire dal 2006, quando venne varata la Emma Maersk da 13.000 TEU. Nel 2017 si era già arrivati a parlare di navi da 20.000 TEU che richiedono performance straordinarie in termini di logistica portuale. Qui emerge il problema del gigantismo navale rispetto alle infrastrutture portuali perché porta con sé sfide non presenti ai tempi del gigantismo delle petroliere. Infatti queste navi lavorano in base al principio dell’intermodalità. Significa che gli standard applicati in un segmento della catena di trasporto deve valere in tutti quelli successivi, producendo dei vincoli particolarmente chiari. Una determinata dimensione della nave richiede banchine più grandi, fondali più profondi, servono adeguati mezzi di sbarco e imbarco per gestire i volumi trasportati e movimentati e, infine, le finestre temporali a cui la nave deve adeguarsi devono comportare adeguate rese per turno, adeguate superfici di piazzali e adeguata disponibilità di mezzi per consentire l’entrata e l’uscita nel terminal di una determinata quantità di container in ogni finestra temporale. Logicamente tutto ciò ha bisogno di una logistica portuale e retroportuale formidabile, con operazioni tra loro sincronizzate e addirittura un sistema informatico capace di governare le situazioni di picchi di lavoro in tutte le sue variabili e di rispondere agli imprevisti. Se le dimensioni delle navi tendono ad aumentare c’è il rischio di una rapida obsolescenza delle infrastrutture portuali che richiederanno altri investimenti per adeguare i propri mezzi e le proprie strutture evitando di finire fuori mercato. Questa è la conclusione a cui si arriva limitando l’analisi al solo porto ma le cose si complicano se ad essere adeguate sono anche le linee ferroviarie e le arterie stradali. Nei momenti di picco diventa difficile programmare la forza lavoro necessaria oppure un numero adeguato di carri ferroviari e camion. Bologna sostiene che l’impatto delle grandi navi, quindi, fa rapidamente affievolire l’iniziale entusiasmo per le economie di scala che consentono di fare facendo anche emergere molte analisi critiche. I dubbi sono stati confermati dall’ostilità delle compagnie marittime, i carrier, rispetto ai maggiori costi per le operazioni di carico e scarico a fronte degli investimenti che avrebbero dovuto fare le società terminalistiche per adeguare macchinari e sistemi alle esigenze di queste navi. E tantomeno, dice Bologna, erano disposte a farsi carico dei costi che sarebbero ricaduti sulle amministrazioni pubbliche e dei costi esterni come il congestionamento delle aree portuali. Il rischio era un scenario in cui i costi dei porti aumentano e non i ricavi, cioè una situazione in cui cala il costo unitario del trasporto marittimo del container ma aumenta il suo costo unitario per la movimentazione e il trasporto a terra senza produrre vantaggi per la supply chain di cui la catena di trasporto intermodale è solo un segmento. In Le multinazionali del mare. Letture sul sistema marittimo-portuale erano già presenti questi schemi di analisi del ciclo portuale come ciclo industriale. L’ascesa del trasporto containerizzato ha radicalmente trasformato l’identità stessa del porto, che da hub multifunzionale capace di accogliere navi e merci eterogenee si è progressivamente ridotto a terminal specializzato nel movimento di container. Questo cambiamento è emerso con chiarezza già nel 2007, quando sei delle dieci migliori relazioni presentate alla Conferenza Annuale dell’International Association of Maritime Economist erano dedicate proprio ai terminal container o alla containerizzazione, segno di un interesse accademico e operativo sempre più focalizzato su questo settore. Tre anni dopo, nel 2009, nonostante la fine del cosiddetto super ciclo dei trasporti marittimi, l’attenzione rimaneva fortemente concentrata sui container, a dimostrazione di come ormai l’immagine del porto moderno coincidesse con quella del terminal containerizzato. Del resto, i grandi porti che dominano le classifiche mondiali per volume di traffico, Singapore, Hong Kong, Shanghai, sono in realtà giganteschi hub multiterminal dedicati quasi esclusivamente alla movimentazione di container, dove l’efficienza operativa si misura in TEU movimentati e la competizione globale si gioca sulla capacità di gestire flussi sempre più intensi e complessi. All’interno di un terminal container il raggiungimento di livelli ottimali di produttività dipende dalla capacità di coordinare una serie di operazioni apparentemente semplici ma in realtà estremamente articolate, soggette a variabilità e imprevisti. Le attività si dividono in due grandi categorie: quelle ship-to-shore, ovvero le operazioni di carico e scarico delle navi, affidate a gru a portale montate su rotaia (RMG) o su ruote gommate (RTG), e quelle di movimentazione interna che includono il trasferimento dei container dalla banchina alle aree di stoccaggio e vengono effettuate con mezzi come gli straddle carrier, i reach stacker, i chassis o, nei terminal più avanzati, veicoli a guida automatica (AGV). Sebbene il ciclo operativo possa sembrare lineare, con una sequenza di banchina e una di retrobanchina, la sua complessità deriva dall’interazione di numerosi fattori difficilmente prevedibili, a partire dalle esigenze delle compagnie di navigazione che impongono vincoli temporali stringenti. Per queste ultime, infatti, il terminal rappresenta solo una tappa all’interno di un itinerario più ampio e il tempo concesso per le operazioni di carico e scarico è determinato non solo dalla necessità di rispettare gli orari della tratta ma anche dalla disponibilità stessa della banchina. La pianificazione delle attività inizia idealmente con largo anticipo, attraverso l’elaborazione di programmi mensili (monthly schedules) che vengono poi costantemente aggiornati grazie allo scambio di informazioni in tempo reale tra terminal, compagnie marittime e agenti. Tuttavia, il vero salto di qualità avviene solo quando il sistema informativo del terminal è perfettamente integrato con quello degli altri attori della supply chain, in particolare delle shipping lines. Non basta infatti conoscere la posizione esatta di un container nella stiva o le sue caratteristiche tecniche (se si tratta di un dry container standard, di un reefer, di un open top o di un tank container); l’informazione davvero cruciale è la sua destinazione finale, perché è questa a determinare dove e come il container verrà stoccato in attesa di essere ritirato, trasferito su un treno, su una chiatta o persino su un’altra nave nel caso dei traffici di transhipment. Sulla base di questi dati, il terminal può ottimizzare l’allocazione degli spazi di banchina (berthing), il numero di gru da impiegare, la sequenza di movimentazione interna e la distribuzione dei container nelle diverse aree di stoccaggio che possono essere organizzate per tipologia di carico, per compagnia marittima o per modalità di trasporto successivo. Nonostante l’apparente completezza delle informazioni disponibili, la realtà operativa è costellata di imprevisti. Uno dei principali è il ritardo delle navi, infatti, quando i ritardi si accumulano, l’intera programmazione salta e il sistema informativo, che pure rappresenta il “cervello” del terminal, fatica a riadattarsi. Un’analisi condotta nel 2006 da Drewry su un campione di 1.070 navi in servizio su diverse rotte rivelò che solo il 57% rispettava gli orari previsti mentre il 23% arrivava con un giorno di ritardo, il 6% con due giorni e il 12% con tre o più giorni di ritardo. Anche le rotte mostravano performance disomogenee con quelle tra Asia e Mar Rosso via subcontinente indiano o tra Europa e Australia via Suez che raggiungevano il 70% di puntualità, al contrario delle rotte da e per il Sud America che difficilmente superavano il 40%. La gestione di queste criticità richiede flessibilità e un solido quadro contrattuale tra terminal e compagnie. Oggi l’assegnazione degli ormeggi non segue più la logica del “first come, first served”, bensì quella degli accordi commerciali che garantiscono priorità alle navi delle compagnie partner in cambio di impegni su frequenze, volumi e finestre temporali. Questi contratti sono veri e propri strumenti operativi che definiscono ex ante i livelli di produttività attesi, spesso esplicitando anche una resa media oraria per le operazioni di carico e scarico. Le tariffe, dal canto loro, possono essere differenziate per tipologia di container (pieni, vuoti) o per tipo di operazione (trasbordo). La progettazione di un terminal container è un’operazione estremamente complessa, influenzata da fattori come la superficie disponibile (spesso vincolata dai termini della concessione portuale), la tipologia di traffico gestito (transhipment, import/export) e le specificità dei mercati serviti. Alcuni porti, ad esempio, devono gestire un’elevata percentuale di container refrigerati mentre altri si trovano a movimentare grandi volumi di vuoti in export. La scelta delle attrezzature, tra gru a cavaliere, reach stacker, trattori con semirimorchio o sistemi automatizzati, dipende dal layout del terminal e dalla strategia di servizio che si intende perseguire. Aziende come la finlandese Kalmar, leader nel settore, hanno sviluppato soluzioni innovative come gli shuttle carrier, veicoli ad alta velocità in grado di movimentare i container orizzontalmente, riducendo i tempi morti nei megaterminal. Per ottimizzare le risorse, i gestori ricorrono a sofisticati sistemi di simulazione che tengono conto dei flussi di traffico (via nave, treno, gomma o via fluviale), dei picchi stagionali e delle prestazioni delle attrezzature. Questi modelli permettono di definire il numero ottimale di gru da dispiegare lungo la banchina, la produttività lorda necessaria per raggiungere i volumi target e la migliore combinazione possibile di mezzi di piazzale. In un contesto in cui la domanda di efficienza cresce mentre i margini si riducono, la capacità di innovare e adattarsi rappresenta la vera sfida per i terminal container del futuro. La scelta del sistema informativo rappresenta la decisione più delicata e complessa nella progettazione di un terminal container poiché influenza direttamente l’efficienza operativa e la capacità di gestire il traffico in modo fluido. Un esempio emblematico è quello di Gioia Tauro, il cui successo iniziale fu in gran parte attribuito alla corretta selezione del sistema informatico, scelto in accordo con la compagnia marittima principale che garantiva un flusso costante di traffico. Allo stesso modo, se il terminal è gestito da un gruppo globale, il sistema deve integrarsi perfettamente con quelli degli altri terminal controllati dalla stessa holding, garantendo una gestione coordinata e ottimizzata delle operazioni. Al contrario, un sistema malfunzionante può portare a gravi disservizi, come dimostrato dal caso del VTE di Genova Voltri che all’inizio del 2007 subì un blocco operativo a causa di un guasto informatico, paralizzando non solo il terminal stesso ma anche l’intero sistema portuale dell’Alto Tirreno, dove le navi furono dirottate in emergenza. I terminal più piccoli ma ad alta produttività, come quello di Salerno prima di raggiungere la saturazione, hanno dimostrato come la personalizzazione dei sistemi informatici disponibili sul mercato possa portare a risultati eccellenti. Nei terminal di grandi dimensioni e ad alto livello di automazione, come quelli di Rotterdam e Amburgo, la flessibilità del sistema è fondamentale e viene ottenuta attraverso una programmazione modulare che consente di adattarsi alle fluttuazioni del traffico e alle esigenze operative.
La gestione di un terminal container non si limita alle sole operazioni fisiche di movimentazione ma comprende anche la gestione documentale e quella del personale, aspetti altrettanto critici per il corretto funzionamento dell’infrastruttura. Le fasi operative includono la pianificazione degli ormeggi, la generazione delle sequenze di carico e scarico delle navi, la gestione dei flussi di container su treni e camion e il coordinamento dei mezzi che collegano le gru di banchina ai piazzali di stoccaggio. Queste attività richiedono una meticolosa allocazione delle risorse, sebbene i tempi effettivi di arrivo delle navi siano spesso confermati solo 24 ore prima, introducendo un margine di incertezza che i sistemi informativi devono essere in grado di gestire. Una volta avviate le operazioni, i sistemi devono supportare la ri-pianificazione in tempo reale, adattandosi a eventuali ritardi, modifiche nelle sequenze di carico o imprevisti nei flussi di traffico interno. Per quanto riguarda la documentazione, i sistemi informativi si occupano di gestire l’acquisizione degli ordini, regolare i flussi di comunicazione con le navi, le compagnie marittime e le autorità di controllo, oltre a generare la documentazione necessaria per la fatturazione. Parallelamente, la gestione del personale richiede la soluzione di problemi complessi legati alla turnazione, soprattutto in contesti come quello italiano, dove i turni standard sono di 6 ore e 30 minuti, organizzati per evitare interruzioni durante la pausa pranzo, salvo accordi particolari o situazioni eccezionali. A livello globale, sono poche le aziende in grado di offrire soluzioni integrate per tutte queste esigenze. Tra i prodotti più diffusi vi è SPARCS di Zebra Enterprise Solutions (ex NAVIS), utilizzato in 180-200 terminal in tutto il mondo, che si occupa della pianificazione e del controllo operativo e si integra con EXPRESS, dedicato alla gestione documentale. Recentemente, i due sistemi sono stati fusi in SPARCSN4, una piattaforma basata su Java che offre maggiore flessibilità, soprattutto nella configurazione delle regole di business, come l’accettazione di container privi di documentazione completa. Questo nuovo sistema è già stato implementato in 16 terminal pilota, principalmente in America Latina (Perù, Colombia, Repubblica Dominicana) e Africa (Namibia). Un altro sistema storico è COSMOS, il primo sistema integrato sul mercato, ora di proprietà di PSA Singapore, che copre sia la gestione operativa che quella documentale. Sia SPARCSN4 che COSMOS includono algoritmi di ottimizzazione per il routing dei mezzi sul piazzale, la pianificazione degli spazi di stoccaggio e la gestione delle sequenze di carico e scarico. In Italia SPARCS è utilizzato a Genova (SECH), La Spezia (LSCT), Livorno (TDT), Cagliari (CICT), Ravenna e Venezia (TCR) mentre COSMOS è impiegato a Genova Voltri (VTE), Salerno, Gioia Tauro e Trieste. A livello internazionale SPARCS è presente in terminal chiave come Rotterdam, Amburgo, Algeciras, Pireo e Tangeri mentre COSMOS è installato ad Anversa. Oltre a questi, altri sistemi presenti sul mercato includono TOPX e TOPO della società australiana RBS, utilizzati a Taranto e Port Said, mentre soluzioni come CMC (Tata Group) e JADE (coreano) sono più orientate verso la gestione del general cargo. Non esistono sistemi standard per la gestione della turnistica del personale che viene spesso sviluppata internamente dai terminal. L’innovazione tecnologica nei terminal container sta rivoluzionando le operazioni quotidiane, con l’introduzione di tecnologie wi-fi per la comunicazione con i mezzi in movimento, fornite da aziende specializzate come LXE e TEKLOGIX, e l’adozione di sistemi RFID, GPS e DGPS per la localizzazione precisa dei container. Zebra Enterprise Solutions, dopo l’acquisizione di WhereNet e PROVEO, sta sperimentando queste soluzioni nel terminal Eurogate di Tangeri, trasferendo tecnologie già collaudate nel settore aeroportuale. Un’altra frontiera è rappresentata dall’automazione, con veicoli a guida autonoma (AGV) e gru automatiche (ASC) già operative a Rotterdam (Delta Terminal ed Euromax), Amburgo (Container Terminal Altenwerder) e Anversa (Antwerp Gateway). In questi contesti il software di automazione deve integrarsi perfettamente con i sistemi informativi gestionali per garantire una coordinazione senza intoppi. Per quanto riguarda l’assegnazione delle gru di banchina, essa dipende dalle dimensioni delle navi e dall’organizzazione del carico. Con l’aumento delle dimensioni delle navi portacontainer, i terminal si sono dotati di gru più potenti, in grado di gestire fino a 22 file di container e sollevare due o tre container contemporaneamente. Problemi operativi, come ritardi nelle operazioni di carico, possono portare a interruzioni e riorganizzazioni degli itinerari, con effetti a catena sui servizi feeder. La cooperazione tra compagnie marittime e terminalisti è quindi cruciale, tanto che in alcuni casi le compagnie acquisiscono quote di partecipazione nei terminal per garantirsi priorità operativa. I terminal sono spesso progettati con una capacità potenziale superiore del 30% rispetto al traffico effettivo previsto, per garantire margine di manovra in caso di picchi di domanda. In periodi di congestione, come nel 2004-2005 in Nord America ed Europa, alcuni terminal hanno raggiunto livelli di utilizzo del 90%, causando inefficienze significative. La razionalizzazione del carico da parte delle compagnie marittime, attraverso sistemi di simulazione avanzati, può contribuire a migliorare la produttività del terminal, riducendo i tempi di sosta e ottimizzando le operazioni. Le attività di retrobanchina rappresentano una delle maggiori criticità, poiché sono soggette a imprevisti come modifiche last-minute dei booking o ritardi nei controlli doganali. La gestione degli spazi di stoccaggio, suddivisi per tipologia di container (import, export, refrigerati, merci pericolose…), richiede decisioni rapide per minimizzare movimenti non produttivi e ottimizzare il dwell time, ovvero il tempo di permanenza dei container nel terminal. Questo aspetto è influenzato dall’organizzazione interna e da fattori esterni come le politiche logistiche delle aziende e l’efficienza delle autorità doganali. La logistica portuale italiana mostra una marcata differenza rispetto ai grandi hub del Nord Europa, come Anversa e Amburgo, dove la maggior parte dei container viene smistata su strada entro un raggio massimo di 50 chilometri dal porto, con un uso intensivo del treno per le medie e lunghe distanze. Al contrario, i principali porti italiani si trovano spesso a oltre 100 chilometri dai mercati di riferimento e dipendono in modo quasi esclusivo dal trasporto su gomma. Questo divario è dovuto al fatto che Anversa e Amburgo non sono semplici punti di attracco navale ma vere e proprie regioni logistiche, caratterizzate da un’alta concentrazione di centri di distribuzione che fungono da retroporto, generando direttamente domanda di servizi e ottimizzando i flussi. In Italia i tentativi di replicare questo modello attraverso i distripark, aree dedicate allo smistamento e alla distribuzione delle merci, sono falliti, evidenziando una carenza strutturale nell’integrazione tra porto e hinterland. I terminal container possono essere classificati in due grandi categorie: quelli specializzati nel transhipment (trasbordo) e quelli che servono principalmente mercati di import-export. I primi, spesso gestiti in conto proprio dalle compagnie marittime, presentano un livello di complessità gestionale inferiore poiché il loro funzionamento è più standardizzato e legato alle rotte delle navi madre. I terminal che operano come gateway per un vasto mercato retrostante devono, invece, coordinare una molteplicità di flussi: traffici deep sea (intercontinentali), short sea (cabotaggio e traghetti), trasporti fluviali (barge), ferroviari e stradali. Questi ultimi rappresentano il livello più alto di complessità operativa poiché devono bilanciare esigenze diverse e spesso contrastanti. Negli ultimi anni, un fenomeno interessante è stato l’aumento del traffico di trasbordo anche in porti tradizionalmente orientati all’import-export, come Amburgo e Valencia. Amburgo ha beneficiato della crescita dei volumi nei porti del Baltico, ancora insufficientemente attrezzati per gestire navi di grandi dimensioni mentre Valencia ha visto un incremento grazie a scelte strategiche delle compagnie marittime. Questo tipo di traffico è particolarmente vantaggioso per i terminal visto che aumenta i volumi movimentati e riduce i costi fissi per TEU, ottimizzando l’utilizzo delle infrastrutture e delle attrezzature.
Tuttavia, la gestione dei flussi short sea in porti come Rotterdam, Anversa, Zeebrugge e Amburgo introduce ulteriori livelli di complessità. Questi scali devono coordinare non solo i traffici intercontinentali ma anche i movimenti di cabotaggio verso il Regno Unito, l’Irlanda e la Scandinavia. Spesso, i terminal dedicati al cabotaggio non sono fisicamente vicini a quelli che gestiscono le grandi navi deep sea, costringendo a trasferimenti interni su strada o su chiatta. In Germania, dopo la caduta del Muro di Berlino, parte di questi traffici è stata dirottata su Rostock e Lubecca per evitare di sovraccaricare Amburgo. Ancora più complessa è la gestione della navigazione fluviale a Rotterdam e Anversa, dove le chiatte svolgono un ruolo cruciale nel collegamento tra terminal, occupando spazio prezioso sulle banchine. La capacità di sfruttare i fiumi Reno e Schelda per il trasporto container ha storicamente rappresentato un vantaggio competitivo per i porti olandesi e belgi ma l’aumento delle dimensioni delle chiatte, alcune delle quali possono trasportare fino a 3.600 tonnellate di merce, ha creato nuovi colli di bottiglia, richiedendo banchine più ampie e meglio attrezzate. Un parametro spesso utilizzato per valutare l’efficienza di un terminal è il dwell time, ovvero il tempo medio di permanenza di un container all’interno della struttura. Sebbene sia comunemente interpretato come un indicatore di performance, la realtà è più sfumata. In alcuni casi un dwell time più lungo può essere economicamente vantaggioso per il terminal, soprattutto se la capacità dello spazio lo consente. Oltre il periodo di franchigia (generalmente una settimana), i container lasciati in giacenza possono generare ricavi aggiuntivi poiché diventano oggetto di transazioni speculative da parte di operatori logistici o intermediari. Questo fenomeno è particolarmente rilevante quando la polizza di carico è di tipo port-to-port, lasciando maggiore libertà nella gestione delle merci. Quando il container fa parte di una catena di fornitura gestita da un operatore logistico integrato o da una grande azienda manifatturiera, il dwell time tende a essere minimizzato poiché l’obiettivo è massimizzare l’efficienza e ridurre i costi. In questi casi il porto viene utilizzato come semplice gateway, un punto di passaggio verso la destinazione finale, e non come magazzino temporaneo. L’organizzazione di un terminal container è stata spesso paragonata a una catena di montaggio industriale ma le differenze sono sostanziali. Mentre la produzione industriale si basa su sequenze predeterminate e altamente standardizzate, i terminal devono affrontare una variabilità continua: ogni nave rappresenta un ambiente di lavoro diverso, con carichi eterogenei (container da 20’ e 40’, refrigerati, fuori misura) e priorità operative dettate dai contratti con le compagnie marittime. Anche due navi gemelle possono richiedere approcci completamente diversi se una trasporta un’alta percentuale di container frigo e l’altra no. Inoltre, l’arrivo simultaneo di più navi o di una nave madre con diversi feeder può costringere il terminal a ridistribuire le gru disponibili, riducendo drasticamente la produttività. Le performance operative dipendono da cinque fattori principali: la struttura del carico, le caratteristiche della nave, le risorse meccaniche disponibili, l’organico e gli impegni contrattuali con i clienti. La misurazione della produttività nei terminal è un’operazione complessa e spesso ambigua. Per le operazioni di banchina (ship-to-shore), i parametri più utilizzati includono il numero di sollevamenti (lifts) per gru all’ora, il numero di TEU movimentati per turno o il numero di container gestiti per ora lavorata netta. Questi criteri presentano limiti, con, ad esempio, il concetto di lift che comprende non solo il sollevamento vero e proprio ma anche il posizionamento e il ritorno della gru alla posizione iniziale, rendendo più accurato l’uso del termine ciclo gru (crane cycle). Allo stesso modo, l’utilizzo del TEU come unità di misura può distorcere i dati poiché un container da 40’ (2 TEU) conta come due unità pur richiedendo lo stesso tempo di movimentazione di uno da 20’. Per le operazioni di piazzale (yard), invece, è più rilevante il volume di spazio occupato, misurato in TEU per ettaro. Qui le inefficienze sono spesso legate a movimenti “non paganti”, come i riposizionamenti di container dovuti a una programmazione non ottimale o a cambiamenti nelle istruzioni di trasporto. Un’altra differenza cruciale tra i terminal di transhipment e quelli di import-export riguarda la prevedibilità delle operazioni. I primi, essendo più simili a una catena di montaggio, hanno una programmazione più stabile e una produttività lorda più elevata, grazie all’uso di gru più potenti e a una minore incidenza di tempi morti. In alcuni casi il trasbordo avviene direttamente da nave a nave (direct transhipment), senza che i container tocchino terra, accelerando ulteriormente i tempi. Al contrario i terminal di import-export devono fare i conti con variabili esterne come i tempi doganali, le scelte degli operatori logistici e le fluttuazioni della domanda. La terza componente fondamentale di un terminal container è la zona dedicata al gate process, un’operazione apparentemente semplice ma in realtà molto delicata, poiché gestisce il flusso di veicoli stradali pesanti in entrata e uscita. Questo movimento può interferire con le operazioni interne del terminal, creando criticità soprattutto nei momenti di picco, quando i tempi di attesa si allungano a causa di procedure farraginose. Negli ultimi anni, l’automazione ha migliorato l’efficienza del gate process attraverso sistemi di rilevamento automatico dei dati e identificazione delle unità di carico. Una possibile soluzione per ridurre i colli di bottiglia è limitare l’accesso agli autotrasportatori, creando pool certificati, ma questa strategia presenta fragilità, soprattutto in porti con mercati diversificati come Trieste che serve anche i Balcani e la Turchia. Un altro problema è la documentazione, infatti, mentre la semplificazione burocratica potrebbe accelerare i controlli, la crescente richiesta di sicurezza ha reso le procedure più complesse. L’unica soluzione efficace è l’informatizzazione totale, permettendo l’invio anticipato dei dati e riducendo la sosta al gate a verifiche fisiche, come la fotografia di eventuali danni ai container. Molti terminal impongono un tempo massimo di permanenza ai camion, applicando multe in caso di superamento ma l’efficacia di questa misura dipende dalla precisione dei sistemi di gestione interna che devono guidare gli autisti lungo percorsi predefiniti fino allo slot di carico o scarico. L’imprevedibilità delle operazioni può disorientare i conducenti, costringendoli a lunghe ricerche. Diversa è la situazione per i treni che devono rispettare gli orari concordati con le navi. In Italia, l’uso della ferrovia varia notevolmente: porti come La Spezia, Trieste e Napoli la considerano strategica, con oltre il 20% di traffico intermodale, mentre a Genova e Livorno il trasporto su rotaia è meno sviluppato, nonostante i progetti di potenziamento. A Genova il terminal Messina si distingue per il forte utilizzo ferroviario, grazie al supporto della compagnia marittima che lo gestisce e alla presenza di inland terminal. Le scelte modali dei terminal dipendono spesso dalla loro gestione con alcuni che privilegiano la flessibilità del trasporto stradale mentre altri, specialmente quelli controllati da compagnie di navigazione, investono strategicamente nella ferrovia.
3. Finanza e porti
Il settore del trasporto marittimo si caratterizza per una vasta gamma di tipologie navali, ciascuna specializzata in base al carico trasportato e alle rotte commerciali. Tra le più diffuse vi sono le navi cisterna (tanker), impiegate per il trasporto di petrolio e derivati, le portarinfuse (bulk carrier), dedicate a carichi secchi come minerali e granaglie, e le portacontainer che dominano il commercio globale di merci imballate. Accanto a queste, operano navi general cargo per carichi eterogenei, chemical carrier per prodotti chimici, LNG carrier per gas naturale liquefatto e reefers per derrate deperibili. Non mancano poi le Ro-Ro per veicoli e mezzi gommati, le multipurpose per carichi combinati, le car carrier per autoveicoli e le imponenti navi da crociera, vere e proprie città galleggianti. Durante il cosiddetto super cycle del mercato marittimo (2002-2007) le bulk carrier hanno registrato performance straordinarie, con noli alle stelle e un boom di ordini. Le unità più grandi, come le Capesize, sono state impiegate principalmente sulle rotte del ferro e del carbone mentre le Panamax e Handysize hanno operato su rotte multileg o in triangolazione, adattandosi a mercati più frammentati. Le portacontainer presentano una struttura proprietaria duale con circa metà che è controllata da grandi operatori come Maersk o MSC ed ordinano navi su misura per rotte specifiche (si pensi alle mega-portacontainer da 24.000 TEU); l’altra metà è in mano a noleggiatori indipendenti che prediligono unità flessibili per il mercato spot. Nonostante la concorrenza dei container refrigerati, le reefer ships hanno mantenuto una nicchia importante, sostenute dalla domanda globale di frutta esotica e prodotti freschi. Parallelamente, le Ro-Ro hanno beneficiato sia del cabotaggio europeo sia dei lucrosi contratti militari con le navi specializzate (chimici, auto, cemento) che seguono le oscillazioni dei rispettivi mercati di riferimento. L’aspetto finanziario riveste un’importanza cruciale, considerando i costi stratosferici delle nuove costruzioni (fino a 200 milioni di dollari per una portacontainer di ultima generazione). Gli investitori possono scegliere tra diverse opzioni: prestiti bancari tradizionali (spesso con garanzia ipotecaria), leasing operativi, emissioni obbligazionarie o il ricorso ai mercati azionari attraverso IPO. Il sistema tedesco KG (Kommanditgesellschaft) ha rappresentato per anni un modello vincente, aggregando il risparmio privato in fondi chiusi dedicati al shipping, con vantaggi fiscali e rendimenti stabili. Al suo apice (2005), questo sistema ha mobilitato 2,9 miliardi di euro, finanziando un terzo della flotta container mondiale noleggiata. La riforma fiscale del 2005 e la crisi del 2008 ne hanno ridimensionato il ruolo, spingendo verso soluzioni più flessibili come i fondi aperti o i veicoli societari di Singapore. Tuttavia la Germania resta un attore dominante nella shipping finance, grazie a un ecosistema favorevole che combina competenze bancarie (HSH Nordbank), fiscalità agevolata (tonnage tax) e una rete di gestori specializzati (come Peter Döhle o Rickmers) ma l’eccesso di esposizione al rischio shipping ha messo in crisi interi istituti di credito, dimostrando la volatilità di un settore dove gli investimenti faraonici convivono con cicli economici imprevedibili. La lezione è chiara: nel mondo marittimo, la capacità di navigare tra le tempeste finanziarie è tanto cruciale quanto quella di solcare gli oceani. La rilevanza del credito specializzato nel settore marittimo in Germania emerge con chiarezza dai dati raccolti dalla rivista Hansa International Maritime Journal che ogni anno conduce un’indagine approfondita sulle principali banche attive in questo comparto. Alla fine del 2006 i nove maggiori istituti di credito tedeschi impegnati nel finanziamento dello shipping avevano un portafoglio complessivo di prestiti pari a 79.325 milioni di euro, di cui ben 28.465 milioni erano stati erogati nel solo 2006, rappresentando così il 35,8% del totale. Tra queste banche HSH Nordbank si distingueva come il più grande finanziatore mondiale del settore, con un volume di crediti pari a 21.852 milioni di euro, corrispondenti al 27,5% del totale tedesco. Per dare un’idea dell’entità di questa cifra, basti pensare che superava persino il debito complessivo della città-Stato di Amburgo, uno dei principali centri marittimi d’Europa. Al secondo posto si trovava KfW IPEX Bank, un istituto controllato da un gruppo pubblico che aveva svolto un ruolo fondamentale nella ricostruzione della Germania nel dopoguerra, grazie anche ai fondi del Piano Marshall, e che successivamente aveva guidato la modernizzazione dell’ex DDR dopo la caduta del Muro di Berlino. Nonostante nel 2008 avesse ottenuto l’autonomia legale, KfW IPEX Bank aveva mantenuto un forte impegno nel settore marittimo, consolidando la sua posizione nel credito all’esportazione. Con l’Annual Report 2008 si assiste ad un significativo rallentamento degli investimenti, con un volume di nuovi impegni pari a 1,8 miliardi di euro, in netto calo rispetto ai 1,7 miliardi erogati nel solo primo semestre del 2007. Questo declino era dovuto non solo alla brusca frenata degli ordini navali nell’ultimo trimestre ma anche alla crescente difficoltà nel trovare co-finanziatori disposti a condividere il rischio. Di conseguenza la banca aveva iniziato a concentrarsi maggiormente su piccole e medie imprese familiari proprietarie di navi portarinfuse o general cargo, un segmento considerato più stabile. Accanto a questi due colossi anche le banche regionali giocavano un ruolo di primo piano nel finanziamento marittimo. Tra queste spiccava Norddeutsche Landesbank (Nord/LB), una delle istituzioni più solide del settore, come dimostrò la sua resilienza durante la crisi finanziaria. Nord/LB, che aveva acquisito nel 2007 la Deutsche Hypothekenbank, vantava una lunga tradizione nel credito navale e si posizionava al terzo posto per volume di prestiti erogati, dietro solo a HSH Nordbank e KfW IPEX. Altre banche regionali fortemente impegnate includevano Bremer Landesbank, attiva nel polo marittimo di Brema, e Landesbank Hessen-Thüringen (Helaba) che nel 2007 aveva registrato il tasso di crescita più elevato nel credito allo shipping. Il sistema creditizio tedesco legato allo shipping cominciò a mostrare gravi crepe già a partire dalla fine del 2006. HSH Nordbank, che tra il 1998 e il 2001 aveva raddoppiato il volume dei suoi prestiti al settore marittimo e li aveva ulteriormente incrementati del 50% nel quinquennio successivo, si trovò in seria difficoltà. Nel 2009 fu costretta a chiedere una garanzia statale di 30 miliardi di euro per evitare il collasso mentre l’Unione Europea apriva un’inchiesta sulla sua gestione. Due membri del suo consiglio d’amministrazione furono addirittura allontanati per comportamenti lesivi degli interessi della banca. La crisi non risparmiò neppure Deutsche Schiffsbank, messa in difficoltà dalle perdite della capogruppo Commerzbank che nel frattempo era stata parzialmente nazionalizzata con un’iniezione di capitale pubblico di 14 miliardi di euro. La situazione era così grave che, nel novembre 2009, la stampa specializzata descriveva quasi tutte le banche tedesche attive nel settore marittimo come in condizioni critiche, con HSH Nordbank e Deutsche Schiffsbank in particolare rischio di tracollo. L’unica eccezione sembrava essere Norddeutsche Landesbank che continuava a mostrare una certa stabilità. Le radici della crisi affondavano nell’eccessivo ottimismo del periodo del super cycle durante il quale le banche avevano concesso prestiti in maniera spesso irresponsabile, finanziando costruzioni navali e acquisizioni senza adeguate garanzie di ritorno. La crisi finanziaria globale del 2008-2009 aggravò ulteriormente la situazione, trasformando le navi in quello che alcuni analisti definirono titoli tossici. Con il crollo dei noli molte compagnie furono costrette a cancellare ordini di navi già commissionate mentre il valore delle imbarcazioni usate come garanzia ipotecaria precipitava. Le banche che avevano finanziato queste operazioni si trovarono così esposte a perdite enormi. Il modello tedesco, basato su un’intensa attività di noleggio e su un sistema di finanziamento molto aggressivo, si rivelò particolarmente vulnerabile. Uno studio condotto da HSH Nordbank in collaborazione con Ernst & Young analizzò nel dettaglio i costi operativi delle navi portacontainer tra il 2006 e il 2008, rivelando differenze significative tra classi dimensionali e un aumento generalizzato delle spese. Le voci più rilevanti erano quelle relative agli equipaggi (fino al 55% dei costi totali) e alle riparazioni e manutenzioni che in alcune navi più vecchie potevano arrivare a rappresentare il 31% delle spese. Le economie di scala favorivano chiaramente le navi più grandi mentre quelle sotto i 4000 TEU diventavano sempre meno redditizie. Un confronto con i dati di Drewry Ship Operating Costs mostrava che i costi operativi delle portacontainer erano aumentati del 50% tra il 2000 e il 2008, con un picco particolarmente accentuato nel biennio 2007-2008. La nazionalità degli equipaggi giocava un ruolo cruciale nel determinare i costi: ad esempio, una nave di 6000 TEU con equipaggio interamente cinese aveva costi operativi inferiori del 30% rispetto a una con ufficiali lituani e marinai filippini. Per quanto riguarda il settore assicurativo marittimo, già fortemente colpito dalla crisi finanziaria, si trovò ad affrontare un futuro incerto caratterizzato da molteplici rischi, tra cui quello politico, la pirateria e il cambiamento climatico che aumentano esponenzialmente il livello di incertezza. Gli effetti più immediati della crisi si manifestano nel crollo del valore dei beni assicurati, nell’aumento delle richieste di risarcimento fraudolente e nel crescente contenzioso legale. Questo scenario non riguarda solo le compagnie assicurative ma anche il sistema bancario poiché il valore degli asset assicurati, come le navi, è diminuito drasticamente, riducendo anche il loro valore ipotecario. I dati delle tabelle fornite da Drewry del 2009 mostrano un calo generalizzato dei prezzi di costruzione delle navi tra il 2008 e il 2009, con riduzioni significative per tutte le categorie: portacontainer, portarinfuse secche e petroliere. Allo stesso modo il valore delle navi usate è diminuito drasticamente nello stesso periodo, evidenziando una forte svalutazione del mercato. Nonostante ciò, il valore assicurato non si è adeguato con la stessa rapidità, sia per l’incertezza sulla durata della crisi sia per la necessità di calcoli di lungo periodo. Secondo il Lloyd’s Annual Report 2008 il settore ha dovuto affrontare il problema di valori assicurati superiori a quelli di mercato, con un aumento di naufragi e perdite parziali, attribuibili in parte alla carenza di personale qualificato e a una manutenzione inadeguata. I costi delle richieste di risarcimento e della riassicurazione sono aumentati mentre il crollo del valore delle navi ha portato a fenomeni di moral hazard, con tentativi di frode da parte di alcuni armatori. La crisi ha colpito anche il valore delle merci trasportate, come petrolio, prodotti alimentari e metalli, riducendo ulteriormente i premi assicurativi. Al meeting annuale dell’Unione Internazionale Assicuratori Marittimi (IUMI) del 2009 è stato sottolineato che le prospettive per il settore erano negative a causa del crollo del commercio internazionale e del valore delle navi e delle merci. Sebbene le perdite totali si fossero stabilizzate, quelle parziali erano in aumento, e molti armatori rinviavano le riparazioni per ridurre i costi, aggravando le perdite delle compagnie assicurative. La crisi in esame affonda le radici in un paradosso tipico del capitalismo finanziarizzato: una contrazione della domanda reale mascherata per anni dall’espansione artificiosa del credito. Questo meccanismo perverso ha raggiunto il suo apice negli Stati Uniti, dove la progressiva erosione del potere d’acquisto della middle class, vero motore storico dei consumi occidentali, è stata compensata da un indebitamento familiare senza precedenti. Il fenomeno assume caratteristiche particolarmente insidiose perché si è sviluppato in sincronia con altre trasformazioni strutturali: la delocalizzazione industriale, la finanziarizzazione dell’economia e la trasformazione del lavoro da stabile a precario.
Un dato emblematico emerge dall’analisi dei flussi commerciali: nel 2007, mentre l’economia reale mostrava già segni di affaticamento, un terzo dei container in uscita dagli Stati Uniti verso l’Asia trasportava letteralmente spazzatura, rottami metallici, carta da macero, plastica riciclabile, con una componente non trascurabile di vuoti che navigavano da un continente all’altro. Drewry ha calcolato che nel solo 2007 oltre 100 milioni di TEU abbiano viaggiato vuoti, con un impatto devastante sui bilanci delle compagnie di navigazione. Questo traffico di “aria containerizzata” non è solo un indicatore di squilibri commerciali ma rappresenta la cartina al tornasole di un sistema economico sempre più scollegato dalla produzione di valore reale. La crisi del 2008-2009 ha fatto esplodere queste contraddizioni in modo drammatico. Le politiche monetarie non convenzionali adottate in risposta al collasso finanziario, quantitative easing, tassi zero, acquisti massicci di titoli tossici, hanno creato un paradosso ancora più profondo. Da un lato hanno evitato il crollo totale del sistema creditizio, dall’altro hanno distorto ulteriormente i meccanismi di allocazione del capitale. Le banche centrali, trasformandosi in acquirenti di ultima istanza di titoli spazzatura, hanno di fatto creato un pericoloso incentivo alla perpetuazione di modelli di business insostenibili.
Particolarmente illuminante è il caso del settore marittimo, dove la bolla creditizia ha generato effetti distorsivi di lunga durata. Nonostante i chiari segnali di sovraccapacità già visibili nel 2007 (quando la flotta container mondiale aveva raggiunto dimensioni spropositate rispetto alla domanda reale), le banche hanno continuato a finanziare la costruzione di nuove megaportacontainer. Questo perché, in un regime di credito facile e di tassi artificialmente bassi, la logica delle quote di mercato ha prevalso su quella della redditività. Le compagnie di navigazione, sostenute da finanziamenti spesso garantiti da clausole “too big to fail”, hanno ingaggiato una corsa al ribasso sui noli che ha ulteriormente eroso i margini di profitto, creando le premesse per la crisi strutturale che ancora oggi attanaglia il settore. La finanziarizzazione dell’economia reale ha prodotto un altro effetto perverso, ovvero la progressiva opacizzazione dei flussi commerciali. Con l’avvento della containerizzazione e della logistica just-in-time è diventato sempre più difficile tracciare il reale valore delle merci trasportate. I Bill of Lading (polizze di carico), un tempo documenti dettagliati che specificavano natura e valore del carico, si sono trasformati in strumenti finanziari opachi, dove spesso l’unica certezza è il numero del container mentre il contenuto viene genericamente indicato come “said to contain” (presunto contenere). Questa opacità ha raggiunto livelli paradossali nel trasporto di merci deperibili con le compagnie di navigazione che si assumono la responsabilità di mantenere una certa temperatura nel container ma non conoscono (né vogliono conoscere) cosa effettivamente trasportano, con quali caratteristiche merceologiche e quale reale valore. La crisi ha anche messo in luce le fragilità del sistema statistico internazionale. Organizzazioni come Eurostat hanno dovuto ammettere l’inadeguatezza degli strumenti di misurazione tradizionali di fronte a un’economia sempre più globalizzata e finanziarizzata. Il PIL, il reddito pro capite e persino i dati sul commercio estero si sono rivelati indicatori sempre meno affidabili per comprendere la reale salute dei sistemi economici. Un esempio lampante: durante gli anni del super cycle il traffico containerizzato ha smesso di correlarsi con la crescita del PIL in economie mature come gli Stati Uniti, segno che i tradizionali modelli interpretativi erano ormai superati. Nel settore marittimo la crisi ha prodotto adattamenti interessanti ma parziali. Le compagnie di navigazione hanno risposto all’aumento del prezzo del carburante con il low steaming (riduzione della velocità delle navi), una misura inizialmente concepita come tampone ma che si è rivelata utile per riorganizzare le rotte e gestire meglio i vuoti. Queste soluzioni tecniche non affrontano il problema di fondo, cioè un eccesso strutturale di capacità che continua a pesare sui bilanci del settore. La natura stessa dei traffici containerizzati è cambiata in modo significativo. Se negli anni ’90 i container trasportavano prevalentemente manufatti a medio-alto valore, oggi sono sempre più utilizzati per beni di consumo di massa a basso valore e per prodotti legati al ciclo delle costruzioni. Questo spiega perché il crollo del mercato immobiliare americano abbia avuto ripercussioni così drammatiche su porti come Barcellona, specializzati proprio in questo tipo di traffici. Allo stesso tempo è aumentata la containerizzazione di prodotti alimentari e agricoli, un settore che tradizionalmente viaggiava via nave ma non in container e che oggi rappresenta una quota crescente del traffico mondiale. Un fenomeno curioso emerso durante la crisi è stato il temporaneo aumento delle esportazioni di materiali riciclabili verso l’Asia. Nel 2009, mentre la maggior parte degli indicatori segnava rosso, i traffici containerizzati da Europa a Asia hanno mostrato una crescita a due cifre, trainati proprio da carta da macero, rottami metallici e plastica riciclabile. Questo boom temporaneo, però, non segnalava una ripresa strutturale, ma piuttosto l’ennesima distorsione di un sistema economico sempre più dipendente dalla finanza e sempre meno ancorato alla produzione di valore reale. Questo legame tra porti e finanza viene ampliato nel libro Banche e crisi e nel successivo Tempesta perfetta sui mari. Del primo libro analizziamo Il crack che viene dal mare. Il 17 febbraio 2012, il fondo d’investimento tedesco LF 16, specializzato nel settore dello shipping e gestito da Lloyd Fond, dichiara insolvenza, lasciando centinaia di piccoli risparmiatori in gravi difficoltà. Questo fondo, come molti altri in Germania, raccoglieva capitali privati per finanziare l’acquisto di navi nuove, puntando su un aumento del loro valore o su profitti derivanti dai noleggi ma con la crisi del settore marittimo il meccanismo si è inceppato: i fondi chiusi, che non permettono il ritiro anticipato dei capitali, hanno costretto gli investitori a versare ulteriori soldi per evitare il tracollo. Solo nel primo trimestre del 2011, come riporta la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare i fondi con 41,6 milioni di euro di liquidità fresca, un segnale chiaro del deterioramento del mercato. La situazione è particolarmente grave ad Amburgo dove questi fondi hanno attirato migliaia di piccoli investitori grazie a vantaggi fiscali. Questi capitali rimangono bloccati per 15 anni, senza possibilità di uscita, e molti risparmiatori, ignari dei rischi, si sono trovati intrappolati in investimenti che finiscono per valere una frazione del capitale iniziale. Se questa è la periferia del sistema, al centro ci sono grandi banche come HSH Nordbank, Commerzbank e Lloyds che hanno finanziato massicciamente il settore. La HSH Nordbank, in particolare, già salvata nel 2008 con fondi pubblici, nel 2012 è di nuovo sull’orlo del collasso, costringendo i Länder di Amburgo e Schleswig-Holstein a garantire ulteriori 1,3 miliardi di euro per evitare il fallimento. La crisi dello shipping è esplosa per una combinazione di fattori: la recessione globale, il crollo della domanda di trasporti marittimi e, soprattutto, un eccesso di offerta di navi. Già a luglio 2012, la FAZ segnalava che i prezzi delle navi erano crollati fino a livelli vicini a quelli della demolizione. A settembre 2012 266 fondi erano in difficoltà e al Forum della Hansa di novembre gli esperti prevedevano che 500 navi non avrebbero più trovato noleggiatori. Il mercato dei container, in particolare, è stato travolto: sulle rotte Asia-Europa, dove operano navi da 12.000 TEU, i noli sono precipitati, con tariffe spot nel Mediterraneo scese sotto i 750 dollari per TEU, rispetto ai 2.000 dollari di pochi mesi prima. Ma perché le compagnie marittime hanno continuato a ordinare nuove navi nonostante la crisi? La risposta sta nella logica perversa del finanziamento bancario. Per accedere al credito le compagnie devono dimostrare di crescere, aumentando la quota di mercato e il valore della flotta. Così, anche in un mercato saturo, hanno continuato a commissionare navi sempre più grandi, sperando in una ripresa che non è arrivata. Secondo Drewry Shipping Consultants, i costi operativi delle navi portacontainer sono saliti da un indice 100 nel 2000 a 170 nel 2010, con un ulteriore aumento previsto entro il 2015, soprattutto a causa del rincaro del carburante. Ma mentre i costi salgono, i ricavi crollano, creando una spirale insostenibile.
La crisi ha anche un volto geopolitico: i governi, con politiche fiscali favorevoli, hanno incentivato gli investimenti nello shipping, contribuendo alla bolla. Per Lloyd’s List è la peggiore crisi del trasporto containerizzato degli ultimi 40 anni e gran parte della colpa è di chi ha promosso agevolazioni fiscali senza considerare i rischi. Ora, con banche e fondi in difficoltà, migliaia di navi ferme e noli ai minimi storici, il settore marittimo è diventato un simbolo degli eccessi della finanza globalizzata, con conseguenze che potrebbero durare anni. Il mondo dello shipping, e in particolare il segmento dei non-operating ship owners, vive un delicato equilibrio tra opportunità e rischi sistemici, dove dinamiche finanziarie si intrecciano con quelle operative in modo sempre più complesso. Prendiamo il caso concreto di Peter Döhle, realtà familiare amburghese che con i suoi 6.800 dipendenti controlla una flotta di circa 450 navi, di cui ben 320 portacontainer. Di queste, un centinaio sono di proprietà diretta, altre vengono gestite per conto terzi mentre una parte rientra in accordi di brokeraggio esclusivo. La flotta include veri e propri gioielli tecnologici come le quattro unità da 13.000 TEU costruite dai cantieri Hyundai di Ulsan, ciascuna dotata di 800 posti reefer, capaci di raggiungere i 24,3 nodi con un consumo giornaliero di 272 tonnellate di carburante. A queste si aggiungono quattro navi da 12.500 TEU realizzate da Samsung, con 1.000 posti reefer e consumi leggermente superiori (289 tonnellate). Questo modello operativo, che alterna proprietà diretta, gestione per conto terzi e servizi di noleggio, offre indubbi vantaggi in termini di flessibilità e ripartizione del rischio. Tuttavia mostra tutta la sua fragilità quando le navi diventano meri strumenti finanziari in un gioco di compravendite tra owner, carrier, fondi d’investimento e banche. Un’indagine condotta da Lloyd’s List Intelligence rivela come l’84% degli operatori intervistati si aspetti insolvenze nel settore entro i successivi 12 mesi, mentre le principali banche creditrici stanno progressivamente riducendo l’esposizione verso il comparto marittimo. La situazione è ulteriormente complicata dalla corsa al gigantismo navale. Prendiamo ad esempio la Maersk che ha investito 190 milioni di dollari in una nave da 18.000 TEU della classe Triple-E. Un prezzo reso possibile solo grazie ai massicci sussidi governativi ai cantieri sudcoreani che permettono di offrire navi nuove a prezzi spesso inferiori ai costi di produzione. Questo meccanismo distorce il mercato: le compagnie sono spinte ad acquisire unità sempre più grandi e tecnologiche non tanto per reali esigenze operative, quanto per motivi di bilancio e di posizionamento finanziario. Il paradosso è evidente quando si analizzano i numeri. Una portacontainer da 10.000 TEU con un tasso di riempimento dell’80% offre indubbi vantaggi in termini di costi unitari ma se la domanda cala e il load factor scende al 60%, l’economia di scala si trasforma in un boomerang. Eppure, nonostante i segnali di crisi, le principali compagnie continuano a investire in megaportacontainer. La CMA CGM, terza al mondo per capacità, pur essendo in difficoltà finanziarie tali da richiedere ripetute ristrutturazioni del debito, ordinò tre unità da 16.020 TEU. In questo contesto i NOO tedeschi come Peter Döhle svolgono un ruolo cruciale ma ambivalente. Da un lato garantiscono flessibilità al sistema, permettendo ai grandi carrier di bilanciare flotta di proprietà e navi noleggiate. Dall’altro, quando la nave diventa puro strumento finanziario, come nel caso dei fondi chiusi che acquistano asset navali per poi rivenderli a risparmiatori, il meccanismo si trasforma in una potenziale bomba ad orologeria. Con banche sempre più restie a finanziare il settore, domanda in calo e sovracapacità strutturale, il rischio di un vero e proprio collasso del sistema appare concreto, con ripercussioni che potrebbero estendersi ben oltre il mondo dello shipping. Infatti Bologna sosteneva che il settore del trasporto marittimo containerizzato stava attraversando una crisi epocale, come dimostrano le dichiarazioni shock di Nils Andersen, amministratore delegato di Maersk, che sul Financial Times annunciava una radicale riconversione strategica. La compagnia danese, leader mondiale del settore, disse di voler ridurre gli investimenti nello shipping dal 30% al 25% del proprio portafoglio capitale nei prossimi cinque anni, dirottando risorse verso business più stabili e redditizi come l’oil&gas e la gestione terminalistica. Questa decisione non nasce dal nulla ma riflette una crisi sistemica documentata dall’impietoso studio Sailing in a Sea of Red di Alix Partners. I numeri sono da codice rosso: nel 2011 le 16 principali compagnie di navigazione hanno bruciato complessivamente 6 miliardi di dollari, con un debito aggregato raddoppiato rispetto al 2007 e schizzato a 90 miliardi. La metà delle compagnie analizzate non riesce nemmeno a pagare gli interessi sul debito mentre l’indice Z-score di Altman segnala un rischio d’insolvenza elevatissimo. La causa principale? Il gigantismo navale sfrenato. Infatti solo nel 2012 sono entrate in servizio 59 nuove navi da oltre 10.000 TEU, creando una sovracapacità che ha fatto crollare i noli del 30-40% sulle rotte principali. Le conseguenze si ripercuotono a cascata. Le compagnie, strette nella morsa della crisi di liquidità e con le banche (da RBS a Commerzbank) che tagliano i finanziamenti, reagiscono in modo miope: tagliano i servizi riducendoli al minimo sindacale, cancellano rotte e trasferiscono costi e rischi sui clienti. Come documenta lo studio DHL Delivering Tomorrow, questa fragilità sistemica espone le supply chain globali a rischi senza precedenti. L’uragano Sandy ha mostrato cosa può accadere quando un evento imprevisto interrompe i flussi con migliaia di container diretti a New York che sono sbarcati altrove, con costi esponenziali per i proprietari delle merci. Il terremoto si propaga ai porti europei che nei dieci anni precedenti hanno inseguito ossessivamente il gigantismo navale.
In Italia la situazione è paradossale. Da Venezia a Napoli, si scavano fondali per accogliere megaportacontainer che non arriveranno mai in modo stabile, visto l’inadeguatezza degli hinterland. Solo Genova potrebbe attrarre navi sopra i 12.000 TEU ma è strangolata dall’incapacità del sistema ferroviario. Il terminal VTE di Voltri non può gestire più di 24 treni al giorno mentre i collegamenti con Milano sono al collasso. La Spezia (24% di traffico su rotaia) e Trieste (3.900 treni l’anno) fanno eccezione in un Paese che ha perso il 50% del traffico ferroviario portuale in un decennio. Il cerchio si chiude con un’amara ironia: mentre le compagnie abbandonano il gigantismo navale, i porti continuano a investire miliardi in infrastrutture ipertrofiche, finanziate dai contribuenti. Una corsa insensata che rischia di lasciare dietro di sé cattedrali nel deserto e bilanci dissestati, in un settore dove ormai solo una radicale riconversione strategica potrebbe evitare il baratro. Passa qualche anno e nel 2017 Bologna pubblica Tempesta perfetta sui mari dove sviluppa ulteriormente il ragionamento, specialmente nel saggio Trading ships not cargo. La celebre battuta di Martin Stopford, “Trading ships not cargo”, racchiude in poche parole una trasformazione radicale che ha investito il settore marittimo negli ultimi anni. Quello che un tempo era un mercato governato dalla domanda e dall’offerta di merci da trasportare via mare, con i noli determinati da dinamiche classiche e misurati da indici consolidati come il Baltech Dry Index per le rinfuse o lo Shanghai Containerised Freight Index per le navi portacontainer, oggi appare stravolto. Il carico, il volume di merce da movimentare, è diventato un elemento secondario nelle strategie d’investimento mentre al centro dell’attenzione si è imposto il commercio stesso delle navi, intese non come strumenti di trasporto ma come asset finanziari da scambiare, spesso svincolati dalla reale utilità operativa. Questa inversione di paradigma ha generato una serie di contraddizioni sempre più evidenti. I volumi di traffico crescono in modo modesto, le movimentazioni portuali aumentano soprattutto grazie al transhipment e i noli rimangono stagnanti o addirittura crollano in alcuni segmenti come il dry bulk, dove hanno toccato minimi storici. Contemporaneamente i cantieri navali continuano a sfornare unità sempre più grandi e tecnologicamente avanzate, spinte da una concorrenza feroce tra costruttori asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) e da finanziamenti agevolati, spesso sostenuti da politiche statali. Il risultato è una flotta mercantile sovradimensionata, con navi che solcano gli oceani semivuote, incapaci di generare profitti sufficienti a ripagare i debiti contratti con le banche. Questa situazione ha innescato un circolo vizioso con gli armatori, schiacciati da bilanci in rosso, che trascinano nel baratro anche gli istituti di credito che li hanno finanziati, costringendoli a ridurre l’esposizione nel settore o a cedere crediti inesigibili. Eppure, nonostante la crisi, nuovi attori finanziari, dal private equity alla finanza islamica, fino a Paesi come la Cina che hanno aumentato la loro presenza nel mercato, sono pronti a sostituire i finanziatori tradizionali, mantenendo in vita un sistema che sembra aver perso ogni contatto con la realtà economica sottostante. Stopford ha presentato queste riflessioni in occasione del congresso dello shipping norvegese, un settore storicamente solido ma anch’esso alle prese con una crisi profonda. Se i noli delle petroliere mostrano segni di ripresa, trainati dalla domanda di stoccaggio del greggio in attesa di un rialzo dei prezzi, il comparto offshore è in grave difficoltà, con navi appoggio ferme nei porti ed equipaggi licenziati. Birgit Liodden, direttrice di Nor-Shipping, ha lanciato un avvertimento preoccupante: l’industria marittima potrebbe presto essere rivoluzionata da nuovi player, capaci di stravolgere i modelli di business consolidati. Il primo ministro norvegese di allora, Erna Solberg, ha ribadito la necessità di puntare sull’innovazione e sulla formazione ma le proposte concrete sembrano limitarsi al liquefied natural gas (LNG), una soluzione che, sebbene promettente, rischia di essere insufficiente di fronte alle sfide del futuro. Nel suo intervento “Will the next 50 years be as chaotic as the last?”, Stopford ha ripercorso l’evoluzione dello shipping negli ultimi decenni, caratterizzata da cicli economici turbolenti e crisi ricorrenti. Dal 1973 a oggi, il settore ha affrontato sei crisi profonde, con un ritmo impressionante: una ogni sei anni. Ogni ciclo ha lasciato un’impronta diversa sulla flotta mercantile, influenzando la domanda di nuove costruzioni e la necessità di sostituire le navi obsolete. Tuttavia la rigidità del settore cantieristico, incapace di adattarsi rapidamente alle fluttuazioni del mercato, ha amplificato gli squilibri, creando fasi di sovrapproduzione seguite da periodi di carenza. Guardando al futuro Stopford si interroga su quattro questioni cruciali. La prima riguarda la geografia dei traffici: con l’ascesa di nuove economie emergenti, le rotte commerciali diventeranno più frammentate e complesse, riducendo il predominio delle grandi tratte est-ovest. La seconda concerne la crescita del volume dei traffici marittimi: Stopford propende per uno scenario moderato, con un aumento del 40% anziché la triplicazione prevista da alcuni analisti. La terza questione è quella dei cicli commerciali: dopo il boom degli ultimi decenni, trainato dalla crescita cinese, il commercio globale potrebbe entrare in una fase di rallentamento. Infine, la quarta e più importante domanda riguarda il sistema di trasporto del futuro: lo shipping dovrà integrarsi in una catena logistica più efficiente e trasparente, abbandonando l’approccio tradizionale a favore di maggiore automazione e sostenibilità. Proprio su quest’ultimo punto si concentra la critica più aspra di Stopford al gigantismo navale. Le navi sempre più grandi, spesso presentate come la soluzione per ridurre i costi unitari, in realtà stanno minando la flessibilità del trasporto containerizzato, avvicinandolo pericolosamente al modello rigido delle rinfuse. Le mega-navi, con le loro rotte concentrate su pochi hub, costringono gli operatori logistici a complicati transhipment, aumentando i costi e riducendo l’affidabilità del servizio. Karl Gernandt, presidente di Kühne & Nagel, ha denunciato questa situazione con parole dure: le compagnie di navigazione offrono servizi scadenti a prezzi stracciati, creando un circolo vizioso in cui solo i grandi player, come i colossi della logistica o della distribuzione, riescono a sopravvivere. Il contrasto tra l’economia di scala perseguita dallo shipping e l’economia della connettività richiesta dalla logistica moderna è sempre più evidente. Mentre le compagnie scommettono su navi più grandi e rotte più concentrate, il mercato chiede maggiore trasparenza, efficienza e flessibilità, come dimostrano le innovazioni nel campo dell’Internet of Things applicato alla supply chain. Se lo shipping non riuscirà a colmare questo divario, rischia di rimanere intrappolato in un modello insostenibile, dove si commerciano navi, non più carichi. Tuttavia, nonostante alcuni manager abbiano ammesso che il tradizionale modello basato sulla dinamica domanda-offerta non funziona più e che sia necessario un approccio diverso alla gestione del rischio, prevale un atteggiamento rassegnato, quasi fatalista, che considera gli alti e bassi del mercato come una costante inevitabile del settore. Questa mentalità, definita “business as usual”, si traduce in una mancanza di volontà di riformare il modello di business, contando invece su interventi esterni, spesso a carico dei contribuenti, per tamponare le crisi finanziarie. Un esempio emblematico è quello della HSH Nordbank, una banca tedesca gravata da un portafoglio crediti inesigibili per 21 miliardi di euro, di cui circa la metà legati al settore shipping. I governi regionali di Amburgo e dello Schleswig-Holstein, proprietari della banca, hanno deciso di socializzare le perdite, trasferendo il costo degli errori gestionali sui cittadini. La mossa è stata abilmente presentata dopo le elezioni, evitando così ripercussioni politiche immediate, con il sindaco di Amburgo, Olaf Scholz, che ha sostenuto l’operazione. Intanto, gli armatori coinvolti continuano a operare senza subire conseguenze dirette, se non un cambio nominale nella proprietà dei loro debiti. La situazione italiana, discussa durante il Mare Forum 2015, non è più rosea. Confitarma, l’associazione degli armatori italiani, vede l’80% dei suoi soci in mano alle banche, e il presidente Grimaldi ha espresso preoccupazione per il rischio di una liquidazione forzata degli asset, con le banche che potrebbero cedere i crediti a hedge fund a valori molto inferiori a quelli nominali. Michele Bottiglieri, armatore napoletano, ha sottolineato che la crisi non è solo congiunturale ma strutturale, legata alla dimensione familiare delle compagnie italiane, troppo piccole per accedere ai mercati finanziari e quindi dipendenti dal credito bancario, oggi quasi inesistente. Mariella Bottiglieri ha aggiunto un’altra critica fondamentale, puntando il dito contro l’eccesso di capacità nel settore, alimentato soprattutto da hedge fund e private equity che continuano a ordinare nuove navi invece di acquistare usato, spinti da logiche di breve termine. A differenza delle aziende a conduzione familiare, che mirano a preservare l’impresa per le generazioni future, i fondi d’investimento cercano solo un rapido ritorno economico, aggravando la sovraccapacità e deprimendo ulteriormente i noli. Nonostante le evidenti difficoltà del settore, Confitarma continua a criticare il sistema portuale italiano, denunciandone rigidità, sprechi e monopoli, e ottenendo più ascolto politico rispetto ad altri attori del cluster marittimo. Tuttavia è discutibile che gli armatori chiedano ulteriori agevolazioni fiscali quando altre imprese italiane, pur competitive, non godono degli stessi vantaggi. Il problema è aggravato dalle scelte miopi delle banche che ristrutturano i debiti di aziende in crisi invece di finanziare realtà con reali prospettive di crescita, spesso per motivi clientelari più che economici. La finanza, in particolare private equity e hedge fund, ha ormai preso il sopravvento, trasformando lo shipping in un gioco di speculazione sugli asset piuttosto che un’attività legata al trasporto merci. Paul Slater, esperto finanziario, ha denunciato come i nuovi investitori non migliorino la redditività delle compagnie ma si limitino a tagliare costi, compromettendo sicurezza e qualità, mentre le ristrutturazioni falliscono nel ridurre la sovraccapacità. Molte compagnie operano con noli che coprono a malapena i costi operativi, rendendo impossibile il servizio del debito, eppure continuano a sopravvivere grazie a bilanci opachi che nascondono il vero valore delle navi. Le speranze di un rinnovamento generazionale appaiono vane: i figli delle grandi dinastie armatoriali (Grimaldi, Saadé, Aponte, Ofer, Economou, Angelicoussis) difficilmente cambieranno rotta, replicando le stesse logiche dei loro predecessori. Lo shipping rimane un’industria dominata da famiglie, resistente al cambiamento e sempre più dipendente da dinamiche finanziarie esterne che ne esasperano le criticità senza offrire soluzioni sostenibili. In questo contesto l’unica certezza è che, finché ci sarà qualcuno disposto a finanziare le perdite, che sia lo Stato, le banche o i contribuenti, il settore continuerà a navigare in acque tempestose, senza una vera svolta. L’approccio acritico con cui i porti italiani hanno reagito all’avvento delle mega navi rappresenta un caso emblematico di miopia strategica nel settore dei trasporti marittimi. Mentre l’International Transport Forum nel suo studio “The Impact of Mega Ships” metteva in guardia sui veri costi dell’ultra-large container vessels, in Italia si assisteva a una corsa febbrile verso il gigantismo portuale, come se l’arrivo di queste navi costituisse di per sé una garanzia di sviluppo. La realtà dei numeri racconta però una storia diversa: il mercato italiano dei container è fermo da un quindicennio a 5-5,5 milioni di TEU, con una quota significativa rappresentata da transhipment piuttosto che da traffico diretto. Una simile stagnazione non ha scoraggiato numerosi presidenti di Autorità Portuali che hanno visto nelle mega navi l’occasione per giustificare investimenti miliardari, commettendo l’errore fondamentale di confondere l’aumento delle dimensioni delle navi con un’espansione del mercato. I dati Drewry rivelano come l’introduzione delle navi giganti abbia prodotto effetti paradossali. Tra il 2012 e il 2014 si è registrato un calo del 36% dei servizi Asia-Nord Europa e una riduzione del 20% degli scali settimanali. Questo perché, contrariamente alle aspettative, navi più grandi non hanno significato più traffico ma al contrario una concentrazione in pochi hub e una riduzione della frequenza dei servizi. Lo studio ITF smonta poi sistematicamente il mito delle economie di scala con gran parte dei presunti risparmi che derivano in realtà dal crollo del prezzo del carburante (che un tempo rappresentava il 50% dei costi di viaggio) e dall’adozione di tecniche come il low steaming, piuttosto che dalle dimensioni delle navi in sé. Anzi, l’aumento esponenziale dei costi infrastrutturali necessari ad accogliere queste navi, si parla di interventi che possono richiedere fino a 36 mesi di chiusura delle banchine, rischia di vanificare qualsiasi beneficio marginale. La situazione nel Mediterraneo presenta caratteristiche peculiari rispetto al Nord Europa. Se nei porti del Northern Range i problemi principali riguardano i fondali limitati e le forti maree (con costi di dragaggio che possono superare i 100 milioni di euro annui per porti come Amburgo o Rotterdam), nel bacino mediterraneo il modello hub-and-spoke appare più consolidato. I numeri del transhipment parlano chiaro: Malta Freeport (95%), Algeciras (90,7%), Gioia Tauro (88%), Pireo (79,97%) mentre porti come Valencia si attestano sul 49,97%. Questa struttura operativa rende teoricamente i porti mediterranei più adatti ad accogliere navi giganti ma non giustifica la corsa agli investimenti che ha caratterizzato gli ultimi anni. L’esempio spagnolo è illuminante: decine di milioni spesi in infrastrutture portuali che oggi giacciono inutilizzate, in un tragico spreco di risorse pubbliche. Il caso italiano appare particolarmente grave perché, in assenza di una crescita reale del traffico (come dimostrano i 15 anni di stagnazione), si è cercato di giustificare gli investimenti con il cosiddetto “mercato potenziale” rappresentato dalla merce con origine/destinazione Italia che transita dai porti del Nord Europa. Un sillogismo pericoloso che ha di fatto paralizzato qualsiasi seria riflessione sul sistema logistico nazionale mentre i porti del Nord Europa stanno già affrontando i limiti fisici del gigantismo navale, con progetti come Maasvlakte 2 a Rotterdam che spostano i terminal verso il mare aperto per evitare i problemi di accesso, in Italia si continua a discutere di progetti faraonici senza una chiara visione strategica.
Lo studio ITF lancia un monito chiaro: è necessaria una svolta nella pianificazione portuale a livello europeo, superando la logica dei “corridoi” e del “core network” che finora ha solo alimentato una competizione insensata tra porti. I dati dimostrano che continuare sulla strada del gigantismo senza una reale valutazione costi-benefici rischia di produrre solo sprechi e inefficienze. Per l’Italia la lezione è chiara, secondo Bologna servono investimenti mirati dove esistono reali prospettive di traffico, non opere faraoniche dettate più dalle pressioni dell’industria delle costruzioni che da una reale esigenza del sistema logistico nazionale. In un paese che ha perso un quarto della sua capacità produttiva nell’ultimo decennio, continuare a inseguire il mito delle mega navi senza una strategia chiara non è solo miope, bensì economicamente suicida.