Sulle Orme del Capitale di Marx con Savran e Tonak

Introduzione

Ho voluto fortemente recensire il libro “In the Tracks of Marx’s Capital” di Sungur Savran e Ahmet Tonak, due importanti economisti marxisti turchi, per diversi motivi. Innanzitutto perché in Italia siamo sommersi da libri di filosofia marxista, e per questo tendiamo troppo spesso a dimenticare che Marx è stato sia un filosofo che uno scienziato. Anzi, forse parliamo di un filosofo proprio perché scienziato, perché lo studio della filosofia gli fornisce un metodo (quello dialettico-hegeliano) in grado di assorbire le scoperte dell’economia politica classica e allo stesso tempo superarne i limiti e criticarne le mistificazioni. Senza la scienza dell’economia politica, il metodo filosofico gira a vuoto.

Quello di Savran e Tonak non è però solo un libro di economia marxista. è sia un libro molto utile per orientarsi all’interno della teoria economica marxiana, sia un libro teoricamente all’avanguardia nel dibattito marxista. Riesce insomma ad essere, allo stesso tempo, introduttivo e innovativo. Si tratta di una raccolta di saggi, alcuni inediti e altri usciti solo in lingua turca o in inglese. Non si tratta però di saggi messi assieme a caso. A mio avviso infatti, il filo conduttore che tiene assieme il libro è la fondamentale distinzione marxiana fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

Il libro è diviso in 4 parti tematiche: la ricostruzione della teoria generale di Marx; l’operazionalizzazione dei concetti della critica dell’economia politica; le questioni scottanti del XXI secolo; e la critica del neo-ricardismo.1 Non tutti i saggi sono stati scritti a quattro mani da Savran e Tonak. Alcuni sono stati scritti solo da uno di loro, altri sono stati scritti con altri collaboratori. Per brevità e per non appesantire la lettura ho deciso di riferirmi sempre a entrambi e solo a loro due, dando per scontato che la loro pubblicazione congiunta significhi una convergenza nelle opinioni. Per questioni di brevità, nella recensione non tratterò della parte relativa alla critica del neo-ricardismo. Mi limito a dire che, nonostante avrei preferito che gli autori si fossero scontrati anche contro altre teorie (per esempio quella neoclassica o quella post-keynesiana), ho trovato ottimo il saggio contro Sraffa (che vi invito a leggere) e reputo molto condivisibile l’idea di dimostrare che l’economia marxista non ha bisogno di apporti esterni alla sua concettualizzazione, siccome sta benissimo in piedi da sola.

Teoria generale di Marx

Il Progetto Sistematico di Marx

Savran e Tonak non si limitano a ricostruire la teoria del Capitale, ma prendono in considerazione tutto il progetto di critica dell’economia politica (dai Grundrisse in poi). Un grande pregio di questa parte sta sia nel capire la natura fondamentalmente incompleta del progetto di Marx, sia le sue intenzioni “modellistiche” e scientifiche, non riducibili a una filosofia della storia o una mera descrizione ripulita attraverso induzione. In questo ho ritrovato molte analogie con le punte più avanzate dello studio dell’opera marxiana, in particolare con Roberto Fineschi.

I Grundrisse in particolare vengono visti come quello che effettivamente sono, cioè un “laboratorio concettuale”, un testo non fatto per essere pubblicato in cui Marx prende appunti, critica gli altri pensatori, si arrabbia su delle questioni e cerca di sistematizzare la sua teoria. In quanto tale, il testo è sia una tappa fondamentale del pensiero di Marx, sia un testo su cui non si può fare leva contro testi successivi e quindi va preso con le pinze.

Non si tratta di un mero punto filologico: siccome Marx è innanzitutto uno scienziato, l’ordine espositivo e la connessione fra i suoi concetti hanno un senso, sono il frutto di un lavoro teorico, riguardano il suo metodo scientifico (il metodo dell’astrazione). O questi vengono rispettati, o si articola una critica fondata con cui si rigetta questo metodo in quanto non funzionante e se ne trova uno nuovo. Di sicuro non ce la si cava con le accuse di filologismo o qualche slogan pseudo-radicale.2 Come questo: “Non ho bisogno di immergere le mani nell’hegelismo per scoprire la doppia faccia della merce, del valore: il denaro ha una sola faccia, quella del padrone.” Negri T., Marx oltre Marx.

L’importanza di questo tema è riscontrabile in particolare nella discussione del capitolo sul denaro, scelto inizialmente come punto di partenza per esporre il suo sistema. Gli autori infatti mostrano, da una parte, come egli non prende questa decisione a caso (per trattare il concetto di capitale è necessario prima analizzare quello di denaro), dall’altra mostrano come Marx capisca che il vero punto di partenza da cui costruire il sistema non è il denaro ma la merce verso la fine del manoscritto.

Anche nello studio del Capitale i due autori capiscono che si tratta di un’opera non compiuta, e che lo stesso Libro I ha avuto una storia travagliata. Nonostante ciò Il Capitale è sicuramente un’opera più strutturata dei Grundrisse, e perlomeno un volume è stato pubblicato. Esso viene inteso come libro scientifico e politico insieme: capire il modo di produzione capitalistico serve a capire come superarlo. Non si tratta né di una descrizione storico-sociologica del capitalismo inglese dell’Ottocento, né di una filosofia della storia meccanicista. e ne riconoscono l’architettura complessa e rigorosa, che paragonano addirittura a un trattato matematico.

Per Savran e Tonak è cruciale la distinzione fra modo di ricerca e modo di esposizione per comprendere il metodo marxiano e la struttura del suo sistema. Il modo di ricerca è la ricerca scientifica, che si compone di studi tanto teoretici quanto di dati empirci, ripulitura di concetti, e capire come ordinarli per esporre il sistema senza saltare passaggi. A questo segue il modo di esposizione, che loro eguagliano col “metodo dell’astrazione”, cioè lo studio delle relazioni del sistema nella sua totalità, isolato da tutto ciò che è arbitrario e secondario, procedendo per livelli che danno sempre più concretezza al sistema.

Lo studio del metodo marxiano permette a Savran e Tonak di capire che Il Capitale è figlio tanto degli economisti classici quanto di Hegel, o meglio, capiscono che nel suo progetto Marx usa tanto Hegel contro gli economisti classici e quanto gli economisti classici contro Hegel. Il metodo che Marx sviluppa a partire da Hegel, ossia il metodo dialettico, serve infatti a portare a galla le contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico. Gli esempi più famosi sono la contraddizione fra valore d’uso e valore nella merce (la cellula da cui si sviluppa tutto il sistema), il duplice carattere del lavoro produttore di merci (lavoro concreto e lavoro astratto), e la contraddizione fra apparenza e essenza del modo di produzione capitalistico (l’apparenza è una società armonica in cui produttori liberi e uguali si scambiano merci; l’essenza è una società gerarchica fondata sulla produzione di plusvalore da parte della classe lavoratrice e della sua appropriazione da parte delle classi proprietarie).

Seguendo questa pista metodologica, Savran e Tonak concepiscono Il Capitale come strutturato su 4 grandi livelli di astrazione:

  • la produzione in generale, la parte più astratta che riguarda ogni modo di produzione ma che di per sé non spiega il funzionamento specifico di nessuno di essi (è presente nel cap. 5 del Volume I)
  • lo scambio in generale, che consiste nell’analisi della merce e del denaro e dei concetti ad essi correlati (in particolare quello di valore) (i primi 4 capitoli del Volume I)
  • il capitale in generale, lo studio della relazione pura fra capitale e lavoro salariato. Si astrae in particolare dalla concorrenza fra molti capitali (quindi dalla loro differenza nella composizione organica) e dalla differenza fra i vari tipi di capitale (commerciale, finanziario, rentier) per concentrarsi specificamente su quello industriale, cioè produttivo di plusvalore (il resto del Volume I e tutto il Volume II)
  • i molti capitali, in cui le varie clausole di astrazione vengono tolte: si studiano la concorrenza fra molti capitali e le differenze fra i vari tipi di capitale, quindi il processo complessivo della produzione capitalistica (il volume III ).

è importante capire che un livello non elimina l’altro, ma lo rende più concreto. Per fare un esempio, passando dal livello del capitale in generale a quello dei molti capitali, a causa della concorrenza e delle differenze nella composizione organica prezzi e valori non sono più uguali ma devono divergere, e il profitto industriale non è più la totalità del plusvalore ma solo una sua parte (la restante è distribuita fra i molti capitali nelle forme di profitto commerciale, interesse, rendita). Il moto dall’astratto al concreto è sostanzialmente un aufhebung, un superamento dei limiti del precedente livello ma una conservazione dei suoi risultati scientifici. Concepire in questo modo Il Capitale permette di salvare il suo contenuto teorico dalle critiche di chi interpreta ogni trasformazione di fase del capitalismo come una rottura radicale che ne falsifica il modello.

Può essere interessante a questo punto confrontare questa classificazione dei livelli di astrazione con quella di Fineschi. La struttura della sua ricerca si articola nel modo in cui si svolgono tutte le categorie della teoria marxiana a partire dalla contraddizione interna alla merce:

  1. Il livello della circolazione semplice, che è l’inizio concettuale, l’immediato del modo di produzione capitalistico, il primo livello della totalità. è un livello parvente, cioè non autofondantesi e quindi manchevole, che perciò trapassa nel suo opposto;
  2. Il livello della generalità del capitale, dove vengono sviluppate le categorie che lo definiscono essenzialmente. è un modello limitato perché ha carattere di media ideale;
  3. Il livello della particolarità del capitale, della concorrenza, dove la generalità si realizza attraverso l’interazione dei capitali particolari (fra loro diversi) fino ad affermarsi realmente come profitto medio;
  4. Il livello della singolarità del capitale, del credito e del capitale fittizio, in cui la generalità del capitale esiste realmente come incarnata in determinati soggetti particolari.

Due differenze saltano all’occhio. La prima è l’assenza della produzione in generale nella caratterizzazione del modello. Fineschi ovviamente non ignora questo aspetto: sa bene infatti che il modo di produzione capitalistico è un momento specifico della storia del lavoro, storia che però è il piano di astrazione più alto dell’articolazione complessiva della teoria marxiana della storia, e in quanto tale non può che essere il puro risultato dell’astrazione di elementi comuni da modi di produzioni specifici. La seconda differenza sta nella differenziazione nel campo dei molti capitali fra il livello della concorrenza e il livello del capitale fittizio. Questa differenziazione mi pare giustificata fra i due diversi circuiti del capitale, rispettivamente D-M-D’ e D-D’.

Critica dell’Economia Politica e Comunismo del Capitale

Secondo Savran e Tonak il concetto di critica dell’economia politica è fondamentale per capire la specificità di Marx nel pensare il capitalismo rispetto agli altri economisti. Nel considerare la storia della teoria economica, egli distingue fra economia politica classica e economia volgare. La prima (i cui rappresentanti più importanti sono Smith e Ricardo) non si limita a studiare le relazioni superficiali dell’economia capitalistica, ma ne indaga gli aspetti essenziali senza aver paura di teorizzare le relazioni anche conflittuali fra le classi sociali. L’economia volgare invece (di cui un esempio sono Bastiat e Carey) considera il capitalismo come un sistema armonico. Si potrebbe dire che l’economia volgare rimane al livello dello scambio in generale. Se questa distinzione tiene, non è difficile vedere nell’economia neoclassica odierna una forma di economia volgare.

Marx critica sia l’economia volgare che l’economia politica classica, ma ha decisamente più stima della seconda, con cui ha un rapporto di aufhebung. Proprio in quanto riconosce la natura conflittuale dell’economia e non si ferma alla sua apparenza, l’economia politica classica è scienza. Si tratta però di una scienza limitata dall’essere interna alla società capitalistica stessa. Essa infatti ritiene il modo di produzione capitalistico come “naturale”, non nel senso che per gli economisti classici c’è sempre stato, ma nel senso che è il modo di produzione che meglio esprime le caratteristiche della natura umana, mentre quelli che lo hanno preceduto sono artificiali. Ciò non è dovuto alla stupidità degli autori che la hanno sviluppata, ma alla natura feticistica del capitalismo stesso (come il feticismo della merce, che rende “praticamente vero” il fatto che le relazioni umane sono mediate dalle merci, o il feticismo del capitale, che rende “praticamente vero” che ogni elemento della produzione frutta naturalmente un reddito in base al suo contributo).

Tutto ciò impedisce agli economisti classici di storicizzare il capitalismo, di pensarlo cioè attraverso dei concetti specifici e di indagarne i limiti interni. Essi prendono come dati la merce, il valore ecc. e nel fare questo appiattiscono il contenuto materiale sulla forma sociale specifica. Marx si distingue dagli economisti classici proprio nella grande attenzione che mette nella distinzione del piano generale da quello specifico del modo di produzione capitalistico.

La critica dell’economia politica però non è solo critica della scienza economica, ma anche critica che dell’oggetto di questa scienza. Non vedere la storicità del modo di produzione capitalistico forclude infatti la possibilità di una sua vera analisi scientifica. Prende come un problema da spiegare ciò che gli economisti classici prendevano come dato non è una semplice correzione, significa un rivolgimento completo del perimetro della scienza. Le domande di Smith e Ricardo (p. es. la relazione fra divisione del lavoro e lo scambio, o fra profitti, formazione di valore e distribuzione) vengono sussunte sotto una questione più fondamentale: indagare le condizioni di possibilità della nascita del capitalismo, della sua ri-produzione e della sua possibile fine.

Trovo che Savran e Tonak abbiano ragione da vendere in questa ricostruzione. C’è però una domanda a cui bisogna rispondere per chiudere il ragionamento, domanda che purtroppo non ho trovato nel testo: Come fa Marx a formulare questo nuovo campo epistemico se egli stesso è interno alla società capitalistica, che come abbiamo detto influenza la stessa produzione scientifica col suo feticismo? La risposta a mio avviso si trova nella lotta di classe. è grazie al conflitto e alle pratiche alternative dei subalterni che possiamo spezzare l’incantesimo.

Savran e Tonak insistono molto sulla storicità e la transitorietà del modo di produzione capitalistico, in particolare sul fatto che al suo interno sono presenti i germi della società futura. La loro interpretazione fa leva sulla prefazione alla I edizione del Volume I del Capitale, in cui si parla della “legge economica di movimento della società moderna”, legge al singolare. Secondo la loro interpretazione, Marx si riferisce a quel movimento del capitalismo che, nel suo sviluppo, da una parte mostra le sue grandi potenzialità (enorme crescita della produttività del lavoro; socializzazione del lavoro, ossia impossibilità di produrre un oggetto da soli; integrazione economica del mondo; pianificazione su larga scala), mentre dall’altra mostra tutti i suoi limiti interni (appropriazione privata dei prodotti del lavoro sociale, crisi economiche ed ecologiche, guerre ecc.) che frustrano queste stesse potenzialità. Il Capitale è quindi anche un libro sul comunismo, ossia l’epoca in cui gli interessi individuali possono essere soddisfatti al meglio attraverso metodi di decisione collettiva che con la concorrenza e la lotta contro altri esseri umani. Savran e Tonak ovviamente precisano che si tratta di una tendenza e che la transizione non va intesa in senso meccanico.

Lavoro Produttivo e Improduttivo

L’importanza della categoria

Come detto in precedenza, la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo è ciò che tiene assieme il libro di Savran e Tonak. La ritroviamo praticamente in ogni saggio che lo compone, per cui essa è di capitale importanza per comprenderne le teorie (come lo è per comprendere la teoria marxiana).

A livello generale, l’economia capitalistica si basa sull’estrazione di plusvalore, quindi sull’autoespansione del valore e non sulla sua mera conservazione. Marx chiama questa autoespansione “processo di valorizzazione”. Perché ciò sia possibile, è necessario che il denaro-capitale si scambi contro una merce in grado di produrre capitale-merce (merci cariche di plusvalore) da immettere poi sul mercato in attesa della loro realizzazione. La merce in questione è la forza-lavoro, e il lavoro che deriva dal suo consumo è, per il modo di produzione capitalistico, “lavoro produttivo”. In questo modo di produzione non esiste però solo il lavoro produttivo, ma anche il “lavoro improduttivo”: si tratta di lavoro che non solo non è parte del processo di valorizzazione, ma che nel circuito complessivo viene pagato dal plusvalore creato dai lavoratori produttivi.

A livello più concreto, ciò significa che la divisione del lavoro sociale totale fra lavoro produttivo e improduttivo gioca un ruolo molto importante nella determinazione della grandezza di variabili fondamentali del sistema capitalistico. Il capitale variabile (V), ad esempio, contiene quell’elemento del capitale che produce più valore di quanto ne contiene, perciò la sua grandezza a livello sociale è determinata non dalla massa salariale totale, ma solo da quella dei lavoratori produttivi. Il plusvalore (S), a sua volta, non è solo composto dalle diverse fonti di reddito delle varie classi capitalistiche (rendita, profitto industriale, interesse, profitto commerciale), ma include anche i salari dei lavoratori improduttivi. Di conseguenza, il tasso di plusvalore (S/V) non può essere calcolato direttamente ricorrendo alle categorie della contabilità nazionale come profitti e salari.

La distinzione ha effetti importanti anche sul tasso di profitto, siccome il tasso di plusvalore è fra le maggiori determinanti di quest’ultimo. Se infatti il plusvalore è prodotto dai soli lavoratori produttivi, un aumento nella proporzione del lavoro improduttivo su quello produttivo implica una riduzione nella massa di plusvalore e, di conseguenza, una caduta nel tasso di profitto. Ne segue che la distinzione è utile anche a capire le crisi economiche.

La distinzione è rilevante anche nell’analisi dell’intervento statale a fini redistributivi, perché una corretta valutazione dell’impatto netto di questo intervento può basarsi solo sulla precisa identificazione delle sue fonti di entrata. Da una parte, si tratta di capire, rispettivamente, come sono divise le quote di entrata fra capitale variabile e plusvalore; dall’altra si tratta di capire in favore di chi queste entrate vengono spese. Essa è infine importante anche riguardo lo statuto dei servizi (finanziari, sociali, al consumatore e ai produttori).3 Con la sua solita capacità di prendere posizioni teoriche sbagliate e giustificarle attraverso slogan, Negri ritiene invece che la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo sia totalmente inutile siccome ormai siamo tutti sfruttati, e siamo sfruttati “persino nei nostri sogni” (Antonio Negri: A Revolt That Never Ends, 2003). è una posizione decisamente conseguente all’abbandono della teoria del valore-lavoro in favore delle fumisterie biopolitiche.

Lavoro produttivo in generale

Savran e Tonak ritengono sia importante prima distinguere il lavoro produttivo in generale da altre attività umane, perché il lavoro produttivo in senso capitalistico è una specie di quello generale e in questo modo può essere compreso evidenziando le loro differenze. Ci sono certe attività che sono necessarie in ogni modo di produzione per garantire la riproduzione biologica e sociale dei membri della società. La definizione del lavoro produttivo in generale presuppone la distinzione fra questo tipo di attività. Queste sono: produzione, circolazione, distribuzione del prodotto (del reddito), consumo personale o sociale e riproduzione dell’ordine sociale.

Innanzitutto, per dividerle, si può usare come criterio l’utilizzo di lavoro per il loro svolgimento: consumo e distribuzione non ne hanno bisogno. Che il consumo non richieda utilizzo di lavoro mi sembra autoevidente. La distribuzione invece si fonda sull’erogazione di lavoro ma in sé non lo richiede, prova ne sia che le classi proprietarie in generale, che vivono di redditi derivanti dalla proprietà privata, prendono parte alla distribuzione. 4Mentre, come Marx stesso afferma, se il capitalista agisce come manager della sua impresa in quel caso egli sta agendo come un lavoratore, e il suo reddito va considerato alla stregua di quello del personale dirigente; Marx dice addirittura che in tali casi il capitalista va considerato come lavoratore produttivo, p. 910 ed. Einaudi 2024).

Circolazione e riproduzione dell’ordine sociale sono più difficili da inquadrare. La circolazione è la trasformazione della forma merce in forma denaro e viceversa, un’attività che ha attraversato parecchi modi di produzione ma che ha conosciuto la sua maggiore espansione e la sua centralità proprio nel capitalismo. Anche la riproduzione dell’ordine sociale ha attraversato diversi modi di produzione, ma come sfera separata nasce con le società di classe (parliamo degli apparati amministrativi, polizieschi-militari e di finanza pubblica).

è innegabile che queste attività sono portate avanti attraverso il lavoro, ma si tratta di un lavoro differente rispetto a quello produttivo (industriale e agricolo). Il lavoro produttivo produce valori d’uso (che sia uso personale o produttivo a sua volta) attraverso l’appropriazione e la trasformazione della natura, il tutto all’interno di una forma definita di società. La produzione è insomma mediazione fra natura e società, ricambio organico fra natura e esseri umani. La Circolazione e la riproduzione dell’ordine sociale invece non trasformano valori d’uso, ma servono rispettivamente a passarli di mano e a difenderne il possesso. In quanto tali, si tratta attività pienamente interne alla società, riguardano specificamente i rapporti sociali fra esseri umani. Per questo motivo, i lavori interni alla sfera della circolazione e ala sfera della riproduzione dell’ordine sociale sono improduttivi per definizione.

Lavoro produttivo per il capitale

Nel modo di produzione capitalistico il lavoro produttivo acquista un carattere più specifico. Come abbiamo detto, il modo di produzione capitalistico si basa sul processo di valorizzazione. Perciò, perché un lavoro sia produttivo non basta che questo trasformi e si appropri di parte della natura in un quadro sociale, ma è necessario che questo produca del plusvalore. Il lavoro produttivo in senso capitalistico è quel lavoro che produce merci cariche di plusvalore, cioè lavoro erogato da forza-lavoro fatta lavorare più del tempo necessario alla sua riproduzione, il cui prodotto viene posto sul mercato in attesa di realizzare un profitto. Per capire questo punto, è utile introdurre il concetto di “circuito del capitale”:

D – M (FL, MP)…P… M’ – D’

La catena sta a significare che il capitalista spende del capitale-denaro (D) per comprare delle merci (M, dove FL sta per forza-lavoro e MP per mezzi di produzione) da combinare nel processo produttivo (P), in modo da produrre delle merci cariche di plusvalore (M’) da vendere in modo da realizzare un profitto (D’, che deve essere > D). Tutto il lavoro scambiato contro il capitale-denaro e impiegato nella sfera della produzione è lavoro produttivo per il capitale. Da ciò ne derivano diverse conseguenze:

  • il lavoro speso per produrre valori d’uso che verranno consumati senza passare attraverso il mercato non è lavoro produttivo per il capitale. Siccome non passano attraverso una relazione di mercato, non si può parlare infatti di merci.
  • il lavoro dei piccoli produttori indipendenti non è lavoro produttivo per il capitale, siccome si basa su lavoro erogato dagli stessi proprietari dei mezzi di produzione (e che quindi non comprano sul mercato forza-lavoro da cui estrarre pluslavoro)
  • la sola vendita di forza-lavoro contro il denaro di un capitalista non è sufficiente per parlare di lavoro produttivo per il capitale. Una cosa è scambiare la forza-lavoro contro del reddito, un’altra è scambiarla contro il capitale-denaro. Per capire questo punto, mettiamo che al termine del circuito se ne apre un altro in cui non tutto il plusvalore realizzato viene riconvertito in capitale-denaro. Questo denaro esce quindi dal circuito del capitale per entrare nel circuito dei redditi, e per i capitalisti la sua funzione è il consumo. Questi redditi possono essere consumati sostanzialmente in due modi: articoli di consumo e/o forza-lavoro, p. es. un cuoco. Il lavoro che in questo caso il cuoco svolge per il capitalista è completamente diverso da quello che svolgerebbe in un’impresa di ristorazione. La forza-lavoro comprata in questo caso infatti produce un valore d’uso che viene consumato direttamente dal capitalista, senza essere immesso sul mercato (non diventa M’, quindi nemmeno D’). Si tratta quindi di una merce, ma questa non è carica di plusvalore, quindi il lavoro erogato non è produttivo in senso capitalistico.
  • Le attività “di contorno” al circuito, per quanto possano essere necessarie, non sono produttive. P. es., perché il circuito cominci, potrebbe essere necessario fornire al capitalista produttivo un certo ammontare di denaro-capitale D, che renderà un interesse da detrarre poi al suo profitto. Chi fornisce D è un’impresa capitalistica a sua volta (una banca), con dei salariati. Per quanto il loro lavoro sia necessario per la produzione, la necessità non è sinonimo di produttività.

Circolazione e trasporti non vanno confusi (ad esempio, una casa sul mercato circola ma non viene trasportata). I trasporti e lo stoccaggio sono elementi necessari del processo produttivo stesso in ogni modo di produzione e vanno per questo considerati lavoro produttivo tanto in generale quanto per il modo di produzione capitalistico (sempre che l’attività si svolga nella forma del circuito del capitale). Questo perché il valore d’uso dei prodotti si materializza solo nel loro consumo.

Se però parliamo di trasporti e stoccaggio dovuti a motivi peculiari della circolazione (p. es. speculazione o ri-esportazione per fare triangolazione) si tratta di lavoro improduttivo.

La circolazione riguarda quei lavori che servono a passare dalla forma-merce alla forma denaro (p es il cassiere).

Il profitto ottenuto dal capitale commerciale e da quello bancario (profitto commerciale e interesse) sono una porzione del plusvalore totale prodotto nella produzione, e gli stessi salari pagati ai lavoratori appartenenti a questi due settori sono pagati attraverso questo plusvalore.

Il lavoro nei servizi e nel settore pubblico

Nel concetto di “servizi” è presente una grande quantità di lavori fra loro diversi, di cui non si può dire a priori se essi siano o meno lavoro produttivi. In generale, secondo Savran e Tonak ciò che definisce i servizi è la simultaneità di produzione e consumo, cioè il loro essere consumati nello stesso momento in cui sono prodotti. Questo fatto, questa loro “immaterialità” (e non è nemmeno detto che questi siano immateriali: pensiamo a un letto rifatto, a un cappotto ripulito ecc.), non influenza il loro essere o meno produttivi, sia in generale (perché alcuni di essi trasformano la natura), sia in senso capitalistico. Ciò che il consumatore compra e consuma è il lavoro stesso del lavoratore, assieme al tempo di utilizzo degli input. I servizi organizzati capitalisticamente implicano però che il lavoratore vende la sua forza-lavoro a un capitalista, produzione e consumo sono simultanei e il maggior denaro che ne deriva chiude il circuito. Tutto ciò implica che non necessariamente una crescita dei servizi vuol dire una crescita di lavoro improduttivo, bisogna saper distinguere i casi.

Anche le attività pubbliche nel capitalismo sono molto diverse. Savran e Tonak le dividono in tre grandi gruppi:

  • la riproduzione dell’ordine sociale (la burocrazia amministrativa dei vari livelli del settore pubblico, la polizia e l’esercito, le corti di giustizia, il sistema carcerario ecc.). Questo è lavoro improduttivo per definizione;
  • l’organizzazione di attività produttive attraverso imprese di proprietà pubblica parziale o totale. Per i due autori, qualsiasi differenza possa esserci fra produzione privata e pubblica (manomissione dei prezzi degli output, esuberi di lavoratori, perdite croniche ecc.) dal punto di vista della produzione di plusvalore non c’è differenza: queste imprese assumono lavoratori per produrre merci cariche di plusvalore da vendere sul mercato e appropriarsi del plusvalore. Si tratta quindi di lavoro produttivo;
  • la fornitura di servizi sociali (istruzione, sanità, politica abitativa ecc.), ossia il Welfare State. Si tratta del caso più difficile da decifrare per la varietà di lavori che vi rientrano. Da una parte questi non vendono servizi come merci cariche di plusvalore, quindi non possono essere visti come imprese capitalistiche; dall’altra lavoratori quali dottori e infermieri, insegnanti, producono servizi (valori d’uso) diversi rispetto ai lavoratori che riproducono l’ordine sociale. Perciò il loro lavoro è improduttivo a livello capitalistico, ma non a livello generale, e se fosse organizzato in senso capitalistico (p es scuole o sanità privata) sarebbe produttivo. Questo ci dice molto riguardo i trend delle società capitalistiche attuali: l’assalto al Welfare State sta implicando sia la privatizzazione di servizi pubblici, sia l’avvicinamento di canoni e rette al prezzo di mercato che queste avrebbero se fossero organizzate in modo capitalistico.

Lavoro improduttivo e sfruttamento

Da quanto detto sembra logico dedurre che lo sfruttamento sia legato al concetto di plusvalore, quindi che i lavoratori che non lo producono, ossia i lavoratori improduttivi, non sono sfruttati. Savran e Tonak però non sono d’accordo con questa linea. è vero che Marx nel Volume I del Capitale eguaglia il tasso di plusvalore con il grado di sfruttamento della forza-lavoro. Va detto però 1) che nel volume considerato sta presupponendo che i lavoratori siano tutti produttivi e 2) che in altri passaggi del Capitale egli esprime il tasso di sfruttamento dividendo pluslavoro e tempo di lavoro socialmente necessario. Anche i lavoratori improduttivi scambiano la loro forza-lavoro contro capitale e possono lavorare più del tempo necessario alla loro riproduzione.

Per misurare il tasso di sfruttamento dei lavoratori improduttivi gli autori propongono la seguente formula di Shaikh e Tonak (Measuring the Wealth of Nations, 1994):

eup = {[(hup/hp)/(ecup/ecp)]*[1 + (S/V)]} – 1, dove:

  • eup = tasso di sfruttamento dei lavoratori improduttivi
  • hup = tempo di lavoro dei lavoratori improduttivi
  • hp = tempo di lavoro dei lavoratori produttivi
  • ecup = massa salariale totale dei lavoratori improduttivi
  • ecp = massa salariale totale dei lavoratori produttivi
  • (S/V) = tasso di sfruttamento dei lavoratori produttivi, ossia tasso di plusvalore

Dalla formula è evidente che per calcolare il tasso di sfruttamento dei lavoratori improduttivi è necessario prima calcolare quello dei lavoratori produttivi. Questo rispetta l’implicazione della teoria, secondo cui i lavoratori produttivi vengono pagati con una parte del plusvalore prodotto dai lavoratori produttivi.

Operazionalizzazione dei Concetti Marxiani

Nella seconda parte del loro libro Savran e Tonak operazionalizzano i concetti di Marx, cioè cercano di trovare delle buone proxy a livello empirico per testarne la loro capacità analitica. Io qui non riassumerò le loro scoperte (il loro campo di ricerca è principalmente la Turchia), ma mi limiterò a mostrare alcuni concetti rilevanti da loro esposti che permettano una buona operazionalizzazione a chi vuole cimentarsi nel difficile compito dell’analisi dei dati.5 Nel libro è presente anche un’ interessante analisi dei network input-output, svolta attraverso le lenti concettuali marxiste, che per motivi di lunghezza ho preferito non riportare.

Le due fonti del profitto

Savran e Tonak, riprendendo le Teorie sul Plusvalore di Marx, mostrano che nella sua teoria esistono due fonti del profitto:

  1. il profitto per trasferimento o alienazione, la cui sede è la circolazione. Il suo funzionamento può essere riassunto nel motto “compra a poco e vendi a tanto”. In pratica, si viene a creare un gioco a somma zero fra gli scambianti, perché il profitto di uno è la perdita dell’altro, senza che il valore totale sia accresciuto nel processo. Si tratta di una forma del profitto presente soprattutto in epoca pre-capitalistica, ma che nel capitalismo non ha smesso di esistere (p. es nel commercio, nella rendita e nella finanza)
  2. il profitto per produzione di plusvalore (o profitto industriale), la cui sede è la produzione. Si tratta del tipo di profitto tipico del modo di produzione capitalistico. Il prerequisito di questo tipo di profitto è che sul mercato venga scambiata della forza-lavoro contro denaro, e che questa possa essere consumata per un tempo tale da generare più valore di quanto sia necessario a riprodurla. La differenza fra la giornata lavorativa totale e la parte necessaria alla riproduzione della forza-lavoro è il pluslavoro, a cui corrispondono il plusprodotto e il plusvalore. In questo caso si può parlare di gioco a somma positiva, perché viene prodotto più valore di quanto era implicato precedentemente al processo produttivo.

Il profitto industriale è comunque generalmente solo una parte aliquota del plusvalore totale prodotto. Questo perché la base dei profitti dei settori improduttivi (come il commercio e la finanza) sono quelli produttivi, perciò il plusvalore prodotto dai settori produttivi viene distribuito a quelli improduttivi attraverso vari meccanismi (p. es. interesse, rendita, royalties).

Dalla figura si vede bene come le imprese capitalistiche sia produttive che improduttive non intascano la totalità dei loro profitti, perché devono pagare degli interessi a dei creditori. Perciò a livello di misurazione empirica bisogna tenere a mente le differenze concettuali: se si vuole stimare la totalità del plusvalore prodotto da un’economia, vanno considerate anche tutte le sue espressioni monetarie; se si vuole misurare invece il profitto, bisogna focalizzarsi sul profitto netto di tutte le imprese capitalistiche.

Considerata la sua natura, il profitto per alienazione può nascere anche da trasferimenti fra diversi circuiti. Savran e Tonak si concentrano in particolare sul trasferimento dal circuito dello Stato e delle famiglie a quello del capitale, nei rispettivi casi del settore fondiario e del settore finanziario.

Nel primo caso, lo Stato che si disfa delle sue terre attraverso politiche di privatizzazioni a un prezzo inferiore di quello di mercato. Ciò significa un guadagno netto nel circuito del capitale e una perdita netta nella ricchezza pubblica (circuito dello Stato), senza che a livello complessivo vi sia incremento o diminuzione della ricchezza totale. Il capitalista poi ha tre strade: 1) vendere la terra al prezzo di mercato, ossia un ulteriore profitto per alienazione; 2) aspettare e vendere la terra a un prezzo di mercato più alto di quello attuale (profitto per alienazione a cui è aggiunto un profitto addizionale dovuto alla rendita differenziale); 3) utilizzare la terra in modo capitalistico (p. es. costruendoci una casa), nel cui profitto totale (prezzo di mercato – costi in capitale costante e variabile) rientrano sia il profitto per alienazione che il profitto per produzione di plusvalore.

Nel secondo caso, ossia quello del settore finanziario, i lavoratori che richiedono prestiti li ripagano trasferendo una parte del loro reddito dal circuito dei redditi (famiglie) al circuito del capitale (la banca), e a livello totale il rimborso è maggiore rispetto al prestito ottenuto.

Il salario sociale netto

Il salario sociale è la spesa che il settore pubblico orienta, sia in termini monetari che in natura, verso la sua popolazione lavoratrice. Savran e Tonak recuperano il dibattito in merito e mostrano che è arrivato alle seguenti conclusioni:

  • il salario sociale aggiunge alla lotta fra capitale e lavoro quella fra Stato e lavoro
  • un salario sociale elevato riduce i profitti (e il tasso di profitto) andando a mitigare la disuguaglianza fra i redditi delle classi
  • il salario sociale rallenta l’accumulazione di capitale (genera crisi) e riduce le manovre del capitale

Per queste ragioni, il dibattito sul salario sociale è arrivato alla conclusione che la spesa del settore pubblico è complessivamente pro-lavoro e anti-capitale. Savran e Tonak sono d’accordo solo sulla prima affermazione, ma nella loro ricerca empirica (che mostra come il salario sociale netto turco è variato nel tempo) ci danno gli strumenti per dubitare delle altre due.

Nel concreto, le economie capitalistiche non esistono senza intervento statale, anche se questo varia da paese a paese ed è generalmente cresciuto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nell’economia, le attività più importanti dello Stato dopo la produzione pubblica sono la tassazione, la spesa pubblica e i trasferimenti. Le grandezze monetarie prese di mira da queste attività sono il capitale variabile (V) e il plusvalore (S), mentre a questo livello di astrazione Savran e Tonak considerano la parte restante del prodotto lordo (il capitale costante C) come il fondo investito per ricostituire i mezzi di produzione consumati nel periodo precedente, e quindi come non tassato.

Oltre alla produzione l’economia capitalistica ospita anche attività improduttive (commercio e finanza, UP) che dipendono dai settori produttivi. Perciò, parte del plusvalore totale prodotto dall’economia è trasferito verso i settori improduttivi (SUP) e il resto (S – SUP) è mantenuto all’interno di quelli produttivi. Le stesse attività improduttive funzionano comunque minimizzando i costi (WUP e CUP) e massimizzando i profitti (SUPR), e lo Stato tasserà anche queste attività.

Lo Stato da una parte tassa i profitti delle imprese, ma dall’altra gli fornisce sussidi. Considerando i profitti in generale al netto di tasse e sussidi, l’attività statale converte il plusvalore totale nominale nel plusvalore totale effettivo (Seff). Lo Stato però non tassa solo i profitti delle imprese, ma anche i salari e gli stipendi, e anche in questo caso fornisce loro sussidi e trasferimenti. In questo caso, l’intervento statale converte il salario nominale (W) nel salario effettivo (Weff), e il capitale variabile nominale (V) in capitale variabile effettivo (Veff).

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per parlare del rapporto fra tasso di plusvalore (S/V) e salario sociale netto (Net Social Wage, NSW). Generalmente, il tasso di plusvalore viene calcolato dividendo la forma monetaria del plusvalore S per la forma monetaria del capitale variabile (V), appunto (S/V). Questo però presuppone un livello di astrazione molto alto, in cui non è presente l’intervento statale con le sue tasse e i suoi trasferimenti. Considerare invece questo intervento ci permette di affermare che, in caso di salario sociale negativo, il capitale variabile effettivo sarà inferiore rispetto al suo valore nominale, e perciò l’intervento statale avrà l’effetto di aumentare il tasso di plusvalore: S/(V+NSW)

Savran e Tonak calcolano il salario sociale netto (NSW) considerando sia i trasferimenti in favore della classe lavoratrice (B), sia le tasse da essa pagate (T). Abbiamo quindi che NSW = B – T.6 Dalla popolazione lavoratrice escludono i top manager, e i self-employed per difficoltà empiriche Per adattare i dati rilevati dai vari istituti alla teoria vanno fatti dei passaggi intermedi. Dal lato delle entrate statali, loro escludono dal computo quelle entrate che non sono riusciti a collocare fra le classi sociali; dal lato della spesa statale, questa è stata riclassificata in tre gruppi:

  • il gruppo B1 è quell’insieme di spese che non contribuiscono né al reddito né al consumo della classe lavoratrice (p. es. polizia e militari)
  • il gruppo B2 è quell’insieme di spese i cui benefici sono interclassisti (p. es. energia, trasporti, protezione ambientale, sanità, istruzione); Savran e Tonak assumono che la classe lavoratrice beneficia di queste spese in proporzione alla quota salariale (labor share, LS)
  • il gruppo B3 è quell’insieme di spese di spese a beneficio interamente della classe lavoratrice (p. es. previdenza sociale e indennità di disoccupazione)

La spesa pubblica in favore della classe lavoratrice è quindi B = (LS*B2) + B3.

Loro dividono anche le entrate pubbliche in tre gruppi:

  • il gruppo T1 è composto dalle tasse pagate dalla classe lavoratrice (previdenza sociale e detrazioni dall’assicurazione contro la disoccupazione)
  • il gruppo T2 è formato da tasse pagate da tutta la popolazione (p. es. IVA, IRPEF, varie accise ecc.); Savran e Tonak assumono che le tasse pagate dalla classe lavoratrice in questo gruppo siano proporzionali alla quota salariale (LS)
  • nel gruppo T3 ci sono le tasse pagate da classi sociali non riconducibili alla classe lavoratrice (p es IRES, tassa immobiliare ecc.)

Abbiamo quindi che le tasse pagate dalla classe lavoratrice sono T = T1 + (LS*T2). Abbiamo quindi tutti i parametri per calcolare il salario sociale netto (NSW) della classe lavoratrice:

NSW = [(LS*B2) + B3] – [T1 + (LS*T2)]

Un valore positivo indicherà un contributo netto dello Stato verso i lavoratori, mentre un numero negativo significa uno Stato sfavorevole alla classe lavoratrice.

Questioni XXI Secolo

In questa sezione del libro Savran e Tonak cercano di inquadrare e affrontare, attraverso la teoria economica marxista, le varie sfide presentate dai cambiamenti nel modo di produzione capitalistico (economia digitale, produzione snella, imperialismo e crisi economiche).

Piattaforme digitali e lavoro produttivo

L’economia digitale è un settore molto diversificato. Nel dibattito marxista ci si chiede se in questo settore venga estratto del plusvalore e, se ciò avviene, in quale punto del suo processo lavorativo ciò accade. Riprendendo i concetti esposti sopra, secondo Savran e Tonak nell’economia digitale esistono imprese che sfruttano sia lavoro produttivo che lavoro improduttivo. Dove collocare le imprese digitali?

Per rispondere, partiamo dalla considerazione per cui Facebook, in quanto impresa capitalistica, compra mezzi di produzione (p es computer, monitor, sedie, tavoli ecc.) e forza lavoro per produrre una merce che, venduta, gli permette di ottenere più denaro di quello speso. E qual è questa merce? Secondo Savran e Tonak, la merce che Facebook produce è il pubblico che interagisce nel suo ecosistema digitale. Questo ecosistema ha insomma un aspetto duale: è un ambiente sia per gli utenti che per gli inserzionisti.

Gli utenti sono a tutti gli effetti dei piccoli produttori indipendenti, il cui prodotto è il loro profilo e i loro contenuti. Essi non sono sfruttati, siccome non vendono la loro forza-lavoro a Facebook, e perciò producono valore ma non plusvalore. Detengono i loro mezzi di produzione e possono produrre merci per venderle.

Gli inserzionisti sono tendenzialmente imprese capitalistiche che producono pubblicità per raggiungere potenziali consumatori. Coloro che vengono impiegati per produrre queste pubblicità sono lavoratori salariati produttivi che producono plusvalore. Un’impresa pubblicitaria compra da Facebook l’accesso a un pubblico di riferimento in forma di merce. La realizzazione nel valore d’uso di questa merce avviene quando l’attenzione degli utenti porta alla decisione di acquisto della merce pubblicizzata.7 Savran e Tonak ribadiscono spesso che si tratta di un processo assolutamente materiale. Senza l’elettromagnetica e i vari dispositivi (computer e telefoni) tutto ciò non esisterebbe. Parlare di “lavoro immateriale” è un non-senso.

Proprio perché il pubblico in questo ecosistema viene venduto agli inserzionisti, esso è definibile come merce, e i lavoratori che producono questo ecosistema sono lavoratori produttivi, che producono questo ecosistema mercificato carico plusvalore. Il plusvalore viene realizzato quando questo ecosistema viene venduto agli inserzionisti. In effetti, Facebook fa il grosso del suo denaro dalla vendita di inserzioni, mentre una parte proviene dalla vendita di dati forniti dagli utenti.

Il processo produttivo di Facebook funziona quindi così:

  • la forza-lavoro acquistata da Facebook utilizza le sue abilità (p. es. web design, ingegneria digitale) per produrre l’ecosistema digitale visibile dai consumatori. Ora, questo ecosistema non sembra una merce, in quanto l’iscrizione è gratuita. Ma se ci fermiamo a questo ignoriamo un fatto fondamentale: per accedere a Facebook è necessario produrre contenuti (compreso il semplice profilo). Per Savran e Tonak c’è quindi una sorta di baratto iniziale fra Facebook e l’utente: Facebook fornisce all’utente un ecosistema di interazione sociale, l’utente fornisce a Facebook i suoi contenuti. L’utente diventa insomma un piccolo produttore indipendente che paga in natura Facebook. Il contenuto prodotto dal piccolo produttore indipendente allora è una merce, che a sua volta contribuisce ad arricchire Facebook: i contenuti creano interazione sociale, e ciò attira le imprese inserzioniste.
  • Facebook è proprietario dei contenuti degli utenti, e li utilizza come input (una sorta di materia prima) “impacchettandoli” sotto forma di pubblico di riferimento. I vari pubblici di riferimento sono venduti agli inserzionisti, modulati in termini di esposizione temporale e di grandezza del pubblico.

La Produzione Snella come ultima fase del Taylorismo

Savran e Tonak hanno delle tesi molto interessanti rispetto alla produzione snella (lean production, che negli studi ha preso vari nomi: Just in Time, sistema giapponese, toyotismo, total quality control, post-fordismo ecc.). Innanzitutto, a differenza degli accademici che per vendersi devono inventarsi ogni volta delle rotture radicali nel capitalismo capaci di falsificare la teoria marxiana, credono che questa nuova forma di gestione della produzione sia invece facilmente spiegabile dalle categorie di Marx. Questo non significa che non ne vedano le novità rispetto al Taylorismo. Per capire cosa è avvenuto iniziano la loro trattazione esponendo il funzionamento del sistema di Taylor.

Taylorismo e Fordismo

Il Taylorismo è la sistematizzazione della sussunzione reale del lavoro sotto al capitale. Secondo Savran e Tonak questo sistema presuppone l’epoca dei grandi monopoli imperialisti (per il suo costo di implementazione), ed è un insieme di tecniche che accetta come dato il livello di sviluppo tecnologico (non è quindi il risultato di nuove tecnologie). Taylor non si è inventato né il dispotismo del capitale (ossia la posizione di scopo del processo produttivo da parte del capitalista e non dei lavoratori), né la divisione di dettaglio (tecnica) del lavoro (ossia la frammentazione di un lavoro complesso in parti semplici e ripetitive, che implica il deskilling), né il comando del capitale sulla velocità del processo lavorativo (ossia il lavoratore che lavora per la macchina, che segue i suoi ritmi, e perciò ne è una sua estensione), ma ha sistematizzato delle tecniche per estrarre il massimo plusvalore possibile da questi processi.

Il suo scopo è quello di impedire che il lavoratore possa controllare il suo lavoro, e quindi adottare delle tecniche che ne rallentino i ritmi, cosa che porterebbe a una caduta dell’intensità di lavoro e quindi a un aumento dei costi. Per risolvere questo problema, Taylor pensa che: 1) è necessario trasferire la conoscenza del lavoro dal lavoratore al management; 2) separare l’ideazione e l’esecuzione del lavoro, di modo che la prima sia nelle mani del management; 3) pianificare in dettaglio e supervisionare costantemente ogni step del processo lavorativo.

Il management fa tutto questo spezzettando il lavoro in compiti più piccoli, misurando quanto tempo ci vuole in media per eseguirli e poi calcolare quanto tempo ci vuole per svolgere il lavoro nel suo complesso. Per implementare questi principi non è importante il livello tecnologico, basta che i costi di implementazione siano inferiori alla crescita del plusvalore derivata da una maggiore intensità di lavoro a causa dell’adozione di questi principi. Tutto questo intensifica l’espropriazione del lavoratore dalla conoscenza del processo produttivo (e quindi produce deskilling), esclude la possibilità di apporta miglioramenti scientifici da parte dei lavoratori, produce la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e toglie potere contrattuale ai sindacati di mestiere (craft unions).

Savran e Tonak si limitano a parlare di Taylorismo perché respingono il concetto di Fordismo. Secondo loro si tratta di un concetto vacuo, perché il Fordismo non sarebbe altro che una forma di Taylorismo a cui viene aggiunta la catena di montaggio mobile. La questione dei consumi dei lavoratori, con cui di solito viene denotato il Fordismo a causa della sua politica degli alti salari, per loro non è importante, anche se non spiegano perché. Su questo punto specifico sono d’accordo, credo che Ford potesse permettersi di pagare salari più alti perché adottava tecniche produttive che ne diminuivano i costi. Non sono d’accordo però sul fatto che il Fordismo sia un concetto vacuo in generale, perché credo che col Fordismo si siano toccate vette importanti in merito al potere disciplinare esercitato sulla vita del lavoratore.8 “All’inizio del XX secolo, la Ford Motor Company istituì un Dipartimento Sociologico, dedicato all’ispezione delle case dei dipendenti senza preavviso, per garantire che conducessero una vita ordinaria. I lavoratori sarebbero stati considerati idonei per il famoso salario giornaliero di Ford da 5$ solo se avessero tenuto le loro case pulite, avessero praticato una dieta sana, si fossero astenuti dal bere, avessero usato la vasca da bagno opportunamente, non avessero avuto coinquilini, avessero evitato di inviare troppi soldi ai parenti stranieri, e fossero stati assimilati alle norme culturali americane.”, cit in Anderson E., Private Government: How Employers Rule Our Lives (and Why We Don’t Talk About It), Princeton University Press, New Jersey, 2017 pp. 49-50, trad. mia

Le contraddizioni del Taylorismo-Fordismo

Savran e Tonak mostrano anche le contraddizioni insite nel Taylorismo-Fordismo, che sono:

  • la grande presenza di tempi morti, l’insieme di tempo che il lavoratore non utilizza per produrre. Questi tempi non dipendono necessariamente dalla pigrizia dei lavoratori: in un sistema in cui il lavoratore è assoggettato ai ritmi infernali della macchina e a un lavoro ripetitivo fino alla nausea, è assolutamente normale prendersi un attimo di riposo. Non è normale però per il capitale, per il quale i tempi morti sono un costo non corrisposto. Inoltre, i tempi morti creano il problema del “bilanciamento della linea”: siccome l’output di una postazione di lavoro è l’input di un’altra postazione, i tempi morti possono causare delle disarmonie fra i ritmi delle varie postazioni di lavoro.
  • il rallentamento della catena: nel caso di una diminuzione della domanda, il rallentamento della catena di montaggio è una necessità economica, perché se non avvenisse si accatasterebbero delle pile di scorte invendute. Il problema è che nella catena di montaggio Taylorista, il rallentamento causa l’aumento dei tempi morti. La cosa razionale da fare per il capitale sarebbe quella di licenziare alcuni lavoratori e redistribuire gli altri lungo la catena, ma questo risulta difficile da fare a causa della specializzazione
  • l’impossibilità di utilizzare il sapere dei lavoratori: sebbene il Taylorismo miri a espropriare l’ideazione dai lavoratori in favore del management, l’esperienza dei lavoratori nel lavoro manuale conferisce loro del sapere che, nella misura in cui rimane estraneo al management, gli conferisce un certo potere e impedisce l’organizzazione ancora più profittevole della produzione
  • lo spreco: nella catena di montaggio classica tutte le postazioni di lavoro hanno una certa riserva di scorte, per evitare che le disarmonie nei ritmi possano creare tempi morti. Questo sistema è denominato Just in Case (JIC). Siccome queste scorte nella pratica sono raramente utilizzate, questo significa che per il capitalista un dato ammontare di capitale prodotto rimane infruttuoso. Inoltre, siccome il controllo qualità nel sistema classico viene svolto in maniera separata e a seguito del processo produttivo, è possibile che i difetti di produzione vengano scoperti dopo per parecchio tempo.

L’Origine della Produzione Snella

La Produzione Snella è, per Savran e Tonak, il tentativo di risolvere tutte queste contraddizioni. Formalizzata da Taiichi Ohno, essa può essere definita come quel tipo di produzione epurata da utilizzi di risorse che non sono strettamente necessarie per la produzione. A mio avviso, la parte più originale di questo saggio sta nella spiegazione dell’origine di questo tipo di gestione.

La Produzione Snella nasce in Giappone e si diffonde in quel paese in un contesto molto particolare. Dall’inizio della modernizzazione (1860 circa) fino alla Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo giapponese ha sempre sofferto la concorrenza del capitale occidentale, in particolare quello americano. Dopo la distruzione causata dalla guerra, le imprese giapponesi doveva trovare un modo per farsi largo nella concorrenza internazionale e recuperare il gap nella produttività del lavoro. La soluzione fu proprio l’adozione della Produzione Snella. Nel fare questo il capitale giapponese ha mosso guerra contro i suoi lavoratori per incrementare il tasso di sfruttamento.

Non è quindi un caso se la forza del capitalismo giapponese cominciò a farsi sentire negli anni ’70, e non è nemmeno un caso se la Produzione Snella cominciò ad essere adottata a livello generale proprio in quegli anni critici per il capitalismo nel suo complesso (stagflazione, crisi di profittabilità ecc.). Da soluzione nazionale per rimettersi al passo con la concorrenza internazionale, la Produzione Snella divenne parte di una più ampia strategia di attacco ai lavoratori (assieme alle privatizzazioni dei servizi sociali, alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e all’attacco ai sindacati) mirata ad arrestare la crisi di profittabilità.

Questa tesi è estremamente interessante perché colpisce la teoria operaista: non è l’attività dei lavoratori che costringe il capitale a reagire e a innovarsi, ma sono le pressioni dovute ai costi, alla profittabilità e alla concorrenza di altri capitali.

Il Nucleo della Produzione Snella come soluzione del Taylorismo

Concetto centrale della Produzione Snella è il Just in Time (JIT), che solitamente viene opposto al JIC come tecnica di riduzione degli sprechi. Ma per Savran e Tonak essa è molto di più: si tratta dell’identificazione e dell’eliminazione dei tempi morti tout court. Questo lo fa attraverso il suo sistema di visualizzazione (andon): se la catena di montaggio scorre veloce, un lavoratore nella sua postazione che non riesce a sostenere il ritmo della catena dovrà cominciare a usare degli input dalle scorte, ma se non ci sono scorte sarà sottoposto alla grande pressione di rimettersi al passo. In ogni postazione di lavoro c’è un sistema di segnalazione dotato di tre luci: verde, gialla e rossa. Se la catena di montaggio va avanti in maniera normale, la luce verde è accesa; se ci sono dei problemi parziali, si accende quella gialla; se la postazione non riesce a stare al ritmo della catena, si accende la luce rossa. Ora, per il vecchio sistema l’ideale sarebbe avere sempre accesa la luce verde. Ma nella Produzione Snella il management deduce da una costante luce verde che nella postazione c’è del pluslavoro superfluo. Perciò, in questo caso, alla postazione viene assegnato sempre più lavoro, o dei suoi lavoratori vengono spediti in altre postazioni, fino al punto in cui questa non arriva al limite di premere il bottone giallo.

Questo significa che il bilanciamento della produzione avviene attraverso una continua pressione. Ma la pressione esercitata va oltre la scoperta del pluslavoro superfluo: questa va esercitata continuamente, in modo da incrementare l’intensità del lavoro e eliminare i tempi morti e gli sprechi. Questo miglioramento continuo (Kaizen) in Giappone ha avuto l’effetto di far arrivare i lavoratori al lavoro prima dell’orario prestabilito e di farli lavorare anche durante le pause. Non solo l’intensità del lavoro è aumentata, ma aumenta anche il tempo di lavoro effettuato.

Per risolvere il problema del rallentamento della catena, la Produzione Snella usa sia lavoratori intercambiabili, sia una ristrutturazione delle postazioni di lavoro rispetto al sistema taylorista. Nel sistema taylorista, la postazione era una linea formata da un gruppo di lavoratori che lavoravano alla stessa macchina; nella produzione snella, la postazione è a forma di U, ospita diverse macchine e il lavoratore viene spostato da una macchina all’altra nel caso in cui ci sia il rischio di tempi morti (sistema modulare). Inoltre, le funzioni di manutenzione, che prima erano svolte da lavoratori diversi rispetto a quelli impiegati nella produzione, sono ora svolte dagli stessi lavoratori produttivi. Così, il controllo qualità avviene simultaneamente al processo produttivo e si evitano gli sprechi.

Il problema dell’estrazione del sapere dai lavoratori la Produzione Snella usa la gestione della qualità totale (Total Quality Management). Innanzitutto, attraverso gli “schemi di suggerimento” e i “circoli di qualità”, il lavoratore comunica ai manager i suoi suggerimenti per migliorare la produzione. Paradossalmente, questo non solo si traduce in un aumento dei ritmi di lavoro, ma anche in un risparmio in capitale variabile. Lo svolgimento simultaneo di produzione e controllo qualità infatti implica che la “qualità” non riguarda solo il consumatore finale, ma ogni anello della catena produttiva. Da una parte questo significa che il capitalista non deve assumere dei controllori di qualità, dall’altra significa aggiungere un’ulteriore pressione sui lavoratori: un controllo qualità fatto male e l’assenteismo non attirano solo le ire dell’impresa, ma anche dei colleghi. Nel sistema classico accadeva invece che la pressione funzionava al ribasso.

Per di più, la gestione della qualità totale fa sembrare al lavoratore di essere importante per l’azienda attraverso la considerazione delle sue idee e i premi. Tutto ciò fa sembrare l’impresa una grande famiglia e mette sullo sfondo la lotta di classe, anche attraverso vari trucchi (come l’inno dell’azienda). Nel sistema classico, il lavoratore dipendente una volta finito il lavoro utilizzava il suo tempo libero per riposarsi e consumare. Ma l’identificazione del lavoratore con l’azienda ha reso il tempo libero un luogo in cui il lavoratore riflette su come migliorare la produzione, diventa quindi tempo di lavoro.

La lotta di classe nella Produzione Snella: la frammentazione della forza lavoro e del luogo di lavoro

La Produzione Snella ha due aspetti: la relazione fra capitale e lavoro (la gestione dei lavoratori all’interno dell’impresa) e la relazione fra i vari capitali (la frammentazione del luogo di lavoro in un insieme di piccole imprese che si raccolgono attorno all’azienda principale).

La forza-lavoro che lavora nel regime di produzione snella è divisa in due gruppi: il centro e la periferia. Il centro è formato da lavoratori relativamente sicuri del proprio posto di lavoro e che guadagnano meglio, mentre la periferia è composta da precari a basso reddito. I lavoratori al centro sono generalmente fedeli all’impresa e si sacrificano per essa in termini di disciplina e ore di lavoro. Il punto che Savran e Tonak sottolineano però è che questo non dipende dalla loro “cultura di impresa”, ma da fattori economici che “forzano” i lavoratori del centro a comportarsi così. Il sistema Giapponese del lavoro a vita in un’azienda ha come rovescio della medaglia la difficoltà di riuscire a trovare un buon lavoro da un’altra parte in caso di dimissioni. Inoltre, la pessima fornitura di servizi sociali da parte di Stati come il Giappone e gli USA costringe i lavoratori a fare affidamento a quelli forniti dall’azienda. I sindacati giapponesi poi sono organizzati a livello del luogo di lavoro, quindi la loro fortuna dipende dall’impresa stessa. Va inoltre considerato che, siccome una parte del salario dipende dalle migliori performance del lavoratore e che queste valutazioni sono fatte sulla base di fattori soggettivi quali l’attitudine positiva, allora per aumentare il loro tenore di vita i lavoratori devono dimostrare questa attitudine positiva.

Oltre alla frammentazione della forza-lavoro è avvenuta anche la frammentazione del luogo di lavoro. Rispetto a fino ai primi anni ’70, in cui l’integrazione verticale mirava a centralizzare sotto il controllo di un capitale l’intera catena delle attività produttive e improduttive, si sono attivate due tendenze fra loro contraddittorie. Queste sono, da una parte, le fusioni e acquisizioni (merger and acquisition) che rafforzano l’integrazione verticale, e dall’altra il modello supply chain, in cui un’azienda si specializza su alcune “competenze base” e poi esternalizza a altre aziende fornitrici altre funzioni che prima svolgeva da sé. C’è anche il sistema del franchising, in cui i brand creano catene internazionali non a monte (ossia negli input) ma a valle (pubblicità, merchandising ecc.). Questo tipo di struttura produttiva abbatte i costi del lavoro perché la maggior parte delle imprese che lavorano nella supply chain o in franchise sono di piccole o medie dimensioni e ciò rende la sindacalizzazione molto più difficile. La perdita di economie di scala è quindi compensata da una maggiore appropriazione di plusvalore.

In sostanza, la Produzione Snella aumenta l’estrazione di plusvalore sia assoluto che relativo:

  • l’estrazione di plusvalore assoluto avviene allungando la giornata lavorativa o aumentando l’intensità del lavoro; questo avviene quando il lavoratore viene a lavoro prima o stacca dopo, o quando lavora durante le pause, o quando il lavoratore pensa a come migliorare la produzione durante il suo tempo libero; avviene anche a livello dei lavoratori periferici (supply chain e franchising), perché i lavoratori non sono sindacalizzati e con poche protezioni legali, quindi vengono fatti lavorare di più
  • l’estrazione di plusvalore relativo avviene, tenuti costanti lunghezza della giornata lavorativa e intensità del lavoro, facendo cadere il valore del capitale variabile (la forza-lavoro acquistata). Il valore del capitale variabile cade in due modi: o cade il salario reale (e la riproduzione sociale lo permette solo se non cade al di sotto del livello di sussistenza), o aumenta la produttività del lavoro (ossia la produzione di una stessa merce in un tempo inferiore rispetto a prima), e questo a parità di salario reale diminuisce il valore della forza lavoro e quindi aumenta la quota di pluslavoro estratta in rapporto alla quota di tempo di lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza-lavoro; a livello di salari reali, la Produzione Snella ha reso comuni le forme contrattuali “atipiche” che pagano salari inferiori, e eliminando gli sprechi ha aumentato la produttività del lavoro

Imperialismo

Savran e Tonak hanno alcune idee interessanti in merito all’imperialismo. Innanzitutto, secondo loro non è un fenomeno tipicamente capitalistico, ma si è manifestato storicamente anche in altri modi di produzione. Per capire l’imperialismo capitalistico e distinguerlo dalle sue manifestazioni in modi di produzione precedenti, è necessario concentrarsi sullo sviluppo economico diseguale e sui meccanismi di trasferimento del valore.

Anche il modo in cui considerano il rapporto fra imperialismo capitalistico e concorrenza è estremamente interessante. Savran e Tonak criticano la teoria dell’imperialismo come basata sul capitale monopolistico, perché chi afferma questo crede che l’unico concetto possibile di concorrenza sia quello neoclassico: una concorrenza “perfetta”, basata su un insieme di imprese price-taker tutte uguali fra loro. Per i due autori questo concetto di concorrenza è tanto sbagliato quanto negarlo affermando che non esiste la concorrenza o che questa sia “imperfetta”. La concentrazione e la centralizzazione dei capitali sono fenomeni derivanti dall’intensificazione della concorrenza, non manifestazioni della sua fine. La teoria dell’imperialismo capitalistico necessita quindi di una teoria della concorrenza reale, che indaghi la determinazione del tasso di cambio reale, la formazione dei prezzi e gli effetti del commercio internazionale. Questo implica che l’imperialismo non va visto come esercizio di potere da imprese monopolistiche dei paesi sviluppati su quelle dei paesi in via di sviluppo, ma come la manifestazione dello sviluppo capitalistico ineguale.

è dallo sviluppo capitalistico ineguale che, secondo Savran e Tonak, nascono i trasferimenti di valore, e non viceversa. Questi al massimo, in un circolo vizioso, sono un mezzo per perpetuare lo sviluppo ineguale, ma non ne sono la causa. La loro semplice esistenza non può quindi essere presa come la causa della diseguaglianza fra le regioni del mondo.

Anche sulla questione del rimpatrio dei profitti attraverso l’investimento diretto estero bisogna andarci piano: ai dati del 2019, recentemente i flussi in entrata verso le economie sviluppate sono stati maggiori di quelli verso le economie in via di sviluppo. Inoltre, Savran e Tonak accettano le tesi di Gordon secondo cui i flussi di capitale verso i paesi in via di sviluppo non dipendono principalmente dal basso costo del lavoro o dalla maggiore estraibilità di pluslavoro, ma da altri fattori: la prossimità a grandi mercati domestici, la relativa stabilità dei prezzi e degli orizzonti commerciali (p es tasso di cambio, regime fiscale, stabilità macroeconomica, presenza di manodopera qualificata), e la stabilità politico-istituzionale (p es presenza di buone infrastrutture). Mostrano anche che la tesi di un’aristocrazia operaia che vive di profitti rimpatriati è molto irrealistica, usando l’esempio degli USA.

Teorie della Crisi

Savran e Tonak distinguono due tipi di crisi: la recessione, ossia un breve periodo di contrazione dell’economia che avviene alla fine di un ciclo economico e che si supera attraverso l’aggiustamento delle forze di mercato e un intervento pubblico minimo, e la depressione, ossia un lungo periodo di contrazione dell’economia (si parla anche di decenni) e non può essere risolta con qualche aggiustamento o intervento pubblico, ma richiede un rivolgimento generale (1873-96, 1929-1945, 2007-oggi). Essi cercano di valutare le varie teorie della crisi nelle diverse scuole di pensiero economico per leggere quella attuale.

I negazionisti neoclassici e i realisti keynesiani

Secondo l’economia neoclassica, una depressione per motivi endogeni è impossibile. Queste possono esistere solo per shock esterni: guerre, rivoluzioni, un brusco e inaspettato aumento dei prezzi delle merci, condizioni metereologiche straordinarie, errori nelle politiche economiche. Questo perché, attraverso il meccanismo dell’aggiustamento dei prezzi, domanda e offerta tornano sempre al punto di equilibrio. Su queste teorie Savran e Tonak non ci si soffermano, perché basta l’esperienza a falsificarle.

Il trattamento riservato alle idee di Keynes è diverso. Secondo Keynes, l’economia può raggiungere una varietà di stati di equilibrio, compreso un equilibrio con un livello non desiderabile di disoccupazione involontaria. Una crisi, in questo quadro, c’è quando la domanda aggregata effettiva (domanda a livello sociale sostenuta da denaro) è insufficiente a creare piena occupazione, e pone quindi la società davanti a uno stato di sotto-utilizzo della sua capacità produttiva. Quella di Keynes non è però una teoria sottoconsumista delle depressioni, perché per lui la variabile determinante della domanda aggregata effettiva (e, più in generale, la molla del sistema economico capitalistico) è l’investimento, non il consumo.

Per Keynes, ciò che determina il livello degli investimenti è la differenza fra i rendimenti attesi dagli investimenti in capitale (l’efficienza marginale del capitale) e il tasso di interesse (le spese in conto capitale). Siccome sia i rendimenti attesi che il tasso di interesse variano nel tempo, le decisioni di investimento sono influenzate dalle aspettative sul loro livello. A loro volta, le aspettative, in condizioni di radicale incertezza, sono guidate da quelli che Keynes chiama gli “spiriti animali”, una sorta di ottimismo spontaneo degli imprenditori che li stimola all’azione. L’intervento dello Stato, sia con politiche monetarie che fiscali, è necessario per ristabilire le condizioni normali in cui questi spiriti animali possono operare.

Savran e Tonak attaccano la teoria keynesiana un po’ come Marx attaccò Ricardo: se quest’ultimo si era rifugiato nell’agronomia perché non riusciva a dare conto delle leggi economiche che determinano la rendita, Keynes si rifugia nella psicologia perché non riesce a dare conto delle leggi economiche che determinano il tasso di profitto e i ritmi dell’accumulazione.

Teorie Marxiste

Marx attacca la versione classica dell’equilibrio automatico, ossia la legge degli sbocchi di Say. Secondo questa presunta legge, dato che tutta la produzione nella divisione capitalistica del lavoro ruota attorno allo scambio fra i beni che ogni agente economico produce, ne segue che tutta la produzione crea una domanda per altri beni di grandezza eguale al valore di quelli prodotti, e perciò l’offerta totale sarà necessariamente uguale alla domanda totale. In questo quadro la crisi a livello endogeno è impossibile.

La critica di Marx si basa sulla possibilità che i venditori di merci ritardino l’acquisto di altre merci e quindi tesaurizzino. Marx insomma spezza il presupposto di Say secondo cui l’atto dell’acquisto e l’atto della vendita sono simultanei: è vero che ogni acquisto è anche una vendita, ma non è vero che ogni venditore è anche un compratore. Per come la mette Say sembra quasi che l’economia sia fondata sul baratto, ma in un’economia monetaria l’atto di vendita e l’atto di acquisto di un singolo soggetto sono mediati dalla conversione in valore dell’oggetto venduto e dalla riconversione in un’altra merce del valore ottenuto. Se un numero sufficientemente grande di venditori decide di tesaurizzare, il calo della domanda rende possibile una crisi.

Per Marx, la crisi è per il capitale sia un problema che una soluzione, perché fanno salire alla superficie tutte le contraddizioni interne al processo di accumulazione. Ogni crisi richiede una soluzione di due problemi: 1) l’aumento del tasso di profitto e 2) l’eliminazione dei mezzi di produzione che sono soggetti all’ammortamento, che non sono più concorrenziali e che sono stati superati in termini di produttività (devalorizzazione).

L’analisi di Marx inoltre considera molto importante la differenza che passa fra la causa di una crisi e la sua manifestazione fenomenica (il suo innesco). Esempi di questo possono essere la crisi del 1973-4 e quella del 2008. Nella prima, la manifestazione fenomenica è stata l’aumento del prezzo del petrolio, mentre la vera causa è stata la caduta del tasso di profitto in un periodo di tempo parecchio esteso dovuta alla sostituzione di lavoro vivo con le macchine e l’automazione. Nella seconda, la manifestazione fenomenica è stata la crisi dei mutui subprime, mentre la causa è stata l’espansione del sistema finanziario molto oltre la base produttiva dell’economia globale. Un conto è insomma dire che la crisi comincia a esperirsi con una sovrabbondanza di merci invendute, un altro è dire che queste merci invendute sono la causa della crisi e che quindi tutte le crisi sono essenzialmente crisi di sovrapproduzione. Interpretare così Marx è confondere essenza e apparenza.

L’esempio della crisi del 2008 ci permette di parlare del ruolo della finanza. Per Marx, la dinamica reale delle crisi capitalistiche è interna al processo di produzione e di accumulazione del capitale, quindi la sfera finanziaria non è la sua dimora. Eppure la finanza gioca un ruolo fondamentale nello svolgimento della crisi. I capitalisti produttivi possono accumulare del capitale addizionale al di sopra del livello del reinvestimento dei loro profitti dovuti alla produzione di plusvalore in due modi: credito bancario e mercato azionario. Queste due forme di finanziamento danno vita a forme di finanza che tendono a espandersi costantemente oltre il denaro inizialmente anticipato. Nel caso delle banche questo avviene usando come credito parte dei depositi dei loro clienti, mentre nel caso del mercato azionario viene duplicato e acquista vita relativamente autonoma il valore originariamente incorporato nei mezzi di produzione (capitale fittizio).

La finanza è estremamente utile nel caso in cui ci sia una crisi. Una crisi implica infatti una mancanza di domanda, quindi una caduta negli investimenti e nei consumi, e perciò una mancanza nei mezzi di pagamento. La finanza può sostenere quei settori in difficoltà, addirittura andando oltre i confini di ciò che sarebbe possibile considerata la capacità del produttiva di un determinato sistema in un dato momento. Ma l’iniezione di nuovo credito e la fornitura di nuovi prestiti non sono gratis: esse aumentano i debiti. Più la finanza interviene per ritardare una crisi, più i flussi finanziari raggiungono una grandezza tale da risultare sproporzionata rispetto alla sua base produttiva, maggiore debito si accumula, e maggiori danni farà lo scoppio della bolla. Questo è ciò che secondo Savran e Tonak è accaduto nel 2008.

Le teorie marxiste per spiegare le crisi sono sostanzialmente tre: la compressione dei profitti, il sottoconsumo e la caduta del tasso di profitto.

la crisi da compressione dei profitti

Secondo questa teoria, le crisi sono causate dal rafforzamento dei lavoratori, che aumenterebbe i salari e di conseguenza comprimerebbe i profitti. Questa teoria fu proposta alla metà degli anni ’70 e sembrava plausibile: il rafforzamento dello Stato sociale e dei sindacati e la quasi assenza della disoccupazione aumentavano i salari reali. Si tratta poi di un insieme di fattori che è possibile ritrovare poco prima di una crisi, perché in questa situazione quello che sta accadendo è proprio un’uscita dal periodo di crescita mentre i salari stanno ancora aumentando.

Savran e Tonak però ne mostrano le criticità. A livello teorico, una variazione nella distribuzione del reddito in favore della forza-lavoro può essere rettificata dal capitalismo in un periodo relativamente breve attraverso la meccanizzazione, il che aumenta la disoccupazione, incrementa la concorrenza fra lavoratori e quindi tira giù i salari. A livello empirico poi, la teoria non regge nel 2008: i salari non erano abbastanza alti e la forza-lavoro non era abbastanza organizzata, motivo per cui questa teoria non fu nemmeno menzionata.

la crisi da sottoconsumo

Questa è forse la teoria marxista della crisi più conosciuta. Essa afferma che i consumi sono il traino del modo di produzione capitalistico, e già questo è molto interessante, dato che per Marx è la produzione del plusvalore (e quindi la profittabilità) ciò che traina il capitalismo. La teoria sottoconsumista ha molte varianti, ma tutte cercano di rispondere a questa domanda: Data l’esistenza del plusvalore, dato cioè che il valore prodotto è maggiore di quello necessario a rimpiazzare il capitale usato nella produzione e le spese di consumo della forza-lavoro implicati nel processo produttivo, e dato che la classe capitalistica non consuma l’intero plusprodotto, chi acquista le merci in cui il valore in eccesso è incorporato? Per alcuni la risposta può essere una sorta di classe sociale intermedia, per altri si tratta dello Stato (sociale o militare che sia). In questo quadro, le crisi sono causate proprio dall’incapacità del sistema di fornire questa domanda addizionale.

Savran e Tonak criticano questa teoria perché ignora i concetti marxiani di riproduzione semplice e riproduzione allargata. Nel caso della riproduzione semplice, i capitalisti consumano tutto il plusvalore prodotto in forma di reddito. Si tratta di uno strumento concettuale puramente analitico, dato che è difficile che ciò avvenga. L’ipotesi più accreditata è quella della riproduzione allargata, per cui i capitalisti reinvestono una parte del plusvalore prodotto. Con questo processo di accumulazione del capitale si acquistano nuovi mezzi di produzione e nuova forza-lavoro sul mercato, e i consumi di questa nuova forza-lavoro si vanno ad aggiungere a quelli della forza-lavoro già occupata. Ne segue che se c’è accumulazione di capitale, c’è anche domanda sufficiente per consumare il nuovo plusvalore prodotto.

Dato che i sottoconsumisti si perdono questo, la loro teoria ha due implicazioni che Savran e Tonak ritengono un limite. L’implicazione teorica è che qualsiasi stato in cui si trova l’economia capitalistica (mancanza di domanda addizionale e quindi stagnazione, o crescita) continuerà per sempre finché le circostanze non cambiano, ma i sottoconsumisti non riescono a spiegare perché queste circostanze cambiano. La conseguenza politica invece, che Savran e Tonak considerano pericolosa, è quella di cercare di convincere i capitalisti a pagare salari più alti e di promuovere così una politica puramente riformista.

la crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto

Questa è la teoria della crisi a cui si rifanno Savran e Tonak. Il meccanismo di questo tipo di crisi, per come spiegato da Marx, avviene su due livelli: quello basato sul rapporto fra capitale e lavoro salariato e quello basato sulla concorrenza fra capitalisti.

Al primo livello, Marx si concentra sull’estrazione di plusvalore relativo attraverso la meccanizzazione. La meccanizzazione aumenta la produttività del lavoro, che abbassa il valore della forza-lavoro andando a diminuire i prezzi dei beni di consumo della classe lavoratrice. A parità di lunghezza e intensità della giornata lavorativa, quello che varia in questa nuova situazione è il rapporto interno alla giornata lavorativa: dato che il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro si è abbassato, aumenta giocoforza il tempo di pluslavoro.

Sembra che così ci guadagnano tutti, ma ciò crea una contraddizione per il capitale. La meccanizzazione infatti aumenta l’apporto di capitale costante alla produzione, cioè aumenta il volume di capitale costante in rapporto al lavoro vivo. Il capitale costante poi aumenta più velocemente del capitale variabile, e siccome il tasso di profitto è il rapporto fra plusvalore e capitale, questo significa che il denominatore aumenta più velocemente del numeratore, e ciò fa diminuire il tasso di profitto.

è anche vero però che il numeratore non rimarrà costante, perché anche il plusvalore estratto aumenterà (e questa è una delle controtendenze). Perciò, il risultato del processo complessivo sarà deciso da chi cresce più velocemente: se la composizione organica del capitale o la produttività del lavoro. Siccome però l’investimento necessario per estrarre plusvalore relativo aumenta con l’acquisto di tecnologia sempre più avanzata, a un certo punto la composizione organica del capitale sormonterà la controtendenza e il tasso di profitto inizierà a cadere.

Al secondo livello il processo è simile, ma guardato con gli occhi della concorrenza fra molti capitali. Per battere i propri concorrenti e prendersi le loro quote di mercato, un’impresa inventerà nuovi metodi o tecniche produttive per aumentare la produttività del lavoro. Questo significa che le merci prodotte da questa impresa costeranno un ammontare di lavoro inferiore rispetto alle merci analoghe di altre imprese, e ciò gli permetterà di abbassare i propri prezzi senza intaccare i propri profitti. Le imprese concorrenti allora saranno sotto pressione: se continuano a mantenere gli stessi prezzi, perderanno quote di mercato e quindi profitti; se abbassano i prezzi, perderanno i loro margini di profitto (addirittura rischiando di andare in perdita).

L’unica via d’uscita da questa situazione è l’adozione a loro volta di nuove tecniche produttive almeno uguali a quelle dell’impresa innovatrice, così da potersi adeguare all’abbassamento dei prezzi e sopravvivere. La conseguenza a livello complessivo di questo avanzamento tecnologico è l’aumento delle spese in conto capitale (i costi incrementali necessari alla modernizzazione tecnologica) in rapporto ai profitti. Di nuovo quindi, nel lungo periodo il denominatore sormonta il numeratore e questo fa cadere il tasso di profitto.

Siccome l’obiettivo fondamentale della produzione capitalistica è di ottenere il profitto maggiore possibile da una certa grandezza di capitale, una caduta del tasso di profitto renderà i capitalisti meno proni a spendere per investire in nuovo capitale (accumulazione) agli stessi ritmi di una situazione migliore. Ciò significa che non c’è abbastanza plusvalore estratto perché continui la riproduzione allargata. Questo tipo di crisi è quindi una crisi da sovra-accumulazione. Ovviamente, la classe capitalistica e il suo governo non stanno a guardare e cercano di porre rimedio alla situazione attraverso politiche monetarie, fiscali o di ristrutturazione politica. Esempi di quest’ultima possono essere le economie di guerra, il fascismo e il neoliberismo.

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