Sullo Stato stratega

Forniamo il nostro contributo al dibattito sullo Stato-imprenditore, sarebbe meglio dire stratega, apertosi in questi giorni a seguito delle numerose crisi industriali che il governo dovrà affrontare.
La vicenda ILVA tiene ancora banco, assieme alla drammatica situazione del nostro Mezzogiorno.
In questi mesi abbiamo anche assistito alla crisi della Banca Popolare di Bari, il cui funzionamento ha spiegato molto bene Luigi Pandolfi sul Manifesto:

Come per altri istituti di credito, anche in questo caso il mostro si annida in un acronimo: Npl, che sta per «non performing loans», soldi prestati a cittadini ed imprese che difficilmente torneranno indietro. Ma indietro da cosa? Ancora oggi, molti cittadini in buona fede pensano che una banca dia in prestito i soldi che ha raccolto attraverso i depositi dei risparmiatori. Pensiero ingenuo ma razionale, considerata l’importanza che tutt’ora si dà alla materialità del denaro, come se si trattasse di un bene fisico, tangibile, reale.Purtroppo le cose non stanno esattamente così. Se si escludono le banconote e gli spiccioli che portiamo nei nostri portafogli (solo il 3% del totale), tutto il resto è denaro generato in maniera «endogena» dal sistema bancario attraverso il credito. Le banche prestano soldi che non hanno. Ci sono Paesi nel mondo, come il Regno Unito, il Canada e l’Australia, dove non c’è nemmeno l’obbligo delle cosiddette «riserve obbligatorie». In Europa, con i provvedimenti di Basilea III, il coefficiente è stato fissato all’8%: per ogni 100 euro prestati, 8 euro di riserva. Un gioco pericoloso, se portato oltre certi limiti: si accreditano conti correnti con valori che si comporranno in futuro, attraverso il rimborso cadenzato del debito da parte dei beneficiari. Quando il numero dei beneficiari insolventi – o potenzialmente tali – diventa rilevante, per la banca iniziano problemi seri. È il paradigma di Lehman Brothers, che a distanza di dieci anni dal grande crack sembra non aver insegnato nulla ai governanti sia europei che americani.Ma non è tutto. Una banca non può aspettare dieci, venti, trent’anni per rientrare del capitale anticipato e guadagnare con gli interessi. Ecco allora la soluzione: cedere il credito ad un’entità terza, che lo spezzetta, lo impacchetta, lo imbelletta in un nuovo strumento finanziario pronto a conquistare il mercato degli investitori. Magia: un asset illiquido, aggiogato nel bilancio di una banca, si trasforma in un titolo negoziabile sul mercato.Inizia una nuova avventura per quel credito (o quel debito, ovviamente), oppure la sventura di ignari risparmiatori, che nel frattempo hanno finito per sottoscrivere, loro malgrado, titoli ad alto rischio.

La soluzione che sembra ipotizzare il governo, oltre al salvataggio pubblico della banca in nome del sempreverde socialismo dei ricchi, è una banca d’investimento per il Sud.
Sembra emergere un briciolo di pianificazione economica?
Anche per Alitalia, rotto il ricatto di Atlantia che voleva entrare nella nuova società ma con le concessioni delle autostrade confermate e in cambio di esuberi, si sta affermando l’ipotesi di una newco, data l’impossibilità di vendere la società sul mercato senza esuberi. Magari anche facendo come proposto da Fassina, trasformando i crediti dello Stato in capitale pubblico.
Un lampo di intelligenza che ha evitato un nuovo caso di cannibalismo industriale perché Delta avrebbe messo le mani nell’impasto solo per impedire la nascita di un nuovo concorrente sulle tratte americane.
Tutti a tutelare i propri interessi sulla pelle dei lavoratori e del nostro paese.
Impasse che invece rimane sulle autostrade, nonostante la comprovata pessima gestione di Atlantia e il generale stato di degrado delle nostre infrastrutture che dovrebbe spingere lo Stato a prendere in mano la situazione.
Esemplare è la situazione attuale dell’Autostrada Adriatica, con l’A14 intasata di automobilisti con code che si prolungano fino ad otto ore consecutive.

Tuttavia c’è sempre il dilemma dello Stato come motore del rilancio dell’accumulazione di capitale.
Ricordiamo che l’attuale fase del capitalismo è contraddistinta del prevalere del capitale fittizio, ancora siamo lontani dal poter comprendere a pieno se questa sia la crisi terminale del modo di produzione o l’anticamera di un nuovo ciclo di accumulazione, magari a guida cinese.
Il prevalere del capitale fittizio si manifesta, ad esempio, nelle modalità di investimento nel campo delle infrastrutture di Cassa depositi e prestiti che ha prodotto nel 2007 il Fondo F2i.
Gli investimenti del fondo ammontano a circa 5 miliardi di euro e le sue quote vedono una maggioranza di soggetti pubblici o semipubblici.
Nonostante i fondi pubblici, i suoi investimenti seguono le logiche del mercato, investendo in Italia e all’estero in concorrenza con altre multiutility, anche italiane.
I rendimenti al momento sono altri, a due cifre, ma ci permettono di capire come lo Stato oggi agisca in funzione dell’accumulazione di capitale e non basta avere un’azienda pubblica per aver risolto i problemi di fondo di questo modo di produzione.

La nostra idea dello Stato-stratega dovrebbe essere subordinata al superamento del capitalismo, garantendo una pianificazione economica adeguata nei settori strategici dell’economia nazionale.
Nell’ottica di un programma minimo possiamo aggiungere un tema fuori dall’orizzonte del dibattito sulla nuova IRI, ovvero lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza. Un’idea piuttosto vecchia che si inscrive a pieno nel pensiero keynesiano, pensiamo a Minsky o al nostro Federico Caffè. Dove il mercato non riesce a creare nuovi posti di lavoro, lo Stato dovrebbe intervenire, mobilitando l’esercito industriale di riserva che poi sarà assorbito durante la fase di espansione dell’economia. 
Il vero argomento che a mio avviso segna il confine tra una lettura riformista e di rottura del tema è uscire da una impostazione economicista dei problemi.
Un bene comune come la scuola o la sanità non può essere gestito con i parametri di un’impresa, non deve puntare al pareggio di bilancio, alla massimizzazione degli utili.
Se portiamo alle estreme conseguenze tutto ciò, abbiamo il problema di fondo da risolvere: pensare al comune come modo di produzione e come sottrarre il comune al processo di accumulazione e valorizzazione del capitale.

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