– Elia Emanuele Pizzato, col contributo di Elia Pupil
Dopo giorni che l’argomento era rimbalzato sulle principali piattaforme mediatiche globali, l’attenzione sollevata dalla Cina e la sonora assenza dell’isola di Taiwan nel programma di viaggio ufficiale nell’Asia orientale e sud-orientale, il 2 agosto, alle 22.45 ora locale, la presidente della Camera statunitense Nancy Pelosi è infine atterrata a Taipei, dopo un’estenuante tracciamento del suo Boeing C-40C da parte di oltre trecentomila persone nel mondo. Ma perché questo avvenimento è così rilevante?
Lo è per diversi motivi: in primo luogo, per ciò che rappresenta la Cina diplomaticamente, per i rapporti con gli Stati Uniti, e in seconda battuta, per i rapporti interni persino degli stessi paesi. Infatti, il viaggio della terza carica per importanza di Washington costituisce di per sé stesso un riconoscimento de facto dello stato di cose del paese in cui è in visita diplomatica. Nancy Pelosi ha voluto affermare una propria agenda autonoma rispetto a quanto stipulato dal presidente americano Joe Biden. Atterrando in visita ufficiale a Taiwan ha voluto sostenere il movimento indipendentista dell’isola rispetto alla Cina, da un lato, e affermare la centralità dell’isola di Formosa nel contesto militare dello scenario pacifico da parte degli Stati Uniti, così come si presenta nei poteri politici attuali. Si legge, nel suo comunicato:
La nostra visita è parte del nostro viaggio più ampio nell’Indo-pacifico – includendo Singapore, la Malesia, la Corea del Sud e il Giappone – incentrato sulla mutua sicurezza, partnership economica e il governo democratico. Il nostro dialogo con la leadership di Taiwan si focalizzerà sul riaffermare il nostro supporto al nostro partner e sul promuovere i nostri interessi condivisi, incluso l’avanzamento verso una regione indo-pacifica libera e aperta. La solidarietà dell’America coi 23 milioni di persone di Taiwan è più importante oggi che mai, mentre il mondo affronta una scelta fra autocrazia e democrazia.
In merito allo status diplomatico del paese, si è specificato:
La nostra visita è una di diverse delegazioni congressuali a Taiwan – e non contraddice in nessun modo la politica consolidata degli Stati Uniti, guidata dal Taiwan Relations Act del 1979, U.S.-China Joint Communiqués e le Sei Assicurazioni. Gli Stati Uniti continuano ad opporsi agli sforzi unilaterali di cambiare lo status quo.
Tuttavia, la veemente reazione cinese ha tutt’altro sapore nel definire il significato autentico che ricopre la visita di Pelosi a Taiwan. Infatti, il ministro degli esteri Wang Yi, in visita ufficiale a Dušanbe, Tagikistan, ha subito invocato il principio dell’unica Cina 一个中国原则 come norma ormai universalmente riconosciuta dei rapporti diplomatici a cui anche gli Stati Uniti si devono attenere oltre che nelle parole, pure nei fatti – dato è la posizione ufficialmente tenuta anche dagli Stati Uniti. Questo principio consiste nel fatto che la Cina è un paese unico, territorialmente unitario e integro, le cui legittime istituzioni rappresentative della nazione cinese sono incarnate dalla Repubblica popolare (中华人民共和国). Per contro, lo stesso principio è rivendicato anche dalla Repubblica di Cina (中华民国), che governa l’isola di Taiwan, l’arcipelago Jinmen (Kinmen), Mazu (Matsu), e Penghu (Pescadores), e che era generalmente riconosciuta come governo legittimo dell’unica Cina fino al 1971. Pertanto, siccome le due Cine non si riconoscono proprio in virtù del principio dell’unica Cina, e invece formalmente sono ancora in guerra tra loro, oggi 181 paesi riconoscono – perlomeno formalmente – Taiwan come parte della Repubblica popolare cinese, e spesso intrattengono comunque col governo di Taipei dei rapporti diplomatici non ufficiali, sulla base del fatto che nella realtà dei fatti la Repubblica di Cina ancora controlla Taiwan, in quanto aderenti piuttosto alla politica dell’unica Cina 一个中国政策, secondo cui la decisione sullo scenario internazionale del fatto che la Cina sia un paese unico è una decisione politica, e non un principio inossidabile.
In questo contesto, la delegazione congressuale guidata da Pelosi ha invece una carica pesantemente diversa rispetto allo status quo che si è costituito negli ultimi cinquant’anni, e universalmente accettato come costruzione delle relazioni internazionali fra la Cina e il mondo. Infatti, si inserisce in una serie di interventi statunitensi volti a rafforzare la posizione di Taiwan nella strategia di contenimento della Cina, in cui avere un pied-à-terre sul suolo cinese, dirimpetto alle aree economicamente più rilevanti del paese – dal basso corso dello Yangzi a nord con Nanjing, Yangzhou, Shanghai, Ningbo; al delta dello Zhujiang a sud con l’area di Guangzhou, Shenzhen, Aomen (Macao) e Xianggang (Hong Kong). A ciò sono volti i maggiori finanziamenti militari all’Esercito della Repubblica di Cina, con l’invio di istruttori militari statunitensi sull’isola. In aggiunta, la difesa dell’isola è garantita dal Taiwan Defense Act del 1954, con cui il Congresso americano si incarica di difendere la ROC, quindi qualsiasi escalation militare potrebbe vedere coinvolti gli Stati Uniti. Attenzione però, gli Stati Uniti si riservano la cosiddetta «ambiguità strategica», ovvero non esplicitano se ci sarebbe un intervento diretto americano in caso di attacco cinese. Un aggravamento della questione taiwanese, perciò, potrebbe garantire agli Stati Uniti meno ritrosia da parte di Taiwan nell’esternalizzare la produzione di semiconduttori e processori ad altissima tecnologia, e dall’altro isolare la Cina sullo scenario internazionale, in cui l’abbattimento o una minor rilevanza della politica dell’unica Cina – su cui la visita di Pelosi a Taiwan già fa sorgere dei dubbi sull’effettiva serietà americana al riguardo – metterebbe in discussione tutte le relazioni diplomatiche fra RPC e USA, con pesantissime ricadute a livello internazionale, e portando lo scontro a un punto di non ritorno.
A tal proposito, Wang Yi aveva dichiarato il 2 agosto:
I leader di tutti i paesi hanno reso chiaro che aderiscono fermamente alla politica dell’unica Cina, ritengono che Taiwan sia parte inalienabile del territorio cinese, e si oppongono alle interferenze esterne negli affari interni cinesi sulla questione di Taiwan. È vergognoso che gli Stati Uniti rompano ciò con la propria promessa sulla questione taiwanese, che porterà solo alla bancarotta della loro credibilità nazionale. Certi politici americani si preoccupano esclusivamente dei propri interessi, giocano incoscientemente col fuoco sulla questione taiwanese, si rendono nemici di 1.400 milioni di cinesi e finiranno di sicuro in un posto non buono. Le gesta bulliste di Washington sono state rese evidenti al mondo, e hanno permesso ai popoli di tutti i paesi di vedere chiaramente che gli Stati Uniti sono oggi il maggior distruttore della pace.
Al significato politico di incrinatura dello status quo di cui è pregno il viaggio della speaker Nancy Pelosi, le ritorsioni politiche e militari sono comunque le più pesanti fin dalla fine dei bombardamenti reciproci sulle isole taiwanesi adiacenti alla Cina continentale nel 1979. Infatti, il governo cinese ha imposto un embargo – in realtà simbolico – su 120 prodotti alimentari taiwanesi; c’è stato un attacco informatico al sistema dei trasporti delle principali città, col seguente messaggio in caratteri semplificati sui monitor delle stazioni:
老巫婆窜访台湾,是对祖国主权的严重挑衅;那些积极迎接的人,终将受到人民的审判;同种同族的血亲关系割舍不断;伟大华夏终将统一!
«La visita della vecchia strega a Taiwan è una grave provocazione alla sovranità della madrepatria; coloro che la accolgono entusiasticamente alla fine saranno giudicati dal popolo; i legami di sangue della stessa etnia e dello stesso tipo continuano a essere inseparabili; tutti quanti i cinesi saranno infine uniti!»
Il 2 agosto l’esercito cinese ha mobilitato le portaerei Liaoning e Shandong, oltre a qualche decina di caccia per sorvolare le acque rivendicate come territoriali di Taiwan (questo a onor del vero è normale amministrazione fin dal 1949); ma soprattutto ha annunciato esercitazioni militari off limits al traffico civile in sei ampie aree attorno all’isola, persino all’interno delle rivendicate acque territoriali – giacché formalmente Taiwan è parte del territorio cinese. E di fatto, il 3 agosto, dalla Cina continentale sono partiti undici missili rivolti verso quelle sei aree, fra cui quattro a est dell’isola di Formosa, sorvolandola, e passando sopra alla stessa Taipei. Un appunto da notare sono i tentativi di rassicurazione da parte dell’esercito taiwanese, che tuttavia ha esplicitamente mentito ai propri cittadini, affermando che gli undici missili cinesi si sono focalizzati solo a nordest e a sudovest della cosiddetta “provincia ribelle”; mentre da parte del governo taiwanese non c’è stato nessun messaggio di allarme anti-missilistico ai cittadini nonostante la situazione. Questo potrebbe essere un indicatore del fatto che il governo della Repubblica di Cina ritenga tutto sommato la minaccia cinese circoscritta all’ambito delle dichiarazioni e delle dimostrazioni di forza, senza effettivamente considerare l’aggravamento dei rapporti sino-americani successivi alla visita della speaker come un rischio di escalation bellica o preparazione di invasione dell’isola. Ad ogni modo, in questi tre giorni, dal 4 al 6 agosto, il lancio di missili e le imponenti esercitazioni militari cinesi vogliono indicare la possibilità tecnica per Beijing di poter istituire un blocco navale all’isola.
Tali ripercussioni sono di gran lunga maggiori per estensione e dispiegamento di forze rispetto alle ritorsioni cinesi del 1996, quando l’allora presidente taiwanese Li Denghui (Lee Teng-hui) ottenne il visto per una risoluzione del Congresso per poter viaggiare negli Stati Uniti, su invito della propria alma mater, nonostante gli fosse stato negato dall’allora presidente Clinton proprio in virtù del fatto che le istituzioni della Repubblica di Cina non sono riconosciute internazionalmente. Anche allora l’Esercito Popolare di Liberazione (人民解放军) si mobilitò nella provincia del Fujian, dichiarando off limits tre aree marittime e aeree di esercitazioni militari. Inoltre, venticinque anni fa, lo speaker della Camera americano Newt Gingrich fece una visita di stato a Taiwan, all’epoca tuttavia Jiang Zemin e Bill Clinton chiarirono nei minimi dettagli il viaggio di Gingrich – il contesto era nettamente diverso, dato che l’economia cinese era molto minore a oggi e il clima politico internazionale era più disteso nei limiti in cui si riconosceva agli Stati Uniti il loro ruolo di poliziotto del mondo.
Oggi invece vediamo come il viaggio della speaker Pelosi abbia fondamentalmente ignorato la lunga chiamata di oltre due ore tra i presidenti Xi Jinping e Joe Biden, in cui presumibilmente si è concordato, o sono state comunicate le modalità e i casi in cui la presidente della Camera avrebbe viaggiato o meno a Taiwan. Infatti, Biden affermò che il Pentagono stesso non riteneva fosse una grande idea il viaggio di Pelosi – tuttavia, giacché la situazione si era così propagata mediaticamente, si può intuire come annullare il viaggio sarebbe stato, da parte americana, una capitolazione rispetto alle rimostranze cinesi. Inoltre, la sostanziale noncuranza delle preoccupazioni dell’esercito riportate dal presidente Biden, lascia intravedere una spaccatura in politica estera tra la linea moderata del potere esecutivo, e la linea bellicista promossa invece dal potere legislativo e dal partito repubblicano, che ha tessuto le lodi alla speaker Pelosi per “tenere testa a Beijing”. A dimostrazione di ciò, il tono altamente istituzionale del viaggio, con la visita allo Yuan legislativo (立法院), l’incontro con la presidente Cai Yingwen (Tsai Ing-wen) e uno dei leader della protesta di piazza Tian’anmen del 1989 – questo voluto espressamente da Pelosi, a quanto pare vista il suo impegno celebrativo verso quei fatti – ha l’esatto scopo di alimentare le tensioni sulla questione taiwanese attraverso il sostegno implicito per la fazione separatista, attualmente prevalente nel partito di governo Democratico Progressista (民主进步党). Ma soprattutto, Nancy Pelosi la sera stessa dell’arrivo ha tenuto una cena di gala con gli elementi di spicco della borghesia industriale e finanziaria taiwanese, inclusi i vertici della TSMC.
I dobloni in silicio che rendono Taiwan allettante alle potenze mondiali
Ripensandoci, perché Taiwan è così importante? Tutto sommato, è un’isola grande 36.000 km2, poco meno della Svizzera e poco più della Moldova, con 23 milioni di abitanti, attorniata da paesi più grandi, potenti e popolosi, e anche dal punto di vista delle alleanze militari americane, per quanto sia un elemento centrale nella strategia di contenimento cinese, ci sono comunque la Corea del Sud, il Giappone, le Filippine, e ad est, le isole Marianne e Guam, ad avere importanti basi militari americane. Il motivo, tuttavia, per cui tutti vogliono Taiwan, e allo stesso tempo rende “la zona libera della Repubblica di Cina” così cruciale nell’economia mondiale, è la sua enorme e raffinata industria di semiconduttori e circuiti integrati.
Infatti, stando alle cifre del 2020 [1], Taiwan produceva il 20,7% dei circuiti integrati al mondo, seguita dal 18% cinese e dal 13,3% sudcoreano, mentre i principali acquirenti erano la Cina al 45,9%, di cui Hong Kong al 24,3%, seguita da Singapore al 7,6% e la stessa Taiwan al 7,3%, in un mercato da $669 miliardi che è quasi raddoppiato rispetto al 2010, in cui totalizzava una produzione globale per un valore di $356 miliardi. E in questo, la Cina è profondamente dipendente dalle importazioni di chip esteri, con una produzione nazionale certamente in ascesa, ma che non riesce a soddisfare l’immensa domanda cinese se non circa del 20%.
Ad ogni modo, bisogna approfondire lo scenario per poter comprendere i meccanismi che coinvolgono Taiwan. L’isola, infatti, guardando alla nazionalità delle più grandi fonderie di circuiti integrati, nel primo quadrimestre del 2022 [2] detiene un impressionante 64% di quote di mercato a livello mondiale, composto dal 53,6% di TSMC (台湾积体电路制造), 6,9% di UMC (联华电), 2% di PSMC (力积电), 1,5% di VIS (世界先进). Il secondo paese per fetta di mercato nelle fonderie è la Corea del Sud con circa il 17%, composto dal 16,3% di Samsung e circa l’1% di DB HiTek; seguita infine dalla Cina popolare con un 10,2% composto dal 5,6% di SMIC (中芯国际), 3,2% di Huahong Semi (上海华虹); e 1,4% di Nexchip (晶合集成); poi l’americana Globalfoundries col 5,9% e infine l’israeliana Towerjazz con l’1,3%. Inoltre, si evince una netta ascesa come share delle industrie fonderie cinesi soprattutto dal 2020 in poi, forse per effetto proprio delle sanzioni statunitensi su Huawei e la sua controllata HiSilicon che si occupa di design dei processori – praticamente collassata dopo il divieto di usare software di design americani e dopo l’embargo posto nei suoi confronti alla TSMC cui si riforniva nel 2020 –, lo stato cinese sta investendo massicciamente sul settore.
Tuttavia, la fonderia taiwanese TSMC rimane predominante e nettamente all’avanguardia. La compagnia infatti negli ultimi anni ha avviato una serie di attività produttive di massa nella Cina continentale, riservando tuttavia il lavoro di ricerca e sviluppo e la maggior parte delle attività produttive, soprattutto quelle immediatamente connesse agli impianti, nella cosiddetta Silicon Valley taiwanese, Xinzhu. È in costruzione una delocalizzazione in Arizona per i circuiti a 5 e 4 nm, mentre quelli a 3 nm, i più avanzati finora sul mercato, rimangono “made in ROC”. E in effetti, il mantenimento della maggior parte della produzione sull’isola rende la produzione di chip taiwanese particolarmente allettante per i paesi e le aziende che se ne riforniscono, fra tutti, Stati Uniti con Apple, Qualcomm, AMD, Broadcom, Intel, Nvidia, e la Cina che invece è stata tagliata fuori nel 2020.
Rimanendo sul tema delle fonderie, dall’altra parte dello stretto, la produzione cinese rimane tecnologicamente arretrata di circa una-due o addirittura tre-quattro generazioni [3]. Infatti, la SMIC ha iniziato la produzione dei circuiti a 7 nm nel 2021, mentre già Stati Uniti e Giappone hanno fondato un istituto di ricerca congiunto per i chip a 2 nm. Pertanto, anche se la produzione cinese non è la punta di diamante, vista l’ampiezza del mercato globale – peraltro attualmente in un periodo di scarsità –, e il fatto che rimangono molto profittevoli i segmenti tecnologicamente maturi per le applicazioni più disparate che hanno bisogno di chip non così piccoli, le fonderie cinesi stanno comunque guadagnando terreno a livello globale. Aggiunto a ciò, in Cina, a causa dell’altissimo numero di manodopera qualificata per la produzione ad alta tecnologia e siccome sono lì presenti le catene di assemblaggio fino ai prodotti finiti o semilavorati, molte fonderie straniere vi esportano la produzione meno suscettibile ad eventuali leak da parte di aziende produttrici cinesi. Inoltre, alcune aziende cinesi si stanno concentrando sui circuiti integrati non a base di silicio [4], ma di carburo di silicio (SiC) e di nitruro di gallio (GaN), siccome sono più piccoli ed efficienti ma più costosi da produrre e assemblare – ironicamente, a causa proprio delle difficoltà tecniche nella produzione, l’acquisto massiccio di questo tipo di chip pone una grave concorrenza alle industrie produttive nazionali, per quanto sostenute dai programmi di sviluppo tecnologico del Consiglio di Stato e delle varie istituzioni governative cinesi.
In conclusione, le difficoltà tecnologiche cinesi da un lato vedono una produzione attuale tecnologicamente indietro ma economicamente performante, dall’altro un aumento consistente della spesa in ricerca e sviluppo e negli investimenti sulle aziende e sulle partnership con le università, come nel caso delle fonderie di proprietà della Tsinghua Unigroup, sussidiaria della Tsinghua Holdings, che fa capo alla Tsinghua University (清华大学) di Beijing; o le collaborazioni tra Zhejiang University (浙江大学) e aziende dell’area del basso Yangzi. A questa situazione tuttavia si devono aggiungere i tentativi americani di estromettere la produzione cinese dal resto del mondo, e di mantenerla a livelli tecnologicamente inferiori. In questo attacco, infatti, si inserisce dapprima la lista delle aziende ritenute pericolose per la sicurezza nazionale, con conseguente embargo di contenere parti con proprietà intellettuale statunitense – pressoché impossibile nell’alta tecnologia, dove le aziende statunitensi sono comunque parte della produzione di circuiti integrati, vuoi per il design, vuoi per il software di design o per i macchinari atti alla costruzione dei circuiti più avanzati, sotto i 7 nm – e la retrocessione di Huawei dal mercato mondiale (e della sua HiSilicons dal chip design, come succitato) [5]; e ora il varo della cosiddetta CHIPS and Science Bill, approvata dal Congresso il 29 luglio, pochissimi giorni prima dell’escalation a Taiwan.
Questa lunghissima normativa americana da $280 miliardi contiene, tra le altre misure come quelle per contrastare il cambiamento climatico e la crisi energetica, un pacchetto di $54 miliardi per l’innovazione nei circuiti integrati e nella catena produttiva dei sistemi di telecomunicazione, di cui $39 miliardi come investimenti diretti nella costruzione, ammodernamento e potenziamento di produzione dei semiconduttori negli Stati Uniti, cui si aggiunge uno sgravio fiscale del 25% [6]. Questo a patto che le industrie succitate, e gli enti di ricerca o universitari, non abbiano programmi di produzione di semiconduttori più nuovi con «minacce alla sicurezza nazionale», inclusa la Cina, o, per le università americane, che abbiano chiuso o tenuto a pieno controllo l’Istituto Confucio in sede. Il programma, volto evidentemente a invertire la tendenza di minor protagonismo statunitense nella fusione – e in misura minore nel disegno, che rimane ampiamente dominato dagli americani col 47% di quota di mercato [7] – dei circuiti integrati, intende evidentemente mantenere l’egemonia statunitense in un settore in espansione nei paesi dell’Asia Pacifico di più recente industrializzazione, come Taiwan, Cina e Corea del Sud, mentre, nel 2021, sempre più aziende statunitensi hanno chiesto licenza governativa di acquistare i nodi tecnologicamente maturi dalla cinese SMIC [8], in espansione proprio negli ultimi anni. Si può dunque speculare come la visita di Pelosi a Taibei e l’aumento delle tensioni diplomatiche e militari con la Cina continentale svolga un’azione di mantenimento dell’egemonia tecnologica acquisita nei decenni.
Il conflitto politico fra la prima e la seconda potenza economica globale è un sintomo del fatto che le realtà che si contendono Taiwan siano da una parte una forza a garanzia dell’epicentro accumulativo dei trust americani, nel segno quindi del mantenimento della propria predominanza tecnica sul mercato dei circuiti integrati e dei semiconduttori. Dall’altro lato abbiamo il conglomerato cinese che, nella sua proiezione politica e geopolitica, ambisce a essere la prima potenza, ovvero il centro del ciclo di riproduzione del capitale a livello globale. Nell’area pacifico-americana i soggetti non sono più tanto gli stati – sui quali si dovrebbe fare un discorso a parte, specificamente sul rapporto tra spazio economico e spazio politico – quanto i grandi agglomerati monopolistici i cui rapporti di forza attraversano i bacini di consumo e investimento nazionali (vedasi la lotta nel secondario tra le proprietà americane e le proprietà cinesi sul suolo americano) ed internazionali. E su questi ultimi la Cina sta puntando ad essere il primo protagonista, e per esserlo il gran ostacolo è colmare il gap tecnologico con l’occidente. Il controllo della TSMC e di Taiwan sembra possa essere, in ultima istanza, cruciale in quanto consentirebbe di recuperarlo attraverso una politica di acquisizione forzata dei fattori tecnici di uno dei colossi più avanzati al mondo, a cui forse riesce a tener testa solo la sudcoreana Samsung. E quindi, poter garantire all’ambiente industriale cinese la predominanza economica sui prodotti più all’avanguardia, e, a ricaduta, lo spostamento del centro delle filiere produttive che si basano sui circuiti integrati dall’area americana a quella cinese.
Forse un’indicazione di come si svilupperanno le tendenze, o perlomeno di chi al momento ha il coltello dalla parte del manico, può venire dagli investitori sul mercato. Secondo l’agenzia di stampa Xinhua [9], il 5 agosto gli indici delle borse cinesi di Shanghai e Shenzhen hanno chiuso con un aumento rispettivamente dell’1,19% e dell’1,69%, in cui i settori che hanno registrato una crescita maggiore del valore sono proprio quelli delle compagnie cinesi di semiconduttori, circuiti integrati, e software. Questo intuitivamente sta ad indicare come il fatto di aver delocalizzato parte della produzione di massa in Cina, da parte delle compagnie estere di questi settori, renda più sicuri gli investimenti nelle produzioni cinesi giacché non sarebbero soggetti diretti a qualsiasi flessione dei rapporti diplomatici, in un contesto di accrescersi degli scontri anche solo dal punto di vista delle relazioni internazionali fra Cina e Stati Uniti. E a conferma di ciò, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha annunciato una otto misure in conseguenza al viaggio di Pelosi, ovvero cancellare la Conferenza bilaterale fra comandanti dei teatri militari; quella per il Coordinamento della Politica di Difesa (DPCT); gli incontri bilaterali sull’Accordo Consultivo Militare Marittimo (MMCA); la sospensione della cooperazione sino-statunitense sul rimpatrio degli immigrati illegali; la sospensione della cooperazione bilaterale sull’assistenza legale in materia penale; la sospensione della cooperazione bilaterale contro i crimini transnazionali; la sospensione della cooperazione sino-americana antidroga; e soprattutto la sospensione del dialogo sino-statunitense sul cambiamento climatico.
Dunque, dietro alla patina diplomatica della funzione statale si sono resi espliciti i conflitti tra reti economiche completamente globalizzate sui bacini di consumo ed investimento, basti pensare alla crescente presenza cinese all’interno del settore industriale statunitense, e a loro volta alle grandi attività produttive di aziende estere in Cina. Ad oggi, il livello di reciproca integrazione è difficilmente districabile rispetto agli interessi e ai ricavi delle varie compagnie coinvolte: un chip ha una nascita pressoché senza confini, ad esempio può essere progettato negli Stati Uniti, il cui nucleo è prodotto a Taiwan nella sua parte fondamentale con macchinari olandesi della ASML, completato e finito in Malesia o a Singapore, e spedito in Cina per l’assemblaggio nei prodotti o con altre componenti commissionati da aziende di tutto il mondo. Pertanto, i programmi europeo, cinese, e statunitense di potenziamento o costruzione di un’industria dei semiconduttori locale si scontra per forza con la realtà di una concorrenza spietata dove ogni specifica parte della produzione si è ormai organizzata in grosse aziende che operano indipendentemente dai confini nazionali, e il cui lavoro è a tecnologia talmente elevata che soltanto con investimenti elevatissimi risulta profittevole. In conclusione, in un mercato altamente globalizzato e interconnesso come quello dei circuiti integrati e dei semiconduttori, dove la produzione è tanto avanzata e complessa, i tentativi di scindere aziende e attività fittamente interconnesse a livello mondiale su base nazionale rischiano di essere improduttivi o di mandare all’aria l’intero settore. Con ricadute disastrose in un’economia che sembra già andare in recessione.
Note:
1. https://oec.world/en/profile/hs/integrated-circuits
2. https://www.statista.com/statistics/867223/worldwide-semiconductor-foundries-by-market-share/
3. Alex He, “Case Study: From Paper Tiger to Real Tiger? The Development of China’s Semiconductor Industry”, in China’s Techno-Industrial Development. A Case Study of the Semiconductor Industry, Centre for International Governance Innovation, 2021
4. https://semiengineering.com/china-accelerates-foundry-power-semi-efforts/
5. Alex He, cit.
6. https://thehill.com/homenews/house/3578295-house-passes-chips-and-science-bill-sending-measure-to-bidens-desk/
7. https://www.statista.com/statistics/510374/worldwide-semiconductor-market-share-by-country/
8. https://www.trendforce.com/presscenter/news/20210305-10693.html
9. https://english.news.cn/20220805/8ca6744b1a454e4eb099c6e32d46f9bd/c.html