- Introduzione
Il libro di Alessandro Delfanti Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon è un dettagliato studio di Amazon dalla prospettiva del lavoro, specialmente nei magazzini come quello di Piacenza, per la precisione di Castel San Giovanni, chiamato MXP5. Nel territorio emiliano fa la sua comparsa negli anni 2010, quando una grande fetta della campagna padana si trasforma in un hub logistico sempre maggiore e posto in una posizione strategica vicino ai mercati di Milano e Torino. Oltre al magazzino di Amazon, sorto nel 2011, trovano posto anche quelli di Ikea, H&M, FedEx e Zalando. Ogni anno le aziende che arrivano nel territorio per costruire i loro magazzini aumentano sempre di più assieme al cemento, i lavoratori, le strade e i camion. Il magazzino Amazon di Piacenza è capace di gestire fino ad un milione di prodotti al massimo della sua capacità e per anni la sua velocità ha fissato gli standard dei magazzini Amazon del resto d’Europa. Al suo interno si alternano oltre 3000 dipendenti organizzati in turni, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Prima di arrivare in questi magazzini, però, il nostro ordine passa per un data center di Amazon magari localizzato in Irlanda. Qui viene processato dagli algoritmi dell’azienda grazie ai server per il cloud computing prima di essere preso in consegna da un lavoratore del magazzino che recupera il prodotto, lo confeziona e lo spedisce a destinazione, anche in giornata se il cliente possiede il servizio Prime. Questi magazzini vengono chiamati dall’azienda fulfillment centers e sono capaci di gestire quasi l’intera filiera della distribuzione, dall’approvvigionamento dei prodotti alla consegna finale. Simili realtà sono una presenza ingombrante per il territorio in cui sorgono attraverso affissioni di offerte di lavoro in tutte le città vicine, indicazioni stradali per gli autotrasportatori, la soddisfazione degli amministratori locali per i posti di lavoro creati da Amazon oppure per i gruppi ambientalisti preoccupati per gli effetti dell’inquinamento causati dall’aumento del traffico. Piacenza è la sorella minore di altre aree con una forte presenza di Amazon come l’Inland Empire vicino Los Angeles, la Peel Region nell’area metropolitana di Toronto o El Prat de LLobregat nei pressi di Barcellona. Sono hinterland metropolitani caratterizzati da complessi logistici, aree rurali superstiti, fabbriche, autostrade e aree residenziali in espansione. Qui i magazzini di Amazon trovano terreno fertile. Come abbiamo già detto, tutto il network di Amazon trae vantaggio dalla prossimità con i mercati urbani più ricchi e la loro posizione consente di approfittare della presenza in questi territori di forza lavoro a buon mercato. Per esempio gli addetti dei fulfillment centers polacchi guadagnano 3 euro l’ora nonostante spediscono pacchi verso il mercato tedesco dove i loro colleghi guadagnano 11 euro l’ora per la stessa mansione. In altri casi, come i magazzini di Brampton che servono Toronto, la loro posizione serve unicamente per catturare forza lavoro a buon mercato. In questo caso si tratta di zone dove si concentrano vaste comunità di migranti dall’Asia meridionale. La differenza tra Piacenza e queste realtà risiede nella relazione con Amazon che ha prodotto qualcosa di nuovo grazie allo sciopero del 24 novembre 2017 al magazzino MXP5. I sindacati erano da poco entrati in azienda e questo sciopero è stato tra i primi al mondo ad affrontare a viso aperto il colosso di Jeff Bezos. Da quel fatidico anno ad oggi Amazon è diventata un’azienda percorsa dal conflitto e dalla resistenza del lavoro al capitale sia in Europa che negli USA.
- I lavoratori di Amazon
Una delle fonti di ricchezza di Amazon sono le merci movimentate all’interno dei suoi magazzini senza sosta. Chi svolge questo compito è una forza lavoro organizzata tramite sistemi tecnologici che la costringono a lavorare velocemente rendendo però questi posti di lavoro molto precari e instabili. Il punto chiave di tutto questo sistema è la centralità del lavoro umano dietro la circolazione delle merci anche se questo viene diretto da una complessa infrastruttura composta da software e macchine. Queste attività avvengono dentro i già citati fulfillment centers che sono in tutto il mondo circa 300 e ognuno di loro occupa una superficie di centinaia di migliaia di metri quadri al cui interno lavorano migliaia di dipendenti chiamati dall’azienda associate o amazoniani. All’inizio del 2023 sono 1,5 milioni, numeri che rendono Amazon la seconda azienda privata con più dipendenti nel mondo, dietro solo a Walmart che ha un organico di oltre 2 milioni di lavoratori. Sono numeri incredibili se pensiamo che dieci anni fa, nel 2011, Amazon aveva appena 30.000 dipendenti. I lavoratori sono sparsi in tutto il mondo in una rete globale composta da uffici, campus, data center e magazzini che fanno perno sulla sede di Seattle. Gli associate che incontra nel suo lavoro Delfanti per provare a capire come funzionano i magazzini di Amazon sono, quindi, solo una parte minoritaria della forza lavoro assunta a livello mondiale dall’azienda ma tra tutti i dipendenti esiste un elemento comune determinato dalla natura estremamente centralizzata della struttura di Amazon e delle sue operazioni di magazzino. Di conseguenza i costi umani per accumulare tutta questa ricchezza e tutto questo potere sono legati a sistemi di sfruttamento comuni ad ogni angolo del mondo dove opera Amazon. Non importa se il magazzino sorge nella periferia di una metropoli americana o in una vecchia città industriale europea. Ovviamente esistono differenze locali ma chi lavora a Castel San Giovanni si scontra con la stessa tecnologia, con la stessa cultura aziendale e con le stesse strategie politiche con cui fanno i conti gli amazoniani negli altri Paesi e continenti. In tutto il mondo il lavoro di un fulfillment center è strutturato a partire dall’utilizzo delle tecnologie più all’avanguardia di Amazon che si sommano a forme arcaiche di dispotismo, simili a quelle delle fabbriche del passato. Questa fusione produce un magazzino dove è ampiamente diffusa la robotizzazione e gli algoritmi monitorano i dipendenti mentre estraggono dati sul loro lavoro. Questo modo di organizzare il lavoro viene progressivamente copiato da altre imprese per stare al passo con Amazon e tentare di rosicchiare quote di mercato al colosso di Seattle. Nei magazzini di Amazon devono circolare miliardi di merci che vi si fermano per un lasso di tempo che va dalle poche ore ad alcune settimane prima di partire verso altre destinazioni. Il movimento delle merci è veloce, efficiente e privo di attriti. In questo schema il problema più importante potrebbe venire unicamente dalla forza lavoro che va attentamente controllata e governata per impedire un rallentamento del flusso o un suo arresto. Amazon, quindi, è sia all’avanguardia nell’utilizzo della tecnologia per massimizzare l’accumulazione privata di potere e capitale che nell’offensiva globale contro il lavoro grazie a questa tecnologia impiegata nei magazzini. Tutta l’infrastruttura tecnologia punta a sfruttare la forza lavoro e non ad emanciparla. Non a caso intorno allo sfruttamento della forza lavoro amazonica sono stati scritti molti libri e articoli. Non dobbiamo pensare però che le pessime condizioni di lavoro siano circoscritte ai soli magazzinieri perché giornalisti come Brad Stone hanno scoperto che Bezos sbraita in pubblico e licenzia senza difficoltà anche i colletti bianchi, i quali devono sottostare ad una cultura aziendale spietata e punitiva. Questo modello normalizza uffici in cui regna il terrore che causa stress nei dipendenti. Non è difficile trovare dei dipendenti piangere dietro i propri uffici o scoprire che Amazon utilizza le misure di produttività per valutare i dipendenti e aizzarli gli uni contro gli altri. Chi lavora in magazzino se la passa comunque peggio. Deve subire ritmi fisicamente proibitivi e dettati dagli algoritmi dell’azienda che organizzano il lavoro e un sistema di sorveglianza invasivo che monitora la produttività del lavoratore in ogni momento. Le informazioni prodotte durante il lavoro dai magazzinieri vengono catturate e monopolizzate dai software di Amazon alimentando le macchine che gestiscono la struttura e organizzano i processi dei fulfillment centers. Al loro interno il tasso di turnover è alto e il magazzino finisce per scartare e rimpiazzare frequentemente la forza lavoro logorata dal ritmo che le viene imposto. La precarietà viene utilizzata dal management per regolare il volume della forza lavoro a partire dalla domanda del mercato sempre fluttuante. Le tecniche gestionali di Amazon consistono in capi che interagiscono con i magazzinieri di persona oppure attraverso la mediazione della tecnologia mentre Amazon si prodiga nel promuovere la propria cultura aziendale per cercare di convincere i lavoratori che lavorare nei magazzini di Amazon è qualcosa di speciale e divertente.
Il successo dell’azienda si deve anche alla sua capacità di sfruttare ben tre crisi globali. In primo luogo è sopravvissuta alla bolla delle dot-com che ha distrutto molti dei suoi concorrenti aiutando Amazon a conquistare un posto centrale nell’economia digitale. La seconda crisi sfruttata a proprio vantaggio è quella del 2007-2008 che ha creato un vasto esercito di disoccupati e precari carichi di debiti e con pochi diritti. Questa nuova forza lavoro ha permesso ad Amazon di passare da 20.000 dipendenti nel 2008 a 100.000 nel 2013 con un tasso di crescita superiore al 30% all’anno fino ad arrivare al 66% nel 2011. L’ultima crisi è quella pandemica che ha permesso l’espansione del mercato dell’e-commerce e dei servizi web e allo stesso tempo ha prodotto milioni di disoccupati da cui attingere per rispondere al boom di vendite di quel periodo. All’inizio del 2021 la forza lavoro globale di Amazon è aumentata del 62% rispetto al 2019 mentre i profitti sono passati da 280 miliardi di dollari nel 2019 a 380 miliardi nel 2020. Quando Bezos, nel 2021, ha rinunciato all’incarico di CEO aveva un patrimonio personale superiore ai 200 miliardi di dollari. La tragedia epocale del COVID-19 è stata sfruttata al meglio da Amazon perché il massiccio aumento dell’utilizzo di internet da parte delle persone confinate a casa ha fatto guadagnare Bezos tramite ogni incremento di domanda da parte delle imprese che utilizzavano i server di AWS. Ad esempio è il caso della piattaforma per teleconferenze Zoom. Questi utili record non si sono tradotti in conquiste per i lavoratori. Nel magazzino MXP5, grazie ai sindacati e agli scioperi, c’è stata la possibilità di negoziare dei miglioramenti, come degli aumenti per i turni di notte. Durante la pandemia tutti i dipendenti di Amazon, inoltre, hanno ricevuto un piccolo aumento e un modesto bonus in denaro. Tuttavia nella primavera del 2020 i lavoratori si sono dovuti nuovamente mobilitare tramite scioperi per avere garantite le tutele essenziali come la fornitura di adeguati sistemi di protezione individuale.
La forza lavoro di Amazon lavora in una rete che collega Castel San Giovanni, e altri fulfillment centers simili, alla casa madre con sede a Seattle. Questa rete permette la circolazione di merci, persone, dati e soldi. La posizione periferica del magazzino deve fare affidamento su un’infrastruttura non soltanto materiale, cioè asfalto e cemento, ma anche immateriale, ovvero codici e dati. La loro combinazione genera media logistici. In breve, tecnologie che coordinano e controllano i movimenti globali su cui è basata la logistica. Questi media funzionano come un sistema operativo capace di mobilitare le merci in modo efficiente e che in questi anni si sta espandendo senza sosta in tutto il mondo. Ha sedi in Lussemburgo e in India, uffici e data center in tre continenti oltre ad una fitta rete di migliaia di magazzini sparsi tra Europa, Asia e Nord America. I magazzini svolgono il ruolo di principali periferiche del sistema operativo. Si tratta di enormi capannoni suburbani dove operano una forza lavoro compresa tra le 1000 e le 5000 unità in base al periodo dell’anno e al tasso di robotizzazione. Il nome di ogni fulfillment center dipende dal principale aeroporto internazionale dell’area. Il nome del magazzino di Castel San Giovanni, MXP5, deriva dal codice dell’aeroporto di Malpensa, MXP. Lo stesso schema vale per tutti gli altri fulfillment center del mondo. Altri criteri utilizzati per distinguere i magazzini è la differenza tra fulfillment center sortable e non-sortable. Nel primo caso si tratta di fulfillment centers dove le merci vengono stoccate e possono essere fisicamente spostate dai lavoratori, anche con l’aiuto dei robot. Nel secondo caso si tratta di fulfillment centers che ospitano merci molto voluminose, come biciclette e lavatrici, e che pertanto richiedono robot specifici per essere spostate. I fulfillment centers devono essere vicini ai luoghi di consumo, agli aeroporti e alle strade che facilitano il trasporto delle merci ma allo stesso tempo devono essere sufficientemente lontani dai centri urbani o dalle piccole città perché deve essere possibile una loro espansione. Gli hub sono integrati da migliaia di magazzini più piccoli come centri di smistamento, centri di ricezione o stazioni di consegna. Delfanti dice che quest’ultime sono poste vicino ai clienti, in centri urbani o piccole cittadine dove non è presente un fulfillment center. Utilizzando gli algoritmi di Amazon queste periferiche minori riescono a ricevere merci o pacchi dai fulfillment centers per poi smistare il tutto e consegnare la merce al cliente finale. La costruzione di un nuovo fulfillment center non solo espande geograficamente Amazon ma rende la sua rete più fitta ed elastica. Ad esempio MXP5 è inserito in un network di magazzini che comprende un fulfillment center sortable robotizzato vicino Roma, chiamato FCO1, e un fulfillment center non-sortable di Vercelli, chiamato MXP3, oltre a decine di magazzini più piccoli disseminati in vari centri urbani. Queste realtà occupano la maggior parte della forza lavoro globale di Amazon ma esistono anche altri luoghi di lavoro prodotti da Amazon. Abbiamo gli ingegneri e i programmatori che lavorano nel quartier generale di Amazon a Seattle o in altre sedi come Milano e Toronto. Ci sono gli impiegati che si occupano di marketing, vendita, gestione e amministrazione. Il loro lavoro serve a sostenere l’infrastruttura globale dell’azienda. Poi abbiamo la consegna che in paesi come USA, Canada e Regno Unito viene esternalizzata tramite i driver assunti con l’app Amazon Flex che consente di diventare fattorini di Amazon a chiunque. Anche i clienti forniscono il loro lavoro ad Amazon anche se non è retribuito. Infatti generano dati utilizzati dall’impresa per tracciare il loro comportamento. Pensiamo ad Alexa che registra le conversazioni dei clienti oppure alle loro recensioni lasciate su Amazon.com o Amazon.it. Non è facile mappare una simile suddivisione del lavoro e infatti la stessa azienda utilizza gli algoritmi per coordinare questa catena globale con i suoi collegamenti dispersi geograficamente ma allo stesso tempo interconnessi da flussi di dati, denaro e merci.
Il lavoro in Amazon è contraddistinto dall’influsso del mito della redenzione che emancipa il lavoratore. Un mito non nuovo nel capitalismo. Infatti lo ritroviamo all’opera negli anni ‘60 anche alla Fiat o all’Olivetti, come documentò in presa diretta Romano Alquati. All’epoca si trattava di vendere una promessa di emancipazione agli operai del Sud rurale che arrivati al Nord si facevano assumere da queste imprese. Veniva garantito il superamento dell’arretratezza della vita contadina assieme ad uno stipendio assicurato e la prospettiva di una pensione sicura oltre alla possibilità di partecipare a processi produttivi tecnologicamente avanzati, cioè la catena di montaggio del capitalismo industriale. Amazon aggiorna tali promesse presentandosi nel nostro paese come un’azienda attenta al dipendente che, in un contesto dominato dal lavoro precario, garantisce un lavoro sicuro. Si tratta di una proposta allettante in un mondo dove si riscontrano crisi finanziarie, crescita stagnante e scarse opportunità di riqualificazione e formazione. Amazon, quindi, sviluppa una traiettoria già presente nel capitalismo italiano calando nel contesto locale caratteristiche proprie del modello americano delle aziende digitali. Il capitalismo digitale, quindi, aggiorna la promessa di emancipazione economica e sociale del capitalismo industriale con alcune novità ad esempio l’utilizzo di una combinazione tra nuove tecnologie dell’informazione e libero mercato per alimentare la loro proposta di emancipazione del lavoratore che si traduce nell’idea secondo cui l’impresa ha come missione cambiare il mondo e fare felici le persone, creando valore per tutti. Per questo nei documenti aziendali troviamo scritto che chiunque operi in Amazon ne è anche il proprietario. Lo scopo è la dedizione totale all’impresa e ai suoi obiettivi e per rafforzare questo meccanismo i dipendenti vengono chiamati associate e gli viene chiesto di divertirsi mentre lavorano e di aiutare Amazon a fare la storia. Il mito, dice Delfanti, porta con sé anche un altro problema rispetto al capitalismo digitale: le alternative sono solo integrazione o fallimento per coloro che non riescono o non vogliono adattarsi a questo sistema. Il mito di Amazon si nutre anche di altri elementi. C’è l’idea di essere una creatura prodotta dall’imprenditore eroico destinato a sconfiggere gli dei del passato e tutta una serie di slogan ritrovabili sotto la forma di dipinti all’interno dei magazzini che fanno capire ai lavoratori la direzione di marcia dell’impresa. Il più noto è “La passione per il cliente”, cioè la necessità di concentrarsi sempre sulle esigenze del cliente mentre tutto il resto, ovvero profitti e potere, verrà da sé. Un altro messaggio che veicola è la natura secondaria dei dipendenti. Altri slogan sono “I leader sono spesso nel giusto” o “Pensare in grande”. Nei fulfillment centers il mito arriva anche tramite abituali operazioni marketing per cercare nuova forza lavoro. Nelle aree che sorgono intorno al fulfillment center di Piacenza si trovano spesso cartelli raffiguranti magazzinieri sorridenti che annunciano la ricerca di nuovo personale. Nei quotidiani locali fanno la loro comparsa articoli a favore del lavoro in Amazon commissionati dalle agenzie per il lavoro e tutti questi messaggi vengono, infine, rilanciati dai social anche tramite le attività dei dipendenti di Amazon che sono incoraggiati a riempire i propri profili con storie positive sul lavoro o video in cui si divertono mentre lavorano nel magazzino. La realtà è decisamente diversa. Negli USA molte inchieste giornalistiche e studi hanno fatto emergere come molti dipendenti di Amazon dovessero fare ricorso ai food stamps per arrivare a fine mese e dopo l’apertura di un nuovo fulfillment center si riscontra un calo del reddito medio familiare nell’area limitrofa. Nel 2018 il rapporto dell’Economic Policy Institute dal titolo Unfulfilled Promises dimostra come la maggior parte dei fulfillment center crea nuovi posti di lavoro ma non porta ad una crescita complessiva dell’occupazione nel settore privato perché ne distrugge molti di più. Amazon tende a monopolizzare l’impiego e sembra che non paghi neanche meglio degli altri perché tende ad assumere persone giovani e senza esperienza. A Castel San Giovanni MXP5 sembra ormai essere il principale datore di lavoro della città se non della provincia. Il magazzino tende ad assumere chiunque cerchi un lavoro e possiede delle competenze di base. I requisiti richiesti per essere assunti sono pochissimi. Le agenzie del lavoro del territorio tendono a fare una selezione per individuare i lavoratori stagionali tramite semplici test che richiedono il riconoscimento di colori e forme, la capacità di prendere decisioni sul condividere o meno le informazioni con gli altri candidati, partendo da una situazione in cui c’erano meno istruzioni disponibili rispetto al totale dei partecipanti al testi e brevi colloqui. In alcuni paesi le procedure di selezioni sono anche più semplici. Ad esempio a Toronto per essere assunti come magazzinieri non è necessario neanche sostenere un colloquio. Basta compilare un test della personalità online, avere un atteggiamento positivo verso il lavoro, un diploma di scuola superiore, la capacità di sollevare carichi pesanti e restare in piedi o camminare per dieci o dodici ore al giorno. Tutto ciò rende superfluo lo sforzo degli istituti tecnici di Piacenza di offrire certificazioni per il settore logistico che poi neanche vengono richieste agli associate di Amazon. Abbiamo già detto che l’azienda ha potuto sfruttare alcuni dei risultati della crisi del 2007-2008 per costruire il proprio successo, ovvero l’aumento della disoccupazione e leggi sul lavoro più morbide. In questo modo sono stati attratti nel magazzino MXP1, poi diventato MXP5, lavoratori disoccupati disposti ad accettare un minimo salariale pur di mangiare. Tuttavia non tutti i dipendenti di Amazon sono uguali ed occorre distinguere tra stagionali, temporanei e a tempo indeterminato. Amazon funziona con un doppio modello di impiego che si compone di un gruppo di dipendenti assunti direttamente dall’azienda e una forza lavoro flessibile fornita dalle agenzie per il lavoro. Questi lavoratori sono assunti in massa in autunno e vengono lasciati a casa a gennaio, dopo il picco stagionale più importante. Gli associate a tempo indeterminato hanno garantiti i diritti conquistati dal movimento operaio negli anni ‘60 e ‘70 come l’accesso ad un CCNL che garantisce uno stipendio minimo, una busta paga regolare, sei settimane di ferie all’anno, la tredicesima e una certa stabilità lavorativa. In altri paesi, come gli USA, simili diritti non sono contemplati neanche per i lavoratori a tempo indeterminato che sono meno tutelati dalla possibilità di essere licenziati e non hanno la tredicesima. Amazon garantisce altri benefit come assicurazioni sanitarie, due giorni di permessi retribuiti all’anno e uno stipendio base di 15 dollari all’ora. I dipendenti precari sono invece assunti nei picchi produttivi in prossimità del Prime Day o del Natale quando aumentano gli ordini e hanno poche tutele. La loro fornitura nel magazzino MXP5 è affidata alle agenzie interinali Adecco e Manpower mentre in paesi come la Germania vengono coinvolte le istituzioni pubbliche come gli Arbeitsamt. I loro contratti possono durare qualche settimana e il loro numero di ore di lavoro non è garantito. In Italia la loro precarietà viene garantita dai contratti MOG (Monte Ore Garantito) che assicurano un numero minimo di ore di lavoro, ad esempio, dice Delfanti, dieci a settimana per almeno un mese. Ai lavoratori, però, possono essere richieste ore in più in base alle esigenze dell’azienda con un solo giorno di preavviso. A prescindere dalla loro condizione occupazionale, i lavoratori possono scegliere di fare molte ore di straordinario, in particolare durante i picchi stagionali. L’area di Piacenza ha altre particolarità, per esempio un forte sviluppo del settore agricolo. Questo porta i lavoratori stagionali ad integrare il proprio monte ore con i turni di notte negli stabilimenti dove viene lavorato il pomodoro coltivato nelle campagne piacentine ma in estate questo prodotto richiede una lavorazione 24/7 che fa esplodere il lavoro stagionale. Il settore logistico ha soppiantato la lavorazione dei prodotti alimentari per quanto riguarda il numero totale dei lavoratori impiegati ma riveste lo stesso identico ruolo. Gli amazoniani di Piacenza così riescono ad alternare il lavoro nel magazzino MXP5 nei picchi stagionali con il lavoro nel settore agricolo. In entrambi i settori, però, la composizione della forza lavoro è molto cambiata negli ultimi vent’anni. Quando Amazon è arrivata a Piacenza impiegava principalmente lavoratori italiani e della zona mentre oggi i lavoratori sono diversi. Dopo aver esaurito il bacino di forza lavoro locale della provincia di Piacenza e di quelle limitrofe, Amazon ha iniziato a pescare nella forza lavoro migrante proveniente dalle province di Alessandria, Parma e addirittura dalle periferie di Milano. Questi lavoratori, in maggioranza migranti provenienti dal Maghreb, sono la giovane spina dorsale dei sindacati di base come il Si Cobas che organizza la maggior parte di loro nel settore logistica locale con l’eccezione di MXP5. Questa forza lavoro paragona il proprio impiego in Amazon a quello di una fabbrica, di un lavoro svolto a catena di montaggio. Il paragone si rafforza anche semplicemente osservando il flusso di decine di persone che entrano ed escono tra un turno e l’altro, il quale ricorda le masse di operai in entrata e in uscita da una grande fabbrica. Per quanto i magazzini di Amazon possano ricordare una simile realtà produttiva, siamo comunque davanti ad una fabbrica digitale che unisce l’uso degli algoritmi per organizzare il lavoro e le vecchie modalità di gestione della forza lavoro del capitalismo industriale. Le nuove tecnologie intensificano il ritmo di lavoro e lo rendono più faticoso generando una forza lavoro da convincere e motivare tramite un ambiente dispotico e paternalista. Il management può fare affidamento sulla sorveglianza digitale per monitorare il lavoro e controllare la produttività dei dipendenti in una realtà dove l’orologio è sostituito dall’algoritmo ma il lavoratore deve comunque adattarsi ai ritmi di lavoro imposti dalla macchina. La forza lavoro precaria impiegata nei magazzini può essere assunta e licenziata a piacimento mentre Amazon ne pianifica l’obsolescenza incoraggiando i magazzinieri ad abbandonare il lavoro in cicli sempre più rapidi. Questo schema rientra nella lotta del capitale per il controllo della forza lavoro che prevede la vittoria sulla loro resistenza. Si tratta di una tensione già individuata dagli operaisti negli anni ‘60 che riemerge nei magazzini di Amazon nello scontro tra riduzione delle flessibilità e dei ritmi di produzione, un luogo di lavoro equo, sano e sicuro e una ridistribuzione dei profitti accumulati dall’azienda da un lato e le risposte aziendali fatte di applicazioni per il wellness, telecamere per il distanziamento fisico basate sull’intelligenza artificiale e tecniche antisindacali per ostacolare l’organizzazione dei lavoratori dall’altro lato.
- Si lavora duro da Amazon
Lavorare da Amazon non è facile perché tutto è organizzato a partire dall’efficienza e dalla velocità che viene promessa ai consumatori e tutto ciò è possibile solo grazie agli algoritmi che consentono di registrare la posizione delle merci oppure di determinare le ore di straordinario necessarie. Delfanti descrive l’esperienza sconcertante di entrare nel magazzino Amazon, paragonandolo a un’astronave per le sue dimensioni enormi e la struttura futuristica. L’attenzione si concentra sulla pick tower, una torre a più piani con migliaia di scaffali zeppi di merci di ogni tipo, evidenziando l’incredibile quantità di prodotti stoccati e il sistema di organizzazione basato su cassette gialle, elemento chiave del flusso logistico interno. Il lavoro al suo interno dipende interamente dalla tecnologia ed è essenziale per tutta quella catena di eventi che si trova tra l’ordine di una merce dal nostro computer e la sua consegna nelle nostre case. Infatti gli algoritmi di Amazon permettono di sapere velocemente dove la merce richiesta viene stoccata e vi assegna un dipendente specifico in grado di prelevare nel minor tempo possibile l’articolo mentre dirige altre persone per il suo confezionamento, la sua spedizione e la sua consegna. A fare tutto ciò, nonostante la retorica sulla piena automazione dei magazzini, è una forza lavoro che Amazon prova in ogni modo a mettere in secondo piano. La tecnologia, infatti, può codificare, interpretare e gestire ma la vera macchina è l’essere umano che esegue tutto manualmente. Per ottenere consegne sempre più rapide Amazon ha bisogno di una forza lavoro resa altamente produttiva dalla tecnologia, ha bisogno di trasformare le merci in informazione affinché possano essere gestite dai software, ha bisogno di standardizzare le mansione per garantire che ogni dipendente le possa eseguire senza problemi e per facilitare il turnover dei lavoratori in caso di flessione della produzione e infine ha bisogno di controllare i dipendenti in maniera rigida per limitare la loro autonomia decisionale dando maggiore potere al management. Tutto ciò viene garantito dalla tecnologia che rende possibile, quindi sia l’attività logistica che il controllo ossessivo della forza lavoro. In questi magazzini viene proposto un modello tayloristico mediato dalla tecnologia digitale. Nel contesto della fabbrica digitale di Amazon, i cronometri e i taccuini sono stati sostituiti da avanzati strumenti di analisi dati generati dal lavoro umano, che servono a ottimizzarlo e controllarlo. L’elemento chiave di questo sistema è lo scanner per codici a barre. Gli scanner, perlopiù manuali e senza fili, possono anche essere integrati in braccialetti elettronici o connessi ai computer delle postazioni di lavoro. All’inizio di ogni turno, i magazzinieri prelevano uno scanner da stazioni di ricarica e lo attivano scansionando il codice a barre del proprio badge, che li connette al sistema. Questo processo trasforma i lavoratori stessi in dati, analoghi agli oggetti che manipolano. Maria, una dipendente veterana di MXP5, ha sottolineato questa dinamica durante una conversazione con Delfanti, affermando che i lavoratori sono ridotti a numeri, incarnati dal loro badge: tutto, inclusi i dipendenti, è un codice a barre. Gli scanner rappresentano un’interfaccia tra i lavoratori e il management, frammentando i processi complessi in compiti individuali facilmente assegnabili e monitorabili. Attraverso questi dispositivi, i software di Amazon non solo trasmettono ordini, ma monitorano e ottimizzano le attività, assumendo il controllo decisionale al posto dei responsabili in loco. L’automazione, potenziata dalla robotica, è centrale in questo sistema, rendendo il lavoro dipendente da un’infrastruttura tecnologica capace di integrare clienti, prodotti e forza lavoro in un unico flusso continuo e standardizzato. Nel magazzino Amazon, ogni prodotto segue un percorso strutturato in quattro fasi principali: ricezione (receive), stoccaggio (stow), prelievo (pick) e confezionamento (pack). Questo iter combina lavoro umano e automazione, orchestrati da una complessa infrastruttura tecnologica che garantisce velocità ed efficienza. Il viaggio di qualsiasi merce verso la nostra casa inizia con il lavoro inbound, ossia l’insieme delle attività che portano un prodotto dall’esterno agli scaffali del magazzino. Gli operatori scaricano i pallet contenenti la merce, ne registrano l’ingresso scannerizzando il codice a barre e la trasferiscono su nastri trasportatori diretti alle stazioni di stoccaggio. Qui, i lavoratori organizzano i prodotti in cassette gialle, che vengono trasportate alla pick tower. Gli addetti allo stoccaggio, muniti di scanner, assegnano ogni prodotto a un preciso spazio sugli scaffali, aggiornando in tempo reale il sistema di inventario con la sua ubicazione. A questo punto inizia il lavoro outbound, che si attiva quando un cliente effettua un ordine. Il sistema algoritmico identifica il magazzino più vicino con il prodotto richiesto e assegna a un operatore il compito di prelevare la merce. Il dispositivo fornito ai picker indica l’esatta posizione del prodotto, che viene recuperato e portato alle stazioni di smistamento. Qui gli articoli vengono suddivisi per ordine: se il cliente ha acquistato altri prodotti, ciascun articolo potrebbe essere recuperato da picker diversi. Successivamente, gli addetti al confezionamento (packer) ricevono indicazioni precise dal sistema su come imballare gli articoli: quale tipo di scatola o busta utilizzare, come sigillarla e quale etichetta applicare. Questa etichetta, generata automaticamente, contiene informazioni di spedizione e un codice a barre, ma i dati personali del cliente restano invisibili ai dipendenti. Infine, il pacco, instradato su nastri trasportatori, viene assegnato a un corriere per la consegna. L’intero processo si basa su una stretta interazione tra lavoro umano e automazione. Gli algoritmi di Amazon prendono decisioni che tradizionalmente spettavano ai supervisori umani, come l’assegnazione dei compiti e l’ottimizzazione dei percorsi. Questa organizzazione, definita algocrazia dal sociologo Aneesh Aneesh, non è neutrale: riflette il controllo esercitato dal capitale sulla forza lavoro. I software progettati da Amazon mirano a garantire una gestione rapida ed efficiente degli ordini, ma anche a mantenere un controllo capillare sui dipendenti. I sistemi sono volutamente opachi, e i lavoratori hanno accesso limitato alla logica degli algoritmi, pur essendo coinvolti quotidianamente nelle loro dinamiche. Questi software catturano ogni azione, trasformandola in dati che vengono poi utilizzati per migliorare ulteriormente i processi dentro i fulfillment centers e rafforzare il controllo sulla manodopera. L’integrazione tra tecnologia e lavoro umano non è una novità, ma il rigido ciclo di retroazione attivato dagli algoritmi di Amazon rappresenta un’evoluzione senza precedenti. I lavoratori non forniscono solo forza fisica – spostando merci, sigillando pacchi o caricando camion – ma anche dati. Ogni scannerizzazione, ogni movimento contribuisce a un flusso di informazioni che alimenta i sistemi digitali, rendendo il lavoro sempre più standardizzato e monitorabile. Questa dinamica era già stata individuata da Romano Alquati negli anni ’60, ma oggi si manifesta in modo più intenso: i dati generati dalla forza lavoro sono catturati, elaborati e reintrodotti nel sistema per perfezionare ulteriormente i processi e accrescere il controllo. Processi come lo stoccaggio e il prelievo illustrano chiaramente questa integrazione. Le decisioni personali e la destrezza degli operatori durante lo stoccaggio vengono tradotte in dati digitali, che Amazon utilizza per dirigere con estrema precisione il lavoro dei picker. L’efficienza così ottenuta non è neutrale, ma funzionale agli obiettivi del capitale: massimizzare la produttività e ridurre al minimo i margini di errore, consolidando al tempo stesso il potere della tecnologia sull’organizzazione del lavoro. Delfanti a questo punto spiega il criterio con cui le merci vengono disposte nei magazzini. Si tratta del sistema di stoccaggio caotico e rappresenta una trasformazione radicale rispetto ai metodi tradizionali di gestione dei magazzini. In passato, la disposizione meticolosa degli articoli faceva affidamento sulla memoria e sull’esperienza della forza lavoro stabile, che conosceva a fondo l’inventario e il magazzino, rendendosi indispensabile per il funzionamento dell’intera struttura. Oggi, al contrario, l’organizzazione degli spazi risulta imperscrutabile agli esseri umani e dipende interamente da un’infrastruttura tecnologica gestita da algoritmi. Gli stower, pur essendo fondamentali per il processo, sono privati della possibilità di dominare l’organizzazione del magazzino. Ogni decisione relativa alla collocazione e al recupero dei prodotti è delegata ai sistemi informatici, che registrano, analizzano e conservano i dati lontano dai magazzini stessi, spesso in server situati fuori dall’Europa. Questo meccanismo crea una forma di espropriazione del sapere lavorativo, sottraendo ai dipendenti la conoscenza che un tempo li rendeva preziosi e insostituibili. La dipendenza degli stower dalla tecnologia è totale: la pistola sparacodici, utilizzata per registrare la posizione degli articoli, e gli algoritmi che ne gestiscono l’elaborazione orchestrano i movimenti dei lavoratori all’interno di un inventario caotico, organizzato esclusivamente dal software. Senza questo supporto, sarebbe impossibile orientarsi nella complessità della pick tower, uno spazio di migliaia di metri quadrati con migliaia di celle contenenti articoli disposti apparentemente a caso. In questo sistema, le competenze umane non sono più necessarie per sapere dove si trovano gli articoli, ma si limitano alla destrezza manuale e alla capacità di ottimizzare gli spazi. Questa trasformazione rende la manodopera più facilmente sostituibile e meno tutelata. Nei magazzini tradizionali, la conoscenza del luogo di lavoro era una forma di potere per i lavoratori, che li proteggeva dalla precarizzazione. Con Amazon, invece, questa conoscenza è stata centralizzata e resa inaccessibile ai lavoratori stessi, il cui valore si riduce alla mera esecuzione di operazioni dirette dagli algoritmi. Questo modello, benché altamente efficiente, accentua la subordinazione dei dipendenti alle macchine, riducendoli a semplici ingranaggi di un sistema più grande che non possono controllare. Il monopolio algoritmico sull’inventario non è solo una strategia operativa, ma un dispositivo di controllo che depotenzia la forza lavoro, rendendola più vulnerabile allo sfruttamento. La complessità del sistema, che implica la collaborazione tra centinaia di stower, rafforza questa dinamica, eliminando ogni possibilità di intervento umano diretto o indipendente nell’organizzazione del magazzino. Una volta che la merce è stata stoccata va prelevata per essere spedita al cliente di Amazon. In questo contesto interviene il picking, cioè un processo con cui i lavoratori prelevano gli articoli ordinati dai clienti, seguendo le istruzioni algoritmiche fornite da un sistema di controllo centralizzato. Quando un picker scannerizza il codice a barre di un articolo e quello dello scaffale, il sistema registra e valida l’operazione, monitorando costantemente la produttività. Questa dinamica non si limita al magazzino, ma rientra in una più ampia tendenza globale di controllo algoritmico, simile a quella adottata da piattaforme come Deliveroo o Didi, dove la distribuzione dei compiti e il monitoraggio dei lavoratori sono completamente automatizzati. In Amazon, l’obiettivo principale di questa organizzazione è la massimizzazione della produttività, imponendo un ritmo di lavoro serrato noto come “ritmo amazoniano”. Sebbene non sia permesso correre per ragioni di sicurezza, i picker sono comunque spinti a camminare il più velocemente possibile. Il sistema genera un flusso continuo di compiti, assegnando immediatamente nuovi prelievi appena completato il precedente, costringendo i lavoratori a muoversi incessantemente tra le corsie della pick tower senza pause significative. Questa struttura operativa è una declinazione logistica del modello just in time, sviluppato originariamente per l’industria manifatturiera. Amazon non produce beni, ma accelera i processi di distribuzione per garantire consegne rapide, spesso entro poche ore dall’ordine. Questo approccio amplifica una tendenza già radicata nella logistica globale: velocizzare e rendere più flessibile il movimento delle merci. Tuttavia, comporta un significativo deterioramento delle condizioni lavorative, al punto che i magazzini Amazon sono considerati simbolo di una nuova forma di degradazione del lavoro. I picker descrivono il proprio lavoro come monotono, alienante e fisicamente logorante. La continua pressione per rispettare le quote di produttività, come prelevare 70-100 articoli all’ora, e l’assenza di una visione d’insieme del processo contribuiscono a renderlo estenuante sia fisicamente che psicologicamente. I dipendenti riportano dolori cronici, ansia, spossatezza e depressione, oltre a un senso di isolamento. Amazon affronta i problemi legati ai disturbi muscolo-scheletrici causati dalla ripetitività delle operazioni con soluzioni tecnologiche e interventi palliativi, senza ripensare radicalmente l’organizzazione del lavoro. In alcuni magazzini, ad esempio, si trovano macchinette automatiche con farmaci come l’ibuprofene, e sono stati introdotti programmi come WorkingWell, che mira a formare i dipendenti su sicurezza e biomeccanica. Inoltre, Jeff Bezos ha annunciato lo sviluppo di algoritmi per automatizzare la rotazione delle mansioni, con l’obiettivo di distribuire in modo differenziato lo sforzo fisico sui vari gruppi muscolari. Tuttavia, questi interventi non risolvono il problema principale: la ripetitività alienante dei compiti. Il controllo algoritmico priva i lavoratori di autonomia, trasformandoli in esecutori meccanici delle istruzioni dello scanner, che indica passo dopo passo cosa fare. Questa perdita di controllo e l’impossibilità di pensare o variare le azioni rendono le ore di lavoro interminabili e portano molti a descrivere l’esperienza come un “limbo”. Il lavoro di picker è inoltre caratterizzato da una profonda solitudine: i dipendenti trascorrono intere giornate percorrendo centinaia di brevi tragitti nelle pick tower, cercando di rispettare il ritmo imposto. La socializzazione è limitata al minimo indispensabile, con precari che evitano persino le pause per andare in bagno o scambiare qualche parola, per non compromettere la produttività. Alcuni lavoratori apprezzano questo modo di lavorare. Un associate in Virginia citato da Delfanti ha descritto il picking come un’opportunità per mantenersi in forma, paragonandolo a un allenamento retribuito, sottolineando che richiede resistenza fisica e un’attitudine positiva. Questo tipo di reazione è più comune tra uomini giovani e robusti, spesso assunti da poco tempo. Per molti altri, invece, il ritmo amazoniano è insostenibile. Barbara, una lavoratrice cinquantenne con problemi fisici pregressi, ha raccontato di aver affrontato difficoltà significative nel rispettare le richieste fisiche e i tempi stretti imposti dalle macchine. Entrata in Amazon dopo aver perso il lavoro come designer, ha trovato particolarmente alienante l’enfasi sui microtempi operativi. Ad esempio, è stata ripresa perché utilizzava la mano destra anziché la sinistra, rallentando di una frazione di secondo il processo. La sua esperienza è comune a una generazione segnata dalla crisi economica del 2008 e dalle conseguenti politiche di austerità, che ha spinto molte persone a cercare occupazioni precarie e fisicamente logoranti come questa. Un ultimo aspetto del lavoro in Amazon riguarda l’automazione. I robot utilizzati dall’azienda non servono a semplificare il lavoro, anzi, spesso lo rendono più rapido e alienante, aumentando la produttività ma anche gli infortuni e il senso di isolamento. Dal 2012, con l’acquisizione di Kiva, ora Amazon Robotics, alcuni magazzini sono stati dotati di sistemi robotizzati come i Kiva, piccoli robot arancioni che trasportano scaffali gialli agli operatori. In questi magazzini, i lavoratori restano fermi alle postazioni, prelevando e scannerizzando gli articoli che vengono portati direttamente a loro, guidati dagli algoritmi. La separazione fisica tra umani e robot è garantita da grate metalliche per evitare incidenti. Questa automazione è più avanzata nei magazzini sortable, dove i Kiva movimentano articoli di piccole dimensioni, mentre altri modelli, come Hercules e Robostow, gestiscono merci più grandi nei centri non-sortable. L’automazione consente uno stoccaggio più denso grazie all’eliminazione degli spazi tra le corsie, aumentando l’efficienza dei magazzini ma non elimina la necessità della forza lavoro umana, limitandosi a trasformare la natura del lavoro: gli operatori non devono più camminare per ore ma restano stazionari, svolgendo compiti ancora più segmentati e monotoni. Cosa possiamo ricavare da tutte queste informazioni di Delfanti? Il capitale dipende dal lavoro e deve controllarlo per garantirsi la collaborazione della forza lavoro, evitando l’insubordinazione. Nel capitalismo industriale, i datori di lavoro convincevano gli operai ad adattarsi ai ritmi della produzione, mentre nel capitalismo digitale, come in Amazon, il controllo è finalizzato a far obbedire i lavoratori agli algoritmi e ai ritmi imposti dalle macchine. L’automazione e l’uso degli algoritmi richiedono un controllo ancora maggiore, poiché più costoso è un macchinario, maggiore sarà la pressione per utilizzarlo al massimo dell’efficienza. Amazon, con la sua tecnologia, trasforma i lavoratori in quasi-robot, monitorandone la produttività e garantendo che si allineino ai ritmi automatizzati. Questo controllo si traduce in un dispotismo che, pur essendo tecnologicamente avanzato, mantiene la stessa logica di sfruttamento del primo capitalismo industriale. A tutto ciò Amazon affianca il tentativo di costruire una cultura aziendale che promuova la collaborazione dei dipendenti nel raggiungimento degli obiettivi prefissati dall’impresa.
5. Bastone e carota
Lo scanner per codici a barre serve anche a monitorare ogni movimento dei lavoratori. Da quando i dipendenti si connettono al sistema, diventano visibili ai manager e sono costantemente sorvegliati. Lo scanner raccoglie dati sulla velocità di lavoro e su altri comportamenti, come le pause per andare in bagno, che possono portare a sessioni di feedback da parte dei superiori. Inoltre, lo scanner è usato anche per inviare sondaggi ai dipendenti, fungendo così da strumento di controllo ideologico oltre che fisico. Amazon, attraverso l’uso di questo e altri strumenti di sorveglianza, esercita un controllo rigoroso sulla propria forza lavoro. Il sistema è progettato per ridurre la resistenza degli operai agli ordini e per garantire che seguano il ritmo imposto dai processi automatizzati. La gestione del lavoro si basa su una combinazione di misure disciplinari severe e approcci motivazionali più morbidi, come incentivi, giochi e una promessa di “divertimento”. I magazzini sono arredati con spazi di svago, come divani e videogiochi, e vengono organizzate attività come cantare o fare stretching durante le pause. Tuttavia, questo clima di apparente informalità contrasta con la sorveglianza incessante e la durezza del lavoro, creando una dissonanza tra le aspettative iniziali dei lavoratori e la realtà del loro impiego. La cultura aziendale di Amazon, quindi, mescola il controllo dispotico con tecniche di “engagement” per cercare di ottenere la massima produttività dal lavoratore. Ma, nonostante gli sforzi per rendere l’ambiente di lavoro più accogliente, il sistema rimane basato su un controllo stretto e sull’imposizione di elevati livelli di efficienza. Ogni inizio turno e alla fine della pausa pranzo, i dipendenti di Amazon sono obbligati a partecipare a briefing di cinque minuti che servono a imporre pratiche partecipative e a rinforzare la cultura aziendale. Durante questi incontri, i lavoratori possono essere invitati a raccontare una “storia di successo” – il primo che lo fa viene applaudito e gli altri devono partecipare con entusiasmo. Altri momenti includono canti, balli e celebrazioni della produttività della squadra, come il manager che commenta i tassi di performance con frasi entusiastiche, incoraggiando il team a lavorare sempre più velocemente. Zak, un ex dipendente di Amazon, ricorda che durante questi briefing venivano celebrati anche i successi personali dei manager, che ricevevano applausi, creando un clima di motivazione e di apparente positività. Nonostante ciò, molti lavoratori non sono convinti da queste pratiche, considerando i briefing un mezzo per aumentare la produttività e non realmente un momento di condivisione. Alcuni li definiscono sarcasticamente “spettacoli da circo” o “incontri degli Alcolisti Anonimi”, suggerendo che l’intento sia più quello di mantenere alto il ritmo di lavoro che di creare un reale spirito di squadra. Alcuni dipendenti, come Elisa, una giovane assunta, apprezzano i briefing come momento di aggregazione e di superamento della solitudine che spesso si prova nella pick tower, soprattutto nel contesto di un lavoro fisico ripetitivo. In particolare, Elisa sottolinea come il manager conosca i soprannomi dei lavoratori, creando una finta familiarità. Luca, un lavoratore con contratto a tempo indeterminato, racconta che i briefing non sono altro che un tentativo di spingere i dipendenti a lavorare più velocemente, con obiettivi sempre più alti, ma senza mai comunicare loro quando vengono raggiunti. Questo crea frustrazione, in quanto non c’è alcun riconoscimento per il lavoro svolto. In generale, i briefing, pur facendo parte di un tentativo di Amazon di promuovere una cultura aziendale che combina informalità e divertimento, sembrano servire principalmente a stimolare un clima di produttività incessante, dove il benessere dei lavoratori viene sacrificato per ottimizzare la velocità e l’efficienza.
Ci sono molte altre tecniche per convincere i dipendenti a lavorare più duro. Per esempio nel 2021, Amazon ha lanciato AmaZen, un programma di benessere pensato per i dipendenti, che include pratiche di mindfulness, meditazioni guidate, mantra positivi e paesaggi rilassanti. Nonostante questo tentativo di promuovere il benessere, molti dipendenti restano cinici riguardo alla cultura aziendale, considerandola forzata. Il contrasto tra l’immagine di un ambiente di lavoro felice e la realtà quotidiana dei magazzini è evidente. In alcuni magazzini, come MXP5 a Piacenza, si cerca di rendere l’ambiente più informale e giocoso con arredamenti vivaci, giochi come biliardo e ping pong, e attività speciali come giornate tematiche. Questi tentativi di creare un’atmosfera felice ricordano quelle di altre imprese di altre imprese tech, come Google e il suo Googleplex, e mirano a rafforzare il senso di appartenenza e divertimento, ma non sempre sono apprezzati dai lavoratori, che li vedono come uno stratagemma per aumentare la produttività. Anche la politica sul dress code, che consente piercing e abbigliamento informale, viene enfatizzata cercando di trasmettere l’immagine di un’azienda benevola. Tuttavia, questa apparente informalità è spesso accompagnata dall’imposizione di un linguaggio aziendale, come il gergo “amazoniano” con slogan come “Consegnare risultati”, che permea anche la vita privata dei dipendenti. La cultura aziendale di Amazon, fatta di briefing motivazionali e un’atmosfera di gioco e intrattenimento, non è spontanea, ma è amministrata dai manager, seguendo un modello di “divertimento amministrato” preso direttamente dalla letteratura manageriale per promuove l’idea di un ambiente lavorativo dove si lavora duramente e ci si diverte altrettanto, cercando di abbattere sentimenti negativi verso la gestione dell’azienda e stimolare la creatività. Amazon promuove anche il programma Connections, cioè uno strumento di empowerment dei dipendenti, sostenendo che fornisca un feedback in tempo reale per migliorare l’esperienza lavorativa. Ogni giorno, i dipendenti rispondono a domande inviate tramite dispositivi come scanner per codici a barre. Sebbene l’azienda affermi di raccogliere e analizzare milioni di risposte per migliorare le condizioni di lavoro, molti dipendenti sono scettici e temono che le risposte non siano anonime, utilizzando il sistema come uno strumento di controllo. Amazon utilizza per indottrinare i propri dipendenti anche una forma caricaturale di democrazia sul luogo di lavoro, si tratta delle “Voice of the Associate”, ovvero delle lavagne bianche usate per raccogliere feedback dei lavoratori. Su queste lavagne, però, non restano molto i commenti negativi che ad esempio chiedono un sindacato. Essi sono considerati inutili e i manager tendono a cancellarli immediatamente. In alcuni centri, queste lavagne sono state sostituite da schermi digitali, dove i dipendenti devono accedere con il proprio account, permettendo alla direzione di monitorare e selezionare i commenti visibili, risolvendo così il “problema” della trasparenza. Un altro elemento di controllo e integrazione dei lavoratori è la gamification che combina momenti ludici e produttivi durante il lavoro. Questa strategia trasforma il lavoro in una competizione continua con obiettivi aziendali travestiti da giochi. Nei magazzini, i dipendenti utilizzano scanner con elementi ludici che li spingono a operare più velocemente, mentre in altri casi veri e propri videogiochi, come PickInSpace o Mission Racer, trasformano le azioni fisiche in progressi virtuali. I migliori giocatori possono ottenere premi simbolici come gadget Amazon. L’ulteriore evoluzione di queste situazioni sono le power hour che intensificano questa competitività: per un’ora i lavoratori devono aumentare la velocità di produzione per vincere riconoscimenti banali, come portachiavi o magliette, e applausi di circostanza. Tuttavia, questi incentivi sono spesso percepiti come insignificanti, e mentre i dipendenti a tempo indeterminato tendono a rallentare il ritmo, i precari, temendo di perdere il contratto, si sentono obbligati a eccellere, anche a costo di sacrificare pause essenziali. La pressione diventa particolarmente intensa durante i picchi stagionali, quando le power hour sono più frequenti e i manager, sotto pressione, utilizzano queste iniziative per massimizzare la produttività. I giochi sul lavoro non sono un’innovazione recente: già negli anni Settanta il sociologo Michael Burawoy aveva studiato il fenomeno del making out, un gioco spontaneo degli operai delle industrie americane che, trovando scorciatoie nell’uso dei macchinari, aumentavano la produttività per massimizzare i guadagni a cottimo. Questo fenomeno permetteva loro di avere un controllo relativo sul processo lavorativo, ma alla fine generava più valore per i datori di lavoro, incanalando il malcontento operaio verso la competizione tra colleghi anziché contro il sistema produttivo stesso. La moderna gamification, però, rappresenta un’evoluzione consapevole e mirata di tali pratiche, ideata per servire apertamente gli interessi aziendali. È una forma di controllo “morbido” che, grazie a meccanismi ludici, spinge i lavoratori ad accelerare i ritmi in specifici momenti, sotto la diretta gestione del management. Tecniche simili si ritrovano in piattaforme come Uber o Foodora, che utilizzano meccanismi mutuati dal gioco d’azzardo per influenzare i comportamenti della forza lavoro, ad esempio aumentando i prezzi in alcune aree per concentrare lì i conducenti. Questi strumenti, ispirati anche dagli studi di Taylor, mirano a contrastare la tendenza naturale dei lavoratori a rallentare, logorandone la resistenza e incrementando il ritmo produttivo. Amazon applica la gamification per rendere il lavoro nei magazzini apparentemente più stimolante e divertente, trasformandolo in un gioco che nasconde una costrizione: spremere ogni goccia di energia dai dipendenti senza far percepire il controllo come imposto. Questi giochi obbligati si contrappongono nettamente a quelli spontanei e sovversivi che potrebbero nascere dai lavoratori stessi, e che rappresentano atti di volontà anziché di necessità. Per Amazon non bastano però questi sistemi di integrazione per conquistare la fiducia dei lavoratori e la loro disponibilità a lavorare senza sosta. Nella più classica delle logiche “bastone e carota”, l’azienda sottopone i propri dipendenti a un sistema di sorveglianza estremamente invasivo e tecnologicamente avanzato, che monitora ogni aspetto della loro attività. Gli scanner che portano sempre con sé registrano ogni mossa, dalle attività lavorative alle pause, trasmettendo immediatamente i dati ai responsabili. Centinaia di telecamere di sicurezza osservano costantemente ciò che accade nei magazzini, mentre i capi turno controllano anche potenziali segnali di organizzazione sindacale. I dati raccolti possono essere utilizzati per adottare misure disciplinari: tempi di inattività giudicati eccessivi, noti come TOT (Time Off Task), possono portare a richiami o persino al licenziamento. Questo monitoraggio inizia già all’ingresso del magazzino, dove i dipendenti devono lasciare tutti gli oggetti personali e passare attraverso scanner corporei ogni volta che escono, persino per la pausa pranzo, per prevenire furti. Durante il turno, il software ADAPT registra la produttività di ogni lavoratore, valutando la velocità con cui completano compiti come la scannerizzazione e il confezionamento dei prodotti, verificando il rispetto delle quote orarie e altri indicatori chiave di prestazione (KPI). Questi sistemi esasperano il controllo capillare sul lavoro, ignorando le esigenze individuali, ad esempio quelle di donne incinte, che rischiano di accumulare punti TOT anche per pause necessarie. Pause lavorative di appena trenta minuti in turni di otto ore sono ulteriormente criticate, poiché includono anche il tempo per raggiungere le break room, spesso distanti. In alcuni Paesi, i contratti temporanei sono rinnovati a discrezione della direzione, mentre negli Stati Uniti esistono casi in cui il licenziamento è totalmente automatizzato, comunicato ai dipendenti tramite un’app. La sorveglianza, oltre a provocare sanzioni disciplinari, crea pressioni psicologiche, poiché i punteggi TOT individuali sono talvolta resi pubblici, esponendo i meno produttivi alla pressione sociale della squadra affinché migliorino il proprio rendimento. Il sistema di sorveglianza di Amazon non si limita al magazzino ma si estende ad altri ambiti lavorativi e persino ai consumatori, dimostrando una strategia di controllo capillare e crescente. I corrieri di Amazon Flex, formalmente classificati come lavoratori autonomi, sono tracciati da un software di navigazione che monitora i percorsi, misura la produttività e il tempo impiegato per le consegne. Anche loro sono coinvolti in dinamiche di gamification, con gare introdotte tramite l’app per stimolare la competizione. Dal 2021, è stato richiesto ai corrieri di installare Driveri, una telecamera dotata di intelligenza artificiale sullo specchietto retrovisore, attiva per registrare costantemente sia la strada che l’interno dell’abitacolo. Dopo l’acquisizione della catena Whole Foods, Amazon ha esteso il monitoraggio ai dipendenti dei supermercati, utilizzando una mappa interattiva per assegnare ai negozi un punteggio di “rischio di sindacalizzazione” basato su fattori come appartenenza etnica e tasso di turnover. Anche i clienti sono oggetto di sorveglianza. Alexa, il dispositivo di assistenza vocale, ascolta conversazioni private, mentre l’app Amazon Halo, collegata a un bracciale con sensori, raccoglie dati su temperatura corporea e battito cardiaco per valutare la forma fisica, benché questa analisi sia discutibile. Inoltre, i consumatori possono acquistare dispositivi di sorveglianza per uso domestico, come Amazon Ring, un citofono con telecamera che monitora ciò che accade all’esterno della casa. Questo sistema, oltre a offrire una percezione di sicurezza, consente ad Amazon di raccogliere e commercializzare i dati raccolti. Ambizioni ancora maggiori emergono da un brevetto per un “servizio di sorveglianza” che prevede l’uso di droni per monitorare le abitazioni dei clienti, promettendo protezione contro furti ed effrazioni ma rafforzando ulteriormente il controllo e l’accumulo di dati da parte dell’azienda.
La digitalizzazione della sorveglianza nei magazzini di Amazon non comporta il completo affidamento del controllo agli algoritmi, ma amplifica il potere decisionale dei manager attraverso i dati raccolti. Le tecnologie monitorano dettagliatamente le attività dei lavoratori, come i picker, che lasciano tracce digitali ogni volta che utilizzano gli scanner. Questi dati, accessibili solo ai manager, permettono di osservare quante operazioni vengono completate, in quali orari e con che ritmo, segnalando anche pause o rallentamenti. I manager utilizzano queste informazioni per fissare obiettivi di squadra o per richiamare singoli lavoratori. Questo tipo di controllo disciplinare è ulteriormente rafforzato da una gerarchia rigida e codificata visivamente tramite colori dei badge, che distinguono i lavoratori precari da quelli a tempo indeterminato e dai supervisori, sottolineando le differenze di potere. I lead, giovani e spesso neo laureati, gestiscono piccoli gruppi, mentre i manager supervisionano intere aree del magazzino. Sebbene molte mansioni organizzative siano automatizzate, i responsabili umani mantengono un ruolo importante nell’imporre la disciplina e nel promuovere il mito di un ambiente lavorativo ideale. Tuttavia, il loro potere si manifesta anche in pratiche punitive arbitrarie, come la rimozione di privilegi simbolici per sanzionare comportamenti non conformi. Parallelamente, le promesse di avanzamenti alimentano aspettative che raramente vengono soddisfatte, rafforzando il controllo sui lavoratori attraverso un misto di speranza e paura. Il monitoraggio della produttività è volutamente opaco per i lavoratori, che ricevono indicazioni vaghe e frammentarie, come il raggiungimento dell’80% di un target non chiaramente definito. Questo costringe i dipendenti a stimare autonomamente il proprio rendimento e a intensificare gli sforzi per prevenire interventi disciplinari. I precari, sperando di ottenere un contratto stabile, si impongono ritmi esasperanti per competere con i colleghi più esperti, mentre gli obiettivi di produttività, variabili per tipologia di merce e decisioni manageriali, rappresentano una fonte costante di stress. La discrezionalità nell’assegnazione dei compiti alimenta il sospetto di favoritismi, aggravando le tensioni interne. La pressione non si limita ai rapporti tra manager e lavoratori: spesso i dipendenti stessi collaborano inconsapevolmente al sistema di controllo, interiorizzando gli obiettivi aziendali e giudicando chi non si conforma alimentando una cultura del lavoro basata sull’induzione della competizione e del senso di colpa. Nei periodi di picco, i contratti temporanei raddoppiano la forza lavoro, creando ulteriore pressione sui precari che tentano di distinguersi per garantirsi la stabilità. Questi lavoratori, spesso giovani e senza responsabilità familiari, possono tollerare ritmi intensi, ma la situazione è molto diversa per chi ha disabilità o è meno giovane. In generale, l’ambiente lavorativo è caratterizzato da un clima di ansia e insicurezza, esacerbato dall’uso di tecnologie per tracciare ogni aspetto del lavoro e dalla gestione basata sullo stress, che mira a dividere i dipendenti tra loro anziché unirli contro l’azienda.
La coesistenza di due modalità di gestione, attraverso il divertimento e lo stress, riflette il progetto di Amazon di rafforzare il controllo sulla forza lavoro. Questo sistema integra tecnologia avanzata e autoritarismo capitalistico, come sottolineato dall’operaista Raniero Panzieri, che ha evidenziato l’unità tra dimensione tecnica e dispotica nell’organizzazione produttiva. La tecnologia, quindi, non è autonoma, ma unita all’intento di dominio umano nel contesto capitalistico. Per mantenere la propria supremazia economica, Amazon mira a far rispettare i ritmi dettati dall’automazione con efficienza e senza conflitti. Questo approccio rispecchia la visione di Jacques Ellul, secondo cui la società persegue un’ideale di “efficienza assoluta”, utilizzando la tecnologia come mezzo. Panzieri, con una prospettiva marxista, ha ampliato questa analisi, sottolineando che non solo le macchine, ma anche metodi e forme organizzative, vengono progettati per strutturare e controllare processi umani altrimenti disordinati. Studi successivi, come quelli di Michael Burawoy, hanno descritto questi meccanismi come “dispotismo della fabbrica”, ovvero pratiche manageriali che consolidano rapporti di potere favorevoli al capitale. Nei magazzini Amazon, queste tattiche si fondono con strumenti del capitalismo industriale e digitale, creando un sistema integrato simboleggiato dallo scanner per codici a barre. Questo dispositivo rappresenta la base materiale del controllo, consentendo al management di monitorare i dipendenti, quantificarne il rendimento e imporre un ambiente lavorativo dove divertimento e stress coesistono. Seguendo l’idea di Marshall McLuhan, secondo cui i media elettronici estendono i processi sociali, Amazon sfrutta la tecnologia digitale per amplificare il proprio potere organizzativo e gestionale nei magazzini.
6. Una forza lavoro facilmente sostituibile
Amazon richiede una flessibilità estrema ai suoi lavoratori per rispondere rapidamente alle variazioni della domanda. I magazzinieri devono accettare straordinari imposti con scarso preavviso, turni che possono essere comunicati la sera prima e variazioni stagionali che prevedono, ad esempio, un raddoppio della forza lavoro a dicembre seguito da un ridimensionamento drastico a gennaio. Questo sistema rende impossibile pianificare la vita personale e costringe i lavoratori a essere costantemente disponibili, anche se il lavoro è formalmente organizzato in turni. Le conseguenze di questa organizzazione colpiscono in modo particolare le donne, che spesso devono conciliare il lavoro con le responsabilità domestiche e familiari, trovando più difficile adattarsi ai ritmi del magazzino rispetto ad alcuni uomini con meno obblighi esterni. Tuttavia, la pressione dell’imprevedibilità coinvolge tutti i dipendenti, costringendoli a vivere in uno stato di continua disponibilità e rinunciando al controllo sul proprio tempo. Amazon tratta i dipendenti come risorse usa e getta. Jeff Bezos ha descritto l’azienda come “il posto migliore al mondo in cui fallire”, ma per molti questo significa affrontare il burnout, abbandonare spontaneamente il lavoro o essere licenziati. I manager sono valutati in base alla loro capacità di “assumere per licenziare”, ossia reclutare personale con la consapevolezza che una parte significativa sarà rapidamente scaricata. Questo approccio si riflette nel concetto di “tasso di attrito di cui non bisogna pentirsi”, che considera accettabile licenziare i lavoratori meno produttivi senza rimpianti. I dipendenti sono spesso consapevoli che il loro lavoro ha una durata limitata. In molti casi, i contratti specificano una scadenza di poche settimane o mesi, senza obbligo per Amazon di garantire un minimo di ore lavorative o di continuità. L’azienda sfrutta un quadro legislativo che, dopo decenni di erosione dei diritti lavorativi, le consente di mantenere lavoratori temporanei in condizioni di precarietà. Nei Paesi europei, chi ha un contratto a tempo indeterminato gode di maggiore stabilità rispetto ai dipendenti temporanei, ma anche questi ultimi sono soggetti alla pressione di una flessibilità estrema. L’instabilità è particolarmente marcata in contesti dove le tutele legali sono minori, come negli Stati Uniti, e i lavoratori rischiano di non vedersi rinnovare il contratto se non soddisfano richieste di straordinari. Le dinamiche aziendali rendono evidente che il mantenimento del posto non dipende completamente dalle loro prestazioni. Commenti di dipendenti, come quello di un lavoratore in Canada che avverte che Amazon “mastica e sputa” il personale, descrivono l’azienda come un ambiente altamente instabile. Questo sistema di gestione della forza lavoro riflette una logica simile all’obsolescenza programmata dei prodotti tecnologici: i dipendenti sono considerati utili fino a quando servono, per poi essere scartati senza esitazione. Ai dipendenti viene richiesto di sincronizzarsi costantemente con i ritmi operativi dell’azienda, adattandosi ai cicli di consumo estremamente mutevoli e imprevedibili da cui l’azienda dipende e che alimenta. Oltre alla produttività oraria, intesa come numero di incarichi completati, la sincronizzazione temporale è fondamentale: ciò che conta non è solo quante operazioni vengono svolte, ma anche quando e con quale flessibilità i dipendenti riescono a rispondere alle esigenze del magazzino. Questa necessità di flessibilità si traduce in una pianificazione dei turni altamente imprevedibile, che può cambiare anche con pochissimo preavviso, come descritto da Sofia, una lavoratrice del magazzino intervistata da Delfanti. I turni, che teoricamente dovrebbero seguire orari prefissati, spesso subiscono variazioni comunicate all’ultimo momento tramite WhatsApp. Cambiamenti come la modifica dei giorni lavorativi o la cancellazione improvvisa di turni pianificati sono comuni, rendendo difficile per i dipendenti organizzare la propria vita. Anche quando la tabella di marcia sembra stabilita, la richiesta di straordinari può arrivare pochi minuti prima della fine del turno, lasciando poco margine per prepararsi o rifiutare. Gli straordinari rappresentano una risorsa cruciale per Amazon, utilizzata per affrontare aumenti improvvisi negli ordini o picchi di attività. In molti casi, però, vengono presentati come obbligatori (mandatory overtime, MOT), nonostante le normative prevedano che debbano essere volontari. Questo sistema consente all’azienda di gestire in modo rapido e flessibile le fluttuazioni nella domanda, ma con un impatto notevole sulla vita privata dei lavoratori. Il MOT può essere richiesto persino nei giorni di riposo e, in caso di rifiuto, i dipendenti rischiano penalità come la perdita di punti presenza. Bastano sei punti di penalità per rischiare il licenziamento, rendendo difficile opporsi a queste richieste. Come contraltare al MOT, Amazon offre il periodo di riposo volontario (voluntary time off, VTO), durante il quale i dipendenti possono scegliere di non lavorare quando l’azienda ha meno bisogno di personale. Tuttavia, il VTO non compensa l’imprevedibilità complessiva delle richieste lavorative. Un associate canadese ha riassunto la situazione evidenziando come la pianificazione dei turni sembri conciliabile con la vita privata solo finché non viene introdotto lo straordinario obbligatorio, una pratica che si verifica regolarmente, rendendo impossibile ogni certezza o organizzazione personale. Alcuni lavoratori, come Noemi, riconoscono che l’organizzazione dei turni risponde alle fluttuazioni della domanda di mercato, accettandola come una necessità operativa. Tuttavia, molti altri dipendenti si oppongono a queste condizioni, specialmente nei casi più estremi, come i “megacicli” introdotti negli Stati Uniti. Questi turni, della durata di dieci ore e mezza, iniziavano all’una di notte e terminavano verso l’ora di pranzo, con lo scopo di facilitare le consegne del giorno successivo. Sebbene in Italia e in altri Paesi questi turni siano illegali, negli Stati Uniti hanno suscitato forti proteste. A Chicago, gli scioperi contro il megaciclo hanno costretto Amazon a riorganizzarsi, rinominando il turno in “ciclo unico” (single cycle) ma senza eliminarlo. In Italia, grazie all’intervento sindacale, è stato possibile limitare la pratica dello straordinario obbligatorio per i dipendenti a tempo indeterminato. Secondo le normative, il management può chiedere straordinari solo su base volontaria, anche se con modalità spesso affabili e persuasive. Tuttavia, i lavoratori precari, assunti tramite agenzie interinali, continuano a subire la pressione di accettare straordinari e turni imprevedibili, avendo meno margine di rifiuto rispetto ai colleghi con contratti più stabili. L’organizzazione del lavoro, spinta dalla “passione per il cliente” di Amazon, impone sacrifici continui ai dipendenti, che spesso devono “chinare la testa”, pur cercando di resistere collettivamente a queste pratiche, come dimostrano le lotte sindacali nei diversi magazzini a livello globale. Amazon, quindi, adotta strategie per massimizzare la flessibilità della sua forza lavoro, influenzando significativamente le vite dei dipendenti. Luigi, un magazziniere intervistato da Delfanti, ha sottolineato come molti lavoratori, soprattutto quelli con contratti a chiamata o part-time, vivano una precarietà estrema. Questi dipendenti, identificabili dal “badge verde”, sono soggetti a convocazioni imprevedibili: possono essere chiamati anche di domenica o informati all’ultimo momento di dover modificare i propri turni, spesso con messaggi inviati in orari improbabili. Tale precarietà si traduce in una forma di ricatto costante, poiché il rinnovo del contratto dipende dalla disponibilità ad adeguarsi. Questa dinamica non è esclusiva di Amazon, ma si osserva anche in altri settori, come ristorazione e vendita al dettaglio, dove la pianificazione dei turni è altrettanto incerta e il peso dell’instabilità grava principalmente su lavoratori appartenenti a minoranze razziali o a basso reddito. La tecnologia ha aggravato la situazione, facilitando l’applicazione di modelli just in time, che accelerano il ritmo lavorativo o, al contrario, costringono i dipendenti a pause improvvise. I rider delle piattaforme di food delivery ne sono un esempio: devono essere pronti a rispondere rapidamente agli ordini, ma spesso trascorrono tempi morti in attesa di lavorare davanti ai ristoranti. Anche nei magazzini Amazon i tempi di attesa non mancano, a partire da quelli necessari per ottenere un impiego, con code davanti alle agenzie interinali, fino ai momenti di inattività durante i turni, come l’attesa dell’inizio del lavoro o del completamento delle mansioni da parte dei colleghi. Queste pause forzate non eliminano lo stress, anzi lo amplificano. Luigi ha raccontato le difficoltà legate agli spostamenti per raggiungere il magazzino MXP5, un viaggio di quasi un’ora sia all’andata sia al ritorno. Anche il carpooling, usato per condividere i costi e i tempi, genera disagi: se un collega deve prolungare il turno, gli altri sono costretti ad aspettare, talvolta per ore, nei parcheggi o nelle break room. Questa situazione contribuisce a creare un senso di alienazione, con alcuni lavoratori che finiscono per passare più tempo in magazzino che a casa. Luigi stesso ha ironizzato su questa condizione, descrivendo il magazzino come una sorta di “casa”.In effetti, per alcuni il magazzino diventa davvero un rifugio temporaneo. Nel 2017, un giornalista inglese ha documentato casi di dipendenti che si addormentavano nei magazzini, spesso in piedi o appoggiati a superfici, per recuperare energie durante turni estenuanti. Anche Anna, con cinque anni di esperienza in MXP5, ha raccontato a Delfanti di giovani lavoratori temporanei che dormivano nei magazzini per affrontare ore di straordinario. In casi estremi, alcuni dipendenti hanno scelto di vivere vicino ai centri logistici per rispondere alle esigenze lavorative: dal gruppo di magazzinieri inglesi accampati in un bosco vicino al loro magazzino, fino a chi, negli Stati Uniti, vive nella propria auto davanti al centro logistico. Amazon ha persino istituzionalizzato queste pratiche attraverso programmi come CamperForce, che incoraggiano i lavoratori stagionali itineranti a vivere nei camper vicino ai magazzini, sincronizzandosi con i picchi stagionali. Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori stagionali viene reclutata attraverso agenzie interinali e si trasferisce temporaneamente nelle vicinanze dei magazzini. Giulia, che ha lavorato in MXP5 per circa un anno, ha raccontato di come, durante i picchi stagionali, persone provenienti da diverse regioni italiane – anche molto distanti – prendano in affitto stanze per brevi periodi pur di accettare contratti di durata limitata. Questa forza lavoro temporanea e precaria è composta spesso da persone appartenenti a minoranze o provenienti da contesti svantaggiati, indispensabili per la capacità di Amazon di espandere e contrarre rapidamente il personale in base alle esigenze. Tuttavia, non tutti i lavoratori si conformano a queste richieste. Nel 2018, i magazzinieri musulmani di MSP1, un centro logistico in Minnesota, hanno protestato contro le discriminazioni subite, come l’impossibilità di osservare le pause per la preghiera o di ottenere permessi per le festività religiose. L’Awood Center ha sostenuto la lotta, portando Amazon a introdurre alcune modifiche, come una pianificazione più gestibile durante il Ramadan. Sebbene queste vittorie siano state parziali e accompagnate da ritorsioni contro i lavoratori più attivi, rappresentano uno dei primi successi significativi nella rivendicazione di condizioni lavorative più umane dentro Amazon.
La gestione dei dipendenti dell’azienda è basata sull’obsolescenza programmata, trattandoli come risorse modulari e interscambiabili, facilmente sostituibili al primo segno di calo delle performance. Questa logica è strettamente legata alla convinzione, attribuita a Jeff Bezos, che la stabilità della forza lavoro porti a una “marcia verso la mediocrità” e che i dipendenti, per natura pigri, tendano a ridurre il rendimento nel tempo. Per contrastare ciò, l’azienda incentiva un turnover costante, mantenendo un ciclo di ricambio che mira a garantire produttività e flessibilità ai ritmi intensi richiesti dai magazzini. Nei fulfillment center, i dipendenti sono spinti al limite fisico e mentale, con il logoramento dei loro corpi visto come una naturale conseguenza dei ritmi di lavoro imposti. Intorno al quarto anno di servizio, i manager iniziano a percepire segni di calo, come maggiore frequenza di assenze per malattia, interpretandoli come segnali di “obsolescenza”. In questi casi, i lavoratori possono essere incentivati a dimettersi attraverso pratiche gestionali mirate, come l’assegnazione a mansioni considerate degradanti. Anche i contratti a tempo indeterminato offrono scarsa protezione: le pressioni sul rendimento rimangono elevate, e molti dipendenti si trovano costretti a lasciare il posto, esasperati dalla cultura lavorativa o dalla propria condizione di salute compromessa. La precarietà non è solo una conseguenza delle politiche aziendali, ma un elemento strategicamente pianificato. Secondo i lavoratori, nei magazzini Amazon si percepisce una data di scadenza per ogni dipendente, che deve lasciare il posto prima di crollare fisicamente o mentalmente. Studi come il rapporto Amazon’s Disposable Workers hanno confermato tassi di turnover altissimi, fino al 200% annuo in alcuni magazzini californiani, segno di un sistema che “sfrutta e getta via” i dipendenti senza preoccuparsi delle ripercussioni sulla loro salute, vita familiare o comunità. In aggiunta, i magazzini Amazon registrano tassi di infortuni molto superiori alla media, a causa delle intense pressioni per raggiungere gli standard richiesti. Tra i lavoratori, il deterioramento fisico e mentale è un tema ricorrente. Molti dipendenti di lungo corso, spesso riconoscibili da sguardi spenti e atteggiamenti amareggiati, parlano di un logoramento progressivo. I primi anni di contratto sono particolarmente gravosi: senza possibilità di malattia o riposo, i lavoratori si trovano a fronteggiare una cultura lavorativa oppressiva, in cui le prime ferie vere arrivano solo dopo due o tre anni dice Delfanti. Questa mancanza di pause contribuisce a un senso di alienazione e stanchezza cronica. I dipendenti che restano in azienda a lungo tempo raccontano di vivere con il timore di essere considerati obsoleti e di perdere il posto, mentre altri si arrendono alla pressione o decidono di lasciare per salvaguardare la propria salute. L’esperienza comune dei lavoratori riflette una cultura aziendale che tratta i dipendenti come “carne da cannone”, rimpiazzandoli appena le loro capacità fisiche non risultano più adeguate agli standard richiesti. Sebbene le leggi moderne non permettano licenziamenti arbitrari, Amazon esercita una pressione tale da indurre molti dipendenti a dimettersi, alimentando un ciclo di ricambio che preserva i ritmi intensi dell’azienda ma lascia dietro di sé un pesante costo umano. Amazon non desidera che i suoi dipendenti restino nei magazzini fino all’età della pensione e per questo ha implementato politiche strutturate che incentivano esplicitamente il turnover del personale. Una delle principali è il programma chiamato Pay to Quit, meglio conosciuto come l’Offerta, che offre ai dipendenti un incentivo economico per licenziarsi volontariamente e impegnarsi a non lavorare mai più in un magazzino Amazon. L’ammontare del premio varia in base agli anni di servizio e può arrivare a 5.000 euro o dollari, corrispondenti a 1.000 euro per ogni anno di lavoro nel magazzino, con il limite di 5 anni. Questo incentivo viene proposto alla fine della stagione invernale, un periodo di intenso lavoro, che spinge i dipendenti a completare un altro ciclo lavorativo particolarmente pesante prima di poter incassare l’importo massimo. Molti lavoratori vedono l’Offerta come un modo per l’azienda di liberarsi di coloro che non sono più produttivi come un tempo, che sono insoddisfatti o che potrebbero rappresentare un ostacolo alla cultura aziendale, percepita come fortemente orientata alla velocità e all’efficienza. L’intento di Amazon è quello di ridurre la presenza di dipendenti che, a causa della fatica o di segnali di esaurimento fisico e mentale, potrebbero rallentare la produttività o, peggio, sollevare proteste riguardo alle condizioni di lavoro. Tuttavia i dipendenti tendono a non accettare l’Offerta perché le condizioni di lavoro di Amazon, nonostante tutto, sono migliori di quelle proposte da altre aziende del settore della logistica. Oltre a questo incentivo, Amazon offre anche programmi di formazione interna, come Career Choice, un programma che permette ai dipendenti di seguire corsi di formazione anche direttamente all’interno dei magazzini, risparmiando così tempo per spostamenti. Questo programma viene presentato come un vantaggio per il lavoratore, poiché offre l’opportunità di acquisire nuove competenze. Tina, lavoratrice a tempo indeterminato del magazzino FCO1 di Roma, ad esempio, ha utilizzato Career Choice per finanziare un corso di contabilità, con la speranza che questo le permetta di trovare un lavoro migliore al di fuori di Amazon. Tuttavia, Tina riconosce anche che lo scopo principale del programma non è tanto supportare la crescita interna dei dipendenti, quanto agevolare il turnover del personale. Il programma, infatti, non mira a creare una mobilità interna che permetta ai lavoratori di progredire all’interno dell’azienda, ma piuttosto a fornire agli impiegati strumenti per trovare un impiego altrove, lontano dal magazzino. La visione che Tina ha del programma è chiara: lo considera una risorsa utile, ma anche un indicatore che Amazon, alla fine, vede i suoi dipendenti come facilmente sostituibili. Tina fa un paragone con il ciclo di vita di un’auto: una volta che un dipendente ha accumulato un certo numero di anni di servizio e ha raggiunto un livello di logoramento fisico e mentale, è necessario sostituirlo, come un’auto che, dopo un certo numero di chilometri, non è più efficiente e deve essere sostituita. Per Amazon, quindi, la formazione interna non sembra orientata a favorire l’avanzamento di carriera all’interno dell’azienda, ma serve soprattutto a permettere ai dipendenti di sviluppare competenze che potrebbero essere utilizzate per trovare un impiego altrove, contribuendo così al continuo ricambio di personale. Questo approccio riflette una visione che considera i lavoratori come risorse temporanee, da sostituire quando il loro contributo non è più ritenuto ottimale, esattamente come si farebbe con un oggetto che ha raggiunto la fine del suo ciclo di vita utile. Amazon adotta una strategia di turnover elevato che sfida la logica tradizionale delle aziende. Mentre la maggior parte delle imprese cerca di ridurre il turnover, in particolare per i dipendenti con competenze chiave, Amazon utilizza il turnover come parte integrante del suo modello di business, soprattutto per i lavori nei magazzini, che non richiedono qualifiche elevate. Di solito, le aziende affrontano il turnover offrendo incentivi come aumenti salariali, promozioni o benefits ai dipendenti considerati fondamentali. Invece, Amazon cerca di rendere il processo di sostituzione il più fluido possibile, implementando sistemi che riducono la necessità di competenze specifiche per operare in magazzino. L’azienda si avvale di algoritmi e robot che ottimizzano i processi, riducendo la dipendenza dai lavoratori esperti. I dipendenti sono addestrati in pochi giorni per compiti specifici come il prelievo o la ricezione delle merci, permettendo un ricambio rapido. Quando un dipendente non è più utile o produttivo, viene facilmente sostituito, poiché l’intero processo è strutturato per funzionare con una forza lavoro poco qualificata ma altamente intercambiabile.
Questo approccio non è innovativo nel contesto della storia del capitalismo. Marx aveva già notato come l’avanzamento tecnologico consenta un rapido cambiamento dei lavoratori senza compromettere la continuità della produzione. Amazon applica questa visione per mantenere alti i tassi di produttività e turnover, trattando i lavoratori come investimenti che devono garantire un ritorno economico. Se il ritorno sulla forza lavoro è basso, l’azienda preferisce acquistare competenze da agenzie esterne, semplificando ulteriormente il turnover. Una delle conseguenze di questo modello è l’obsolescenza programmata, che non riguarda solo i lavoratori più anziani o quelli considerati meno produttivi, ma l’intera forza lavoro. Il concetto di obsolescenza viene interiorizzato dai dipendenti, che si abituano all’idea di essere sostituiti nel tempo, generando un impatto psicologico negativo significativo. Questa condizione psicologica è legata alla narrazione aziendale che responsabilizza i lavoratori individualmente per il loro successo o fallimento. Ad esempio, Amazon promuove il programma WorkWell, che convince i dipendenti che il loro benessere e la loro capacità di sostenere i ritmi di lavoro dipendono esclusivamente da loro. Questo approccio non fa che alimentare la colpa individuale, mentre l’azienda si disinteressa delle cause sistemiche dietro il logoramento fisico e psicologico. Per alcuni dipendenti, come Noemi, l’idea di lavorare in Amazon viene accettata come una scelta temporanea. Nonostante siano consapevoli delle difficoltà fisiche e psicologiche, si giustificano come incapaci di sopportare i ritmi. La narrativa del fallimento personale diventa comune tra i dipendenti, con l’azienda che ne rafforza il senso. In altri casi, come quello di Anna, i dipendenti provenienti da ceti medi e con un alto livello di istruzione si sentono costretti a lavorare in Amazon per necessità, vedendo questo impiego come una “soluzione temporanea” a causa delle difficoltà economiche. Questi lavoratori sono consapevoli del fatto che il loro lavoro non è valorizzato come dovrebbe essere, ma accettano la condizione come inevitabile. Tuttavia, ci sono dipendenti che cercano di opporsi a questa logica, come Francesca, che, dopo aver sviluppato problemi di salute, ha deciso di iscriversi a un sindacato per denunciare le condizioni di lavoro e resistere all’idea di essere scartata, cosa resa più complicata dall’essere una lavoratrice a tempo indeterminato. Nonostante le difficoltà, Francesca si rifiuta di lasciare Amazon, anche se sa che la sua salute ne risente. La sua posizione rappresenta una forma di resistenza contro il modello aziendale di obsolescenza programmata, cercando di ribaltare il ruolo del lavoratore come risorsa usa e getta. Questa resistenza, per quanto isolata, può rappresentare una minaccia per Amazon, che cerca di mantenere il controllo sul flusso di lavoratori e sull’efficienza produttiva. L’autonomia decisionale dei dipendenti, nel decidere se restare o meno, costituisce un ostacolo alla capacità dell’azienda di gestire facilmente il turnover e di mantenere la produttività attraverso il rapido cambiamento delle persone. I dipendenti Amazon affrontano sfide sia individuali che collettive per adattarsi e opporsi alle condizioni di lavoro imposte dall’azienda. A livello personale, cercano di adeguare la propria vita ai ritmi intensi del magazzino, mentre collettivamente si organizzano per guadagnare maggiore controllo sull’organizzazione del lavoro. Le loro lotte mirano a influenzare aspetti cruciali come la durata della giornata lavorativa, la pianificazione dei turni e la possibilità di costruire carriere sostenibili, opponendosi al modello aziendale basato su una forza lavoro “usa e getta” e sulla centralità della “passione per il cliente”. Un esempio significativo è rappresentato dai lavoratori di MXP5, che sono riusciti a ridurre l’utilizzo dello straordinario obbligatorio e stanno cercando di limitare il ricorso dell’azienda alle agenzie interinali. In Germania i consigli di fabbrica hanno giocato un ruolo decisivo nel contenere il turnover. I lavoratori tedeschi, per esempio, hanno ottenuto risultati importanti, tra cui un maggiore controllo sui licenziamenti facili e la fine delle offerte monetarie per spingere i dipendenti con problemi di salute a dimettersi. Nel magazzino LEJ1 di Lipsia, uno dei primi fulfillment center in Europa continentale, molti lavoratori hanno mantenuto il loro impiego per oltre dieci anni, e il turnover tra gli assunti a tempo indeterminato è significativamente più basso rispetto alla media. La riduzione della precarietà ha implicazioni profonde. Da un lato, migliora la qualità della vita dei lavoratori, offrendo loro maggiore stabilità occupazionale; dall’altro, ha un risvolto politico importante. Limitando la dipendenza di Amazon da alti tassi di ricambio del personale, i dipendenti possono accumulare potere contrattuale e rafforzare la propria capacità di mettere in discussione il modello aziendale, contrastando più efficacemente le sue dinamiche oppressive.
7. Lottare contro Amazon
La lotta contro Amazon è ostacolata da una cultura aziendale antisindacale, che enfatizza il successo individuale, frammenta la forza lavoro e impone una sorveglianza costante per reprimere ogni attività politica. Nonostante ciò, i dipendenti hanno ottenuto progressi significativi in vari Paesi. Lisa, coinvolta nelle proteste di Piacenza nel 2017, ha ricordato le difficoltà iniziali nell’introdurre una rappresentanza sindacale in MXP5, in un contesto di paura e opposizione del management, che promuoveva un rapporto diretto tra azienda e dipendenti per evitare la sindacalizzazione. In altri Paesi, Amazon ha adottato tattiche di contropropaganda, come il sito antisindacale lanciato durante la campagna sindacale a Bessemer, Alabama, nel 2021, e ha persino influenzato politiche locali, come la riduzione della durata di un semaforo per ostacolare gli attivisti durante la loro distribuzione di volantini. Episodi simili si sono verificati anche a Piacenza, dove la direzione ha negato uno spazio per le prime riunioni sindacali, costringendo i lavoratori a organizzarsi nei bagni. Tuttavia, questi sforzi antisindacali non hanno impedito ai sindacati di ottenere risultati importanti. In Europa, i dipendenti hanno guadagnato maggior controllo sulla pianificazione dei turni e miglioramenti salariali, mentre in Paesi come Canada e Stati Uniti la lotta è ancora agli inizi. Tentativi di sindacalizzazione significativi includono l’elezione della prima rappresentanza sindacale in MXP5 nel 2021 e la sindacalizzazione di JFK8 a Staten Island nel 2022, grazie all’Amazon Labor Union. Dove i sindacati sono riusciti a stabilirsi, come in Italia con la CGIL, si è ottenuto un rapporto formale con l’azienda, limitando le pratiche di sfruttamento più gravi, come l’obbligo di straordinari per gli assunti a tempo indeterminato o provando a limitare l’uso di forza lavoro esternalizzata fornita dalla agenzie del lavoro. Tuttavia, i lavoratori temporanei continuano a subire contratti precari e flessibili. Molti di loro, disillusi dalle promesse aziendali di un possibile impiego stabile, hanno iniziato a rifiutare gli straordinari, riconoscendo la precarietà del loro lavoro. Inoltre, i sindacati stanno lavorando per portare la lotta a un livello transnazionale, coordinando azioni globali per affrontare il potere dell’azienda e promuovere cambiamenti strutturali nel suo modello operativo. Per trasformare radicalmente le condizioni di lavoro nei magazzini Amazon è necessario recuperare e adattare tattiche storiche del movimento operaio, come il rallentamento o il disturbo del processo produttivo. Negli Stati Uniti e in Canada, alcune di queste strategie sono oggetto di rinnovato interesse da parte dei sindacalisti e degli attivisti che talvolta si fanno assumere da Amazon come “infiltrati”. L’obiettivo è duplice: analizzare le condizioni lavorative dall’interno e organizzare forme di resistenza politica. Collettivi come Amazonians United utilizzano metodi decisionali democratici per mettere in atto azioni mirate nei magazzini statunitensi, ricorrendo a strumenti come astensionismo, petizioni e mobilitazione dei dipendenti. Questi attivisti puntano anche a identificare leader spontanei tra i lavoratori, cercando di sensibilizzarli e fargli comprendere le dinamiche di sfruttamento operate dall’azienda. In Italia, i dipendenti di MXP5 stanno contribuendo alla formazione di una nuova generazione di lavoratori e lavoratrici impegnati. Si tratta di un processo graduale: molti non hanno esperienza diretta di lotte politiche e percepiscono i sindacati come retaggi di un’epoca passata. Tuttavia, l’attenzione dei media, il lavoro di sensibilizzazione sul campo e le prime vittorie stanno creando un contesto favorevole per la politicizzazione di un numero crescente di persone. Il principale ostacolo rimane il coinvolgimento dei lavoratori precari, in particolare stagionali e temporanei, che costituiscono una parte rilevante della forza lavoro ma continuano a non essere rappresentati sindacalmente. Lisa riconosce che i sindacati hanno “un’incidenza bassissima tra gli iperprecari”, un limite che ne compromette la capacità di includere questa porzione fondamentale della manodopera. Questa difficoltà richiama esperienze storiche come quella descritta da Romano Alquati negli anni ‘60, quando analizzò il ruolo dei migranti del Sud Italia impiegati nelle fabbriche del Nord, in particolare negli stabilimenti Fiat. Questi nuovi soggetti, inizialmente difficili da raggiungere per i sindacati, si rivelarono determinanti nelle grandi mobilitazioni operaie che esplosero a fine decennio. Alquati intuì il loro potenziale politico, nonostante la loro condizione di isolamento iniziale all’interno delle linee di produzione. Amazon, oggi, si trova in una situazione analoga. Superare, anche in Italia, le divisioni interne alla forza lavoro è fondamentale per i sindacati, che devono ampliare la loro base passando da lavoratori bianchi e a tempo indeterminato a includere anche i migranti, spesso relegati a contratti precari. Solo costruendo un’alleanza più inclusiva sarà possibile colmare queste lacune e sfruttare il potenziale politico dei lavoratori più marginalizzati. Fuori dall’azione sindacale i lavoratori riescono a mettere in atto piccoli atti di resistenza o sabotaggio: rallentano il ritmo, trovano stratagemmi per velocizzare il picking e guadagnare qualche minuto di pausa extra, oppure stoccano i prodotti in luoghi errati o li sottraggono. Un esempio emblematico è quello di uno stower di MXP5 che, sfogliando un fumetto, lo riponeva poi in una posizione casuale, rendendolo di fatto invisibile agli algoritmi e al sistema logistico di Amazon. Accanto a questi atti discreti, vi sono tattiche individuali più eclatanti. Durante la prima fase della pandemia di Covid-19, nel marzo 2020, l’assenteismo si diffuse come risposta alla paura e all’incertezza. A MXP5, situato nella provincia di Piacenza, una delle aree più colpite dal virus, il rispetto del distanziamento fisico risultava impraticabile, e l’azienda non garantiva dispositivi di protezione adeguati. Di fronte a questa situazione, molti dipendenti iniziarono a sfruttare in massa i giorni di malattia. Pur essendo una misura insostenibile a lungo termine, rappresentava per molti l’unico mezzo per tutelare la propria salute. Lisa racconta che spesso ci si chiedeva dove fossero finiti i colleghi assenti, senza ricevere informazioni dalla direzione: erano malati, in quarantena o avevano semplicemente saltato il turno? Secondo alcune stime, fino al 30% dei dipendenti non si presentava al lavoro. L’atto più estremo di rifiuto individuale è però quello di abbandonare definitivamente il lavoro. Chi ha alternative occupazionali, chi non sopporta più i ritmi estenuanti o la sorveglianza oppressiva, o chi non riesce a gestire lo stress, decide di lasciare il magazzino nella speranza di trovare migliori opportunità altrove. Questo tipo di abbandono rappresenta una forma di “flessibilità dal basso”, un modo per sottrarsi a un sistema percepito come insostenibile. I lavoratori di Amazon, quindi, lottano, dentro contro e oltre la loro azienda. Questa forza lavoro possiede un potenziale strategico per colpire l’azienda nei suoi punti nevralgici, minando il sistema logistico e compromettendo la sua promessa di consegne rapide. Il modello flessibile di Amazon, basato su un’accurata gestione dei picchi stagionali, è un punto di forza ma anche una vulnerabilità. Scioperi e agitazioni durante periodi cruciali, come Black Friday, Prime Day o Cyber Monday, possono amplificare gli effetti delle proteste. Ad esempio, a MXP5, gli scioperi organizzati in corrispondenza dei picchi di domanda hanno già messo sotto pressione l’azienda, come nel caso delle agitazioni del novembre 2017 e del più ampio sciopero nazionale del marzo 2021. Quest’ultimo, coordinato dai maggiori sindacati, ha coinvolto l’intera catena di distribuzione di Amazon, bloccando non solo magazzini e fulfillment center, ma anche i centri di distribuzione dell’ultimo miglio, essenziali per il sistema di consegne. In Lombardia, si stima che lo sciopero abbia causato la mancata consegna di 250.000 ordini. Il sistema logistico di Amazon, tuttavia, non si piega facilmente. La rete di magazzini è progettata per essere ridondante, permettendo la deviazione degli ordini da un centro logistico all’altro in caso di blocchi locali. Inoltre, l’azienda sfrutta una forza lavoro flessibile composta da lavoratori temporanei, difficilmente mobilitabili, per fronteggiare eventuali carenze. Per questo, le azioni di protesta devono essere diffuse e simultanee, colpendo più punti della catena distributiva contemporaneamente. Un esempio di questa strategia è stato l’uso combinato di scioperi nei fulfillment center e nei centri di distribuzione, oltre al coinvolgimento dei corrieri, categoria chiave ma spesso esternalizzata, che protesta contro ritmi e turni insostenibili. Nonostante le difficoltà, l’azione collettiva è cresciuta negli anni. Dal 2017 al 2021, i sindacati sono riusciti a espandere la loro presenza, non solo a MXP5 ma anche in altri centri logistici italiani, come Roma e Vercelli. Questa espansione ha permesso di sincronizzare le proteste, superando la strategia di Amazon di deviare gli ordini verso magazzini non colpiti. Il successo degli scioperi dimostra che una rete sindacale capillare, capace di adattarsi tatticamente e coordinarsi su scala nazionale, è fondamentale per sfidare la resilienza del sistema di fulfillment. Un ulteriore sviluppo delle lotte richiede però una coalizione più ampia che coinvolga diverse categorie di lavoratori all’interno di Amazon. Accanto ai magazzinieri e ai corrieri, gli ingegneri e altri impiegati nei settori tecnici hanno già mostrato solidarietà partecipando a campagne contro le condizioni di lavoro nei fulfillment center. Pur lavorando in contesti privilegiati, con salari più alti e benefit migliori, questi lavoratori condividono preoccupazioni comuni sulla gestione autoritaria di Amazon e sull’impatto ambientale dell’e-commerce. Inoltre, forme di solidarietà trasversali hanno permesso ai lavoratori di Amazon di collegare le proprie battaglie con temi più ampi, come il razzismo istituzionalizzato, il sessismo e le politiche di austerità. A livello globale, queste azioni locali si inseriscono in un movimento più vasto contro il capitalismo digitale. Da Toronto a Giacarta, i lavoratori stanno dimostrando che la frammentazione e la gestione algoritmica non impediscono la formazione di solidarietà collettive. Attraverso le tecnologie digitali, emergono nuove forme di auto-organizzazione che sfidano i limiti delle pratiche sindacali tradizionali e dimostrano la possibilità di costruire reti di resistenza globale capaci di rispondere alle sfide tecnologiche e politiche del lavoro contemporaneo.